Corto viaggio sentimentale e altri racconti inediti/Appendice seconda

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Appendice seconda

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Appendice prima Note
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APPENDICE SECONDA

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CORTO VIAGGIO SENTIMENTALE


Numero 1

...e già non sapeva capacitarsi della propria sfortuna di essersi imbattuto in una persona che fumava meno di lui e viaggiava tanto piú di lui. Certo fra quei gentili cinque veronesi che poco prima l’avevano abbandonato non ce n’era uno di simile a costui.

Doveva amare l’esattezza: «Devo dire che io veramente non vado a Milano per lavorarci ma per starci. I miei viaggi sono intrapresi da Milano per gli altri centri. Io poi amo di viaggiare. Infatti se non fosse cosí non viaggerei affatto perché nessuno potrebbe constringermivi».

Probabilmente mentiva anche lui. Il signor Aghios senz’esitare dichiarò ch’egli odiava di viaggiare. Se fosse dipeso da lui non si sarebbe mosso né da Trieste prima, né da Milano ora. Gli era indifferente una città o l’altra, a lui bastava di poter restare fermo.

«So, so che ci sono degli uomini fatti cosí!» disse l’ispettore guardando attentamente il signor Aghios come se avesse voluto studiare un animale strano.

“Guarda! guarda pure!” pensò il signor Aghios. “Non ci capirai tuttavia nulla.” E mentí ancora ma divertendosi di sfiorare la verità negandola. Raccontò che a lui piaceva la vita di famiglia nella quale si era costretti di pensare ora all’uno ed ora all’altro ma mai a se stessi.

L’ispettore brontolò: «La mia vita di famiglia è tutt’altra cosa. Quando ci sono, tutti pensano a me e cosí faccio io pure. Quando viaggio allora naturalmente lascio la libertà a tutti e me ne compiaccio».

Voleva apparire anche liberale! E il signor Aghios si rattristò pensando a quella che doveva essere la vita in quella famiglia con a capo un simile individuo. Il peso ch’egli si adossava per propria elezione o indole, quelli là dovevano [p. 432 modifica]sopportarlo per volere altrui: Una bella differenza! Egli amava tuttavia tutti. Chissà invece i membri di quella famiglia come frequentemente desideravano di veder schiattare quella grossa pancia che gli stava tronfia di faccia!

E l’antipatia per il suo interlocutore fu sí viva che per la prima volta iniziò lui la discussione ed anzi tentò senz’altro di montargli sulle spalle imitando quanto l’altro aveva fatto sino ad allora: «Io, invece, quando ci sono penso agli altri e spero che quando sono assente tutti gli altri pensano a me».

Il grosso uomo si mise a ridere, di un riso forte, a scatti, come gli scoppii di un motore che s’avvia: «Ma questa è poesia; vera, futile poesia. Sarebbe ella forse un poeta travestito?».

Travestito, no! Questo poi no! Ma poeta: Un uomo che non lo conosceva s’azzardava d’indagare i piú intimi meandri del suo cuore? Poeta: Egli stesso talvolta aveva dubitato d’esserlo. Già! Che cosa erano i suoi augurii a tutti che aveva interrotti accorgendosi che finivano coll’essere ironici come se li avesse indirizzati a quattro giocatori di bridge ad un tavolo, se non pura, vuota poesia? E quella sua ammirazione per le donne ben vestite che non poteva risultare dal desiderio del peccato mortale perché altrimenti le avrebbe desiderate meno ben vestite? E persino quel suo desiderio di essere solitario nel dolore per annullarlo nello sforzo d’arrivare a considerare e farsi considerare dal prossimo sconosciuto? E i cani? Tutto ciò era certamente vuota, vana poesia. Il signor Aghios si esaminava con grande sincerità, ma, con una falsità ispirata dall’odio disse costringendosi a ridere anche lui a scatti per un’imitazione del modo di ridere del suo interlocutore e nemico replicò: «Io, poeta? Io sono un buon commerciante. Io poeta? A meno che a questo mondo non si sia tutti un po’ poeti. Anche lei con la sua esigenza che tutti s’occupino di lei».

«Nella mia famiglia, notabene» ammoní il mastodonte «perché di tutti gli altri io me ne infischio.» Lo guardava tanto fisso che il poeta sentí d’essere fra quegli altri. [p. 433 modifica]

Numero 2

Con dolce violenza il signor Aghios si staccò dalla moglie e si ficcò nella folla che s’addensava all’ingresso della stazione. Bisognava abbreviare quegli addii un po’ ridicoli se prolungati fra due vecchi coniugi. Ci si trovava bensí in uno di quei posti ove ciascuno ha fretta ed è preoccupato della propria prossima ora per cui non guarda il vicino neppure per riderne. Ma il signor Aghios sentiva il ridicolo anche quando nessuno rideva. In verità evitava di essere costretto di fingere un dolore che non sentiva pieno com’era di gioia e di speranza e trovava troppe buone ragioni per spiegare la sua fretta e la sua freddezza: è vero ch’egli da molti anni non aveva viaggiato senza la consorte, ma un viaggio sino a casa sua, a Trieste, ove la moglie lo avrebbe raggiunto due settimane appresso, gli pareva una separazione troppo breve per parlarne. Era ridicolo quel dolore specie se doveva fingerlo. Era anche stanco di averne parlato troppo. La decisione a tale separazione era stata difficile. In fondo l’avevano desiderata ambedue e ambedue avevano dovuto far del loro meglio per dimostrare di non volerla. Negli ultimi anni la signora s’era attaccata con un affetto appassionato ed esclusivo al figliuolo. Anche quando aveva accanto il marito s’abbandonava al dolore per l’assenza del figliuolo solitario sapendo che il marito non sentiva come lei. E il signor Aghios che lo indovinava fingeva d’ignorare quel dolore. “Una duplice constrizione!” pensava il signor Aghios che aveva lette delle opere filosofiche. “Duplice perché mia e sua!” Ora la signora voleva restare a Milano dove il figliuolo fra quindici giorni doveva passare un esame. Quest’esame! Quegli studii! Gli affari abbastanza difficili e complicati del signor Aghios tanto piú interessanti per la famigliuola, in confronto perdevano ogni importanza. Il signor Aghios doveva correre a Trieste ma il figliuolo avrebbe anche potuto essere bocciato e allora chi ci sarebbe stato a Milano per consolarlo? E il signor Aghios non disse chiara la parola che avrebbe tradito il suo desiderio di fare quel breve viaggio da solo e perciò la signora non poté dire quella che le avrebbe [p. 434 modifica]concesso di rimanere a Milano. Ma trovarono il modo di accordarsi senza proporlo e cosí il signor Aghios doveva partire solo non perché l’avesse voluto ma perché era necessario si sacrificasse e la signora Aghios rimaneva a Milano per riguardo al desiderio del marito che non voleva che il figliuolo restasse solo. Ora però il signor Aghios abbreviava gli addii perché voleva porre un termine a tanta finzione. Fra lui e la signora c’era una differenza: Essa tuttavia sentiva il bisogno di farsi perdonare che lo lasciava partire solo. Egli invece nella gioia di poter andarsene solo non arrivava piú a sentirne rimorso.

Perché il signor Aghios desiderava tanto di viaggiare solo? Nei suoi vecchi anni voleva forse divertirsi lontano dalla moglie: Macché!


Numero 3

I — Arrivarono in un posto ove tutti erano ricchi e non c’era perciò modo di dimostrare la propria benevolenza.

II — C’è un paese ove la propaganda della benevolenza fu sí grande che un capocameriere diede la mancia ad un avventore povero.

III — Egli guardava dalla finestra la vita che modestamente stava ferma: i fiorellini sui campi, la chioccia circondata dai pulcini, il cane alla catena e il gatto pigro dinanzi alla porta. Tutta questa vita guardava il treno che per un istante passava, come un’avventura che a quel luogo appartenesse. Invece egli sentiva che il treno non vi apparteneva, si faceva posto traverso quella vita immobile.

IV — Il Bacis cominciò a parlare mentre l’Aghios attentamente lo ascoltava. Ecco che stava per aprirglisi un pertugio per cui avrebbe guardato in un pezzo di vita che s’era svolto lontano da lui importante come quello cui egli partecipava. Già un’altra volta in viaggio gli era avvenuto qualche cosa di simile. Gli aveva parlato una persona che si credeva molto importante e portava traverso il grande mondo, in viaggio, tutto l’aspetto d’importanza cui s’era abituato nella sua casuccia. [p. 435 modifica]

Numero 4

V — combattevano e studiavano i loro nemici. Non sempre. All’inizio, resisi liberi dalla terra ferma, l’odio per gli antichi dominatori tagliò fuori d’Italia la Laguna che s’aperse verso Oriente. Cosí, solo cosí, il destino poté creare e veneziani e Venezia dove l’Italia non era che nella loro natura.

Ogni uomo finisce coll’imbattersi nell’architettura (anch’io, Aghios, questa sera). È un’arte come la musica. Intrude.

«Io credevo esistesse uno stile veneziano» disse mitemente il signor Aghios.

Uno stile veneziano egli lo vedeva. Era come una religione, una filosofia, si unificava per certe premesse e di queste premesse si facevano le sicure variazioni, sicure perché il tema principale c’era sempre dentro. Occorreva vivere e Dio fece i Rii, i pontili e i ponti perché di su si cammini e di sotto si possa passare. Lo sbarco fu fatto per la gondola che fu fatta per i Rii e anche per lo sbarco stesso che una volta fatto per essa la incatenò a sé. Eppoi oltre che vivere si volle godere, ricevere e apparire. Ma la piazza dinanzi alla Chiesa ebbe anch’essa la forma che doveva avere la piazza di quei Rii e di quelle Calli. Dio solo sa perché per non stonare fu fatta cosí ma questa si sa: non stona. E il palazzo è anch’esso una variazione delle cose piú differenti che ci sieno a Venezia. Cosí ci sono due Venezie: una nobile come una stanza da ricevimento ed una rustica. Si completano. Chi trova a Venezia antica dell’altro è un dotto e perciò non ha il diritto di parlare.

Nel Rio austero e oscuro brillava dinanzi ad una porta bassa una lunga pietra bianca che serviva di scalino e sovrastava ancora per qualche centimetro dall’acqua alta. Nel lungo Rio oscuro quello era l’unico colore bianco ed al suo posto umile era un’ultima carezza a tutto il palazzo che vi sovrastava. Il vecchio pirata veneziano aveva portato quella pietra da lontano. Quando l’aveva veduta (chissà in che paese! Forse in Istria che allora pareva lontana ma forse anche in paesi piú lontani) aveva ricordato la propria casa che di quella linea ave[p. 436 modifica]va bisogno. E il suo piccolo vascello aveva portato il pesante oggetto privo di valore fino a quel Rio ove doveva apparire quale una gemma. Che importava l’origine di quella pietra?

La virtú, la bontà, il sacrificio, il disinteresse sono vivi nel cuore di tutti. Dappertutto dove c’è numero vincono gl’istinti migliori. Perciò anche ha tale buon successo certa letteratura che attribuisce al fato del singolo il desiderio della maggioranza e fa sposare la povera buona dal ricco buono oppure il povero generoso giovinotto dalla ricca bellissima giovinetta. È certo che l’ipocrisia non c’entra in tali successi. Si tratta proprio di applausi che sono bagnati di lacrime sincere. Non amo il letterato che rappresenta in tale modo il mondo ma adoro il pubblico che lo applaude. La virtú, la bontà, il desiderio del sacrificio sono le doti piú diffuse nell’umanità. Se poi nella vita del singolo queste qualità non arrivano a regolarne la vita e se quasi l’intera umanità è composta di questi singoli che regolano la propria vita con saggia previdenza e, dunque, con egoismo perfetto, ciò non prova che l’umanità non sia e buona e generosa. Il male è che il procedere del singolo non è deciso a maggioranza di voti. Se cosí fosse non v’è dubbio che ogni atto dell’uomo sarebbe generoso e virtuoso. Ognuno farebbe sposare il proprio vicino con la piú brutta e povera. Si potrebbe anzi asserire che la generosità e l’altruismo di cui tanto si parla e che tanto poco si pratica, occupino il massimo posto nella vita. L’egoismo, l’odio e l’indifferenza per il proprio simile sono abominati da tutti e non occupano che un posticino misero, celato: cioè occupano intiero il piccolo cuore di ognuno. Il grande cuore, quello che scuote tutta la terra gravata da tanta umanità, è veramente grande e generoso. C’è il malanno che la politica che sembrerebbe il prodotto di una grossa adunanza, è anch’essa meschina e crudele. Che fa questo?

Numero 5

E non con la sola critica egli tentò di penetrare in quella vita. Assiduo, col vocabolario alla mano, ogni giorno egli compitava una parte del suo giornale inglese. Nel giornale [p. 437 modifica]cercava le notizie piú eccitanti per avere dalla sua grande fatica il massimo frutto. In quell’epoca a Londra si era eccitatissimi per l’assassinio di una signorina, certa Money, effettuato in un treno mentre passava sotto una lunga galleria. I giornali ne parlarono per mesi e mesi. E leggendone ogni giorno, il signor Aghios, s’identificò dapprima coi detectives, di cui seguiva il lavoro con ansia, esitante se mandare, con l’aiuto del vocabolario, qualche suo suggerimento, poi con la povera assassinata di cui sentiva l’angoscia orrenda quando, ferita, fu spinta fuori della vettura ad agonizzare nella galleria buia ed infine con l’assassino, quel disgraziato, che certamente ogni giorno leggeva le notizie con un incapponamento della pelle che il signor Aghios sapeva imitare perfettamente. E per qualche tempo, quando prendeva il giornale in mano, specie dacché sognava lui d’essere l’assassino, egli, in quel paese non era piú lo straniero. Certo anche allora dovette prendere una dose maggiore d’assenzio per addormentare il rimorso d’essere stato capace, lui che non aveva mai ammazzato neppure una bestia, di prendere per il collo una povera giovinetta per impedirle di gridare, ferirla e gettarla fuori della vettura ad agonizzare nella notte della galleria.

Numero 6

La malattia capita inaspettata da un momento all’altro a peggiorare il futuro e a colorire simpaticamente del colore della salute il perduto passato vivendo il quale del vantaggio della salute non ci si era accorti. Da un momento all’altro: Ieri ancora un esercizio salutare, la morigeratezza, un medicinale qualunque, alleggeriva, rischiarava, abbelliva la vita. Oggi c’è il medico che usa delle sue armi piú potenti: Certo egli vince l’affanno, ma il dolore di stomaco lo sostituisce cura lo stomaco e si ritorna all’affanno. Per la bocca girano dei sapori disgustosi e persino il naso inventa degli odori spiacevoli. E c’è tanto posto a dolori nel vasto organismo: Da due giorni gli occhi si arrossarono e dolgono. Condannato all’oscurità il vecchio Aghios non ci vide a respirare. Associò [p. 438 modifica]l’affanno all’oscurità. Pensò che quel corpo che fino ad allora — egli, un naturalista che alla scienza aderí non in seguito a studii, ma per inclinazione, subito quando cessò di frequentare la chiesa – aveva ritenuto nient’altro che il suo stesso “io” composto da organi abbastanza complicati in un lavoro che arrivava a formare tale io, ora fosse divenuto la prigione di tale io, una prigione irta di strumenti lesivi che pungevano e stracciavano. Il collo non era forte abbastanza per lasciar passare l’aria necessaria. Carnoso, abbandonato, bastava a sostenere la testa: ed il cibo che doveva animare andava a restringere il già piccolo ambiente per qualche cosa che voleva viverci. Il signor Aghios sorrise: «Ecco che ho scoperto che non sono tutta materia visto che la materia s’accinse a schiacciare lo spirito».

E rivide tutta la sua vita. Interdizioni: La lotta per l’amore, per il denaro, per la vita. La malattia ora aveva semplificato tutto. Si lottava per ottenere l’aria. E tutte le altre lotte erano dimenticate. La disgrazia d’essere nato un cane, un cane sensibile, un cane pieno di compassione per se stesso. [p. 439 modifica]

PRODITORIAMENTE


Poco dopo il tocco il vecchio signor Maier si recò dal Reveni non ben deciso ancora se domandargli conforto od aiuto. Anzi il dubbio era ancora piú vasto. Se non fosse stato sicuro che tutta la città già parlava della sventura che gli era toccata egli avrebbe persino tentato di far entrare il Reveni in un affare in cui egli poteva trovare la salvezza. Vecchio negoziante il signor Maier ma sentendosi affogare s’aggrappava ad ordigni non ancora ben esaminati pur non essendo consapevole di agire altrimenti di quanto avesse fatto in passato in quel lungo passato di attività oculata e perciò sempre accompagnata dalla fortuna. Anzi egli credeva di poter vantarsi di andar ad offrire al Reveni un affare che avrebbe potuto essere per lui di grande valore.

Erano stati buonissimi amici tutta la loro vita. C’era stata una nube quando il Reveni aveva preso moglie e le due loro signore avevano rifiutato di visitarsi. Ma essi avevano continuato a trovarsi ogni giorno per una mezz’oretta alla Borsa e tutti continuavano a ritenerli intimi e loro a sentirsi tali. Oramai avevano ambedue sorpassata la sessantina e guardavano ognuno nella faccia dell’altro i mutamenti che il tempo incideva sulla propria. Quest’amicizia cosí poco intensa s’era approfondita nell’animo per la sua durata. Insieme avevano abbandonata la scuola, il Reveni per entrare in una società d’assicurazioni e il Maier da una ditta in carboni. S’erano ritrovati sulla via parallela e da una all’altra arrivarono a stringersi ogni giorno la mano procedendo di conserva incapaci d’aiutarsi ma anche nell’impossibilità di competere. In affari l’amicizia piú sicura. Specialmente perché il successo li aveva favoriti ambedue facendoli ritrovare ambedue ogni giorno alla stessa altezza.

Ora avveniva il fatto nuovo: Il Maier aveva bisogno del Reveni! Non piú strade parallele. Uno saltava su quella del[p. 440 modifica]l’altro anzi — il Maier certamente non sentiva cosí ma il fatto cosí si comportava — uno saltava addosso all’altro. La vecchia amicizia da indifferente ch’era stata doveva farsi attiva o morire.

Il Maier salí le scale del palazzo del Reveni con tutt’altro sentimento. Non solo l’amico avrebbe dovuto aiutarlo ma tutti a questo mondo. La sua rovina era una reale ingiustizia, iniqua e turpe. Tanti anni di onesta attività venivano annullati da un istante di spensieratezza! Una spensieratezza che poi era stata originata da troppa bontà e fiducia. Una propria buona qualità di cui intendeva vantarsi fino all’estremo fiato e specialmente dinanzi al tribunale supremo dopo di quel fiato e doversene tanto amaramente dolere. Il vecchio commerciante s’era lasciato indurre di firmare un contratto che lo metteva nelle mani di altre persone che sfruttarono tutto il credito che da quella firma risultava ed erano addirittura scappati da Trieste lasciando dietro di sé pochi mobili di nessun valore e un magazzino vuoto. Il Maier ora ricordava la propria bontà e non il desiderio di veder ancora allargato il proprio campo d’attività. [p. 441 modifica]

ORAZIO CIMA


I

Orazio Cima comparve nelle adunanze sociali ed al nostro club quando io avevo circa venticinqu’anni nel 1886. Era un bel giovine molto bruno dagli occhi arditi, un barbino alla spagnola come usava allora, elegante anche esageratamente per il nostro ambiente di allora perché cambiava di vestito varie volte al giorno come se fosse stato un inglese. Era invece un abruzzese ricchissimo, un latifondista, o, anzi, come io indovinai subito aiutato da certi miei recenti studii di economia politica, un assenteista. Una volta che in mia presenza egli aperse una lettera del suo amministratore e la rinchiuse mormorando chiarissimamente un no deciso io gli dissi: «Il tuo amministratore ti propone dei miglioramenti e tu rifiuti».

«Come lo sai?» domandò stupito.

«Io ho studiato economia politica» mi vantai.

Ma la nostra amicizia s’iniziò prima. Io, poco dopo conosciutolo, e saputo quale vita egli conducesse, mi meravigliai con lui ch’egli avesse prescelto Trieste non avendovi né parenti né affari a sua residenza. Trieste era una bella, era una cara città, ma, avendo la libertà di scelta, in Europa c’erano delle altre città che per varie ragioni si potevano preferirle: Parigi p. e. Io avrei amato ch’egli mi dicesse che Trieste fosse la piú bella città del continente. Invece il Cima mi spiegò ch’egli per vivere bene non aveva la scelta di tutta l’Europa visto che non sapeva che l’italiano e non amava di stare fra gente con cui non si poteva intendersi facilmente. Fra le città ove si parlava l’italiano aveva prescelto Trieste perché vi vigeva la legge sulla caccia austriaca. Il suo passatempo preferito era la caccia e la pesca. Ora in nessun luogo italiano si poteva piú trovare una cacciagione abbondante come nei din[p. 442 modifica]torni di Trieste. Infatti oltre alla società il suo passatempo principale era la caccia e la pesca.

Io m’attaccai a lui come a la caccia e la pesca. Mi legava a lui un certo ribrezzo che per lui provavo. Io non avevo ancora mai ucciso una bestia e mi parve che la capacità d’uccidere fosse un segno di forza tant’è vero che, indubbiamente, l’impossibilità di uccidere era un evidente segno di debolezza. Pensai che in avvenire, per guarire di tanta insanabile debolezza, avrei potuto associarmi al Cima, e divenni suo amico. Contrariamente alle mie abitudini che mi rendono esitante a stringere la mano che m’è profferta, qui l’offersi io per primo, e Cima divenne un mio intimo.

Egli allora s’era già perfettamente organizzato nella nuova residenza: Aveva molti amici ed anche un’amante. Come si fosse procurata questa tanto presto e tanto adatta ai suoi bisogni, io non so. Forse fu qui che si provò la ragionevolezza della sua esigenza di conoscere la lingua del paese. Come cercare altrimenti nella folla una cosa tanto delicata? Delicata perché quanto meglio conobbi il Cima tanto piú compresi come Antonia facesse al caso suo. Pareva proprio l’avesse commessa su misura: Tanta carne, quella data proporzione di rosa, alta circa come lui, dunque di alta statura per una donna, media per un uomo, le estremità sottili fino alle caviglie. Un sicuro acquisto come ne fanno gli assenteisti che perciò hanno il tempo e i mezzi. Dapprima mi dispiacque in Antonia un marcato prognatismo. Occorreva forse? Quel mento sporgente, bianco e grassoccio mi ripugnò. Poi m’abituai e compresi che non aveva importanza. Certi difetti di una donna sono come certi difetti in una pietanza, l’attaccaticcio che dà l’odor di fumo. Dopo i primi bocconi ci si abitua e non si sente piú. E abituatisi ad una cosa brutta non si può piú farne senza.

Antonia, a sentirla parlare era una vera popolana triestina, a guardarla era invece una vera dama. Vestiva con grazia e il suo cappellino era una buona imitazione dell’ultimo modello di Parigi. Sapeva di appartenere oramai definitivamente alla schiatta delle capeline ciò che confessava all’occa[p. 443 modifica]sione con un certo disprezzo rivelando la propria convinzione che sino ad allora ella s’era figurata la testa di una donna come che va adorna dei soli capelli. Dopo qualche tempo io la vidi molto bella, troppo bella e mi parve anche che quel suo prognatismo fosse una cosa che le appartenesse. Non arrivava certo a cancellare la dolcezza dei suoi occhi grigi incassati sotto la piccola fronte bianca che divideva le sopracciglia auree dalla testa un po’ selvaggia di capelli biondi ricci. E forse dimenticai piú presto quel mento disgraziato per la sicurezza che avevo che il Cima non poteva sbagliare nella sua scelta. Ero io che dovevo correggere il mio gusto accanto ad un vero signore della vita che sapeva scegliere tutto quello che poteva e doveva dar piacere. Ed io sentivo intero il suo piacere.

Doveva essere una soddisfazione divina venir a riposare fra quelle braccia bianche dopo una giornata piena di fatiche e di sangue. Cima ricordava veramente quei sultani che non riposavano mai altrimenti dopo le battaglie. E usavano anch’essi di donne di altra razza come Cima stesso, bruno e quasi nero che sottometteva Antonia bianca e bionda. E se essa non apparteneva ad una razza soggiogata ciò che certamente è un complemento importante della donna che si possiede, quando io intervenni fra loro due essa aveva del tutto quell’aspetto. Pare rimpiangesse d’essersi abbandonata cosí al foresto e lo manifestava con insolenze e eterne ribellioni. Si bisticciavano sempre, lui sorridente perché – cosí supposi con un fremito d’invidia – non domandava la sommissione che in certi istanti; lei, coraggiosa, perché oramai sapeva – anche questo io supposi – che tutte le ribellioni le fossero permesse meno una sola.

Non abitavano insieme. Lui stava all’albergo e lei in un quartierino ch’egli aveva ammobiliato con qualche eleganza. Cima diceva: «Che fondamento ci sarebbe di vivere come marito e moglie? Tanto farebbe allora di seccare anche il piovano».

Ma io fra di loro ebbi l’aspetto del paciere. Stavo benissimo con uno e con l’altro. Somigliavo ad Antonia che odiava la [p. 444 modifica]caccia e la pesca e perciò derideva e disprezzava Cima e stavo a sentirla con piacere come difendeva con tanta brutalità la dolcezza ch’era il nostro destino e ch’io non sapevo difendere perché me ne vergognavo. Essa gli diceva: «Assassino!». E poi spiegava che aveva anche il carattere dell’assassino. Ammazzava solo per depravazione perché in ciò simile al suo cane da caccia, non amava mangiare la selvaggina che gli ripugnava. Odiava le povere bestie anche dopo morte. E concludeva: «Ma non potevi tu restare nel tuo Abruzzo?».

Cima sorrideva: «Nell’Abruzzo non ci sono tante bestie come qui». E, contento di aver trovata la buona risposta, passava all’attacco: «Ma tu perché mangi le bestie che tanto compiangi?».

«Quando son morte quale altro compenso si può dare loro?»

E tutt’e due m’amavano. Antonia mi sentiva simile a sé: Fratello perché parlavo il suo dialetto e perché non ero mai stato a caccia. Non aveva niente in contrario provassi. Certo sarebbe stata l’ultima volta perché andando con quell’assassino di Cima avrei visto subito cose orrende. Essa c’era stata una volta sola e in sua presenza il Cima aveva inflitto al cane che non subito aveva voluto obbedire una pallinata nella schiena. La povera bestia aveva guaito da far pietà ma, zoppicando, aveva dovuto continuar a lavorare. Poi un chirurgo aveva proposto di levargli i pallini che s’erano arrestati sotto alla pelle, ma il Cima aveva rifiutato la proposta dicendo che per non dimenticare una lezione un cane doveva portarla eternamente con sé. «A te occorrerebbe la lezione eterna» diceva con odio Antonia. «Io confido che prima o poi quello schioppo tirerà nella direzione segnata dalla giustizia di Dio.»

Cima rideva ed io protestavo. Ma ogni parola della dama popolana, mi pareva una carezza. Ero là io, proprio un esempio come dovesse essere fatto un uomo meritevole dell’amore di Antonia.

Ma anche Cima mi voleva bene. Si aspettava sempre di prendermi sotto di sé per l’istruzione della caccia e mi vi preparava. Si attese tanto tempo perché io allora m’ero proposto [p. 445 modifica]di perfezionarmi nel violino. Avevo preso un nuovo maestro che m’aveva spiegata certa sua teoria sulla lotta fra quell’orrendo istrumento e il nostro organismo dalla quale aveva finito coll’essere ossessionato. Eccola: Lo studio era uno sforzo per avanzare contro corrente, visto che la resistenza dell’organismo aveva la potenza della corrente di un fiume. Tant’è vero che quando si cessava di lavorare anche per sole ore si finiva coll’andare di qualche tratto a valle. Veramente sarebbe occorso solo per restare al medesimo punto di studiare almeno quattro ore al giorno e molte di piú per progredire. Il mio desiderio mi teneva accanto al violino per molte ore. Ma ad ogni tratto lo deponevo sul tavolo e gli camminavo intorno [p. 446 modifica]


ARGO E IL SUO PADRONE

Numero 1

La morte di Argo

Egli aveva una grave ferita alla pancia. Aveva voluto saltare oltre una chiusura fatta di stanghe di ferro acuminate ma aveva mal calcolato lo slancio e le stanghe di ferro gli avevano squarciato il ventre. Aveva dovuto fare uno sforzo immane per liberarsi da quelle punte che lo tenevano afferrato. Ogni suo movimento allargava e approfondiva le ferite. Cadde finalmente a terra proprio dalla parte ove si trovava il coniglio che aveva provocato il suo salto. Il coniglio lo guardava da lontano con gli stupidi occhi che a fatica guardavano verso un punto solo. Ad Argo parve che il pauroso animale non lo temesse piú. Sentendosi mancare pensò: Se è vero tutto questo, la ferita e la mia debolezza, allora esso ha ragione. Il dolore rabbioso lo fece guaire altamente. Poi per prudenza si costrinse al silenzio ma era tale il dolore e fu talmente aumentato dalla proibizione di lagnarsi che perdette i sensi. E, rinsensando – lo stesso dolore che gli aveva tolto la coscienza gliela ridonava imperiosa e atroce — ebbe di nuovo la speranza che non fosse vero. Tentò di leccare la ferita. Ogni colpo di lingua destava un nuovo focolare di dolore cocente. Smise. Pensò che se poteva sperare in una guarigione, doveva prima di tutto celarsi. Su quel terreno ch’egli aveva invaso da nemico potevano esserci molti pericoli per lui oramai inerme. Vide a poca distanza dei legnami accatastati che formavano un

Numero 2

A quel ricordo io addento la scarpa temendo mi sfugga con un balzo fuori del breve circuito in cui la catena mi concede di muovermi. In bocca diventa piú viva. La sbrano come si deve coi nemici. Dove s’apre l’odore s’espande ed è piú mio. [p. 447 modifica]Essa ha tutta la vita meno il movimento ed è perciò proprio adatta quale preda quando si è alla catena. Cosí il soggiorno in quel luogo tedioso diventa gradevole quasi come una gita in piena libertà fra gli animali che scappano.

Quando Anna viene a liberarmi io resto tuttavia a quel posto perché finché non mi dànno la piena libertà non posso raggiungere un oggetto piú importante di quello. In casa certo non c’è una cosa tanto preziosa [p. 448 modifica]


MARIANNO

Numero 1

Il ricordo di Marianno incominciava dal giorno in cui abbandonò l’ospizio. Tante volte in sua vita aveva tentato di varcare le tenebre che precedevano quel giorno; non vi aveva trovato neppure un bagliore. La sua vita era stata iniziata cosí. Una grande sala oblunga oscura con un grande Crocifisso in pietra in mezzo, ai cui piedi ardeva un lumicino posto in mezzo a dei fiori freschi. Dovevano esserci varie persone nella sala ma egli non ne vedeva che una sola: Alessandro, il suo futuro padrone, vestito a festa, venuto a prenderlo e che col suo sorriso bonario e affettuoso gli prometteva di aver cura di lui. Di Alessandro credeva di ricordare ogni singola parola. Diceva: finché ci sarebbe stato da mangiare per la famiglia sua, ce ne sarebbe stato in abbondanza anche per Marianno. Marianno sarebbe andato a messa ogni domenica. Anche qualche volta in giorno di lavoro. Certo! Mamma Berta non trascurava la chiesa. In quanto a lui ci andava anche lui... qualche volta.

Ricordava Marianno tutti quei piccoli dettagli in quanto riguardavano Alessandro o ve li aveva posti poi potendo con tanta facilità, in seguito alla lunga convivenza, rappresentarsi con esattezza quel semplicione di Alessandro messo in qualunque frangente? Bastava dire che Alessandro vestito da festa era andato all’Ospizio a prendere il ragazzo e che i frati avevano domandato delle promesse sulla sua educazione e sul suo trattamento per sentirlo e vederlo. Un sorrisino che domandava compatimento e una chiacchiera irruente che serviva a celare una timidezza invincibile.

Altre persone Marianno non ricordava. Ma ricordava una cosa importante: qualcuno, staccandosi da lui aveva pianto. Molti anni dopo gli venne la curiosità di sapere chi per lui aveva pianto, e, cessando di segare, ne fece domanda ad Ales[p. 449 modifica]sandro. Ma Alessandro nego: tutti ridevano! Di festa Alessandro era molto piacevole. Invece era certo che qualcuno aveva pianto. Forse però in modo da non farsi vedere che da Marianno. Il ragazzino al veder piangere s’era messo a piangere anche lui ed è cosí che avendo gli occhi offuscati di lagrime non poté vedere chi per lui aveva pianto. Forse anche il proprio pianto gli sembrò il piú importante e non si curò di quello degli altri.

Numero 2

Una di queste isole fu la sua prima uscita in barca con Alessandro. Andavano a prendere doghe o cerchi di ferro. Ebbe allora per la prima volta un remo in mano. Alessandro doveva insegnargli a vogare e, naturalmente, come al solito, tutto il suo insegnamento si ridusse a fargli vedere il movimento: «Si fa cosí!». E aggiunse: «Questo è il remo e questo son io!». Il fanciullo provò e, pare, riuscí presto perché da quella prima uscita ritornò trionfante e il ricordo fu di gloria per le lodi avute. Doveva aver lavorato intensamente perché il ricordo fu di sola barca e di solo remo. Il Rio e il Canalazzo per cui dovevano essere passati non vi lasciarono nulla.

Numero 3

Però Marianno non aveva ragione di considerare quella celebre giornata come un muro che divideva nettamente la sua vita. Al di là di quel muro non c’era infatti niente che fosse ricordato ma al di qua certi tratti e non brevi erano ben росо illuminati e appartenevano piuttosto al di là. Intanto, subito, le ore che seguirono a quella scena memoranda non lasciarono nella sua mente alcuna impressione. Egli non ricordava l’accoglienza ch’ebbe in casa Perdini né la prima volta in cui entrò nella bottega del bottaio. Gli parve di aver conosciuto sempre la signora Berta, Adele, la bottega, gli ordigni del mestiere le doghe e la sua stanzetta la piú oscura della casa, priva di finestre, funestata dalle zanzare d’estate e dal freddo glaciale d’inverno. Poi sorgevano dall’oblio delle isole, degli [p. 450 modifica]spazii bene illuminati che rivelavano ogni dettaglio. Già anche la vita umana piú matura è cosí.

Una malattia, intanto, una febbre, nel giovine organismo sono un avvenimento gravissimo. Era stato messo nella stanzuccia soleggiata di Adele che era andata a dormire nella stanza dei genitori. Ricordava: mamma Berta gli faceva dei bagni alla testa scottante e allora il refrigerio gli faceva spalancare gli occhi e vedeva tutto e capiva tutto. Si sapeva ben protetto. Alessandro correva su da bottega a sentire come andava e gli diceva barzellette per incorarlo. Anche nella febbre Marianno sorrideva ma ogni suono batteva sulla sua testa come il coltellaccio sulle doghe. E Alessandro era ben romoroso. Chiamò Berta per farle vedere come il fanciullo sorridesse e Berta lo baciò dalla contentezza. Poi finalmente se ne andarono e Marianno fu lasciato solo al suo delirio.

Numero 4

La mente di Marianno s’aperse il giorno in cui abbandonò l’ospizio. Da quel giorno ricordò. Non il caso aveva portato a maturità il fanciullo proprio in quell’istante tanto importante; ma l’avvenimento che sconvolgeva la sua giovine esistenza lo aveva spinto violentemente alla consapevolezza. Aveva aperto gli occhi dal sonno dell’infanzia come li apre il dormente se viene strappato dal suo giaciglio. E quel giorno restò nel suo ricordo come una muraglia. Al di là non un bagliore: La cieca vita della pianta.

La vita cosciente cominciò cosí: Una grande sala oblunga oscura con un Crocifisso in pietra in mezzo ai cui piedi ardeva un lumicino circondato da fiori freschi. Altri oggetti non vide. Dovevano poi esserci molte persone in quella sala ma egli non ne vide che una, Alessandro. Il suo futuro padrone, vestito a festa, era venuto a prenderlo e si dimenava per accompagnare una chiacchiera irruente e, al solito, spropositata. Marianno credeva di ricordare ogni parola: Diceva che finché ci sarebbe stato da mangiare per la famiglia sua, ce ne [p. 451 modifica]sarebbe stato in abbondanza anche per il fanciullo. Prometteva che Marianno sarebbe andato a messa ogni domenica; talvolta anche in giorno di lavoro perché in casa c’era chi ci andava frequentemente. Egli stesso ci andava anche... qualche volta. Lavorava tutta la settimana e la festa la dedicava al riposo e un po’ anche all’osteria. Ma pochissimo! Un bicchiere, due al massimo.

Marianno credeva di ricordare anche delle parole mentre non ricordava oggetti e persone, ma poteva ingannarsi. Conoscendo Alessandro si poteva raffigurarselo esattamente in ogni data posizione! La chiacchiera che si componeva in gran parte di frasi fatte, di cui egli aveva una raccolta grande, esibita tutta in sequela spropositata in presenza di gente nuova serviva a celare una grande timidezza. Ciarlava e si dimenava cambiando di posto come per evitare un pericolo. Certo aveva anche detto ch’era ignorante ad onta che fosse stato a scuola per sei anni ma sempre nella stessa classe. Sua moglie dirigeva la casa e lui la bottega. Sua moglie era persona pratica. Eh! la sapeva lunga ed una donna capace vale molto. Qui deviava: Loro frati ne facevano senza... Poi si pentiva della mancanza di rispetto e parlava del mestiere che avrebbe insegnato a Marianno. Il bottaio! Un mestiere sicuro, quello. Si poteva fare senza carne a questo mondo ma non senza barili.

Questa prima persona che Marianno vide si alterò nel ricordo: Pareva ora lunga ora breve, larga e panciuta o sottile e minacciata di spezzarsi nell’ininterrotto dimenamento. Ma era sempre Alessandro. Certo col suo desiderio di gestire efficacemente costui avrebbe accettato ben volentieri tali espressive metamorfosi.

Ma un’altra cosa Marianno ricordò di quella scena. Staccandosi da lui qualcuno aveva pianto. Molti anni dopo gli venne la curiosità di sapere chi per lui avesse pianto e, in bottega, cessando di segare, ne fece domanda ad Alessandro. Ma Alessandro negò: Tutti avevano riso quel giorno. Il priore aveva riso tanto da mancargli il fiato. «Ti, sempio, ti ga pianto. Solo ti.» [p. 452 modifica]

Invece Marianno era certo che qualcuno aveva pianto, forse però in modo da non farsi vedere che da Marianno stesso. Ciò era sicuro. Intanto Marianno aveva pianto solo per corrispondere al singhiozzo che aveva echeggiato nel suo orecchio. Forse le proprie lagrime gli avevano impedito di vedere chi gli aveva voluto tanto bene.

Non era del tutto esatto di considerare quell’importante giornata quale un muro che dividesse nettamente la sua vita. Al di là di quel muro non c’era infatti niente che fosse ricordato ma al di qua certi tratti e non brevi scomparvero anch’essi dal ricordo e avrebbero appartenuto piuttosto al di là. Intanto subito le ore e i giorni che immediatamente seguirono a quella giornata! Egli non ricordava il suo ingresso in casa Perdini, né la prima volta in cui entrò nella bottega del bottaio. Gli parve di aver conosciuto sempre la signora Berta, Adele, la bottega, gli ordigni del mestiere, le doghe di resina ruvide e nodose, e la sua stanzetta, la piú oscura della casa, priva di finestre, funestata dalle zanzare d’estate e dal freddo glaciale d’inverno.

Poi sorgevano dall’oblio delle isole che gli lasciavano scorgere ogni dettaglio di avvenimenti che invero non sembravano tanto importanti. Già anche la vita umana piú matura è cosí.

Uno di questi avvenimenti fu la sua prima uscita in barca con Alessandro. Andavano a prendere delle doghe e Marianno doveva vogare a prora. Alessandro gl’insegnava: «Questo xe el remo e questo son mi. Se fa cussí!». Il fanciullo provò e, pare, riuscí presto, perché da quella prima uscita ritornò trionfante e il ricordo fu di gloria per le lodi ricevute. Doveva aver dedicata tutta la sua attenzione al suo ufficio perché il ricordo fu esclusivamente di barca, di remo e di forcola. Il silenzioso rio e il rumoroso canalazzo per cui dovevano essere passati non esistettero.

Poi una malattia creò una sequela di ricordi. Si capisce! Una febbre è un avvenimento ben grave in un giovine organismo.

Era stato messo nella stanzuccia soleggiata di Adele ch’era [p. 453 modifica]andata a dormire nella stanza dei genitori. Mamma Berta gli faceva dei bagni alla testa scottante e il refrigerio gli faceva spalancare gli occhi. Allora soltanto si quietavano nella sua testa dei rumori acuti che lo assordavano, e intendeva tutto. Alessandro veniva su ad ogni tratto dalla sua bottega col suo grembiale da lavoro a vedere come andava e gli diceva delle barzellette per incuorarlo. Anche nella febbre Marianno sorrideva; ma ogni suono batteva sulla sua testa come il coltellaccio sulla doga ed Alessandro era ben romoroso. Chiamò Berta per farle vedere quel sorriso, prova di guarigione improvvisa, ed anche Berta dalla contentezza baciava l’ammalato. Sí! Berta lo baciava senza che vi fosse obbligata. Poi, finalmente, se ne andavano e Marianno riposava in un delirio da cui non era possibile strapparsi senza dolore. Anche il delirio ricordava: Vogava solo su un sandolo popparino di quelli che esigono dal vogatore tanta forza e destrezza. Usciva da un rio stretto e arrivava al Canalazzo inondato da luce e calore. Troppa luce, troppo calore! Il suo sandolo tagliava l’acqua come se fosse stato spinto da una forza sovrumana. E pescava troppo! Egli sciava, ma i suoi sforzi non servivano ed egli sapeva che l’acqua irruente gli avrebbe strappato di mano il remo e l’avrebbe ribaltato. Un vaporino s’avanzava proprio verso di lui e, accanto al suo sandolo, un gondoliere eretto e calmo sul suo remo diceva: «El voga inveze de tetar!». Marianno si mise ad urlare dallo spavento e dalla vergogna. Fu strappato al suo delirio da Alessandro chiamato dal suo urlo. Per molti anni nella famigliuola si rise delle parole gridate da Marianno: «Aiuto! El remo me scampa de man». Aperse gli occhi quando gli rinnovarono l’acqua alla testa. La stanza era oramai nella penombra perché dall’angusta calle il sole era scomparso da molto tempo. Per Marianno, uscito da tanta luce abbacinante e da tanto pericolo, quella stanza oscura e l’appoggio di quelle due persone adulte quanto il gondoliere che lo aveva deriso nel delirio, fu un grande conforto, e quella stupefacente salvezza fu il suo piú forte ricordo. Quando il dottore, varii giorni appresso, lo trovò libero di febbre, [p. 454 modifica]Alessandro disse, al solito, la barzelletta: «Via el remo e toca de novo al cortelazzo».

Ed anche questo passaggio dal remo del delirio al coltellaccio solido e pesante della realtà non fu dimenticato piú dal fanciullo. Al tramonto, in Dicembre, dunque ben di buon’ora, egli avrebbe voluto andare a casa. Ma il lavoro premeva ed Alessandro non ne volle sapere. Allora Marianno cui doleva la manina indebolita dalla malattia abbandonò la doga su cui aveva lavorato e copertasi la faccia con ambe le mani si mise a piangere. Oh! Com’era bella la malattia e come i sani erano infelici perché dovevano lavorare. Perché era guarito tanto presto?

Anche Alessandro cessò di lavorare per tenergli una predica che non voleva finire piú. Marianno era stato accolto in casa per pietà. Chi sa in che mani avrebbe finito se loro non lo avessero adottato. Poi egli s’era ammalato e loro lo avevano curato. Il medico aveva costato tanto... le medicine tanto... eppoi per tutto quel tempo Alessandro aveva dovuto squadrarsi le doghe da solo. È vero ch’egli le squadrava meglio perché dopo un anno di pratica Marianno ancora non aveva capito di tener giuste le misure. E Alessandro tirava fuori un barile fatto con le doghe squadrate da Marianno prima della sua malattia e dimostrava che le doghe erano state segate fuori di posto cosí che la pancia del barile non risultava al centro. Secondo Alessandro quella non era piú una pancia, ma una gobba, perché la pancia non è mai fuori di posto.

Marianno ricordava d’aver voluto bene ad Alessandro e di averne accettate le ammonizioni sempre senz’alcun rancore. I figliuoli devono accettarle dai genitori anche quando questi ti dichiarano in ogni occasione di non essere tuoi genitori. La sua debolezza infantile si sentiva bene accanto alla debolezza senile di Alessandro. Tanto buono era Alessandro che quando era ubriaco (ogni lunedí come tutti i bottai) diventava ancora piú mite ed affettuoso. Faceva allora anche la teoria della sua bontà. Sentiva come fosse buono e bello di essere tanto debole. L’uomo forte poteva essere rovinato per tutta la sua vita da un paio di litri di vino. Il debole non correva tale ri[p. 455 modifica]schio se poi non era addirittura una bestia da munirsi prima di bere di un’arma da fuoco. Una volta a lui era stato proposto di metterlo in aceto perché acquistasse vigoria, ma egli aveva rifiutato perché l’uomo forte corre dei rischi troppo grandi. E qui raccontava la sua esperienza di tutte le persone forti ch’egli aveva viste in pericolo trascinatevi dalla coscienza della loro forza. Quando c’era una baruffa i forti accorrevano, mentre lui si rifugiava in casa ove era piú al sicuro che se avesse avuto la forza di un leone.

Marianno s’asciugò le lagrime e costrinse volontieri le sue manine addolorate a continuare a scheggiare col pesante coltellaccio i nodi delle doghe di resina. Non vi fu alcun rancore nel suo animo. Forse non intese gli argomenti Alessandro. Gli veniva enunciata una legge e perché gli veniva presentata alquanto sorridente era piú facile piegarvisi.

Un’altra febbre s’impresse nel suo ricordo. Toccò poco doро di lui ad Adele la figlia di Berta e il dottore avanzò l’ipotesi che l’avesse presa da Marianno. Mamma Berta sentí un bisogno imperioso di vendetta e, in presenza dell’ammalata, non appena il dottore fu uscito lasciò andare al fanciullo un ceffone seguito da un calcio che lo fece rotolare fuori della stanza. La punizione era tanto straordinaria che il primo effetto su Marianno fu di dargli la convinzione di aver commessa una grande colpa. Aveva già capito che il dottore doveva averlo accusato perché Berta, mentre stava a sentire, gli aveva lanciato delle occhiate ch’evidentemente a quel calcio preludiavano. Egli se ne sarebbe andato, grattandosi la parte lesa, conscio di una colpa, e senza lagrime, lieto che l’ultimo colpo lo avesse portato al sicuro. Ma Adele, nella febbre, si mise a strillare come se i colpi li avesse ricevuti lei, e bisognò che mamma Berta andasse in cerca di Marianno, che allora si nascose e, promettendogli di non fargli dell’altro male, lo facesse uscire da un armadione vuoto in cui s’era rifugiato. Essa poi non tenne la parola data perché lo prese con tanta violenza per il braccio da lasciargli dei segni, e lo gettò sul letto di Adele. I due bimbi piansero insieme. Adele, agitata dalla febbre non arrivava a quietarsi. Supina, con una mani[p. 456 modifica]na nei ricci di Marianno si votava addirittura di lagrime. Marianno poi che cosí restava esposto ad altri colpi esagerava il suo pianto nella speranza di trovarvi una protezione. Egli non sapeva ancora di quale colpa fosse accusato ma piangendo in compagnia di Adele si sentiva punito in compagnia sua ciò che non poteva non essere giusto.

Fu disingannato da Alessandro che arrivò a casa ubriaco fracido. Trovò i bimbi che tuttavia piangevano ed ebbe da Berta un’affrettata esposizione di quello ch’era avvenuto. Il dottore aveva detto che la bimba era stata inquinata da Marianno. Ora tutti sapevano che Marianno durante la sua malattia aveva voluto aver sempre da canto Adele. Cosí loro ora erano puniti della loro bontà, e mai in sua vita Marianno avrebbe avute delle legnate meglio meritate.

Marianno che non andava a combattere per le legnate già avute ma che temeva di averne ora delle altre si mise ad urlare. Alessandro lo tranquillò. Non avrebbe mai permesso che fosse picchiato per una cosa simile. Era piú brillo del solito e perciò piú caritatevole. Di solito, quando non aveva sorpassata la solita misura, benché brillo usava prudenza con mamma Berta la quale con certi suoi affari di pegni guadagnava almeno quanto lui coi suoi barili. Quel giorno invece, forse anche perché si sentiva appoggiato da Adele non ebbe riguardi e volle che Berta riconoscesse d’essere stata brutale. Non la finiva piú. Quando era tanto ubriaco non sapeva ragionare che per via di esempi. Proponeva alla moglie di figurarsi che la malattia avrebbe colta lei invece di Marianno e che Adele da lei l’avrebbe presa. «Chi avrebbe picchiato te allora?» Dunque se c’era il caso che nessuno avrebbe potuto fare giustizia bisogna non farla in nessun caso. Era un modo di ragionare alquanto strano ma pure con Berta giovò. Essa diede un breve bacio a Marianno perché non piangesse piú e, in via di compenso, una moltitudine di baci ad Adele.

Il ragionamento strampalato di Alessandro giovò anche con Marianno che sospettò per la prima volta di essere una vittima. Perché — secondo Alessandro — per lui c’era sempre chi al caso sapeva menare le mani mentre per altri no. Il bacio [p. 457 modifica]gelido di Berta serví d’ulteriore commento alle parole di Alessandro. Marianno pensò: “Ho vinto io, ma tu non mi vuoi bene”.

La vita raramente lascia dei solchi profondi: Lavora come l’aratro che cancella col nuovo solco quello fatto prima. Mamma Berta non era sempre cattiva con Marianno. Adele gli voleva tanto bene che sua madre lo tollerava in casa volentieri. Senza proposito però, per natura delle cose, Marianno dovette riconoscere in Adele la sua padroncina. Quando c’era una disputa fra i due bambini l’esito non era dubbio. Anche Alessandro che quando non aveva bevuto evitava di fare opposizione a sua moglie, quando Marianno si appellava a lui gli diceva che la prima qualità di un uomo era di non prendersela con le donne: «No ti vedi como trato mi con mia moglie?». Infatti l’esempio calzava.

Berta poi aveva spesso bisogno d’incaricare dei suoi affarucci Marianno e non mancava mai di retribuirlo con qualche soldino mentre Alessandro non aveva mai dei soldini in tasca quando arrivava alla bottega. Marianno amava di ricevere quelle incombenze da mamma Berta e non solo per amore alla retribuzione. Allora Berta gli voleva veramente bene. S’incominciava coll’andare assieme all’armadio di Berta, l’armadio che racchiudeva il tesoro della casa: Degli ori, qualche anello e degli orecchini, poi dei pizzi ed anche qualche orologio da muro. Su quegli oggetti Berta aveva avanzato dei denari che Marianno andava a prendere riportando il pegno. E queste gite egli non dimenticò. Incominciavano da quell’armadio miracoloso che s’apriva tanto di rado e che per lui rappresentava la ricchezza. Poi Berta l’accompagnava fino alla porta per assicurarsi come egli teneva l’oggetto affidatogli e, congedandolo, gli dava un bacio che doveva essere una raccomandazione e come tale ben sincero. Egli ricordava le lunghe calli tortuose che percorreva col piccolo passo rumoroso dei suoi zoccoletti. Indi ritornava tenendo nel pugno chiuso il denaro. Veniva ricevuto con un altro bacio e lasciato libero con 15 centesimi in tasca.

I quindici centesimi Marianno li portava ad una vecchie[p. 458 modifica]rella in una botteguccia vicina e ne riceveva in cambio un mucchietto di zucchero d’orzo che portava ad Adele. Ne mangiavano lietamente insieme una parte subito e l’altra nei prossimi giorni. Adele aveva già l’istinto dell’armadio come sua madre. Ne aveva uno piú piccolino chiuso anche ermeticamente con una chiave ch’essa aveva sempre nella sua taschina.

Berta amava di vantarsi delle sue furberie in affari e Marianno ricordò di aver voluto imitarla. Un giorno coi suoi 15 centesimi in tasca domandò alla vecchierella di cui era cliente di dargli solo 10 centesimi di zucchero. Quando lo zucchero fu pesato egli trasse dalla tasca gli altri cinque centesimi e domandò che il mucchietto fosse aumentato in proporzione. Poi non gli bastava mai e finí che la vecchierella lo buttò fuori della bottega con mala maniera accompagnandolo d’imprecazioni finché non fu lontano dalla calle. Alessandro cui egli raccontò la sua avventura ne rise e disse che per essere veramente furbi bisognava essere piú grandi di lui. A che poteva servirgli la furberia quando per liberarsi della sua astuzia bastava prenderlo per l’orecchio?

Le sue relazioni con Adele erano improntate a un misto di piccolo, misero odio e di grande affetto. L’odio dovette essere nato nella primissima infanzia, dopo di quella febbre, quando vide la differenza fra la sua convalescenza e quella della bambina. Per dei mesi essa aveva passato una parte della sua giornata nel suo lettino, adornata di ori come una Madonnina mentre lui, dopo la sua malattia, — la stessa? — era stato mandato a bottega non appena capace di stare in piedi. Ma quest’odio, quando i due bimbi erano lasciati soli, ossia quando non c’era presente mamma Berta, lasciava il posto alla confidenza infantile solita e a un grande affetto. Adele era una buona, dolce bambina. Se la madre minacciava a Marianno delle punizioni e che Adele riusciva col suo pianto a proteggerlo, egli sentiva nascersi un grande rancore per ambedue: Per la madre ch’era tanto cattiva e per la figlia ch’era tanto potente. Ma Adele non domandava riconoscenza per la protezione che gli dava. Anzi! Già a quattordici [p. 459 modifica]anni (egli ne aveva allora tredici) essa cercava di spiegare che mamma Berta gli voleva bene e doveva educarlo. E Marianno ch’era già logico le domandava: «E allora tu perché vuoi impedirglielo?». E la bambina con le lagrime gli diceva baciandolo: «Perché io non voglio che ti si faccia piangere!». E Marianno pensava: “Mamma non mi vuol bene e Adele me ne vuole. Peccato che mamma ami Adele perché altrimenti io le vorrei molto bene”. Ma egli voleva proprio bene a Adele, dolce, buona e carina col suo scialle nero, il suo visetto buono sorridente e la sua dolcezza sicura perché abominava qualunque azione violenta, in questo simile a suo padre. La violenza era odiosa tanto quando era giusta, quanto quando era ingiusta. E la sua dolcezza finí col sottomettere tutti. Cosí – quando non c’era Berta — Marianno si sentiva volontariamente lo schiavo e il protettore di Adele.

Adele ebbe una seconda malattia. Una minaccia di una grave affezione intestinale che avrebbe domandato un’operazione gravissima. Fu portata all’ospedale e tenuta per varii giorni sotto quella minaccia. In quell’occasione il vivo affetto di Marianno si manifestò.

Numero 5

F. è una che lesse molto anzi legge sempre. Parlava di scienza in lungo e in largo ma in complesso la sua base restava la fede. La fede nella religione prima di tutto. Essa era capace di andare in chiesa col peggior tempo; disturbava tutto e tutti pur di andare alla messa domenicale. Poi era serena nella sua carrozza comoda e calda e leggeva qualche giornale da capo a fondo. Quando arrivava a casa della messa non restava niente e parlava convinta di qualche novità scientifica p. e. delle celebri operazioni del Carrel. Marianno che non aveva mai pensato alla religione né con serietà né con disprezzo, un po’ sorridente mangiapreti, seccato talvolta dal suono delle campane e talvolta commosso da quell’armonia la stava a sentire estatico quando essa diceva che il soggiorno in chiesa la commuoveva e la rendeva buona. Poi altrettanto estatico stava a sentirla quando gli diceva che col tempo si sarebbe arrivati [p. 460 modifica]a trapiantare la testa di un uomo sul busto di un altro o che si sarebbe trovato il modo di provare con assoluta evidenza la discendenza dell’uomo dalla scimmia. E infine esclamò: «Ma perché va lei a messa?». Sarebbe stato il momento di stupirsi lei. Ma essa raccoglieva le sue forze presto. Il suo viso d’alabastro s’era arrossato come per uno sforzo. Aveva forse bisogno di guadagnar tempo perché fece l’osservazione banale che Marianno non tutto poteva intendere. Poi spiegò. Spiegò dapprima il mistero della propria origine. [p. 461 modifica]


IL MIO OZIO

Ma il presente non può essere espresso da una data, quella dell’oggi. Come si può dedicarsi alla descrizione della giornata appena trascorsa? Si può nella propria vita avere avuto una giornata di guerra, importante per il rumore che comporta e il rischio, ma per descriverla bisogna parlare solo a chi sa tutto quello che la precedette, a incominciare col raccontarla. È vero ch’io racconto tutto per me solo: Ma mi mancano le giornate campali. Proprio mi mancava: È perciò forse che tante mie giornate si agglutinano in una sola: Mi alzai quest’oggi (o anche ieri o prima) sono uscito, sono rientrato; dopo la colazione dormii di un sonno ristoratore, risi di mio figlio Alfio che, serio, serio, dipinge come in passato, di mia figlia vedova che continua ad irrorarmi delle sue lagrime e di mia moglie che al momento di uscire venne a porgermi la guancia al bacio come trenta o quasi quarant’anni or sono, bacio ch’io concessi con tanta distrazione che dovetti pensare: “Dacché non la tradisco piú non so nemmeno piú baciarla”. E non credo neppure che questo pensiero si sia formato oggi perché dev’essere nato quando con la piccola Ersilia si chiuse la mia carriera di amatore. Quel pensiero dev’essermi venuto col primo bacio che poi diedi a mia moglie, fredda, mancante dello scopo di farmi perdonare un trascorso.

Perciò, forse perciò feci male a rinunciare alle donne. È il vero modo per invecchiare. È possibile che — come dicono i medici — alla mia età l’amore possa danneggiarmi, e per questa paura lo lasciai, ma è certo che se nella vita vivrò piú a lungo, quando poi mi toccherà infine di abbandonare questa vita potrò dire di rinunciare a poca cosa. Che cosa sono io quest’oggi? Un padre, un nonno, uno zio. Mi designano per le mie relazioni con altre persone che sono attualmente i veri protagonisti in casa mia. È grande la mia virtú adesso. [p. 462 modifica]Vivo per gli altri. Finalmente. È stato il desiderio della mia vita. Ci sono arrivato, definitivamente. Posso dirmi veramente contento. Sono incline molto allo sbadiglio. Ma forse è questione che di sera si sbadiglia molto e la mia età è una sera prolungata.


Felicita: La desiderai come si desidera una donna virtuosa che converte con la sua resistenza il desiderio in un desiderio iroso. La virtú in lei era sostituita perfettamente da quel suo calcolo che la induceva a non concedersi, cioè a non concedersi che al primo del mese.


Felicita: La sua bellezza di cui facevano parte anche i colori che la vestivano si faceva molto delicata, in confronto al suo animo osceno di usuraia. (continua) [p. 463 modifica]


UN CONTRATTO

Io non ho mai capito bene come io sia arrivato alla mia inerzia attuale, io che durante la guerra ero considerato come l’uomo piú intraprendente della città. C’è mio nipote Carlo che consultai anche su questo punto che pure riflette sulla mia salute, e mi disse che facevo bene di stare tranquillo e che avrei potuto riprendere il lavoro alla prossima guerra mondiale. Ma non è sicuro per amore alla quiete che dieci anni or sono un anno dopo l’arrivo del giovine Olivi io abbandonai l’ufficio mio una sera fosca di nebbia e m’arrampicai alla mia villa a piedi per avere piú tempo da riflettere, commosso e seccato dall’altrui abilità e incompetenza mia. E là nell’oscurità pensai intensamente arrivando per necessità di cose alla risoluzione che m’offriva la maggiore comodità. Già ad una data età qualunque pretesto che spinga al riposo è buono.