Della consolazione della filosofia/Libro I

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LIBRO PRIMO

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Libro II
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LIBRO PRIMO


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Si duole e rammarica in questo libro Boezio colla Filosofia dell’acerbità delle sue sventure, inasprite ancora più dalla rammemorazione delle grandezze e felicità passate.


LE PRIME RIME.

Io che, già lieto e verde, alto cantai
     Nel mio stato fiorito, or tristo e bianco
     3Pianger convegno i miei dolenti guai.
Ecco le Suore meste, e Febo stanco,
     Versi mi dettan lagrimosi; ond’io
     6Bagno scrivendo il destro lato e ’l manco.
Queste pur nè speranza, nè desio,
     Nè tema spaventò, che meco tutte
     9Il cammin fide non seguisser mio.
Queste, ch’or son così pallide e brutte,
     Di me, vecchio infelice, il pianto e i danni
     12A lagrimare e consolar condutte,
Gloria fur de’ miei verdi e felici anni:
     Or non pensata e súbita vecchiezza
     15Portata m’hanno i miei gravosi affanni.
Anzi tempo del duol, non per lunghezza
     D’età, treman le membra, e queste chiome
     18Si fanno argento, che si cuopre e sprezza.
Felice chi, quando a lui piace e come,
     Vive sua vita; e chi, venuto in basso,
     21Chiede di morte, ed ha l’ultime some!

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Oimè sventuroso, oimè lasso!
     Quanto è sorda la morte a chi la chiama,
     24D’ogni ben privo e d’ogni speme casso!
Mentre io felice avea di viver brama,
     Spense quasi mia vita acerba morte,
     27Ch’or tanto, indarno, il cor misero brama.
Perchè beata sì spesso mia sorte
     Chiamaste, amici, s’era tanto infermo?
     30Chi cadde al fondo in sì poche ore e corte,
Non ebbe il piè giammai stabile e fermo.


PROSA PRIMA.

Mentre che tacito meco medesimo queste cose riandava, e che a piagnere colla penna e lamentarmi m’apparecchiava, mi parve che sopra il capo mi fosse una Donna apparita, degna di molta reverenza nell’aspetto, con occhi ardenti, e che molto più di lontano scorgevano, che gli uomini comunemente scorgere non possono. Era il suo colore vivace molto, ed ella d’un certo vigore da non dover mai venir meno; avvengadiochè tanti anni mostrasse, che in niuno modo si poteva credere che fosse di nostro secolo. La sua statura, per lo essere ella variabile, non si poteva determinatamente giudicare quanta fosse. Conciosiacosachè questa Donna si ristrigneva talora in guisa, che non passava la comune misura d’un uomo; e talvolta si distendeva in modo, che pareva che ella col cucuzzolo del capo toccasse il cielo: ed alcuna fiata, quando voleva levarsi più alto, trapassava esso cielo; di maniera che coloro, i quali la volevano guardare, non potevano. Aveva le sue vestimenta di fila sottilissime, e con maraviglioso artifizio, e d’una materia [p. 7 modifica]indissolubile conteste, le quali essa medesima, sì come poi mi disse ella stessa, tessute s’aveva colle sue mani proprie, la bellezza delle quali, come si vede nelle statue affumicate dal tempo, aveva una certa caligine di trascurata antichità ricoperto. Nell’ultimo e più basso lembo delle quali era intessuto un Π greco, ed in quello da capo un Θ; e tra l’una di queste due lettere e l’altra si vedevano fregiati alcuni gradi, come d’una scala, mediante i quali si poteva dalla lettera di sotto a quella di sopra salire. La qual vesta però avevano le mani d’alcuni uomini violenti squarciata tutta, e portatosene ciascuno quei brani ch’egli aveva potuto portarne. Teneva costei nella sua mano diritta alcuni libriccini, e nella manca una bacchetta da re, la quale, tosto che vide starsi le Muse poetiche dinanzi al letto nostro, e dettare le parole a’ miei pianti, risentitasi alquanto, e accesasi con occhi biechi: Chi ha, disse, lasciato entrare a questo infermo queste sfacciate meretrici, le quali non solo non porgessero alcun rimedio a’ suoi dolori, ma gli nutrissero ancora con dolci veleni? Perciocchè queste sono quelle, le quali colle non fruttevoli spine degli affetti uccidono le abbondevoli e fruttuose biade della ragione; e, non che liberino dalle passioni dell’animo le menti degli uomini, elleno ve le avvezzano dentro, e ve le nutricano: e per certo, se le carezze vostre e lusinghe m’avessero tolto un qualche uomo idiota e di volgo, io lo comporterei per avventura meno molestamente, conciosiachè in uno, che fosse cotale, non perderemmo cosa nessuna; ma voi m’avete costui tolto cogli allettamenti vostri, il quale fu [p. 8 modifica]nella Grecia tra gli studii platonici e aristotelici allevato. Partitevi dunque tostamente, vane e folli sirene, che colla dolcezza vostra n’arrecate infino morte, e lasciate costui alle Muse mie, che lo curino e guariscano. Da queste voci ripreso quel coro e sbattuto, chinò malinconoso la fronte, e confessata per la rossezza del viso la sua vergogna, s’uscì di camera tutto dolente. Ma io, la cui vista era per le molte lagrime divenuta tanto in dentro, e così abbagliata, che io, non che altro, non potei conoscere chi questa Donna si fosse, di tanto imperio e autorità, rimasi stupefatto; e confitti in terra gli occhi, cominciai ad attendere tacitamente quello che questa possente da indi innanzi dovesse fare. Allora ella, accostandosi più appresso, in su la strema sponda del mio letticciuolo si pose a sedere, e guardando nel mio volto grave del pianto, e bassato in terra per lo dolore, cominciò del perturbamento della nostra mente a rammaricarsi con questi versi.


LE SECONDE RIME.

In qual, lasso, periglio, in quanto errore
     L’umana mente sè stessa conduce!
     E lasciata, oimè, la propria luce,
     Nelle tenebre va, dove ebe e muore,
     5Quando o speme o timore,
     Terrene aspre procelle in quel mar l’hanno
     Sospinta, u’ sempre cresce e doglia e danno?
Questi, che già solea libero al cielo
     Poggiar, mirando quelle cose belle,
     10Il sol, la luna, e tutte l’altre stelle
     O vaghe o ferme, d’intorno al suo stelo
     Vedea senza alcun volo

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     Per varii cerchi e mille strane vie
     Rotare or lente, or toste, or crude, or pie.
15Questi sapeva ancor l’alte cagioni,
     Perchè li venti tempestosi l’onde
     Percuotan d’Amfitrite irata, e d’onde
     Ha ’l ciel, che fermo sta, sue girazioni;
     Per quante e quai ragioni
     20La stella, che tuffar si dee nel mare
     Di Spagna, rossa in Orïente appare.
Questi qual muova Amor, qual aura tempre
     Di primavera i dolci e lieti giorni
     Ridir sapeva, e chi la terra adorni
     25Di vaghi fior con sì mirabil tempre;
     Qual possa e faccia sempre
     Natural legge, o pio voler divino,
     Versar giugno le biade, ottobre il vino.
Or giace, oimè, del miglior lume casso;
     30E, di gravi catene avvinto il collo,
     Non può, misero lui, dar pure un crollo,
     Nè gli occhi alzar, nè muover solo un passo;
     Ma del gran peso lasso,
     Tenendo il viso ognor rivolto a terra,
     35Mira mal grado suo la stolta terra.


PROSA SECONDA.

Ma questo è tempo, cominciò ella, più tosto da medicarlo, che da lamentarsi; ed affisatimi gli occhi addosso: Sei tu quegli, mi disse, il quale, nutrito già del nostro latte e cresciuto dei nostri cibi, eri a quella fortezza d’animo, che negli uomini si ricerca, pervenuto? Noi per certo t’avevamo cotali arme dato, che, se tu non le avessi poste in terra da te medesimo e gittate via, t’avrebbono da ogni insulto e da qualunqu’empito con invincibile fermezza [p. 10 modifica]potuto difendere. Riconoscimi tu? tu stai cheto? taci tu per vergogna, o per istupore? Io per me vorrei più tosto per vergogna; ma, per quanto veggo, la tua mente è oppressa da stupore. E, veggendomi ella non solamente cheto, ma senza lingua ancora, e del tutto mutolo, mi pose la mano sopra il petto leggiermente. E’ non c’è, disse, pericolo nessuno: il mal suo è letargo, cioè grave e profondissima sonnolenza e sdimenticanza, male comune a tutti coloro i quali hanno la mente ingannata e delusa. Egli è alquanto a sè medesimo uscito di mente; ma ritornerà con poca fatica, se egli ebbe di noi vera contezza giammai: la qual cosa a fine che far possa, forbiamogli un poco gli occhi, che sono per la nebbia delle cose mortali offuscati. Così disse; e preso il lembo della vesta, e ripiegatolo in una falda, m’asciugò gli occhi, che gittavano lagrime a mille a mille.


LE TERZE RIME.

Quando l’alte celesti alme contrade
     Ricuopre o folta nebbia o nembo scuro,
     Sta Febo ascoso, e dal gelato Arturo
     4Orribil notte a mezzo giorno cade;
Ma poscia che per l’ampie e lunghe strade
     Del ciel dal tracio bosco e carcer duro
     Soffia Aquilon, torna lucente e puro
     8Lo sol, recando altrui nuova beltade:
Così dal cuore il duol, dagli occhi il pianto,
     Dalla mente sparîr le nebbie e’ venti,
     11E tornò in me la mia luce primiera,
Tosto che di sua man, tenendo intenti
     Suoi lumi a me, la bella Donna altera
     14M’asciugò ’l viso col suo lembo santo.

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PROSA TERZA.

Non altramente, che s’è di sopra raccontato, dissipate le nebbie della mia tristezza, vidi la luce, e ripigliai forza a poter conoscere chi quella fosse, che venuta era per medicarmi; il perchè, tosto che rivolsi gli occhi a lei, e le affisai addosso lo sguardo, scorsi la mia balia Filosofia, nelle cui case m’era infino da giovanezza allevato, e le dissi: O maestra di tutte le virtù, discesa dalla più alta parte del cielo, che sei tu a fare venuta in queste solitudini del nostro esiglio? forse vuoi ancor tu essere colpevole a torto con esso meco, e da false calogne molestata e afflitta? O allievo mio, rispose ella, doveva io abbandonarti, e non pârtire insieme con esso teco quella soma, dividendo in due la fatica, la quale tu, per li carichi e colpe che a mia cagione dati ti sono, t’hai posta sopra le spalle? Sappi che alla Filosofia non era nè lecito nè ragionevole lasciarti andar solo, e non t’accompagnare dovunque tu andassi, essendo tu innocente: e’ parrebbe che io avessi dubitato di dovere essere accusata anch’io teco, e avutone paura, come di cosa nuova, e che mai più avvenuta non mi fosse. Pensi tu che questa sia la prima volta, che sia stata dagli uomini maligni e malvagi stimolata e posta in pericolo la sapienza? Dimmi un poco, non abbiamo noi ancora anticamente, innanzi che nascesse il nostro Platone, combattuto molte volte grandissimi combattimenti colla temerità della pazzía? E, vivente ancora esso Platone, non elesse Socrate suo maestro, standogli io sempre appresso, più tosto vincere morendo [p. 12 modifica]ingiustamente, che scampare? La cui eredità, mentre che la setta epicurea, e la stoica, e tutte l’altre si sforzano di rapire e appropriare ciascuna a sè stessa, come sua parte, e me, che gridava, e non voleva andarne, tirando per forza come lor preda, mi stracciarono la vesta, la quale io stessa colle mie mani tessuta m’aveva; e tolto da quella alcuni pezzi, pensando ciascuno d’avermi tutta, si dipartirono; ne’ quali, perciocchè si vedevano alcuni segni dell’abito nostro, gli uomini, che per lo più sono imprudenti, giudicandoli di mia famiglia, ne fecero alcuni, mediante l’errore del volgo profano e ignorante, mal capitare. E se tu per ventura non sai nè che Anassagora si ebbe a fuggire, nè che Socrate fu costretto a pigliare il veleno, nè che Zenone fu tormentato a mia cagione per lo essere costoro forestieri; debbi sapere almeno quello che avvenne a Cannio, a Seneca ed a Sorano, la memoria de’ quali non è vecchia molto, ma bene molto celebrata, li quali niente altro menò a morte, se non che, ammaestrati da’ costumi nostri, erano dissomigliantissimi agli studii e malvagie voglie degli uomini rei: per che non hai da maravigliarti se noi altri siamo nel mare di questa vita da varie procelle sospinti, il cui principale intendimento è dispiacere alli cattivi, il numero de’ quali, tuttochè sia innumerabile, non perciò si debbe temere, conciosiacosachè egli non ha guida nessuna che lo regga, ma è solamente trasportato ora in qua ed ora in là da folle errore, come gli stolti, il quale se pure alcuna volta mettendosi in ordinanza ne preme gagliardo, la nostra [p. 13 modifica]guida ritira subito le genti alla rôcca, onde essi si danno tutti a saccheggiare bagaglie inutili. E noi ci ridiamo di loro, che stanno a rubare cose di niuno valore, sicuri che la loro bestialità non ci può nuocere, e guerniti di tale steccato, dove non può la pazzía loro, affrontandoci, pervenire in modo nessuno.


LE QUARTE RIME.

     Chïunche, queto il cor, lieto la mente,
     Calca saggio coi piè l’altero fato;
     Chiunque il volto può dritto e ridente
     Nel reo tener, come nel buono stato;
     5Costui poco commuove, anzi nïente,
     La fiera rabbia di Nettuno irato,
     Quando più gonfia, e dal più basso fondo
     Più roco stride, e più minaccia il mondo.
Costui, quando Etna e ’l gran Vesuvio al cielo,
     10Rotte di dentro le fornaci ardenti,
     Gettano accesi sassi, e scuro velo
     Di fumo il ciel ne toglie e gli elementi,
     Nulla non teme: nè si fa di gielo
     Quantunque volte i folgori possenti,
     15Che per uso feriscon l’alte cime,
     Manda in terra dal ciel Giove sublime.
Miseri, a che pur tanta ognor vi prende
     Meraviglia e terror de’ regi alteri?
     Non lor possa giammai, ma sempre offende
     20La sua follía ciascun: se nulla speri,
     Se nulla temi, invan sue forze spende
     In te l’asprezza de’ tiranni feri;
     Ma chi pave o desía, fa la catena,
     Poste giù l’armi, ch’a’ suoi danni il mena.

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PROSA QUARTA.

Intendi tu, disse ella, queste cose? sentileti tu scorrere al cuore, e fermare nell’animo? o pure sei, come dicono i Greci per proverbio, quale è l’asino al suono della lira? Che piangi tu? di che versi tu tante lagrime? Confessami i tuoi mali, e non gli mi celare. Se tu vuoi che io ti possa guarire, bisogna che tu discuopri le piaghe tue, e porti il tuo male in palma di mano. Allora io, fatto rôcca del cuore: Hai tu bisogno, risposi, che ti siano detti i mali miei? non è egli assai conto per sè medesimo quanto mi sia la fortuna e crudele e avversa? non ti commuove punto il vedermi nel luogo dove tu mi vedi? Ora è questa la libreria, la quale tu medesima t’avevi nelle nostre case per certissima sedia scelta e eletta, nella quale sedendo spesse volte con esso meco disputavi della scienza delle cose così umane, come divine? Parti che io avessi tale abito e così fatta cera, quando insieme con teco andava i segreti investigando della natura? quando tu coll’astrolabio il corso delle stelle mi dimostravi? quando i costumi e tutta la mia vita ad esempio formavi e similitudine dell’ordine celestiale? Sono questi i premii e quei guiderdoni che noi per ubbidirti ne riportiamo? E pure tu stessa ne pronunziasti per la bocca di Platone, e confermasti questa sentenza: allora finalmente dovere le repubbliche essere felici, quando o coloro che sono filosofi fossero posti al governo delle repubbliche, o quegli che le governano si dessero agli studii della filosofia: tu per la bocca del medesimo n’avverasti esser necessario [p. 15 modifica]necessario che gli uomini savii pigliassero la cura del governare le repubbliche, acciocchè i governi d’esse, lasciati in mano degli uomini rei e scelerati, non arrecassero danno e distruzione a’ buoni. Io dunque seguendo questa autorità, la quale aveva da te tra li miei studii e segreti riposi apparata, cercai di metterla in opera, e mi diedi alla amministrazione delle cose pubbliche. Tu, e quello Dio che t’infuse nelle menti degli uomimi saggi, sapete come io, e mi potete essere testimonii, che non pigliai magistrato alcuno ad altro fine mai, se non per giovare comunemente a tutti gli uomini buoni; e quinci avvenne che io sempre a combattere ebbi gravissimamente con li rei, e sempre, come fa chi ha la coscienza e l’animo libero, non curai, per difendere la ragione, offendere i grandi. Quante volte mi feci io incontra e m’opposi a Conigasto, che si voleva imperiosamente occupare, e ingiustamente, la roba di chiunque poco poteva? quante volte abbattei io Triguilla, maestro di casa del re, e lo rimossi da quelle ingiurie che egli aveva di già non pur cominciate, ma fatte? quante volte difesi io, mettendo a ripentaglio e gravissimo rischio l’autorità mia, i poveretti, cui l’avarizia de’ barbari, mai non punita, con infinite e infinite calogne molestava? Niuno potè mai dal giusto ritrarmi all’ingiusto: chè le facoltà degli uomini delle provincie sottoposte al romano imperio fossero e con private rapine e con pubblici tributi afflitte ed oppresse, ne presi quel dispiacere medesimo, che quegli stessi che ciò pativano. Essendosi al tempo d’una grandissima fame e carestía [p. 16 modifica]posto un dazio gravissimo ed inestricabile a tutta la Campagna, chiamata oggi Terra di Lavoro, il quale era senza dubbio alcuno per impoverire e rovinare quella provincia, io, solamente per lo bene pubblico, ne presi la difesa contra il capitano della guardia del palazzo, che l’aveva posto; ed in presenza del re, che n’era giudice, la contesi con esso lui, ed ottenni che ella riscuotere non si dovesse. Io medesimo cavai di bocca a coloro, i quali lo si volevano mangiare, Paulino uomo nobile, e che era stato Consolo, le cui ricchezze già si avevano colla speranza ed ingordigia loro inghiottite e trangugiate i cagnotti della corte. Io, perchè Albino, uomo medesimamente consolare, accusato iniquissimamente, non fosse malvagiamente condannato, non mi curai d’incorrere nell’odio e malivoglienza di Cipriano, suo falso accusatore. Or non ti pare egli che io mi sia concitato contra nimistà assai potenti ed assai crudeli? Ma io doveva bene appo gli altri essere sicuro, posciachè non mi era per zelo della giustizia appresso i cortegiani del palazzo riserbato favore nessuno; e questi stessi sono quelli che mi hanno falsamente accusato, uno de’ quali, cioè Basilio, rimosso già dalli servigii del re, è stato costretto a pigliare l’accusa contro noi dal debito grande che egli ha. Opilione e Godenzo, essendo stati dal re per le molte e diverse frodi e ribalderíe loro sbanditi, e non volendo ubbidire, si difendevano collo starsi in franchigia per le chiese; la qual cosa risaputo il re, fece bandire che sa eglino fra tanti dì non si fossero da Ravenna partiti, dovessero prima essere suggellati, e [p. 17 modifica]poi scacciati, e mandati in esiglio. A questa giustizia e severità non par che si possa aggiugnere cosa alcuna; ma sta pure a udire. Questo medesimo giorno, accusandoci costoro medesimi, fu ricevuta l’accusa nostra. Che dunque diremo? meritarono questo l’arti nostre ed i nostri studii? o pure fece loro giusti e competenti accusatori l’essere stati essi condannati prima? È possibile che la fortuna non si vergognasse? Se l’essere stato accusato un uomo innocente non le arrecava vergogna, dovea pure arrecargliele ch’egli fosse da persone tanto vili, e così abbiette e scelerate, stato accusato. E se tu mi dimandassi qual sia brevemente la somma di quel peccato, del quale sono incolpato, dicono me aver voluto il senato essere salvo: se cerchi ora in che modo, m’appongono che io ritenni una spia, e fui cagione che non rivelasse al re la congiura fatta da lui contra la persona sua per ricoverare la libertà. Che debbo far dunque, o maestra mia? che mi consigli? Debbo io negare cotal colpa per non farti vergogna? Ma come posso io ciò fare, che volli sempre che il senato fosse salvo, nè mai lascierò di volere? Confesseremo dunque questo che è vero, e negheremo quello che è falso, d’aver ritenuto e impedito l’accusatore? chiamerò io mai sceleratezza l’aver desiderato la salute di cotale ordine? Meritava bene egli per li partiti e deliberazioni contra me fatte che io altramente stimassi di lui; ma non può l’imprudenza degli uomini, che dicono le bugíe a sè stessi, e credonlesi ancora contra sè medesimi, fare che quello il quale è buono e lodevole di sua [p. 18 modifica]propria natura, non sia lodevole e buono: nè giudico che a me sia lecito, secondo che Socrate sentenziò, nè nascondere la verità negando quello che è vero, nè concedere la menzogna confessando quello che è falso. Ma di questo mi rimetto al giudizio tuo e degli uomini sapienti; e perchè i posteri nostri, e tutti coloro i quali verranno dopo noi, sappiano l’ordine e la verità di questo fatto, m’è piaciuto di scriverla, e alla memoria delle lettere raccomandarla. Nè mi pare da ragionare di quelle lettere, le quali falsamente dicono me avere scritto sperando di dover ritornare in libertà Roma; perciocchè se m’avessero conceduto, come dovevano, avendo ciò in tutte le cause forza grandissima, lo stare alla ripruova cogli accusatori miei, la frode e inganno loro si sarebbe manifestamente conosciuto: perciocchè quale altra libertà si può più sperare oggimai? Volesse Dio che alcuna sperare se ne potesse! io avrei risposto come fece Cannio, il quale dicendogli Caio Cesare, figliuolo di Germanico, come era consapevole d’una congiura fattagli contra: Se io, disse, l’avessi saputa io, tu non l’avresti saputa tu. Nè credere però che la malinconía in questo mio caso m’abbia tanto ingrossato la mente e sì traviato dal diritto conoscimento, che io mi lamenti che gli uomini empii e scelerati abbiano cose empie e scelerate contra la virtù macchinato. Ma bene mi meraviglio grandemente che l’abbiano ad effetto mandate, come speravano: conciosiachè il desiderare male può procedere dal difetto nostro; ma che ogni ribaldo possa alle cose, che s’ha conceputo di volere operare contra uno innocente, [p. 19 modifica]dar compimento, veggendo ciò Dio, è cosa quasi mostruosa e non naturale, nè ragionevole. Laonde non senza ragione fece già uno dei tuoi famigliari questa dimanda: Se egli è il vero che Dio sia, onde procedono i mali? e se egli non è, i beni da chi vengono? Ma ponghiamo che gli uomini scelerati, i quali desiderano il sangue di tutti i buoni e la ruina di tutto il senato, avessero cagione di voler ruinare e levarsi dinanzi anco me, lo quale vedevano sempre la difesa de’ buoni e del senato pigliare: dovevano però ancora i senatori cercare questo medesimo? Tu ti ricordi, penso io, perciocchè mai non diceva nulla, nè faceva, che tu non vi fossi presente, e mi dèssi la norma; tu ti ricordi, dico, quando il re in Verona, disideroso della ruina comune, s’ingegnava di trasportare quel peccato, il quale era stato apposto ad Albino solo, d’avere offeso la maestà sua, e porlo addosso a tutto l’ordine senatorio, come se ne fosse stato conscio e colpevole tutto il senato, quanto io, non curando nè pericolo alcuno, nè danno che avvenire di ciò mi potesse, difesi liberamente l’innocenza di tutti quanti. Sai ancora che queste cose, le quali dico, sono vere, e che io mai vantato non me ne sono: perciocchè ogni volta che alcuno, facendo la mostra delle opere buone da lui fatte, e quasi bandendole, ne riceve la fama per guiderdone, egli viene a scemare in un certo modo il pregio e la propia virtù della buona coscienza, la quale si gode fra sè stessa segretamente, contentandosi di sè medesima, senza curare che altri o sappia o appruovi le lodi sue. Ma quello che di ciò sia avvenuto [p. 20 modifica]alla nostra innocenza, tu te ’l vedi, posciachè in vece di ricevere i premii della vera virtù, sosteniamo le pene del peccato falso. Qual fu mai sì grande scelerità e sì manifestamente confessata, la quale avesse i giudici tanto concordevolmente severi tutti, che alcuno di loro non piegasse in qualche parte; rendesse pietoso o la fragilità dell’ingegno e natura umana inchinevole ad ogni errore, o la condizione e incertezza della fortuna de’ mortali, non sapendo nessuno quello che a lui stesso o debba o possa avvenire? Se io avessi empiamente voluto ardere i tempii sacri, se sceleratamente scannare i preti, se ammazzare crudelmente tutti i buoni, non perciò avrebbero nè sentenziarmi potuto, nè punirmi ragionevolmente, se prima non m’avessero citato, poi udito, e finalmente convinto; dove ora, essendo io lontano quasi cinquecento miglia, sono, senza essermi potuto difendere, stato bandito e condannato alla morte dal senato per lo avere io favorito sempre quell’ordine e desiderato la sua salvezza. Oh uomini degni veramente che niuno possa mai più essere per l’innanzi di simile colpa convinto, la cui grandezza e dignità conobbero ancora quegli che di lei m’accusarono, onde per offuscarla col mischiamento di alcuna scelerità mentirono che io aveva per cupidigia di grandezza bruttato la coscienza mia, sacrificando a’ dimonii! E pure è vero che tu, standomi nel petto sempre, scacciavi del mezzo del mio animo ogni desiderio di mortal cosa; per non dir nulla, che sotto gli occhi tuoi non era nè lecito nè possibile che si commettesse sacrilegio così grande, non passando mai [p. 21 modifica]giorno alcuno, che tu non istillassi nelle orecchie e pensier miei quella sentenza di Pittagora: a uno, e non a più; cioè non doversi sacrificare se non a un Dio solo: nè era convenevole che io andassi gli ajuti di sì vili spiriti mendicando, avendo te, la quale a tanta eccellenza m’innalzavi, che mi facevi somigliantissimo a Dio: oltrachè i segreti luoghi della mia casa, dove innocentemente colla mia donna viveva, e la moltitudine di tanti amici e così da bene, e di più Simmaco mio suocero, uomo egualmente d’entro santo e di fuori reverendo, mi liberano da ogni sospetto di cotale sceleratezza. Ma, oh ribalderia! essi prendono fede di tanto peccato, e credono questo di me per cagione tua, pensando che io, essendo informato de’ tuoi costumi e ammaestrato nelle tue discipline, non debba essere lontano da così fatto malifizio. Onde non basta che la riverenza, che ti si dovrebbe avere, non mi abbia giovato cosa nessuna, ma tu ancora sei spontaneamente con esso meco e per mia cagione infamata e maledetta. A questi miei mali se ne aggiugne un altro, che gli uomini per lo più non istimano le cose secondo il valore e merito loro, ma secondo il successo e avvenimento della ventura, e solo quelle giudicano essere state ben fatte e con prudenza, le quali sono riuscite felicemente; e di qui nasce, che la prima cosa che abbandoni coloro i quali caggiono in miseria, è la riputazione. Io non posso ricordarmi senza rincrescimento e fastidio grande quali debbano ora essere i cicalamenti del popolo sopra i fatti miei, quanti e quanto diversi e discordanti i pareri. Questo [p. 22 modifica]solo voglio aver detto, che la più grave soma che sostengano gli sbattuti e afflitti dalla fortuna, è che i peccati, che sono loro apposti, sono creduti veri, ed essi soffrirne meritamente le pene. E così io, cacciato di tutti i beni, spogliato di tutte le dignità, perduta ogni reputazione, anzi macchiato di sozza infamia, porto tormento d’aver bene operato. Parmi di vedere le empie sette e ragunate degli uomini scelerati tutte liete e festanti, e qualunque ribaldo essere a nuove frodi e false accuse presto e intento; tutti i buoni sbattuti e sbigottiti, per tema che a loro non avvenga quello che a me è avvenuto, starsi taciti e mesti; ogni vituperoso essere commosso e invitato ad osare di far male dal non esserne castigato, e al farlo dall’esserne guiderdonato; agli innocenti mancare non solamente chi gli assicuri, ma chi gli difenda; per lo che mi piace di sclamare allo Dio del cielo in questa maniera:


LE QUINTE RIME.

Superno Re, che ’l ciel tutto e la terra
     Nel principio creasti, e poscia sempre
     In alta assiso e sempiterna sede,
     Quanto il più ampio giro abbraccia e serra
     5Con veloce rotar volvi e contempre,
     E fai che nulla in ciel sua legge eccede,
     Ond’or tutta si vede
     Lucente e piena al frate suo rivolta
     Coprir la luna le stelle minori,
     10Or pallidetta fuori
     Uscir d’oscuro velo il corno avvolta,
     E sempre, quanto al sol più presso luce,
     Più perder non la sua, ma l’altrui luce:

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E Venere, che là verso la sera
     15Nelle brune contrade d’Occidente
     Chiara e gelata sopra Ibero appare,
     Muta l’usato corso, e quel, dove era,
     Loco lasciato, bianca in Orïente
     Dïana suolsi innanzi al sol mostrare:
     20Tu, quando usa sfrondare
     La bruma i boschi al più stridente algore,
     Tarde le notti e i dì veloci fai;
     Poi, quando i caldi rai
     Fendon la terra, i dì lunghi, ma l’ore
     25Della notte brevissime sen vanno:
     Varia la tua virtute, e tempra l’anno.
Onde, quanto il soffiar di Borea toglie,
     Tanto Zefiro poi benigno rende;
     E quelle che, girando Arturo in cima,
     30Vide semenze senza fiori e foglie,
     L’ardente sol lïon biade alte incende:
     Nulla sua legge antica, chi ben stima,
     Lascia, nè l’opra prima;
     Tutto con certo fin governi e reggi;
     35Sol la mente dell’uom frenar non vuoi,
     Sol gli atti e i pensier suoi
     Con dovuta misura non correggi.
     Che, se questo non fosse, or donde avria
     Tanto poder fortuna o buona o ria?
40A costei perseguire i miglior piace
     Con quella pena ch’a’ più rei conviensi.
     Quinci è che iniquitate in alto regna,
     E giustizia nel fondo afflitta giace;
     Virtute a vile, in pregio il vizio tiensi;
     45La menzogna si cerca, il ver si sdegna;
     D’ogni vile opra indegna
     Soffrono i giusti per gl’iniqui pena;
     Nè portano ai malvagi o tema o danni

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     Frode, spergiuri e inganni:
     50Ma quando fosca torna di serena,
     Quei, che regi innalzò falsi e protervi,
     Metter s’allegra in basso e fargli servi.
O, qualunque tu sii, Signor gentile,
     Ch’allenti e strigni delle cose il freno,
     55Volgi alla terra omai gli occhi pietoso:
     Noi, che d’opra sì grande la più vile
     Parte non siamo, in questo largo e pieno
     Di fortuna crudel mar tempestoso
     N’andiam fuor di riposo,
     60Senza toccar mai fondo o veder sponde,
     Notte e dì preda alle procelle e scherno.
     Frena, Rettor superno,
     Deh frena omai così terribil’onde,
     E quella che nel ciel sì giusta regge,
     65Anco il mondo governi eterna legge.


PROSA QUINTA.

Poscia che io con dolore continovo ebbi più tosto abbajato che detto queste cose, ella con piacevole viso, e niente per li miei lamenti alteratasi, disse: Quando io ti vidi così mesto, e pieno di lagrime, m’accorsi incontanente che tu eri afflitto e sbandito; ma quanto fosse questo tuo esiglio lontano non sapeva io già, se le tue parole manifestato non l’avessero. Ma tu, avvengadiochè sii lontano dalla patria, non per tanto ne sei stato scacciato, ma ti sei smarrito da te; e, se pur vuoi che si creda te esserne stato scacciato, tu stesso te n’hai scacciato, perciocchè altri che tu non avrebbe di te potuto ciò fare. Conciosiacosachè, se ti vorrai ricordare di qual patria tu sii nato, [p. 25 modifica]conoscerai che ella non si regge a popolo, come faceva già quella degli Ateniesi, ma è governata da un signore solo, da un re solo, da un principe solo; e questi non piglia piacere di cacciare i suoi cittadini, ma d’averne molti e tenergli uniti; e in somma è tale, che l’essere corretto dal freno di lui, e ubbidire alla sua giustizia, è la maggiore libertà che si possa desiderare. Or non sai tu quella antichissima legge della tua città, per la quale si disponeva che chiunque volesse fondarvi la sua abitazione non potesse mai esserne sbandito? Perciocchè chi si contiene dentro dello steccato e riparo di lei può star sicuro che mai non ne sarà fuoruscito. Ma chiunque fornisce di volerla abitare, fornisce anco di meritarla. Per la qual cosa me non commuove tanto la faccia e oscura vista di questo luogo, quanto la tua; e non ricerco tanto i muri della tua librería, ornati d’avorio e di vetro, quanto la sedia della tua mente, nella quale io già non i libri, ma quello, per che i libri sono stimati, cioè le loro sentenze, posi e locai. E per certo tu dei benefizii fatti a utilità comune hai detto il vero, ma poco rispetto al numero delle cose egregiamente fatte da te. Della verità e falsità delle cose opposteti hai raccontato quello che è noto a ciascheduno. Delle frodi e felloníe degli accusatori hai fatto bene a passartene di leggiero, toccandole così succintamente, perchè di vero elle stanno meglio nella bocca del volgo, che le racconta tutte ampiamente, non lasciandone passare pure una sola. Hai ripreso ancora e punto gagliardamente l’iniquo fatto del senato contra te: ti sei eziandío doluto [p. 26 modifica]del mio biasimo; hai pianto la tua perduta riputazione: finalmente t’infiammasti contra la fortuna, sgridando e dolendoti che i premii non si rendevano eguali a’ meriti; e nell’ultima parte de’ tuoi adirati e sdegnosi versi pregasti Dio che quella pace, che regge il cielo, governasse ancora il mondo. Ma, perciocchè tu sei pieno d’affetti e di passioni, e il dolore, l’ira e la maninconía ti tirano in diverse parti, non possono ancora, essendo quale tu sei, i forti e possenti rimedii appressartisi; però useremo alquanto i più dolci, a fine che quelle parti, le quali mediante le tue perturbazioni sono divenute bitorzoli, toccandosi piacevolmente s’addolciscano un poco, e si mollifichino tanto, che possano ricevere medicamenti più gagliardi.


LE SESTE RIME.

Quando la grave stella
     Del Cancro ardente bolle,
     Chi sparge il seme in questa parte e ’n quella,
     È veramente folle:
     5Onde la fame tolle,
     Fatto saggio a suo danno d’ora in ora,
     Con quelle antiche ghiande,
     Le quai fuggendo tutto ’l mondo onora.
Chi vuol purpurei fiori
     10Coglier, rose e vïole,
     Onde sè stesso o i sacri altari onori,
     Entrar già mai non sole
     Nel brolio allor che ’l sole
     Ne sta lontano, e la rabbia superba
     15Del feroce Aquilone
     Ne spoglia i colli e le campagne d’erba.

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Ben è colui non sano,
     E di sè stesso fore,
     Che cerca stringer dalle viti in vano
     20Prima il frutto che ’l fiore;
     Chi vuol l’almo liquore,
     Per cui parte tristezza, e speme riede,
     Nol cerchi a primavera,
     Chè Bacco solo all’autunno il diede.
25I tempi e le stagioni
     Segnò tutte e partío,
     Dando a ciascun sue proprie condizioni
     E don suo proprio, Dio;
     Nè vuol ch’uom buono o rio
     30Mutar ciò vaglia: onde chi cerca brine
     La state, o fiori al gielo,
     Non ha mai lieto avvenimento e fine.


PROSA SESTA E ULTIMA.

La prima cosa, datti egli il cuore sofferire che io con alcune dimande tocchi un poco e tenti lo stato e disposizione della mente tua, a fine che io possa conoscere il modo col quale ti debba medicare e guarire? E io: Dimandami, le dissi, chè io sono per risponderti. Ed ella: Pensi tu, soggiunse allora, che questo mondo si regga temerariamente e a caso? o pure credi che in lui si truovi ragione alcuna e reggimento che lo governi? Io per me, dissi, non crederò in modo alcuno mai che cose tanto certe si muovano da fortunevole temerità; ma so che Dio, il quale lo fece, è soprastante della sua opera, e la regge egli e governa, nè mai verrà giorno alcuno, che mi divella dalla verità di cotale opinione. Così è, [p. 28 modifica]rispose ella, come tu di’; perchè anche dianzi cantasti nelle tue rime il medesimo, e ti rammaricasti che gli uomini solamente fossero privati e senza parte alcuna della cura di Dio, e nell’altre cose non ti dolesti di ciò; e per certo io non posso non maravigliarmi grandissimamente come, avendo tu così salutevole opinione, ti ritruovi malato: ma cerchiamo un poco più addentro e con maggiore diligenza, perchè m’avviso ti debba mancare un non so che. Ma dimmi: poichè tu non dubiti che il mondo sia retto da Dio, conosci tu con che timoni e governamenti egli lo regga? A pena intendo io, risposi, quello che tu voglia dire, non che possa rispondere a quanto dimandi. Ve’ che non m’ingannava, rispose ella, avvisando che ti mancasse alcuna cosa, per la quale, non altramente che per lo fesso o apertura d’alcun legno d’uno steccato, ti sia nascosamente entrato nell’anima la malattía delle perturbazioni della mente. Ma dimmi un poco: ricorditi tu qual sia il fine delle cose, e dove intenda tutto l’intendimento della natura? Io l’udii già, dissi; ma la malinconia m’ha ingrossata la memoria, e fatto quasi balordo. Per certo, disse ella, tu sai pure onde siano procedute tutte le cose. Sollo, dissi, e risposi che procedevano da Dio. E come può essere, disse ella, che, sapendo tu il principio delle cose, non sappi ancora qual sia il fine? ma questo è il costume delle perturbazioni, le quali possono bene colle forze loro muovere un uomo, ma sbarbarlo affatto e diradicarlo non possono. Ma io vorrei che tu mi rispondessi anco a questo, se tu ti ricordi d’essere uomo. [p. 29 modifica]Perchè vuoi tu, risposi, che io non me ne ricordi? Sapraimi tu dunque dire, soggiunse ella, che cosa uomo sia? Dimandimi tu, diss’io, se io so d’essere animale razionale mortale? io lo so questo, e confesso d’essere tale. Ed ella: Non sai tu d’essere null’altro? Nulla, le rispondo. Già so, disse, un’altra cagione del tuo male, e gravissima. Tu hai sdimenticato quello che tu sii; onde io ho a pieno trovato e qual sia l’infermità tua, e il modo da renderti la sanità; perciocchè l’esserti tu sdimenticato di te medesimo t’ha fatto rammaricare d’essere sbandito e spogliato de’ proprii beni, e il non sapere tu qual sia il fine delle cose fa che tu pensi che gli uomini niquitosi e nefarii siano possenti e felici; e il non ti ricordare con quali timoni si governi il mondo è cagione che tu stimi che queste vicende e scambiamenti della fortuna barcollino a caso e ondeggino senza avere chi le regga; cagioni tutte e tre grandi e possenti non solo a farti ammalare, ma perire. Ma rendiamo grazie al Datore d’ogni sanità, che la natura non t’abbia ancora abbandonato del tutto: noi avemo onde farti un buono rimedio, che ti gioverà grandemente, poichè tu credi, come è il vero, che il mondo non sia governato dal caso e dalla sorte, ma dalla ragione e provvidenza di Dio. Non aver dunque paura di nulla: di qui a poco di questa menomissima scintilluzza ti s’accenderà tutto il calor naturale. Ma, perciocchè non è ancora tempo d’usare medicine possenti, e la natura della mente dell’uomo è senza alcun dubbio di questa sorta, che ella non si spoglia mai le opinioni vere, che ella non si [p. 30 modifica]vesta le false, dalle quali nasce quella caligine che confonde e offusca la sua vera vista, m’ingegnerò dunque la prima cosa d’assottigliare alquanto questa cotale caligine e abbagliamento con rimedii leggieri e lenitivi, a fine che, rimosse le tenebre degli affetti e delle fallaci perturbazioni, possa lo splendore della vera luce riconoscere.


LE SETTIME E ULTIME RIME.

Quando le stelle ardenti
     Nube atra oscura e cuopre,
     Luna nè sol non scuopre
     4Agli occhi nostri i suoi raggi lucenti.
Se piovoso Ostro pieno
     D’ira rivolge l’onde,
     L’acque pria chiare e monde,
     8Quasi bel vetro o puro dì sereno,
Poichè l’arena mista
     Vien fango, e ’l mar l’assorbe,
     Sozze tornate e torbe,
     12Tolgono altrui di sè la dolce vista.
Rio che di pioggia o vena
     Scende dai monti, spesso
     Da duro incontro oppresso,
     16Che d’alta rupe cadde, il corso frena.
Or tu, se brami il vero
     Scorger chiaro ed aperto;
     Se ’l cammin dritto ed erto
     20Salir, lasciato il tôrto e chin sentiero;
Scaccia lungi il piacere,
     Lungi scaccia il timore;
     Speme mai nè dolore
     24Non t’innalzi o t’avvalli oltra il dovere.

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Mente che serva giace
     A tanto empii signori,
     Notte o dì, dentro o fuori,
     28Non ha tranquilla mai riposo o pace.



FINE DEL LIBRO PRIMO.