Faust/Parte prima/Studio (II)
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Traduzione dal tedesco di Giovita Scalvini, Giuseppe Gazzino (1835-1857)
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STUDIO.
FAUSTO e MEFISTOFELE.
Fausto. Picchiasi? Avanti! chi viene ora a darmi nuova noia?
Mefistofele. Son io.
Fausto. Avanti!
Mefistofele. Tu devi dirlo tre volte.
Fausto. Orsù, avanti!
Mefistofele. Così mi piaci; e noi ce la intenderemo insieme, spero. E già, per cacciarti del capo le fantasticaggini, eccomi a te razzimato come un gentiluomo; con un giubbone di scarlatto listato d’oro, un mantello di rigida seta, la penna del gallo in sul cappello e un aguzzo spadone al fianco; e, senza più, ti consiglio che tu faccia il medesimo, e svincolato e fuori d’impaccio, esca meco a sperimentare la dolce vita.
Fausto. In qualsivoglia veste io proverò le noie e l’angustia di questo viver mortale. Son troppo vecchio per attendere solo a’ piaceri, e troppo giovane perchè tacciano in me tutti i desiderii. E che potrà darmi il mondo? «Tu te ne asterrai! Tu ne farai senza!» Quest’ė l’eterna canzone che introna gli orecchi di tutti i mortali, stridevolmente ricantataci a tutte l’ore di tutti i dì della vita. Io mi desto con terrore il mattino, e provo una triste voglia di piangere veggendo apparire il giorno, il quale nel suo corso non adempierà nessuno de’ miei desiderii, non uno! Anzi mi scemerà con capricciose sofisticherie insino al presentimento del piacere, e con le mille sue sconce necessità spegnerà nel mio vigile petto ogni virtù di creare. E quando cade la notte, ecco io devo tornare tristo e miserabile al mio covile; ed ivi pare nessun riposo mi sarà conceduto, e fieri sogni mi spaventeranno. Il dio che abita nel mio petto ben può profondamente agitare le segrete mie viscere; egli signoreggia tutte le mie potenze, ma egli è impotentissimo a nulla muovere che sia fuori di me; e però io incresco a me stesso; la morte mi è desiderabile e odiosa la vita.
Mefistofele. E tuttavia la morte non è sempre la benvenuta come taluno dice.
Fausto. Beato quegli al quale ella cinge le tempie di lauri sanguinosi nel giubilo della vittoria; quegli ch’ella sopisce fra le braccia di una fanciulla dopo i volubili tripudi della danza. Oh, si avvolgesse por una volta intorno a me il grande Spirito, e cadessi inebbriato ed esanime dinanzi al suo fulgore!
Mefistofele. E tuttavia fu un tale una tal notte, che non seppe mandar giủ certa negra bevanda.
Fausto. Pare che tu ti diletti dello spionare.
Mefistofele. Io non sono onnisciente, ma so assai cose.
Fausto. Poichè una soave consueta armonia mi ha svelto a’ miei crudeli proponimenti, e col senso di giorni più lieti ha deluso in me quel poco che ancora mi avanza della mia giovinezza, io quindi maledico tutte le cose che allacciano l’anima con blandimenti menzogne, e accecandola e adulandola la allettano a durare in questo tristo fondo di miseria! E primieramente sia maladetto il gran pregio nel quale la nostra mente tiene sè medesima! Maladetti gl’inganni dell’apparenza che mai non cessano di sopraffare il nostro intelletto. Maladetto tutto ciò che si maschera di bontà per indurre in noi riverenza; — ciò che ne par bello e santo, — i sogni fallaci del nome e il vento della gloria! Maladetto quanto ne par soave di possedere, donna e figliuolo, servo ed aratro! Maladetto Mammone, che con tesori ne stimola a falli temerari, o ne adagia per pigre voluttà su morbidi letti! Maladetto il balsamo dei grappoli! Maladetti i favori supremi dell’amore! Maladetta la speranza! maladetta la fede! e, sopra ogni cosa, maladetta la pazienza!
Coro di spiriti invisibili.
Ahi! ahi! con vïolento
Braccio tu l’hai sovverso
Il bel mondo; ei si squarcia, ei si dissolve!
Un semideo l’ha in polve, —
Chè tanto un uomo non potea — converso.
E noi la brulla
Ruina sua giù per le morte strade
Travolgiamo del Nulla;
Noi lamentiam lo spento
Fulgor di sua beltade.
O tu, che i lassi
Mortali tutti di possanza passi,
Ricomponi il bel mondo;
Nel tuo capace seno
Lo ricompon più bello e più giocondo.
E con sereno
Animo al raggio
Di più benigna stella
Ricomincia il vïaggio
D’una vita novella;
Novelli canti noi
Verrem spargendo sui vestigi tuoi.
Mefistofele. Questi sono i miei piccini. Giovani d’anni, ma di sapienza maturi, odili allettarti a un vivere operoso e festevole; a uscire nell’ampio mondo, fuori di questa solitudine dove i sensi intorpidiscono e il sangue ristagna.
Cessa di goderti nella tua tristizia, la quale, simile a un avvoltoio, si pasce delle tue viscere. Fossi tu anche nel consorzio dei pessimi, tu sentiresti pur sempre che sei uomo fra uomini. Mi si vuol già dire con ciò che tu abbi a rimescolarti con la ciurmaglia. Io non mi annovero fra’ grandi, ma se tu vuoi accompagnarli a me, e meco muovere i tuoi passi nel cammino della vita, io son lieto di acconciarmi teco immantinente; io mi ti fo compagno, o, se l’hai in miglior grado, mi ti fo servitore, mi ti fo schiavo.
Fausto. E che dovrò far io in iscambio per te?
Mefistofele. Quanto a ciò, non ti si vorrà far fretta.
Fausto. No, no; il diavolo è un interessato, non suol già fare leggermente l’utile altrui per l’amore di Dio. Di’ su netto e chiaro le condizioni, chè non è senza pericolo il tirarsi in casa un simil servo.
Mefistofele. Odi: io mi obbligo qui a’ tuoi servigi; sarò a tutte l’ore al piacer tuo senza un riposo al mondo; e allorchè ci rivedremo di là, tu me ne ricambierai col far meco il medesimo.
Fausto. Il di là non mi dà gran noia. Quando tu abbi mandato a rovina questo mondo, venga por l’altro a sua posta. Da questa terra scaturiscono le mie gioie, e questo Sole illumina i miei dolori; e dove io pur giunga a svilupparmi da essi, avvenga allora che vuole e che può. Orsù, non più di questo. Poco mi cale se anche altrove l’uomo ami ed odii, e se vi abbia pure in altre sfere uno insú e uno ingiù.
Mefistofele. Poichè sei in sì buona tempera, tu puoi fare questa prova. Légati a me, e vedrai con che arti io li saprò far belli i giorni presenti. Io ti riserbo cose da nessun mortale nè vedute nè sognate giammai.
Fausto. E che puoi tu darmi, tu, povero diavolo? seppe mai un tuo pari comprendere l’uomo e gli alti intendimenti dell’anima sua? Tu mi darai cibi che non saziano, fulvo oro che mi discorre dalle mani come liquido mercurio; un giuoco al quale non si vince mai; una fanciulla che al mio fianco fa d’occhio al vicino e gli si promette: mi darai la fama che splende di celeste lume e si dilegua come meteora! — Ma su, porgi di cotesti tuoi tesori, — frutti che marciscono prima che sieno colti; alberi che rinnovano e perdono ogni giorno le foglie.
Mefistofele. Io son ricco di simil sorta di beni; nè mi sgomenta l’incarico di procacciarteli; ma verrà tempo ancora, mio buon amico, che noi ci staremo oziosamente a godere di cose che non ti parranno ingannevoli.
Fausto. Oh se avvenga mai che io mi corichi neghittoso nelle morbidezze, sia allora a un tratto la mia fine; se tu puoi tanto aggirarmi e ammaliarmi ch’io mi piaccia di me medesimo, se sai trovare dolcezze che mi facciano inganno, io voglio allora chiudere subitamente i miei giorni. Orsů, io scommetto teco.
Mefistofele. Vada!
Fausto. Pon su la mano! E s’io dirò mai al fuggevole istante: «Oh, tu se’ bello! dura, tu sei sì bello!» allora tu mi cingerai di catene; allora io inabisserò teco volentieri; allora la campana suoni a morte; allora tu sei sciolto di ogni tua servitù: non più il Sole misuri il giorno per me; il tempo sia consumato.
Mefistofele. Pensaci bene, perchè noi l’avremo in memoria.
Fausto. E sarà ragione. Non credere ch’io abbia troppo presunto di me, nè parlato spensieratamente. Poichè è mio destino ch’io sia schiavo; che fa a me se tuo o d’altri?
Mefistofele. Or bene, festeggisi oggi un sì bell’accordo, e, come tuo, io ti servirò di mia mano alla mensa. Ma, di grazia, un sol motto! — Dalla vita alla morte, non vorrestu farmi una coppia di righe?
Fausto. Pedante! tu richiedi anche uno scritto? Hai tu a conoscere ora l’uomo e il valore della sua parola? Non ti è abbastanza ch’io abbia con la mia volontariamente disposto dei giorni miei per i secoli dei secoli? Anche uno scritto! — Non travolge il mondo tutte le cose nelle sue voraci correnti? Ed io sarò tenuto in ceppi da una promessa? E, o lasso! questa vanità governa nondimeno tutte le menti: e chi si attenterebbe di sottrarvisi? Felice chi custodisce la fede nel mondo suo cuore; egli non avrà mai a dolersi di alcun sagrificio! Ma una pergamena scritta e suggellata è uno spettro dinanzi al quale non è chi non raccapricci; la parola va a morire nella penna, e cera e cuoio signoreggiano. Che vuoi anima infernale? vuoi bronzo, vuoi marmo, vuoi pergamena, vuoi carta? scriverò con lo stilo, con lo scalpello, con la penna? scegli qual più ti piace.
Mefistofele. Come puoi tu dare in simili escandescenze? e che fa al fatto nostro si gran profluvio di parole? Basta un fogliuzzo qual che egli sia, e ti soscrivi con una goccioletta di sangue.
Fausto. Poichè t’ha a contentare, sarà soddisfatto anche a questo capriccio.
Mefistofele. Il sangue è un socchio di virtù singolare.
Fausto. Via, non temere ch’io ti disdica mai quello che li ho promesso; però ch’io non ho patteggiato teco se non ciò appunto che fu sempre il termine de’ miei smoderati desiderii. Io mi son levato in tanta superbia, che oramai son salto uno della tua schiera. Più alti spiriti mi hanno sdegnato; la natura si è chiusa dinanzi a me: il filo del pensiero è lacero, e da gran lempo ho a schifo ogni scienza. Saziamo le nostre ardenti passioni nel golfo delle sensualità; e l’inferno prepari i portenti che sa con le arcane sue arti operare; buttiamoci dove più incalza la corrente del tempo; voliamo con la ruota della fortuna; e dolore e piacere, conseguimento e sazietà si avvicendino, quanto sanno, senza riposo. L’uomo non dimostra la sua natura fuorchè in un perpetuo affaccendarsi.
Mefistofele. Nè a voi è posto termine alcuno. Piacciavi assaporare un po’ di tutto: pigliatevi al volo quel che vi si para innanzi, che è l’arte perchè faccia buon pro. Sol vuolsi uscire di timidezza e avere le mani pronte.
Fausto. Ben sai ch’io non miro già a darmi buon tempo. Io voglio l’ebbrezza, — la vertigine; voglio le voluttà che generano tormento; l’odio che germoglia dall’amore; gl’impedimenti che ne dànno alacritå. Il mio petto, guarito oramai della febbre della scienza, dee stare aperto a tutti gli affanni. Voglio nel mio profondo sperimentare io solo quanto è ripartito fra tutti i viventi; abbracciare con la mente quanto vi è d’infimo e di sommo nell’umanità; godere di tutti i suoi beni, patire tutti i suoi mali; tanto distendermi da comprenderla tutta in me; farmi essa, in somma, e con essa finalmente naufragare.
Mefistofele. Oh, credi a me, che ho per più migliaia d’anni rimasticato questo duro cibo, credi a me, che nessun mortale dalla culla al feretro seppe mai digerire tal vecchio lievito. Abbi fede in uno di noi; questa ampiezza di vita, questo tutto che tu vuoi per te, non si appartiene che a Dio: egli si spazia nell’inestinguibile luce, noi ha sommersi nelle tenebre, e, quanto a voi, umana semenza, a voi si confà il giorno alternato con la notte.
Fausto. Tant’è, io voglio.
Mefistofele. E questo è bello a udire. Se non che sorge un dubbio a darmi noia: il tempo è breve, l’arte è lunga. Or odimi: vuoi tu prendere il mio consiglio? Cèrcati un poeta il quale con vagabonda fantasia accumuli sul tuo onorato cucuzzolo tutte le più mirabili doti; il coraggio del lione, la velocità del cervo, il bollente animo degl’Italiani e la longanimità de’ Settentrionali. Egli vorrà studiare il segreto, acciocchè tu sii ad un tempo magnanimo ed astuto; e l’innamori coll’improvvido ardore della gioventù, e ti disnamori a tua voglia. E anch’io co noscerei volentieri un tanto personaggio, e gli porrei nome ser Microcosmo.
Fausto. E che sono io dunque, se non ho mai da poter contentare quel mio lungo, affannosissimo desiderio di essere, come a dire, la somma e la corona di ogni creatura?
Mefistofele. Tu sei alla fin fine — quello che sei. Pónti in capo una parrucca con millantamila ricci, e a’ piedi degli zoccoli alli tre gran palmi, e tu rimarrai pur sempre quello che sei.
Fausto. Ahi, ben m’avveggio che indarno ho sperato di tesoreggiare in me tutte le eccellenze dell’umana natura: allorchè stanco io desisto dalle mie ambizioni, sento che non mi è nato dentro nessun novello vigore; io non sono ingrandito di un capello, nè più prossimo di un nonnulla all’infinito.
Mefistofele. Mio buon signore, voi vedete le cose come si sogliono ordinariamente vedere da tutt’uomo: ma a noi tocca di usare miglior senno prima che la dolce vita ne s’involi. Chi ha arte, ha parte. Che diavolo! mani e piedi e capo e t... certamente son tuoi; ma ogni cosa di cui io sappia lietamente godere non è forse mia? Se io ho tanto da noleggiare sei cavalli, le forze loro non sono per avventura mie? Io vado a corsa con essi, e sono un valent’uomo, giusto come se avessi ventiquattro gambe io medesimo. Animo adunque: spiana quel tuo grave sopracciglio, ed esci meco diritto nel mondo. Io tel dico; un semplice che dàssi alla contemplazione somiglia a una bestia che un cattivo spirito costringe a volgersi in giro sopra una riarsa campagna, mentre d’ogni intorno si stendono verdi e fertili praterie.
Fausto. Che vogliam dunque fare?
Mefistofele. Uscir tosto di qui; dare le spalle a questa orribile segreta. Puoi tu dire che tu viva, standoti ad annoiare te e i tapini che ti ascoltano? Lascia simil fastidio a messer Pancia che sta lì in sul canto. Perchè vorrestu affannarti a trebbiare la paglia? Pensa che tu non osi pur dire a’ ragazzi quel che meglio ti par di sapere. — Ne odo appunto uno nel corridoio.
Fausto. Non mi è possibile accorto.
Mefistofele. Il povero fanciullo ha aspettato un buon pezzo, e non si vuol rimandarlo così sconsolato. Alto, dammi la tua zimarra e il tuo berretto. — Io debbo stare pur bene immascherato da dottore. (Si traveste.)
Fidati a me che ho senno. Me ne spaccio in un quarticello d’ora; e tu intanto mettiti ad ordine per la nostra gustosa scorribanda. (Fausto esce.)
Mefistofele nella lunga roba di Fausto. Va, disprezza la ragione e la scienza, splendidissime fra tutte le doti dell’uomo. Lásciati pigliare agli allettevoli prestigi dello spirito di menzogna, e tu sei irremissibilmente mio. Costui ha sortito una mente che va sempre innanzi irrefrenabile, e nell’impetuosa sua foga trascorre le gioie consentite a’ mortali. Io me lo trascinerò dietro per gli sterili andirivieni della vita, e non lo pascerò mai d’altro che di scipitezze. Egli ricalcitrerà, sbalordirà, s’invescherà vie più; e cibi e bevande, ch’io terrò sospesi dinanzi all’avida sua bocca, deluderanno mai sempre l’uomo insaziabile. Indarno egli pregherà per refrigerio; e ancorchè non si fosse già dato al Nimico, egli dovrebbe in ogni modo andare a perdizione.
Uno SCOLARO entra.
Lo Scolaro. Io son giunto or ora in città, e vengo con la debita riverenza per udire e conoscere un uomo del quale è sparsa si onorevol fama nel mondo.
Mefistofele. La vostra cortesia mi rallegra nell’animo. Voi vedete in me un uomo simile a tanti altri. Siete già stato a studio altrove?
Lo Scolaro. Deh, voglia ella darmi avviamento, la ne prego. Ho la migliore volontà del mondo; una sommetta di danari, e vivezza di gioventù. Mia madre era tutta accorata di vedermi partire; ond’io vorrei, ora che son fuori, fare alcun profitto ne’ buoni studi.
Mefistofele. E qui siete appunto in luogo da ciò.
Lo Scolaro. Eppure, se ho a dire il vero, io avrei giả voglia di andarmene; ch’io non so s’io potrei mai assuefarmi a queste mura e a quest’atrii. È un sito stretto e senz’aria, di dove non si vede nè un albero nè un fuscello d’erba; e nelle sale, su per le panche, io in vero istupidisco, e non odo, non veggo, non intendo più nulla.
Mefistofele. Tutto nasce da abitudine. Così da principio il fantolino abbocca mal volentieri il seno della madre, ma poi vi corre ingordamente, nè sa spiccarsene; e tale avverrà a voi inverso le mammelle della sapienza, che ogni dì le appelirete con maggior desiderio.
Lo Scolaro. Oh, io mi sospenderò deliziosamente al suo collo. Sol piacciale additarmi la via ond’io arrivi ad essa.
Mefistofele. Prima che veniamo ad altro, ditemi che facoltà vi siete scelta.
Lo Scolaro. Che so io? io vorrei essere ben addottrinato in ogni cosa: abbracciare l’umano e il divino, la scienza e la natura.
Mefistofele. E qui siete appunto sul buon cammino. Se non che abbiate cura di non divagarvi troppo.
Lo Scolaro. Io non riguarderò a fatiche di alcuna sorta; ma io vorrei pur anche godere alcun poco di libertà, e rallentare alquanto lo spirito ne’ bei dì delle feste la state.
Mefistofele. Figliuolo, fale buon uso del tempo, che, oimė, fugge sì rapido. Nondimeno chi ha ordine ha tempo; e perciò io vi consiglio innanzi tutto lo studio della logica. Per esso vi sarà ben addirizzato l’intelletto. Lo vi si allaccerà in un paio di stivali alla spagnuola, affinchè vada guardingo e pian piano per la via maestra del pensiero, e non a zonzo qua e là, e per lungo e per traverso al modo de’ fuochi fatui. Di poi bisognerà spendere parecchi giorni in insegnarvi che quegli atti che a voi par di compiere in un sol tratto, con quella naturalezza onde si mangia e si bee, uno! due! tre! sono in ogni modo necessari. E veramente la fabbrica del pensiero somiglia al telaio di un tessitore, dove è da vedersi che una sola spinta del piè fa muovere mille fila; la spola guizza di su e di giú, gli stami invisibilmente s’intessono, e si generano infiniti collegamenti alla volta. Or ecco farsi innanzi il filosofo a dimostrarvi che dee appunto esser così; che poichè il primo è stato così, e il secondo così, il terzo ancora e il quarto ebbero ad esser così; e dove il primo e il secondo non fossero, del pari non sarebbero mai nè il terzo nè il quarto: voi intendete. Gli scolari d’ogni paese tengono gran conto di sì falle argomentazioni, ma niuno è ancora riuscito tesserandolo. Chi vuol conoscere e descrivere alcuna cosa vivente si studia in primo luogo di metterne fuori l’anima; allora egli tiene in mano ad una ad una le parti, e, oh lasso lui! non gli manca se non il nodo vitale. Quest’è ciò che la chimica chiama encheiresis naturæ, e si beffa di sè medesima, e non sa come.
Lo Scolaro. Io non ho afferrato bene.
Mefistofele. Tutto vi riuscirà più chiaro, quando abbiate ben appreso a fare le riduzioni e classificazioni convenevoli.
Lo Scolaro. Io sono sì stordito da quanto ella mi dice, che mi par come di sentirmi girare nella testa una ruota di mulino.
Mefistofele. Appresso vi converrà darvi immantinente alla metafisica. Per essa verrete alla piena cognizione di cose che non capiranno mai in cervello umano. Se non che, e per ciò che vi cape, e ciò che non vi cape, avrete sempre in pronto un parolone. Non perdete d’occhio che in questo primo semestre vi bisogna stare sottilmente sulle regole. Avrete cinque lezioni il dì, e al tocco della campana sederete al banco. Inoltre preparatevi prima ben bene di quello che avete ad udire. Studiate di per voi il manuale a casa, acciò veggiate che nulla s’insegna in iscuola che non si legga in esso; e nondimeno scrivete a furia come foste sotto il dettame dello Spirito Santo.
Lo Scolaro. Non fa bisogno ch’ella me lo raccomandi molto, chè ben penso quanto debba riuscir profittevole. Chi ha messo il nero in sul bianco può andarsene a casa sicuro come una rocca.
Mefistofele. Ma su, sceglietevi una Facoltà.
Lo Scolaro. Io non saprei accomodarmi alla giurisprudenza.
Mefistofele. Nè io saprei darvene gran biasimo, ch’io so il nuovo e il vecchio di questa scienza. Le leggi, simili a un’incurabile pestilenza, si dilatano tacitamente di terra in terra, e si continuano di generazione in generazione; la ragione si trasforma in insensatezza, e il beneficio in tormento. Guai a te, perocchè discendi da chi fu prima di te! Della legge nata con noi, di quella, ahi miseri! non è mai fatto parola.
Lo Scolaro. Il suo dire raddoppia la mia avversione. Felice colui ch’ella fa degno de’ suoi ammaestramenti. Quasi quasi io torrei a studiare teologia.
Mefistofele. Io non vorrei esservi cagione di errore; chè in sì fatto studio bisogna gran cautela per non torcersi per male vie; ed è sì tutto sparso d’insidie, e sì sottile è il veleno che nasconde, che a gran pena si può discernerlo dal buon nutrimento. A ogni modo anche in teologia date ascolto a un sol maestro, e giurate rigidamente nelle sue parole. In generale, figliuolo, tenetevi alle parole, e senza alcun fallo entrerete per la porta maestra nel santuario della certezza.
Lo Scolaro. Nondimeno nelle parole dee trovarsi un concetto, per quanto io mi so.
Mefistofele. S’intende! ma non bisogna troppo angustiarsene; perchè appunto dove manca il concetto, le parole tornano bellamente in acconcio. Per via di parole si disputa alla distesa; con parole si edifica un sistema; le parole sono principal fondamento della fede; e una parola non patisce che le sia levato un iota.
Lo Scolaro. Mi scusi se la tengo a disagio, ma è di un favore ancora mi bisogna pregarla. Non vorrebb’ella dirmi una breve parola anche della medicina? tre anni sono sì tosto passati, e il campo è si vaslo, Dio mio! Ma talvolta un sol cenno del dito all’entrata della via, basta a farnela trovar tutta da noi.
Mefistofele da sè. Io sono oramai infastidito di quest’arido fraseggiare, ed è meglio ch’io torni a me, e faccia apertamente da diavolo.
(Alto.) Facil cosa è penetrare all’essenza della medicina. Voi studierete piccioli e grandi, per lasciar andare in ultimo ogni cosa come a Dio piace. Indarno vi affannereste per far tesoro di scienza: ciascuno impara quel poco ch’ei puo; ma quegli è valente che sa porre le mani sull’occasione, nè tardi piange la sua sciocchezza. Voi siete basievolmente ben piantato, nė vi mancherà ardire, credo; e sol che confidiate in voi stesso, ogni anima si confiderà in voi. Imparate specialmente a ben maneggiare le donne; quei loro eterni «ahi! ohimè!» esalati in tanti modi diversi, si vogliono curare tutti di un modo solo; e purchè sappiate mezzanamente parer galantuomo, le terrete tutte nel carniere. Vi bisognerà avere un titolo a farle persuase che l’arte vostra è la migliore d’ogni arte, e di primo tratto saranno lecite a voi tutte quelle cosucce che ad altri costano anni ed anni di preghiere e di lusinghe. Sappiate toccar loro il polsicino con bel garbo; indi con occhiale tra il tenero e il maliziato, avvolgete il braccio intorno al loro agile fianco, come per vedere se fossero troppo stringate.
Lo Scolaro. Questo mi entra meglio; e vede netto il che e il perchè.
Mefistofele. Fratello, ogni teorica è sterile, ma lieto e florido l’albero della vita.
Lo Scolaro. Io le giuro che mi par di sognare. Potrei io venire un’altra volta a sturbarla, per meglio imbevermi delle sue dottrine?
Mefistofele. Dove io valgo e posso, non sarò mai per mancarvi.
Lo Scolaro. Io non saprei andarmene, se prima non le ponessi innanzi il mio libro de’ ricordi. Mi conceda un grazioso segno della sua benevolenza.
Mefistofele. Con tutto ’l cuore. (Scrive, e rende il libro.)
Lo Scolaro legge. Eritis sicut Deus, scientes bonum et malum. (Egli chiude rispettosamente il libro e s’accomiata.)
Mefistofele. Segui solo l’antico detto di mio avolo il Serpente, e verrà giorno che il tuo voler somigliare a Dio non ti angoscerà poco.
FAUSTO entra.
Fausto. Dove vassi ora?
Mefistofele. Dove li aggrada. Visiteremo prima il piccolo mondo, indi il gran mondo. O, quanto ha a riuscirti delizioso questo folleggiare in qua e in là!
Fausto. Oimè! con la mia lunga barba, io non ho nè destrezza nè arte del vivere. Vedrai che mi andrà ogni cosa al rovescio. Io non seppi mai accomodarmi al mondo, e nell’altrui presenza mi sento così da poco, ch’io sarò continuamente intricato.
Mefistofele. Mio buon amico, non li dare fastidio di ciò, chè tutto acquisterai coll’uso degli uomini. Fa di avere fiducia in te, e tosto avrai l’arte del vivere.
Fausto. Or bene, come ci mettiam noi in cammino? Hai tu carrozza e cavalli? hai tu servitori?
Mefistofele. Non abbiamo che a spiegare questo mantello, e ci porterà rapidi per l’aria. Nè tu pensi già in tale rischioso volo prender teco gran fardelli. Un pocolino d’aria infiammabile, ch’io ora preparerò, ne solleverà tosto da terra, e purchè siamo leggieri, andremo velocemente all’insù. Mi congratulo teco del bello e lieto vivere che ti si apparecchia.