I Cairoli delle Marche - La famiglia Cattabeni/Appendice II
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II
Giunto il Garibaldi a Napoli nel trionfale giorno 7 settembre 1860, suo primo compito dovea essere quello di ritardare le annessioni, ad effetto di potere compiere l’unità, non arrestandosi che a Roma — secondo — espugnare le fortezze di Capua e Gaeta, concentrando il proprio esercito sulla sinistra del Volturno. In quella vece, temendosi a Torino che, d’intelligenza col Mazzini, si meditasse proclamare a Napoli la repubblica, dovette il Dittatore, pochi giorni dopo il suo arrivo, recarsi a Palermo, ove le brighe Cavuriane per l’annessione immediata dell’isola non cessavano di farsi moleste.
Prima di partire avea egli affidato al Turr le sue schiere, con raccomandazione di limitarsi a lanciare piccole bande di volontari sulle comunicazioni del nemico. Il Turr consigliato dal Rustow a tentare l’occupazione di Caiazzo, ed invaghitosene, mentre studiava di far passare alcune schiere sulla destra del Volturno dovette inviare il Battaglione Cattabeni a Marcianise, per esservisi manifestato un moto di reazione borbonica.
Partito il battaglione da Napoli nella notte dal 13 al 14 settembre, quando giunse a Marcianise, la ciurmaglia, che avea cominciato a porre a sacco il paese, si die’ a fuggire; tuttavia i più feroci, presi con le armi alla mano, immediatimente giudicati da straordinario giurì militare vennero fucilati. Attendeva il Turr il ritorno del Maggiore Cattabeni per lanciare i cacciatori bolognesi all’assalto di Caiazzo; e nella mattina del i8 settembre, tosto che il battaglione giunse a Caserta, ordinò al Cattabeni di partire allora allora, e avventurarsi all’arditissima impresa.
In sul meriggio di quello stesso giorno i8 si desinò lietamente in una sala del palazzo reale, in cui conveniva la più eletta uffizialità garibaldina; e finita la mensa, il Maggiore Cattabeni, secondo gli ordini ricevuti moveva col battaglione per Maddaloni, e di là continuando nella notte la marcia giungeva nelle prime ore del 19 a Limatola. Era noto ai militi del battaglione doversi oltrepassare il Volturno; essere quel fiume prossimo ai casolari di Limatola; trovarvisi i Regii alla guardia del guido e doversi poi assalire ed occupare Caiazzo, ben presidiato di numerosa milizia Regia.
I tugurii della piccola borgata, denominata Limatola, erano oscuri e serrati; e quei poveri villici, lontani da ogni sospetto, giacevano tutti assonnati nel notturno silenzio della pace loro. Prima di oltrepassare quella borgata era necessario sapere ove si stessero accampati i Regi alla guardia dei guadi, e per quale via si potesse giungere al fiume nascostamente. Per averne contezza il Comandante si die’ a battere a tutta sua possanza sulla porta d’un casolare, che per primo gli venne a mano. Da quell’improvviso strepito riscosso un povero pescatore, che vi abitava, rispose fra le grida della sua donna e i pianti dei bimbi suoi; e nel sospingere l’usciolo della sua casa, afferrato subito dai militi, venne e con minaccie con lusinga di premio obbligato a menarli al Volturno e primo guadarlo. Il povero vecchio, affidandosi alla forza del destino, lasciata in desolazione la casa, s’incamminò attraverso i cespugli d’una sponda boschiva tracciandone la via al drappello. Giovanbattista seguiva con me la guida, ed il Battaglione seguiva noi diffilato.
Già cominciava ad albeggiare. Ognuno di noi tenendosi all’erta, s’appressava cauto e silenzioso al fiume, per non renderne accorte le sentinelle nemiche; e mentre dal folto prunaio, che rivestiva quella piaggia, si poteva scorgere il corso del fiume, largo sì, ma limpido e lento, pure, per quanto l’occhio potesse a parte a parte affissarsi sulle ripe, non si scorgevano sentinelle a guardia dei guadi. La guida giu: dicava scarso d’acqua in quella mattina il Volturno — facile il guadarlo — abbandonato dai Regì quel posto — ed in quel momento franco da ogni resistenza.
Tali favorevolissime circostanze consigliavano gettarsi subito in acqua, sebbene affaticati e sudati, a fine di raggiungere l’altra sponda prima di essere sorpresi dal nemico.
Primo a rompere il guado s’avanzò accanto alla guida il Comandante — io dietro a lui — e l’uno appresso dell’altro tutta la lunga fila passò tranquillamente le acque del Volturno, che giungevano alla cintola; e le guadò nel passo denominato Scafa di Caiazzo — passo, che prima dello scoppiar della guerra, attraversavasi a mezzo di largo battello, chiamato nella Campania scafa, ed in altre regioni d’Italia Porto e Traghetto.
In quel medesimo passo i Francesi, regnando il loro Luigi XII, avevano pur guadato il Volturno, provenienti dal Garigliano, allorchè per togliere il regno a Federico re di Napoli, accostatisi a Capua difesa da Fabrizio Colonna, la batterono obbligandola a capitolare nell’anno 1501.
Il Battaglione dei Cacciatori bolognesi, raggiunta l’altra sponda — rimandata con largo compenso la guida — messosi in ordinanza di battaglia con piccolo distaccamento di avanguardia e dietro guardia, si diresse alle alture di Caiazzo.
Se dalla magica villa di Caserta, muovendo verso Caiazzo, vogliasi seguire il muro di cinta del parco reale, si giunge a quel ridente pendìo, sul quale, a guisa di pecore pascenti, stanno sparse le biancheggianti case e la pittoresca chiesa di San Leucio.
Attraversando la boscaglia aspra e selvaggia, chiamata Gradillo, ove inchina più bassa, si discende al Volturno; alla opposta riva sorge Caiazzo sullo scoscendimento di uno di quei poggi dei quali è formata quella pittoresca costiera. Dista da Capua otto miglia. Il nome suo alterato dalla pronunzia è quello dell’antica Calatia, rammentata nelle istorie delle guerre Sannite e dopo essere stato durante l’impero romano Municipio fu poi retto col titolo di Marchesato e per prima la signoreggiò con tale titolo la fiorentina famiglia dei Corsi.
Salendo il drappello garibaldino il ripido sentiero di quella costa sentivasi il rimbombo cupo delle artiglierie tuonare per tutta quella contrada.
Capua era stata in quel momento attaccata dalla colonna garibaldina comandata dal Riistow, come se si volesse in realtà assaltarla e conquistarla.
Tutti i battaglioni Regi che guadavano il passaggio dell’alto Volturno, e le milizie che presidiavano Caiazzo accorrevano alla difesa di Capua. Dieci mila Regi gettavansi contro la colonna del Rüstow schiacciandola sotto un diluvio di proiettili. In quello stesso tempo il Cattabeni, dopo aver tranquillamente guadato il Volturno, andava a stabilirsi sulle alture di Caiazzo. I Bavaresi dalle mura di Capua, e dal campo trincerato tiravano sui battaglioni scoperti senza colpo sbagliare.
Quel combattimento durò sei ore; e cento volontari caddero feriti e morti, tra i quali estinto il valoroso colonnello Puppi di Siena.
I Cacciatori di Bologna, avvicinandosi a Caiazzo, saputo, da un forese incontrato per via, che i Regi lo avessero da poco tempo abbandonato, si affrettarono ancor più a raggiungerne la vetta, sembrando loro, che occupata la città, niun combattimento sarebbe avvenuto; e la notizia data dal forese era vera; che se così non fosse stato i Regi avrebbero potuto sterminarci dalla ripida costa boscosa, sovrastante l’angusto sentiero, non solo a fucilate, ma pur con pietre e ciottoli, come già si provarono di fare i paesani in prossimità delle prime case; tuttavia il Battaglione fece arditamente il suo ingresso a squillo di trombe, senza vedere, ed essere veduto da alcuno, per essere tutte le vie deserte, le finestre e gli usci delle case tutti serrati, come se fossero abitazioni di morti.
Primo combattimento nel giorno 19 Settembre.
Accampatosi tutto il drappello in una piazza vi fece i fasci d’armi; e dopo essere state collocate a giusta distanza dal paese le sentinelle di vedetta furono con l’aiuto d’un popolano, il solo del paese che avea fatto mostra di sè, procurate le vettovaglie, consistenti in un approvigionamento di pane, vino e lardo; e mentre gli ufficiali si disponevano attorno ad una tavola su cui era stata posata una vivanda d’uovi rusticamente apparecchiata, ripetuti colpi di fucile tratti dalle nostre sentinelle esploratrici davano il segnale d’attacco.
Tutti, afferrate in un istante le armi, correvano fuori dell’abitato incontro ai Regi, che s’avanzavano con vivissimo fuoco di fucilata.
La battaglia s’ingaggiava presso la casa Manetti sulla strada che mena da Caiazzo a Capua. L’uffiziale porta bandiera Argenti cadde ferito per primo. La bandiera venne raccolta dall’uffiziale Natale Lanari d’Ancona.
Da un colle d’ulivi tiravano i Regi con molto loro vantaggio sui nostri. Giambattista Cattabeni, atterrato l’uscio di una abitazione vi ascende e da un balcone che prospetta il colle degli ulivi, facendo da solo un fuoco micidiale sui Borbonici mostra ai suoi Cacciatori come debba adoperarsi con vantaggio il fucile. Egli sparava almeno tre volte prima che un soldato nemico avesse sparato una volta sola.
A quell’esempio una gran moltitudine di volontari s’era affollata nella casa da cui si combatteva e dall’ampia sua terrazza a centinaia partivano i colpi. Alcuni, raccoltisi attorno al loro Comandante, caricando le armi con una celerità meravigliosa glie le porgevano, ed egli continuando a prendere dall’uno e dall’altro le armi cariche, spararle, e restituirle perchè fossero tosto ricaricate, proseguì, senza mai restarsi, a fare disperatamente fuoco dal balcone; tuttavia se il reggimento napolitane non s’avanzava, neppure però retrocedeva; e già scarseggiando ai Cacciatori Bolognesi, dopo due ore di fuoco le munizioni, il Comandante Cattabeni invitò i più coraggiosi a seguirlo sul colle.
Primo a collocarsi in posizione fu il sergente Matteo Manzi di Savignano, e formatosi intorno a Giovambattista un gruppo di diecisette più animosi e più fedeli a lui, movemmo a gran passo sul colle ed i combattenti assaliti a petto a petto si ritrassero in fuga.
Tale fu il vantaggio del 19 settembre primo giorno d’arrivo nostro a Caiazzo, e che pur segnò la data storica di quattro contemporanei avvenimenti — la dimostrazione d’attacco a Capua — l’occupazione di Caiazzo e il primo combattimento di difesa — la capitolazione di Loreto — il sangue di S. Gennaro consultato a favore d’Italia, come oracolo dell’indovino, più saggio di tutti i veggenti, sulle cose che erano e sarebbero per essere.
Il miracolo in tre minuti operatosi, fece risuonare il tempio d’acclamazioni, di grida devote ed entusiasmi per Garibaldi, quantunque i mestatori mormorassero ai lazzaroni, doversi interpetrare il miracolo, che il Re sarebbe ritornato a Napoli.
Fatto compire il portentoso effetto, e tratto a favore l’auspicio popolaresco, Garibaldi, che fino dal giorno precedente era ritornato da Palermo, se ne partiva in quella stessa mattina del 19 per Caserta.
Grande era stata l’allegrezza degli animosi giovani, per essere riusciti a porre in fuga il reggimento della milizia borbonica, provatosi a rientrare in Caiazzo. Alcuni, dopo aver discacciato i Regi, scendendo poi giù per l’opposta costa del superato uliveto, rinvenuti alcuni borbonici ricovratisi in un campestre casolare, e fattili prigionieri, trassero avanti il Comandante i miseri fuggitivi, che tremanti di paura non avevano più potere di proferire parola; ma egli dicendo loro: che tutti gl’Italiani, amandosi come fratelli, dovevano tutti affratellarsi d’uno stesso amore per l’Italia, li mandò a rifocillarsi rassicurati e contenti.
Una vedetta nostra giaceva morta al posto assegnatogli, colpita da una palla, dopo aver dato il segnale d’allarme. Lo sfortunato volontario era nato a Roma, avea nome Angelo, e non ne ho più a mente il cognome.
Distesi al suolo giacevano morti sul colle degli ulivi alcuni Regi. M’avvicinai a ciascuno di loro. Avevano tutti la bocca annerita dal ripetuto strappo delle cartuccie, con le quali avevano caricato e fatto fuoco. Uno di essi era agonizzante, e bruciato dall’arsura, alla scoperta degli accesi raggi del sole, che dalla sua sommità maggiore piombavali sul morente. Volò il pensiero mio alla povera madre, e per sentimento di pietà volli appressare alle sue labbra una fiala d’acqua; il sitibondo ai primi sorsi morì. Destino avverso alla patria nostra, che i fratelli dovessero uccidere i fratelli!…
Preparativi di difesa.
Rientrati in Caiazzo non ci assonnammo sugli allori della vittoria, non levammo il cuore in orgogliosa baldanza, ma scevri di ogni illusione ponderammo a parte a parte tutta la difficoltà della nostra situazione.
L’essere stata quella importantissima posizione occupata da noi in forza di uno stratagemma ci aveva fin dal primo momento posto in guardia d’un qualche sollecito assalto; e l’attacco sostenuto pochi istanti dopo il nostro arrivo, sia che fosse stato attacco ordinato ai Regi per semplice ricognizione, o per vero tentativo, faceva prevedere l’imminenza di altro più forte assalto.
Nè si poteva aspettare qualche favorevole aiuto dalla città, che nel rimanere da più ore deserta, come se da veruno fosse stata mai abitata, e col restare abbandonata alla discrezione della fortuna, porgeva bastante indizio dello sgomento, che affrenava i desiderii della eletta cittadinanza, e della estrema avversione della plebaglia alla nazionale bandiera; e non era più da dubitarsi della più sinistra nimistà di quelle genti e dei mali intendimenti loro dopo il rinvenimento di alcuni poveri compagni uccisi barbaramente a colpi di accette e randelli dalla ciurmaglia selvaggia del paese, e dopo che venne trovato il deforme cadavere dell’infelice giovanetto Manservisi di Bologna, sorpreso da solo, trascinato in luogo nascosto e sottoposto allo strazio di obbrobriosi oltraggi e inauditi martirii.
Il bisogno di potentissimo soccorso rendendosi urgente fu inviato al campo di Garibaldi l’uffiziale Lanari con lettera chiedente rinforzo e scorta di munizioni; e frattanto asserragliate da me le vie — praticate feritoie in alcune case più esposte all’assalto — accresciuto il numero delle scolte — giunta la notte, ci adagiammo tutti presso le barricate con le armi alla mano.
Allo sparire delle stelle il nuovo giorno apparve fresco, sereno e ridente. Tosto ognuno si diede all’opera con volonterosa attività per accrescere le difese, in quel modo che riusciva possibile il farlo.
Ben meritevole di ogni più nobile titolo e maggioranza rendevasi il Battaglione Cattabeni, composto di giovani volontari, che lasciati gli agi domestici per offrire la propria vita alla patria, sopportavano intrepidi ogni più aspro disagio, per arricchire di bella e sicura pace la cara Italia sotto gli auspici di chi prendeva a difenderla.
La gara vittoriosa del giorno precedente, l’esempio dei più valorosi e le narrative delle azioni particolari guerresche fatte dall’uno all’altro ne avevano accresciuto l’ardimento. Al ritorno del tenente Lanari vi si aggiunse l’assicurazione dell’essere la colonna Vocchieri già in marcia per Caiazzo con buona scorta di munizioni a rinforzo del presidio.
Il temporale.
Prima che il sole tramontasse, grosse nubi annunziavano l’approssimarsi d’impetuosa procella; e poco dopo l’arrivo della milizia di rinforzo, fra un orrendo fragore e un interrotto folgorar di lampi traboccava dalle nuvole un impetuoso diluvio d’acqua, in guisa da non scamparne; e continuando il cielo a mantenersr chiuso d’oscurissime e gravide nuvole, e dirottissima continuando la pioggia, giunta l’ora d’attraversare il colle degli ulivi per andare a cambio delle sentinelle in vedetta, ad ogni fugace chiarore di lampo apparivano i poveri morti giacenti colle braccia distese o abbandonate, il contraffatto viso, le labbra di bava ridondanti, e tutto velocemente tornando nella più buia oscurità, restava scolpita sol quella tetra sembianza dei cadaveri nella mal disposta mente d’ognuno.
Sentinella di guardia agl' avamposti.
Per chi nella quiete notturna sta in vedetta a guardia del nemico il silenzio disanima, come turba il più tenue romore; e se il restare solitario alla guardia del posto affidato richiede un atto di virtù superiore a quello d’affrontare il più vivo fuoco di fucilata, in una notte buia e ruinosa, come quella che imperversò a Caiazzo nelle tenebrose ore del 20 settembre, la commozione si converte in spaventevole mutamento ed il sentimento solo del dovere può far sostenere la tempestosa battaglia del cuore.
Tornando dagl’avamposti mi sentivo inzuppato fino alle più intime parti. Un gruppo di volontari, trovato riparo entro un murato aveva appiccato fuoco ad un fascio di legna secche, e dopo avere a quella fiamma asciugati i miei panni, riescii in compagnia del capitano Barlocci d’Ancona a trovare ricovero entro un casamento lasciato in abbandono da gente fuggiasca; e trovativi lettucci da riposare, tabacco e pipe da fumare, parve a noi buona ventura trarne vantaggio e menarvi agiatamente un sonno.
Combattimento del 21 Settembre.
Al nuovo giorno, l’avventuroso e memorabile venerdì 21 settembre, apparve sereno, e tranquillo; l’aere sottile, trasparente e terso, il sole splendido e consolante come suole mostrarsi in autunno, dopo rovescio di dirottissime pioggie, tutta la campagna riposata e sorridente, e perfino gli uccelli su per i verdi rami cantando piacevoli versi ne davano l’ingannevole augurio dell’allegrezza.
Attorno alla barricata si stavano placidamente accampati a centinaia i militi del Battaglione Cattabeni e del drappello Vocchieri; quando tra la nona e decima ora parve a taluno vedere dal lato di Capua, lungo la via che si distende sulla pianura sottoposta a Caiazzo un lontano luccicare che dava sospetto dello avanzarsi di gente armata.
Il Comandante Cattabeni ed il Vocchieri dal luogo più elevato drizzano ben fiso lo sguardo a parte a parte. Essi ordinano alle trombe di suonare a raccolta. Grossa colonna di Regi s’avanzava a Caiazzo.
La piccola schiera dei difensori, che coi nuovi arrivati non contava più di novecento uomini, già tutta in armi si stava intenta e con l’animo sospeso, non essendo mai privo d’angustia e di sollecitudine lo attendere a pie’ fermo l’avanzarsi delle truppe nemiche ed il momento dell’affrontarvisi.
Dacché il Volturno fattosi grosso e rigoglioso, in conseguenza delle impetuose pioggie cadute nella notte precedente, ci separava dall’armata del Garibaldi, non potendo sperarsi altro soccorso, ivi bisognava pugnare da forti — e da forti quei valorosi giovani non fecero atto fino a che le sentinelle non diedero l’allarme.
La spada nuda del Maggiore Cattabeni agitata attraverso i raggi del sole pareva mandare — e mandò — vivissimi lampi di luce. Gli occhi di tutti erano rivolti a lui, sperando ognuno nel suo maraviglioso valore.
Al fischiar delle prime palle a centinaia, in un medesimo punto, s’incrociano i colpi di fucilata. Ad ogni scarica delle artiglierie le case tremavano, gli usci si scotevano, i cristalli delle finestre si stritolavano. Il fragore aumentava e col fragore la strage. I prodi giovani, scoperti dalla cintola in su, combattevano con eroica prodezza da quella barricata, che fu nella funesta giornata validissimo riparo; e quando i più sventurati cadevano percossi dalle fucilate, e dalla mitraglia, le lamentevoli grida loro ne facevano avvertiti i combattenti, ai quali il denso fumo toglieva la vista del danno.
La memoria delle imprese passate animava G. B. Cattabeni ad apparecchiarsi agli estremi conati. Egli aveva avuto la costanza di starsi in mezzo agli scoppi delle artiglierie, fra i vari e orribili aspetti della morte, fra tante cause di pietà e di furore aspettando che la fortuna gli parasse l’occasione d’un impetuosa destrezza.
Già da più d’un ora versavasi sangue, e molta angustia apportava un cannone impostato in mezzo alla via, di fronte alla barricata, ed il Maggiore Cattabeni vedendo cadere tanti suoi militi, e parendogli duro lo starsi fermo a tanto strazio, sollecita, mentre più infuria la pugna, gli animosi a lasciare la barricata ed avanzarsi ad assalto — ma anche i più audaci, sbigottiti dal danno che reca il fuoco nemico, vacillano.
Perfino il Manzi, che nel giorno 19 era stato così valoroso non s’attentava affrontare quel fuoco delle artiglierie, ed in quel momento d’irresoluzione cadde morto, colpito da una palla conficcataglisi in un occhio, e con lui altri ne morivano pure, mentre si affaticavano a concitare i combattenti agli estremi conati.
Episodio glorioso.
Lo sforzo disperato accadeva intorno alla battaglia.
Giovambattista Cattabeni, con la persona scoperta, sublime, nel momento di spingersi innanzi, pareva una statua di bronzo in mezzo alle palle che gli fischiavano attorno.
Attraversando un campo sottoposto alla via contrastata dai combattenti, correva come lo trasportava il furore, ad aggredire di fianco il micidiale cannone.
Il sottotenente Luigi Fabrini di Comacchio, il luogotenente Zaoli di Rimini, ed io che lo narro, lo seguimmo.
Dalla bassa campagna montammo su quella via per la quale il cannone gettava fiamme e morte.
Alla vista improvvisa di assalitori, gittantisi addosso con il più risoluto ardire, gli artiglieri, lasciato il pezzo, si dierono alla fuga e col fuggire spaventarono i vicini; e l’uno intimorendo l’altro, in un istante tutto quel grosso drappello di fanti si travolse in amarissima fuga.
Mentre già ci appressavamo all’affusto dell’abbandonato cannone, una scarica di mitraglia maestrevolmente diretta contro noi dalla vetta dell’olivoso colle, atterrò Giovambattista Cattabeni e Luigi Fabbrini.
Dopo lo scompiglio subitaneo fatto dallo spaventato drappello, i fuggenti, trattenuti dalla massa combattente, tornando più adirati al loro posto, ratti correvano a vendicarsi sui due feriti; ond’io visto il pericolo dell’inclito eroe, riuscii coll’aiuto del povero Fabbrini, pur esso ferito a trarre in salvo sino entro la barricata il mio Giovambattista.
La mitraglia avea all’uno e all’altro lacerato un braccio, per trovarsi l’uno a fianco dell’altro accostati, quando furono colpiti.
Il bisogno del soccorso, un poco per l’acerbità del dolore e molto per la perdita del sangue urgeva di più pel Maggiore; e trasportandolo sanguinante all’ambulanza, i suoi Cacciatori, alla vista del loro Comandante ferito, commossi e sconsolati gli si affollarono attorno; ed egli fissandoli con la magnanima arditezza sua, a forte voce esclamava loro — Viva l’Italia — ed essi, ripetendolo, più infervorati tornavano a combattere.
Il ritorno al combattimento.
Apprestate le più sollecite cure alla sua ferita, ripresa la spada, niuno potè trattenerlo dal tornare al combattimento.
La battaglia non piegava d’un palmo. Giungendo alla barricata col braccio involto di panni sanguigni, i pochi suoi Cacciatori superstiti riprendono maggiore lena.
Tutti avevano in quel giorno fatto amplissima testimonianza di onorata virtù; ma l’anima grande, l’eroe della gloriosa giornata era stato il Cattabeni d’inestimabile valore, avventandosi addosso ai nemici così disperatamente, che se fosse stato seguito da maggior numero dei suoi, si sarebbe forse potuto registrare una delle più meravigliose vittorie.
Le artiglierie fracassando quanto incontravano avevano diradato di volontari la barricata; e quando il fumo elevavasi dalla terra, giacenti in gran quantità si vedevano i poveri morti.
Oh! perchè non mi arride genio amico a richiamarmi alla memoria i nomi dei compagni miei, che vi perirono!
Incliti martiri tutti, ai quali ben sarebbe dovuto il suono della lode!
La presenza del prode Comandante essendo stimolo ad operare valorosamente, ognuno rispondeva ai più vigorosi assalti con più gagliarda resistenza. In mezzo a quella incessante grandine di palle, Giovambattista cadde nuovamente ferito ad una gamba. Sollevato da terra venne trasportato al palazzo vescovile.
La virtù dei nostri non poteva vincere così grande furore.
I garibaldini in numero di novecento avevano, saldi e inconcussi, tenuto testa a cinquemila borbonici, che animati dalla presenza dei Principi Reali, il Conte di Caserta ed il Conte di Trani, e dei generali di Stato maggiore, erano venuti con impeto orribilissimo ad investirli gagliardamente.
II combattimento durava già. da quattro ore; molta era stata la perdita della colonna nemica, ma maggiore quella della nostra schiera. Si disse che i volontari morti e feriti fossero quattrocento, ma nessuno li aveva contati.
Il fuoco andava dalla parte dèi nostri scemando per mancanza di difensori e munizioni.
La ritirata.
Il Vocchieri che suppliva il Comandante, riconosciuta l’impossibilità di continuare una difesa, che non conduceva a salvamento, ordinava di cessare il fuoco.
Il Bertoni, aiutante maggiore del Battaglione Cacciatori di Bologna, si recò all’ambulanza per prendere dal suo Comandante Cattabeni l’ordine della ritirata e condurlo in salvo.
L’anima grande di cotesto magnanimo pendeva contristata da qualche incertezza. Parve a me che il valoroso Giovambattista stanco e affievolito com’era, ferito al braccio ed impedito a camminare dallo altro colpo di palla ricevuto alla gamba, non avrebbe potuto resistere alla fatica d’una si precipitosa ritirata, quale rendevasi per le contrarie circostanze necessaria; che se poi i Regi avessero con la loro cavalleria inseguito la piccola schiera dei superstiti, (siccome avrebbero dovuto fare) e se alle truppe si fossero unite le bande dei feroci marrani, armati di accette e randelli, sarebbe stato difficilissimo il salvarlo — impossibile poi il fargli attraversare il Volturno in piena; e poiché sarebbe stata follia l’avventurarsi ad una impresa superiore alle proprie forze, e anche di conseguenza fatale al drappello, per i ritardi causati alla spedita ritirata loro, lo indussi a rimanersi cogli altri feriti nel palazzo vescovile in cui si trovavano ricoverati e giacenti; e col proposito di affrontare con lui una stessa sorte, anche io vi rimasi. —
Il drappello dei superstiti mosse silenzioso pel Volturno e abbandonò Caiazzo.
Il Vescovo di Caiazzo.
Narra lo Stroffolini nel suo opuscoletto, intitolato — Dopo xviv Anni — il i. ottobre mdccclxxix nella reggia di caserta — che Monsignor Riccio, Vescovo di Caiazzo, fosse stato l’unico dei Vescovi italiani, che nel concilio Vaticano rispondesse negando — Di questo io non so. — Quello che posso attestare si è, che niuno avrebbe potuto in quella contingenza fierissima mostrarsi più generoso e magnanimo di lui, che quantunque ostaggio nostro, e minacciato di essere da un momento all’altro tratto alla barricata quale statico, da impegnare i vincitori a concederci vantaggiosi patti di resa, tuttavia egli al vedere il Comandante ferito, se ne mostrò commosso da buon zelo di tenerezza; e tanto glie ne dolse il cuore, da volerlo non solo animare a fiducia con dolcissime parole, ma aggirandoglisi attorno, porgergli le fascie, consolarlo, e con meravigliosa carità adoperarsi in aiuto degli altri feriti con ristori, conforti, e con gli atti perfino i più benigni del viso, avendo per nulla lo andare incontro a tutti i rischi sovrastanti per procacciare opportuno scampo al suo prossimo.
Entrata dei Regi a Caiazzo.
Abbandonatosi dai Garibaldini il posto e partita la schiera dei sopravissuti, ognuno dei feriti incerto della sorte che lo attendeva, lacerò a consiglio del Vescovato, gli scritti che teneva presso sé, consegnò le armi e il denaro, consistente in una cinquantina di piastre d’argento.
Ogni strepito di guerra era cessato. Tutto il paese era tornato in profondo silenzio e nessuno s’avanzava o perchè la colonna non si fidasse, o perchè si volessero radunare e riordinare i reggimenti.
Eravamo in sull’attesa degli avvenimenti quando allo spigolo che fa cantone alla piazza e alla via, apparve prima lo sporgere d’una canna da fucile, poi il giaccò, e di seguito la testa d’un borbonico, che a carabina impostata avanzavasi in atteggiamento d’esplorare; e quantunque quella piazza fosse deserta, trasse un colpo alle invetriate del Vescovato da dove stavamo spiando.
Immantinenti la piazza diventò un campo d’armati accalcati e confusi. Da ogni punto partendo fucilate contro il palazzo in cui stavano ricovrati i feriti, un inserviente, per avviso avutone da Monsignore, legato un lenzuolo a lunga asta, tenendosi nascosto a raso della parete, lo sporse dalla finestra ed agitandola quale insegna di pace, lusingavasi d’abbonacciarli.
Non lo avesse mai fatto! — che all’apparire di quel segno, le palle fischiarono spesse sopra i nostri capi e picchiarono a furia sui nostri tetti.
Fulminando le palle per ogni verso e infuriando i soldati con minacciose grida, fra tanto pericolo e scompiglio, il Vescovo che si sforzava di confortarci con la promessa della sua assistenza svenne.
Grande fu la premura nostra per richiamarlo ai sentimenti ed a rendere maggiore la confusione in che eravamo avviluppati, apparirono (non saprei spiegarmi come e perchè) alcuni militi della Guardia nazionale di Napoli, chiedendo e supplicando salvezza.
I soldati intanto già erano penetrati nel palazzo. Riavutosi alcun poco il Vescovo, appena che gli smarriti sentimenti all’ufficio loro tornarono, presa una croce, si collocò quale baluardo avanti i feriti, di fronte alla porta che separava la stanza occupata da noi dalle altre già invase. I Regi atterrata la porta rovesciano la croce, travolgono il Vescovo e furibondi si slanciano sui feriti.
Un Cacciatore, del sesto reggimento Colonna, inferocito come una iena, gridando in linguaggio napoletano, che da sette mesi dormiva in terra, incalzando col moschetto appuntato di baionetta or l’uno, or l’altro avventava da tutte le parti, rabbiosamente colpi di punta per crudo scempio.
In quell’arduo frangente Giambattista Cattabeni, sia per calmare quel furente, sia per salvare i suoi fidi compagni, gli va incontro senza la minima titubanza ed affrontandone l’ira si prova di placarlo con modi, preghi e i più affettuosi argomenti di fratellanza. Quella belva selvaggia, allargando la fetida e bavosa bocca, che lo rendeva veramente ributtante, infuriando vieppiù con grida che facevano terrore, lanciavagli di tutta forza colpi di baionetta; ma per quanto badasse a colpirlo di punta non vi riusciva, schermendosene Giovambattista sempre maestrevolmente — e puntando colui bassa la testa, e incalzando più volte, fattosi già il prode Comandante parecchi passi indietro, giunto con le spalle al muro, ad altro colpo scagliatogli restò trafitto profondamente al ventre.
In quello stesso momento un magnanimo Alfiere d’animo elevato a nobili sensi, per nome Giovanni Afan de Rivera, adirato dall’iniquo procedere di quei soldati, entrava a spada nuda minacciandoli per la mancanza del dovuto rispetto ai feriti, e visto non essere possibile frenare tanto impeto ci sollecitava uscire con lui.
Giovambattista, pallido in volto come per morte, parve uomo che avesse ricevuto una percossa fortissima; ed a me che gli ero accanto, parve leggere la vicina morte di questo magnanimo.
In quella disastrosa contingenza due eletti spiriti d’Italia, ivi dovevano incontrarsi — il Generale Brigadiere Matteo Negri al servizio del Re Francesco II, ed il Maggiore Cattabeni promosso in quello stesso giorno a Colonnello da Garibaldi.
Il Negri era giovane e bello — intelligente e coraggioso — in grazia del Re Francesco — e carissimo ai liberali di Napoli — da tutto l’esercito tenuto in gran pregio.
Pochi invero della milizia borbonica sollevavansi alla sfera dei principi suoi, perciò, pochi erano i generosi, e dei pochi il primo.
Mentre seguivamo l’Alfiere Afan de Rivera che voleva trarci a salvamento, il Negri, venutoci incontro, strinse la invitta destra del Colonnello; e datogli braccio per aiutarlo a discendere le scale, non si potendo restare dal palesarsi, lo assicurò a bassa voce, trovarsi a braccio d’amico.
La sua presenza felice, la bellezza dello aspetto, le parole di refrigerio resero meno acerbo lo spasimo delle piaghe e più tolleranda l’avversa sorte.
Quando fummo per uscire dal palazzo vescovile, tutta quella piazza irta di baionette, quell’accalcarsi e confondersi di soldati come turbine, ci faceva renitenti ad affrontare l’ira dei vincitori. Io non so dire l’orrore di quel tumulto, di quell’immenso fragore di tamburri, di trombe, di armi percosse tra loro, di urli, di minaccie, d’imprecazioni, di supplicazioni e singulti, che parevano un pianto solo. Eppure, mostrando dura fronte, ci cimentammo agli insulti e alle minaccie della soldataglia, ai fieri modi d’un esercito che correva in frotta una città vinta, assalendo le case, sfondandone le porte, sbucandovi dentro come belve, e mettendo alla rapina quanto veniva loro a mano, afferrando, minacciando, percuotendo uomini e donne con mille enormità, con inenarrabili strazi.
Per ordine del Generale in capo Ritucci tutti i prigionieri, non feriti, e feriti dovettero porsi in rango, anche se non avessero potuto trascinarsi; e sospeso il ritratto del Re ad un fucile, veniva recato trionfalmente dinanzi a noi. Mentre schierati in rango attendevamo la decisione della nostra sorte, vedevansi in mezzo a gran fuochi, alimentati colle mobilie de’ manomessi cittadini, ardere i morti; e per la striscia di loro bianca luce apparivano i miseri corpi dei prodi compagni nostri.
Ed ecco il Generale Ritucci posato di fronte a noi in fiero atteggiamento — arringarci così — Assassini!… Briganti!… e non soldati, e come masnadieri meritate essere tosto qui fucilati (breve pavesa) Il nostro buon Re generosamente si compiace di donarvi e farvi grazia della vita. Così anziché comandare il fuoco, dato il comando A fianco destro… marche, ecco avvicinarsi di nuovo il Negri, che consigliato dall’egregia indole sua, volle prima di tutto provvedere ai feriti.
Il Colonnello Cattabeni era per tre piaghe in pericolo di vita; ed egli stesso datogli di braccio lo accompagnò nella pianura posta al di sotto della città per scortarlo passo passo fin dove stavasi accampata l’ambulanza.
Sulla via per la quale discendevamo, salivano serrate a piena strada le truppe bavaresi comandate dal Von-Michel. I loro sguardi, iracondi, rivolti tutti verso noi, — quegli accenti stranieri, del più vivace significato di scherno e d’ingiuria, accompagnati da atti di fiera minaccia rendevano benefica la presenza del Negri, pel cui favore non potendo avventarsi su noi provavano godimento a mostrarci, per dispetto, l’acqua che tenevano nelle boraccine, indovinando quell’arsura setata, che si suole sempre sentire a combattimento cessato.
Peggio si fu per tutti gli altri sventurati compagni nostri, che condotti prigionieri senza protezione d’alcuno, rimasti a qualche distanza da noi alla balia dei barbari soldati, vennero lungo tutta la via sottoposti ad ogni oltraggio e guidati a calci di fucile sino a Gaeta.
Ambulanza borbonica.
Attorno a campestre casolare, su piccolo rialzo di terra, attiguo alla via consolare, stavano sparsi i feriti Borbonici, su barelle, sopra giacigli posticci, e più a disagio sulla nuda terra, addolorati, mutilati, fasciati, e con opportuni rimedi risarciti e tratti da morte dagli ufficiali sanitari.
Al nostro arrivo il gruppo dei Dottori Militari si appressò al Colonnello Cattabeni.
Uno di loro scoprì e scandagliò la ferita del ventre. Ad ogni sguardo scambiato, ad ogni parola sommessamente mormorata mi aspettavo il fatale annuncio.
Il Colonnello richiesto un sigaro al Generale Negri l’accese, e con quell’atteggiamento disinvolto, che suol essere in tutti i prodi naturale, stendendo ai Dottori la mano, dimandò pacato quanto altro tempo gli restava di vita. Tralucendo dalla maestosa sembianza sua non so che di sorprendente e di grande, coloro che gli stavano attorno attratti dai modi suoi e da tacita propensione di genio e di doverosa stima lo riguardavano con ammiraziome.
Il Chirurgo maggiore sentenziò, che, se un’ora dopo si fosse manifestato indizio di vomito, non fosse da sperarsi salvezza; quando nò, potesse considerarsi superato il maggiore pericolo.
Trasporto dei feriti garibaldini a Capua.
La prima spedizione all’ospitale di Capua fu quella dei feriti garibaldini, quale prima dimostrazione di cortese sentimento. Il carro che doveva trasportarci era già pronto. Dopo il Colonnello Cattabeni vi salì lo Zaoli, il Fabbrini e gli altri più gravemente feriti e come lo vidi al completo, mi vi arrampicai, sorreggendomi ritto in piedi alla coda, insino a Capua; e scortati da numeroso picchetto di cavalleria tosto movemmo.
Il sole era già declinato al tramonto, sicché, la parte rischiarata mandava temperata luce. In quella quiete serale sentivo mano mano ritornare in me la soave placidezza di quella cara pace, nella quale sì gran dolcezza si trova; e la tiepidezza stessa dell’aria recava pure ristoro, con lo smorzare le tumultuose agitazioni, i turbamenti del cuore, la fiamma degli eccitamenti, che in tutto quel giorno di fuoco avevano con l’arsura divorato le membra.
Lungo la via misurata dalla lenta andatura del carro, e dal calpestio della Cavalleria, tornando con la mente ai grandi fatti della giornata, e fra i tanti pensieri, affacciandosi pur quello dei miei cari lontani e trepidanti della sorte mia, mi rallegrai di avere in mezzo a così fiero turbine di sangue e di morte, miracolosamende scampato la vita; e volgendomi indietro a rimirare per l’ultima volta le alture della sventurata Caiazzo vidi il fumo e le fiamme dell’incendio distruggitore.
Oh! avessi potuto volare con le ali del desiderio a mia madre per apparirle vivente, prima che le funeste notizie del grave disastro le fossero giunte all’orecchio; ma anzi che correre a Lei, io mi vedevo condotto entro una fortezza, senza speranza di poterle inviare una parola di consolazione.!!.
All’apparire delle prime stelle cominciò a spirare una brezza sottile sensibilissima; e andando i feriti a loro viaggio a capo scoperto, come spesso ai soldati avviene di trovarsi alla fine dei combattimenti, i Dragoni che ci scortavano con l’elmo in capo, spontaneamente ci offrirono i berretti da quartiere, e da servizio di fatica, dei quali erano forniti; e deposta ogni ira sciolsero poi dalle selle anche i bianchi mantelli e con cortese amorevolezza ce li porsero; con che sembravamo essere anche noi del Reggimento Dragoni.
Attraversando le belle pianure di Capua si vedevano gli accampamenti dell’armata Regia agiatamente attendati; protetti dalle scolte, illuminati da vivi fuochi, ed ordinati nella più perfetta disposizione militare.
Dacché c’eravamo posti in cammino, contando il tempo che passava, io domandavo al mio Giovambattista se si sentisse bene, ed essendo già trascorsa l’ora fatale, senza molesto indizio di vomito, col crescere della speranza aumentava la mia consolazione.
L’arrivo a Capua.
All’avvicinarsi a Capua la città appariva illuminata a festa, in segno di trionfale tripudio per la riportata vittoria.
Entrasi a Capua dal lato di Gaeta per un ponte levatoio gettato sul Volturno; e se ne esce dal lato di Napoli per altro ponte piantato su di un fosso.
Giunti al Volturno — calato il ponte — ed oltrepassatolo, il popolo, che festeggiante si trovava a diporto per le vie, affollavasi intorno al carro dei feriti; e tratto in inganno da quella parvenza dei mantelli bianchi, nei quali ci tenevamo involti, proruppe in sulle prime in accenti della più dogliosa commiserazione; quando poi ebbe dalle barbe l’indizio da giudicare che fossero volontari garibaldini, gli accenti compassionevoli cangiaronsi tosto in insulti feroci ed in grida di morte.
Ad un lazzarone, che per rabbia, più di tutti gli altri, a più non posso, sfiatavasi con assordanti grida, il vecchio Zaoli, che lo aveva a giusto tiro, sputò sulla faccia un grosso farfallone che parea tuorlo d’uovo con la biacca — e lo sputacchiato all’istante ammutolitosi ebbe a che fare a torselo, con la mano, di viso.
I Dragoni intanto serratisi intorno al carro, a malo stento riuscendo a trattenere con le sciabole il popolo, che ferocemente imprecava e fischiava, fatto entrare il carro nell’androne dell’ospitale militare ne serrarono la gran porta; dopo di che, se ci trovavamo prigionieri, ci sentivamo almeno in luogo sicuro.
Le visite.
Al mattino seguente ci venne di soppiatto annunziata la visita del Re Francesco II.
Il figlio del Re Nasone aveva allora 24 anni appena — viso bislungo — naso grosso come quello del padre — sguardo smorzato; tuttavia la sembianza era più lusinghiera e piacevole di quella che l’immaginazione aveva fantasticato.
Vestiva assisa militare assai semplice e di più molto logora e sbiadita.
Entrando apparve in atteggiamento tra il mesto e il compunto — Appressatosi al letto del Colonnello Cattabeni gli domandò contezza delle sue ferite; — espresse poi il desiderio di offrire un miglior trattamento ai prigionieri, se tale non fosse stata, in quella piazza assediata, la scarsezza dei mezzi; ed augurandogli di ricuperare presto la sua salute, dopo aver detto a ciascuno dei feriti una parola benevola, uscendo il Re dalla stanza i servi recarono il dono di ottimi portogalli, altre specie di frutta, e sigari romani.
Nell’avversa sorte tanto più gradite riescono le cortesie.
Dopo la visita del Re Francesco fu un andare e venire continuo di distinti Uffiziali, che gareggiavano nell’affabilità e piacevolezza; e tra i primi il generale Salzano, il generale De-Cornè, il colonnello De-Liguori, il Negri che si diè perfino la premura di recarci le cinquanta piastre lasciate a Caiazzo.
In poche ore il Colonnello Cattabeni aveva saputo guadagnarsi i la simpatia e la stima di tutti.
Il generale De- Cornè comandava la piazza di Capua.
Il generale Giovanni Salzano, a sedici anni era stato prigioniero di Massena e dal Saliceti arruolato nel nuovo esercito repubblicano, quale soldato nei zappatori del Genio, era divenuto nel 1815 uffiziale; e per l’ardimento militare Cavaliere di San Giorgio. Carbonaro zelante nel 1820 era andato con Florestano Pepe per sottomettere i siciliani separatisti. Rientrato nel Regno Ferdinando II, e stracciata la costituzione, Salzano era stato espulso dalle file dell’esercito, e dopo qualche anno ritornato al % servizio militare, raggiunto il grado di Capitano nella Gendarmeria, e sostenuta gran lotta coi masnadieri delle Puglie salì ai gradi elevati.
Dotato di bello e lusinghiero aspetto, di parlare piacevole, di apparenze imperiose, di sembiante militare, era in fama di valente soldato; e stimato quale veterano che avesse appartenuto al valoroso esercito del primo Napoleone.
Il De-Liguori era Colonnello di Gendarmeria borbonica; mentre si trovava a Capua combattente nelle file di Francesco II, il figlio trovavasi a Santa Maria di Capua combattente nelle file del Garibaldi. Il padre trambasciato da così spietata emergenza raccomandavasi al Colonnello Cattabeni per ottenere che il figlio non si trovasse in combattimento di fronte al genitore; ed il Giovambattista, vivamente penetrato del doloroso caso, annunziando al generale Garibaldi di trovarsi prigioniero a Capua, ferito, ma in via di guarigione, e trattato a meraviglia, lo interessò ad impedire l’inumano conflitto d’un figlio col padre. Essendosi, il De-Liguori figlio, annunziato con altro nome, non riescì possibile rinvenirlo.
La sconfitta dei Regi nel giorno primo d’ottobre.
In piacevolissime conversazioni passammo a Capua i rimanenti giorni di Settembre, ma di grande ansietà fu per noi la prima giornata d’Ottobre, in cui ricorrendo l’onomastico di Francesco II, tentarono i Regi con ogni lor forza la battaglia campale su tutta la linea del Volturno dai ponti della valle fino a S. Maria.
L’affannosa dubbiezza durò per noi fino a che in sul tramontare del sole lo strepito tumultuoso delle truppe rientranti a Capua, a masnade confuse e disordinate ci diedero sicura prova della loro totale sconfitta.
A quello scompiglio delle sbandate truppe s’aggiungeva l’affollarsi furioso della plebaglia Capuana, che inferocita e fremente s’addossava attorno ai poveri, garibaldini rimasti nella sanguinosa battaglia fra le mani dei Regi.
I più malconci prigionieri vennero ricoverati nelle stesse stanze abitate da noi, per quanti ve ne potevano essere contenuti.
V’erano taluni feriti, straziati dai dolori, tra i quali un francese guasto per le reni dalla mitraglia, che sopportava inenarrabili spasimi. V’erano morenti. V’era chi s’abbandonava all’allegrezza col vino e col gioco. V’erano incolti, avventurieri, civili, virtuosi, e secondo la corrispondenza del sentimento e la rassomiglianza delle inclinazioni si formarono diversi gruppi d’intimità.
Uno dei più distinti era il Matteo Imbriani figlio del letterato Paolo-Emilio. Farmi ancora vederlo vicino al letto di Giovambattista, ed udirlo, come se fosse ora qui presente, quel caro giovane, bello della persona, allegro, scherzevole, bramoso di gloria, pieno di speranze e lietissimo d’intrattenersi nella più intrinseca famigliarità con noi.
Fine della nostra prigionia.
Dal campo garibaldino chiedevano frattanto di entrare in Capua i Chirurghi per visitare i prigionieri feriti ed aperte loro le porte della fortezza furono lieti di constatare i riguardi e le cure con cui venivano trattati. Con i sanitari dell’ambulanza garibaldina trovavasi anche la illustre Donna Jessy Whit Mario.
Posteriormente, dal Maggiore di Stato maggiore Vincenzo Cattabeni, inviato dal Garibaldi a Capua parlamentario, oltre che sapemmo avere il Dittatore proclamato eroe Giambattista Cattabeni, alla notizia degli avvenimenti di Caiazzo, ed avere ordinato, che a lui, vivo o morto, fosse reso l’onore del grado di Colonnello, ed aver nominato me uffiziale per la condotta ed atti di coraggio, avemmo poi speranza di ritornare in breve liberi agli accampamenti nostri; come difatti nella mattina dell’undici Ottobre venne annunciata al Colonnello Cattabeni la sua libertà; e quantunque io sentissi la sicurezza dell’opera sua per riscattarmi fu pur non ostante penosissimo il momento di separarmi da lui; ma la benigna stella che m’avea protetto nel sanguinoso combattimento e disastro di Caiazzo volle poi liberarmi anche dalla prigionia di Capua; ed ecco come.
Mentre Giovambattista appressavasi alla carrozza, attorno alla quale attendevalo un bel gruppo di ufficiali dello stato maggiore borbonico, il Re Francesco passando quale un privato per la via dell’ospitale s’avvicinava a lui, e fatttagli raccomandazione dei feriti prigionieri a S. Maria ed a Caserta lo lasciava offerendosi con frase tutta napolitana, per tutto che potesse occorrergli. Avendogli Giovambattista espresso il desiderio della mia libertà, il Re gli rispose, prontamente assentendo.
Alla chiamata del mio Giovambattista io corsi a salti; e mi trovai nella carrozza con lui in una condizione d’indumenti così misera, che ben contrastava con gli onori militari che le sentinelle ci rendevano all’uscire della porta di Capua.
Fra gli ufficiali che facevano scorta a cavallo era pure il generale brigadiere Matteo Negri.
Giunti agl’avamposti di Santa Maria egli volle fare nel modo il più cortese la restituzione del revolver lasciato nel vescovato di Caiazzo, augurando felicità, ed aggiungendo dichiarazione della più lusinghiera stima a nome di tutti del seguito.
Povero Negri! pochi altri giorni dovevano da quel dì trascorrere pei suoi funerali!
Noi non ci occuperemo d’indagare le ragioni, che, in così grande sconvolgimento di cose, tennero fedele alla bandiera del Re Francesco questo, valoroso magnanimo, quanto liberale ed intrepido cavaliere.
Matteo Negri cercò sul campo la morte, non volendo transigere con le circostanze, che lo ponevano nella dura alternativa o di tradire il Sovrano, o di combattere contro l’unità della patria.
In così grande rovescio e precipitoso travolgimento del trono Borbonico, nomi, fame, riputazioni, perfidie e virtù, tutto restò affastellato, confuso e macchiato dello stesso sfregio. Fu sventura, che per la creazione dell’Italia, i fratelli dovessero combattere contro i fratelli.
Sono già trascorsi trentaquattro anni dal giorno che il Matteo Negri al lampo dei nuovi destini d’Italia, non sapendo per troppa nobiltà d’animo volgere le spalle a chi tramontava, e disertarlo nella sventura, fu per una serie sventurata di fatti condotto a perdere la vita, e morire eroicamente come aveva vissuto — e sincero argomento di gratitudine, di benevolenza secondo l’affetto, di stima dovuta al merito, sia il ricordo che di lui serberò ogni ora fresco e vigoroso.
- Cagliari, anno 1894.
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