Il mio delitto/XVI

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XVI

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XV
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XVI.

Sono già quattro settimane che mi trovo chiusa in questa triste prigione ed ora vedo le cose sotto il loro vero aspetto, e la realtà mi si presenta davanti alla mente in tutto il suo orrore.

Speravo che il mio parlare franco e sincero sarebbe creduto e non si avrebbe avuto alcun dubbio sulla ragione che mi aveva spinta al delitto e finalmente che la colpa della mia rivale avrebbe giustificato la mia azione.

Invece come mi sono ingannata! [p. 177 modifica]

Come ho veduto cadere anche quest’ultima illusione! Tutti tutti mi sono avversi ed ormai non spero che nella vostra amicizia.

Fino dai primi giorni ho capito che si congiurava qualche cosa contro di me e si voleva far comparire senza macchia la mia rivale, che ferita gravemente lotta ancora fra la vita e la morte. Non mi sapevo spiegare alcune visite di medici, le domande che mi facevano sulla mia vita passata e meno ancora certe occhiate d’intelligenza che si davano, se per caso ero incerta e confusa nelle mie risposte. Finalmente, a furia di pensarci, si squarciò il velo che annebbiava la mia mente e vidi chiaramente il gioco dei miei avversari.

Mi si vuol far passare per pazza, per salvare la mia rivale: e tutti sono in questa congiura cominciando da mio marito. Io capisco quello che pensano tutti, quello che dicono nelle loro conversazioni, mi par di sentirli.

cordelia. Il mio delitto
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La baronessa Sanvitale è una santa donna sulla cui condotta nessuno ha mai detto nulla, essa era andata dalla guantaia, e scendeva le scale quando fu ferita. Da chi?

Dalla contessa Manfredi, una signora della miglior società che non doveva aver nessuna ragione di odiarla; ma questo fatto deve esser accaduto in un accesso di pazzia furiosa; cosa spiegabilissima, perché, vedete, tutti sostengono ch’io ho dato in tutta la vita segni manifesti di pazzia o almeno di originalità, cosa che le è molto vicina.

Capisco che con un poco di buona volontà si può trovar tutti pazzi a questo mondo; ma ditemi se é pazzia piangere e sentire un dolore profondo per la morte d’una carissima amica, preferire la propria casa alla società, la solitudine alle chiacchiere cittadine, odiare la cattiva musica, annoiarsi al gioco e amare la franchezza. Ebbene trovano che tutte [p. 179 modifica] queste cose sono chiari indizii della mia pazzia, e si vuol rifare la mia vita svisandola e si va intanto a rivangare nel mio passato. Si dice che la mia mamma, quella santa donna che voi avete conosciuto ed apprezzato, aveva delle originalità, e ne è una prova una bambola che le si rinvenne in un cassetto: era la mia prima bambola. Anche mio padre si vuole che abbia avuto qualche mania e si parla della sua fissazione di non voler dimenticare che fu richiamato proprio sul punto d’ottenere la vittoria.

Lo so: questi sono i discorsi che si fanno nei crocchi eleganti e queste saranno le testimonianze che verranno ripetute davanti ai giudici nel giorno dei dibattimenti.

Insomma per loro tutto è prova di pazzia nella mia famiglia, la dolcezza della mia mamma, la fierezza di mio padre e la volubilità della zia Paolina; capisco che in [p. 180 modifica] questo modo credono di salvarmi, ma più di tutto vedo che procurano di salvare la fama della mia rivale, o meglio della vittima, come hanno ora il vezzo di chiamarla.

Per me la mia vita è spezzata; poco mi importa esser tenuta in prigione o rinchiusa in un manicomio, ma ho mia figlia, è il solo affetto che mi rimane, la sola cosa che mi renda ancora la vita.

Per lei sola, per lei non voglio assolutamente esser creduta pazza. Non devo lasciarle questo triste retaggio, ho bisogno che la luce sia fatta e che la verità esca più luminosa dopo tante menzogne.

In mezzo a tanta rovina m’era balenata l’idea di uccidermi, ma il pensiero di mia figlia m’ha salvato.

V’assicuro che in certi momenti la vita è un fardello tanto pesante che senza una forza sovrannaturale una povera donna non la [p. 181 modifica] potrebbe sopportare. A voi dissi tutta la verità come se fossi sul letto di morte, venite dunque a difendermi, e se potete, salvatemi; in ogni caso vi raccomando mia figlia.

Il mio solo conforto in queste lunghe ore di prigionia fu di poter scrivere queste mie memorie e dimenticare il presente pensando al passato.

È certo che fui trattata ingiustamente dalla sorte, che pagai le poche ore di gioia con crudeli dolori; eppure sento che ancora sarei contenta se vedessi chinare la fronte della superba baronessa di Sanvitale.

Quando penso all’aria di bontà e protezione con cui mi parlava, al suo sorriso benevolo, mi sento ancora fremere d’indignazione e non posso perdonare.

So che soffre molto per la mia ferita, non è ben certo che possa salvarsi; ma intanto è fatta segno a mille dimostrazioni di affetto [p. 182 modifica] e di simpatia, ell’è un angelo, una santa, una vittima.

La sua arte d’ingannare deve certo avere delle raffinatezze ignorate, se, colpevole, si fa credere innocente, e perversa, si fa credere una santa.

Ma non voglio annoiarvi di più colle mie considerazioni, rimetto la mia causa nelle vostre mani e in queste ore di attesa mediterò sull’ingiustizia del mondo, sulla bizzarria della sorte che può trascinare alla Corte d’Assise, dinanzi ai giudici, anche le persone che parevano destinate a passare una vita tranquilla e felice.

Non so che cosa mi prepari l’avvenire, so che non aspetto nulla, non chiedo nulla, ma spero che mi sarà fatta giustizia; e in questo momento di terribile prova rimpiango amaramente di non aver abbastanza fede per credere ad una giustizia al di là della nostra [p. 183 modifica] vita. Come invidio quelli che credono, pregano e piegano rassegnati il capo a’colpi della sventura! Io non sono pentita di quello che ho fatto, accetto la mia sorte qualunque essa sia, ma ho un solo desiderio: che almeno la mia Margherita possa esser felice.

· · · · · · · · · · · · · ·

Qui terminava il manoscritto, ma impaziente di sapere come fosse andata a finire la povera Ilda, frugai con ansia febbrile in tutti i cassetti finchè rinvenni, oltre ad un foglio scritto collo stesso carattere del manoscritto, alcuni giornali che parlavano del processo Manfredi, dai quali trascrivo i brani che possono interessare pei miei lettori che hanno avuto la pazienza di seguirmi fino a questo punto.


«Da una corrispondenza ad un giornale di Roma: [p. 184 modifica]

Milano,20 novembre 1850.

Non si parla d’altro a Milano che del processo Manfredi, di cui vi tenni parola nella mia ultima corrispondenza. Ieri ebbero principio i dibattimenti; la sala era affollata, vi predominavano le signore della miglior società, era il pubblico delle grandi occasioni, pareva d’assistere ad una prima rappresentazione aspettata da tanto tempo.

L’imputata, la contessa Manfredi, è una bella signora di circa trent’anni dal portamento fiero e dallo sguardo penetrante. Veste con perfetta eleganza, e durante la seduta di ieri ebbe un contegno calmo e dignitoso, quale si conveniva ad una signora della migliore società. Fra gli avvocati viene notato l’avvocato Anselmi, un vecchio dall’aspetto venerando, un antico campione del foro che ritiratosi da qualche tempo dalla vita attiva [p. 185 modifica] acconsentì per amicizia di venire a difendere l’accusata.

Letto l’atto che accusa la contessa Manfredi di omicidio tentato verso la baronessa Sanvitale, si ascoltano i testimoni della parte civile. Dicono quasi tutti la stessa cosa, cioè che la Sanvitale è una santa donna, di una condotta irreprensibile, e nessuno capisce come vi potesse esser ragione di odio fra lei e la Manfredi. Si legge la relazione dei periti i quali dichiarano che nella famiglia della Manfredi esiste un nervosismo che s’avvicina alla pazzia. La madre, una donna rispettabile, era d’indole malinconica, aveva dei periodi di mali nervosi così strani, durante i quali non si faceva vedere da nessuno. Suo padre, il generale di San Martino, prima di morire, era in preda alla mania della persecuzione e ne è prova la sua idea fissa d’esser stato tradito nel giorno d’una battaglia; [p. 186 modifica] anche una sorella del generale, Donna Paolina Aureggi, è di carattere strano, irrequieto, nervoso; dunque era probabile che nata in questa famiglia la contessa Manfredi avesse. ereditato un germe di pazzia; infatti nella sua pupilla c’è qualche cosa di anormale e non si potrebbe spiegare altrimenti l’ultimo fatto, d’aver assalito una sua amica mentre usciva tranquillamente da una casa dove era stata a far degli acquisti e averle sparato contro un colpo di pistola:

L’accusata si agita e chiede che venga letta la sua deposizione. Le viene accordato, e in essa dichiara che la Sanvitale era l’amante di suo marito e che quel giorno li aveva veduti entrare tutti e due nella medesima casa.

— Dunque vedete, essa dice, che avevo le mie buone ragioni per uccidere la mia rivale. I periti dichiarano una fissazione anche [p. 187 modifica] questa gelosia di una donna che non ha mai fatto parlare di sè.

— È un’ipocrita, — dice l’accusata.

A queste parole si sente un mormorio di disapprovazione nella folla, poi vista l’ora tarda la seduta è rinviata a quest’oggi.

Vado dunque ad assistervi e questa sera vi darò relazioni in proposito.

· · · · · · · · · · · · · ·

22 novembre.

Quest’oggi la seduta fu molto interessante. Nella sala sempre la stessa folla elegante, attenta, curiosa. Da principio vengono citati come testimoni molte signore appartenenti alla miglior società che si dicono amiche dell’imputata, ma che viceversa tutte sono d’accordo nel dichiararla bizzarra, eccentrica, capricciosa; poi viene la testimonianza della signora Rosa Labbè, guantaia la quale [p. 188 modifica] riconosce come suoi clienti le signore Manfredi, Sanvitale e specialmente il conte Manfredi, ma non si ricorda se proprio il giorno del delitto fossero stati da lei.

— La mia casa è tanto frequentata, sono così occupata che non posso ricordarmi precisamente di quelli che vanno e vengono, — essa conclude.

In questo modo lascia il tempo che trova.

L’interesse comincia a farsi più vivo durante la testimonianza della signora Alberti e del barone Ruggeri; ma voglio descrivervi per intero la scena perchè ne vale la pena.

La signora Alberti è una donnina leggera, irrequieta, che frequenta molto la società, ha dei movimenti da uccellino e pare che si compiaccia di trovarsi in evidenza e vedere quel pubblico attento alle sue parole.

Il presidente le domanda: [p. 189 modifica]

— È vero che avete detto che l’accusata doveva esser pazza?

— Non dissi precisamente così, ma, via, era molto eccentrica, originale.

— E in che cosa facevate consistere quest’originalità?

— Mio Dio! in una quantità di piccole cose: ora aveva la smania della società, e la si vedeva dappertutto, ora si rinchiudeva in casa e non volta veder nessuno, eccettuato il barone Ruggeri, quello era il privilegiato.

Poi quando le morì una sua amica stette degli anni senza veder nessuno.

— E chi era questa amica?

— La baronessa Ruggeri.

La difesa chiede che s’interroghi subito il barone Ruggeri.

È presente e si alza senza farsi pregare. È un bell’uomo di mezza età dalla voce chiara e squillante, parla bene con eleganza, egli [p. 190 modifica] dice di conoscere assai bene l’accusata che fu l’amica migliore di sua moglie, poi soggiunge:

— Tutti la dicono originale, perciò è superiore alle altre donne che non possono comprendere i suoi gusti elevati, la delicatezza del suo sentire; è sempre stata una buona madre e una buona moglie, anzi credo che il troppo amore per suo marito l’abbia perduta.

A queste parole dette con entusiasmo seguì un mormorio nella folla, e il presidente fece notare alla signora Alberti che il barone aveva detto tutto l’opposto di quello che aveva detto lei.

— È naturale, — rispose, — non può essere altrimenti; il signore é sempre stato il paladino della contessa.

L’accusata all’udire queste parole non potè trattenere la calma e pregò il presidente di fare che la signora Alberti si spiegasse meglio.

La signora dice: — Per me non ho mai [p. 191 modifica] dato retta alle chiacchiere, ma nei nostri crocchi si diceva ch’egli era troppo assiduo, e che fra loro due esistevano dei rapporti molto intimi....

Il barone s’alzò indignato, chiese il permesso di parlare e con accento sicuro disse:

— Quantunque questa cosa non riguardi la ragione per cui fummo qui chiamati, pure desidero che si sappia l’indole dei rapporti che ho avuto coll’accusata per far tacere, non solo le calunnie, ma le perfide insinuazioni, e giuro che dico tutta intera la verità.

«Frequentavo casa Manfredi per amicizia che avevo per la contessa e perché essa si prendeva molta cura del mio figliuolo che aveva in lei una seconda madre. Ammiravo, è vero, l’ingegno, la bontà ed anche la bellezza della signora, ma la stimavo altamente ed ero orgoglioso della sua preferenza ed amicizia che mi mostrava. [p. 192 modifica]

«Lo confesso; un giorno che la seppi infelice, che mi avea confidato i suoi dolori, ebbi un momento di debolezza e arrischiai qualche parola d’amore. Essa mi respinse, tanto è vero che non l’ho più riveduta che quest’oggi; se non mi credete domandate ai suoi domestici, s’io ho mai più posto piede in casa sua.»

A quelle parole si sentì una corrente di simpatia per l’accusata fra quella folla curiosa, e d’ammirazione per la franchezza di Ruggeri. Per quanto una società sia corrotta, l’onestà e la sincerità hanno sempre il potere d’imporsi.

Le parole del barone vennero più tardi confermate dai domestici che affermarono essere molto tempo che il barone non andava più in casa Manfredi.

Domani vi narrerò il seguito che va diventando ogni giorno più interessante. [p. 193 modifica]

Milano. 23 novembre.

Quest’oggi avvenne un nuovo incidente nel processo Manfredi. Quando dopo aver intesi tutti i testimoni il pubblico riguardava l’accusata come una povera infelice affetta dalla mania della persecuzione, ecco che la difesa domanda che sia sentito un nuovo testimonio, una ex cameriera della Sanvitale.

Al presentarsi di quella donna vestita bene ma d’aspetto alquanto volgare, vi fu un mormorio di curiosità nella folla, poi nella sala si fece un silenzio cosa assoluto che si sarebbe sentita volare una mosca.

Dopo le solite formalità il presidente chiese al testimonio Maria Fantini d’anni 35, quanto tempo fosse stata in casa Sanvitale.

Rispose: — Ci fui tre anni.

— Che opinione avevate della vostra padrona? [p. 194 modifica]

— Che fosse come tutte le altre signore; anzi piuttosto peggio.

— E perché ci siete stata tanto tempo?

— Perché essa non aveva coraggio di mandarmi via, e mi doveva usar per forza dei riguardi perché avevo scoperto certe cose che la mettevano nelle mie mani.

— Raccontate dunque quello che sapete; aveva degli amanti la vostra padrona?

Qui avviene un’interruzione dell’avvocato della parte civile, il quale dice che siamo qui per fare il processo alla contessa Manfredi e non alla baronessa Sanvitale che è la vittima.

Il presidente dice che si devono ascoltare tutti i testimoni e che le sue osservazioni le farà il giorno della sua arringa.

Viene ristabilita la calma e il presidente ripete al testimonio la sua domanda.

— Dunque la vostra padrona non era quel fior di virtù come sembrava. [p. 195 modifica]

— Sapeva darla ad intendere, ma vi dico che era peggio delle altre.

— E ditemi qualche fatto positivo.

— Ne avrei tanti di fatti, quantunque facesse le cose con molta prudenza. Io confesso il mio peccato: appena sono in una casa cerco di scoprire il lato debole delle signore; ognuno procura di fare il proprio interesse.

— Andiamo, non divaghiamo. Adducete qualche fatto, — disse il presidente.

— Subito, signore. — Un anno eravamo in uno stabilimento di bagni; vicino alla stanza della mia padrona c’era una stanza ove abitava un signore. Naturalmente l’uscio di comunicazione rimaneva sempre chiuso, io almeno lo credevo, quando un giorno arriva improvvisamente il signor barone. Io corro ad avvertire la signora e trovo l’uscio di comunicazione delle due camere aperto e la [p. 196 modifica] signora in conversazione molto intima col signore, ch’io non credevo nemmeno in relazione con lei. Al mio annunzio corre nella sua camera, si chiude in fretta l’uscio di comunicazione e quando entra il barone la signora gli va incontro con un sorriso calmo e tranquillo, lo bacia e gli dà il benvenuto come se nulla fosse.

— Continuaste a rimanere in quella casa?

— Che vuole! Mi ha pregato tanto, e anzi cominciai a trovarmici bene, facevo quello che volevo, avevo le mie ore di libertà, ero trattata in modo che in casa mi chiamavano la seconda padrona.

— E come siete andata poi via?

— Sono combinazioni: era gelosa di me, perché le pareva che il precettore del suo bambino mi facesse la corte, e ritengo che ella avesse un debole anche per lui: già, a [p. 197 modifica] lei piacevano tutti gli uomini, divenne stizzosa e trovò un pretesto per licenziarmi.

— E voi non, vi siete ribellata?

— Dirò, ero un po’ stanca dei suoi capricci, e quantunque in apparenza tutti la stimassero per una signora rispettabile, temevo che una volta o l’altra venisse scoperta e ch’io mi trovassi involta in qualche intrigo che avrebbe danneggiato il mio avvenire. Volevo andare in una casa onesta e prender marito alla prima occasione che mi fosse capitata come in realtà ho fatto.

— Ed essa non aveva paura che parlaste?

— Mi ha minacciata di non dare buone informazioni di me se parlavo; del resto non avrei avuto alcun interesse a farlo.

— E veniva spesso in casa il conte Manfredi?

— Aveva incominciato a venirci appunto [p. 198 modifica] quando mi sono licenziata da quella casa, e non ne so più nulla.

— Non sapete se fosse il suo amante in questi ultimi tempi?

— Non so nulla, ma del resto ne ha avuti tanti che uno più uno meno non conta.

Quando venne lasciata libera vi furono mormorii e commenti in mezzo a quella folla eccitata e curiosa. Venne poi la parlata dell’avvocato della parte civile che fece poca impressione. Domani parlerà la difesa e ci sarà la requisitoria del pubblico ministero e forse nella settimana vi scriverò la sentenza.

L’accusata oggi avea la faccia illuminata da un sorriso, pare che abbia qualche speranza. Per conto mio, una cosa mi sembra molto strana, ed è che ora si faccia il processo alla vittima invece che al delinquente. [p. 199 modifica]

26 novembre.

La difesa dell’avvocato Anselmi fu sublime; quel vecchio bianco e cadente seppe trovar parole da commuovere tutto l’uditorio. Prima parlò della famiglia della Manfredi, dipinse la madre come una santa donna, il padre come un eroe, e disse che se si volevano ritenere pazze simili egregie persone, si poteva rinchiudere tutto il genere umano in un manicomio. Poi dipinse l’amore della contessa pel marito, lo strazio nel sapersi tradita. Descrisse con tinte calde e vivaci la scena in cui sapendo suo marito con un’altra donna, smarrisce la testa, prende un’arma che avea nel cassetto, non sapendo bene a qual uso l’avrebbe adoperata; là prima idea è di scoprire il marito infedele e forse uccider sè stessa, poi il pensiero della figlia la trattiene, non sa più quello che si faccia; ma quando s’incontra faccia a faccia colla donna [p. 200 modifica] che le ha rubato il marito, che lo ha rapito all’affetto della famiglia, non sa più trattenersi, e spinta quasi da forza sovrumana, impugna l’arma e lascia partire il colpo fatale. Poi si scaglia contro le moderne Messaline, che assai peggio dell’antica fanno le cose ipocritamente; vogliono esser credute sante e poi rubano i mariti alle amiche, i padri ai loro figliuoli e portano la divisione e la discordia nelle famiglie. Finisce col dire che sarebbe una vera infamia condannare chi non ha fatto altro che difendere la propria tranquillità e felicità domestica, togliere una madre innocente all’affetto dell’unica figlia. Poi parlò d’un fatto accaduto qualche giorno prima in cui i giurati avevano assolto un marito che aveva ucciso la moglie adultera; terminò col dire che la legge doveva essere uguale per tutti, per l’uomo come per la donna, la quale era abbastanza vittima della [p. 201 modifica] società, e dei suoi pregiudizii, per avere il diritto di non esserlo davanti alla legge.

Dopo un discorso tanto efficace ed eloquente ho sentito dall’approvazione del pubblico che qualunque fosse il verdetto dei giurati egli aveva assolto l’accusata in anticipazione.

La requisitoria del pubblico ministero fa breve e non fece molta impressione. Egli disse che non era permesso ad una persona assalire improvvisamente con mano armata una signora che s’incontra per via, e domandava la si condannasse e rinchiudesse in prigione come pericolosa alla società. La seduta fu sospesa per formulare il verdetto, e quando, alla dimanda se l’accusata avesse assalito con premeditazione a mano armata la baronessa Sanvitale, se fosse responsabile della sua azione e se le si accordavano le circostanze attenuanti, i giurati risposero con [p. 202 modifica] un no alle due prime domande, il verdetto d’assoluzione pronunciato nella sala fu accolto con un applauso fragoroso, e l’accusata all’uscire fu quasi portata in trionfo.

Ecco finito anche un processo di cui si è parlato forse un po’ troppo; ora mi domando che cosa farà la baronessa Sanvitale che pare guarisca della ferita dopo tutta la pubblicità che s’è fatta delle sue gesta?

Che cosa ne penserà il marito? Davvero non posso che deplorare la facilità con cui al giorno d’oggi si rivelano certi fatti che dovrebbero rimanere nascosti, e la curiosità malsana che hanno le signore d’assistere a certi processi che non sono certo una scuola di moralità.

All’avvocato Enrico Anselmi.

«Mi pare ancora un sogno d’essere uscita dalla mia triste prigione e poter in grazia [p. 203 modifica] vostra esser libera come un uccello dei campi. Nella confusione del primo momento, nell’impazienza di abbracciare mia figlia non ho potuto dirvi tutto quello che avevo nel cuore, ma sento che la nostra amicizia si è rinvigorita con nuovi legami e che la mia riconoscenza durerà quanto la mia vita, e vi assicuro che sono felice, nella rovina di tutte le mie illusioni, d’aver trovato in voi un amico sincero, quello che si ritrova nei giorni del dolore.

Non posso descrivervi l’impressione che provai il primo giorno trovandomi nella gabbia degli accusati, cogli occhi curiosi della folla rivolti sa di me, e fra quella folla conohbi tutti i miei conoscenti dei giorni migliori e le signore che mi si dicevano amiche coi volti sorridenti, come se assistessero ad uno spettacolo piacevole ed interessante.

Guai se non avessi veduto il vostro volto amico incoraggiarmi dal banco degli avvocati! [p. 204 modifica] Guai se il vostro sguardo non mi avesse fatta intravvedere un barlume di speranza!

Non potete credere quanto soffersi nell’udire tutta quella serie di testimoni che assolutamente volevano vedere nelle mie azioni più semplici qualche cosa d’eccentrico e d’anormale.

Carine quelle mie amiche! Quante considerazioni! Quanti commenti benevoli! V’assicuro che non c’è cosa migliore per conoscere bene il mondo quanta lo stare per quindici giorni sul banco degli accusati.

E Ruggeri? Almeno lui mi si è mostrato un vero amico; come è stato franco e sincero nella sua testimonianza! L’avrei abbracciato!

E anche voi, mio buon amico; la vostra difesa fu proprio sublime; parlaste di me, di mia madre, della mia famiglia con quell’accento cha viene dal cuore.

Ho sentito nelle vostre parole l’affetto che avete sempre avuto per noi. [p. 205 modifica]

Vi assicuro che vi ascoltai colle lagrime agli occhi, e sento che soltanto a voi debbo la mia salvezza e che non potrò mai pagare il debito di riconoscenza che a voi mi lega.

È certo che le vostre parole decisero quelli che erano ancora tentennanti nell’incertezza, e quando rientrò la Corte ed il verdetto di assoluzione fu pronunciato in mezzo agli applausi, provai una tal gioia e tant’emozione che la maggiore non avevo provata mai.

Non vi descrivo la felicità nel riabbracciare la mia figlia, vi sono certe gioie che non si possono descrivere, come certi dolori che non si possono comprendere se non si sono provati.

Invece della condanna ebbi quasi un trionfo; è vero che i giornali hanno criticato il verdetto dei giurati ed hanno detto che si è finito col fare il processo alla vittima e non m’hanno lasciato gustare tutta intera la gioia della mia assoluzione: in ogni modo sono libera e non [p. 206 modifica] voglio più soffrire per le chiacchiere del mondo; l’ho conosciuto abbastanza per disprezzarlo. Ora abbandonerò questo mondo ciarliero per sempre e mi ritirerò in campagna e vedremo se mi lasceranno vivere in pace.

Non credo più in nulla. Ho soltanto fede nell’amore materno perchè lo credo il più santo, il più vero e quello che mai non tradisce. Ho appena trent’anni e la mia vita è spezzata, guai se non mi restasse il conforto della mia figliuola! Voglio dunque vivere per lei, per il suo avvenire, per la sua felicità.

Non ho più veduto mio marito, ma egli tenta di riavvicinarsi a me, mi scrive facendomi un mondo di promesse. Pare che l’aureola di popolarità che s’è fatta intorno alla mia persona gli abbia fatto sorgere un’altra volta l’affetto per me, ma io non l’amo più e per il momento non mi sento di perdonare; in quanto a dimenticare non lo potrò mai. [p. 207 modifica]

Ho veduto Ruggeri; è stato a salutarmi e ad affidarmi il suo figliuolo.

Egli ritorna agli antichi amori; parte per un lungo viaggio di esplorazione.

— Se ritornerò, — mi disse colle lagrime agli occhi, — saremo allora più vecchi tutti e due e potremo essere amici, nient’altro che amici; in ogni caso vi affido mio figlio, spero che voi non lo abbandonerete.

Fui sul punto di trattenerlo, mi sentivo straziare all’idea ch’egli andasse incontro ai pericoli d’una vita avventurosa per causa mia, ebbi paura di amarlo, feci uno sforzo per scacciare la preghiera che mi veniva spontanea sulle labbra, e lo lasciai partire pregandolo soltanto di mandarini spesso sue notizie.

— Le vostre lettere saranno come sprazzi di luce nella mia vita triste e solitaria, — gli dissi stringendogli la mano.

— Vi lascio mio figlio, il mio solo tesoro. [p. 208 modifica] Ciò vi è pegno che col cuore sarò sempre qui presente e che ve ne chiederò frequentemente notizie.

Così ci lasciammo molto commossi. Ora il mio pensiero saranno i due fanciulli Alberto e Margherita, tutti e due del pari cari al mio cuore.

Non vivrò che per esser madre, non vivrò che delle loro gioie, non soffrirò che pei loro dolori. Ormai non ho che un desiderio, quello di viver tanto per vederli felici.

Ricordatevi qualche volta anche voi della vostra

Ilda Manfredi.

FINE