Il nonno/Novella sentimentale

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Novella sentimentale

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Solitudine Poveri e ricchi

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Novella sentimentale.

Notte stellata e cheta,
piena di dolce incanto,
perchè io pure lieta
di sogni non ti avrò?
     
Perchè laggiù i felici
dormono amati, e intento
a me, notte, tu dici
che qui io morir dovrò?


Un piccolo soldato bruno s’avvicinò al portone della caserma, canticchiando questi versi su un’aria della Sonnambula. Suo malgrado Serafino si voltò, stupito perchè in quel momento, come del resto gli accadeva spesso, egli pensava al suicidio. Questa idea, che pare terribile solo a coloro che non si suicideranno mai, era per Serafino una specie di sollievo.

— Perchè vivere? - egli pensava. - Ho vent’anni e sono povero, anemico, infelice. Non ho ingegno, nè volontà, nè fortuna. Una volta ho scritto una novella, ma il giornale a cui l’ho mandata me [p. 54 modifica]l’ha respinta senz’altro. Non ho mai avuto neppure la soddisfazione di avere un bel vestito nero. La mia famiglia è così povera che ho fatto sacrifici enormi per farmi studiare alle scuole normali. Sono maestro, ora, e finito il servizio militare mi attende davvero un «brillante avvenire». E moriamo, dunque!

Egli diceva a sè stesso: «e moriamo dunque!» come qualsiasi altra persona dice: «e andiamocene!» quando vuol lasciare un luogo ove si annoia.

Egli non era ambizioso nè orgoglioso; buono in fondo e mansueto come uno di quei gattini maltrattati da bambini crudeli, conservava però un sogno superbo: avrebbe voluto, prima di morire, compiere qualche atto di coraggio, o almeno dare alla sua morte volontaria un’apparenza di sacrifizio.

Però sognava anche d’innamorarsi d’una signorina bella e ricchissima o d’una grande artista maritata e onesta. Queste signore lo riamavano; ma tutti gli ostacoli del genere sorgevano fra loro. Allora egli si suicidava. Avrebbe voluto innamorarsi di quelle signore, anche non riamato, tanto per dare alla sua morte l’apparenza d’un suicidio per amore.

E ciò che lo rendeva soprattutto melanconico era la certezza che i suoi sogni poetici non si sarebbero mai avverati; la sorte dei poveri non gli avrebbe permesso che di morire di inedia morale o tutt’al più di disperazione. [p. 55 modifica]

Quella sera egli si trovava appunto in uno di questi periodi di tristezza sentimentale, durante i quali pensava alla morte come ad un sonno dolce di convalescente, ma lungo, profondo, in una notte senza confine d’aurora.

Il luogo dov’egli si trovava da una settimana, aumentava la sua melanconia. Era una caserma, in un’isola montuosa sulla cui cima la casa bianca dei forzati dominava la distesa perlata d’uno dei più bei mari del mondo, come l’idea della morte dominava la giovinezza di Serafino.

La sera autunnale, limpida e sonora, rendeva ogni cosa melanconica. Il mare deserto, tutto azzurro e oro, rifletteva la luminosità del crepuscolo azzurrognolo.

Fino al cortile della caserma giungeva il fruscìo delle canne e delle acacie scosse dal vento lungo i ciglioni dell’isola: nulla di più triste di quel freddo sussurrìo. I soldati riuniti nel vasto cortile, davanti alle caserme bianche e basse che parevano case di un villaggio, dovevano tutti sentire, più o meno, la tristezza e la nostalgia del vento autunnale, perchè cantavano lunghe canzoni melanconiche.

Addio per sempre, albergo avventurato,
Soave asilo di gioia e d’amor...

Dal portone Serafino dominava la strada in pendìo, lastricata, incassata fra due muri e in fondo [p. 56 modifica] alla quale si scorgeva una porta spalancata e l’interno giallognolo d’un’osteria deserta. Un vecchio prete, dal viso grasso e pallido reclinato, saliva la strada respirando forte e tirandosi su la sottana. Giunto davanti al portone, si fermò e salutò:

— Buona sera: il direttore è lassù?

— Sissignore, rispose il piccolo soldato bruno, portandosi la mano alla fronte.

— C’è un condannato molto malato, è vero? Come va? Se stamattina stavano tutti bene?

— Sissignore. Una paralisi.

— Buona sera, disse allora il vecchio prete, riprendendo la salita frettoloso, e sollevandosi ancor più la sottana sulle calze turchine scolorite.

Serafino e il compagno, che era uno studente musicomane, si misero a discutere, come usavano spesso. Serafino mise questa questione: perchè i condannati a lunghe pene e i malati incurabili non capiscono che dovrebbero suicidarsi.

Il musicomane rispose che tanto gli uni come gli altri sperano di finir la pena o di guarire.

— Che vuoi, la vita è bella! - concluse, con gli occhioni neri scintillanti di gioia. - Basta vivere per vincere. E vedi, più si è malati, più si è condannati ad una pena grave, più si ama la vita.

— Parole! La vita, senza la salute, senza la libertà, senza la ricchezza, è una Vittoria con le ali spezzate, - disse poeticamente Serafino.

— Io godo poca salute, ribattè l’altro, sono spiantato, sono ora costretto al servizio militare; eppure, sono contento. Peggio per chi non lo è. [p. 57 modifica]

Serafino avrebbe voluto dirgli che era un incosciente, ma non volle offenderlo.

Una voce rauca risuonò come il grido d’un gallo, fra l’improvviso silenzio dei soldati.

— Abate!

— Presente.

Era il sergente che cominciava l’appello.

La sera cadeva rapidamente: ad ovest il cielo prendeva un cupo splendore d’acciaio violaceo; tra il ricamo tremulo delle acacie si scorgevano lembi di mare, simili a lastre d’oro dal riflesso violetto, che pareva splendessero di luce propria.

Un lume scintillava in fondo alla strada, nell’interno dell’osteria. A momenti il vento taceva, e allora vibravano più forti le voci diverse dei soldati che rispondevano all’appello: alcune fresche e ardite, altre aspre, ironiche; il musicomane pronunziò il suo «presente» con un grido cadenzato, e la voce di Serafino parve venire di lontano, col vento che portava il sospiro delle canne e degli olivi.

Dopo l’appello i soldati ripresero a cantare; e vibrava qualche cosa di dispettoso nel loro canto rozzo e quasi selvaggio. Pareva volessero dimenticare, urlando, la tristezza e il dispetto di trovarsi esiliati in quel luogo di castigo. Quelli che più urlavano erano i soldati che durante la notte dovevano montar la guardia lungo le coste dell’isola. Uno solo taceva: Serafino. [p. 58 modifica]

Verso le undici egli si trovava di guardia in un punto dove la strada, fin là chiusa da muraglie, si apriva improvvisamente sopra un masso enorme precipitante sul mare.

Il vento era cessato; ma nella notte stellata l’aria quasi fredda, profumata dall’odore del mare, ricordava le belle notti invernali. L’occhio verde della lanterna, che vigilava come un occhio maligno davanti all’isola dei condannati, gettava un enorme ventaglio di luce vitrea sul mare oscuro.

Sotto lo scoglio Serafino vedeva un quadro fantastico: una barca nera illuminata ad acetilene, e dentro la barca un pescatore di ostriche (di quelli che hanno un permesso speciale per avvicinarsi all’isola) col corpo magro disegnato da una maglia rossa: sembrava un diavolo in un cerchio magico di luce vivissima.

Null’altro, tranne i lumi lontani sul confine della terra buia e stelle sul cielo buio.

Come sempre quando montava la guardia, Serafino, che aveva letto Tolstoi, si domandava amaramente chi lo costringeva a far ciò, perchè obbediva ad una potenza illogica, mostruosa, rappresentata da uomini inferiori a lui, da un caporale contadino, da un sergente barbiere, che lo obbligavano a vegliare, incosciente e maligno [p. 59 modifica] come l’occhio della lanterna, sopra un precipizio contro il quale s’infrangeva il vano assalto delle onde.

Perchè egli si privava del sonno, unica dolcezza che la fortuna gli accordava facilmente, per vigilare la tomba di quegli uomini vivi che non gli avevano fatto del male? E chi lo sapeva? Era la stessa potenza illogica e mostruosa che lo costringeva a vivere una vita senza amore e senza dolore, i cui giorni, simili alle onde, andavano a battersi inutilmente contro lo scoglio del destino.

Il pescatore portò al di là dello scoglio la sua barca, e tutto tornò buio, d’un buio azzurrognolo, rotto appena dal chiarore della lanterna e da riflessi lontani.

Serafino aveva sonno: i suoi tristi pensieri lo cullavano stranamente, eguali, sempre eguali, monotoni e sonnolenti come il rumore delle onde. Egli ripensava ai versi del suicida genovese, ripetendoli fra sè col motivo della Sonnambula.

Parevano fatti apposta per lui, quei versi: e quel motivo facile e dolce gli ricordava i vecchi motivi che avevano cullato i suoi primi sogni di studentello. Ora la notte era stellata e cheta, ma non più lieta di sogni. Un sogno solo, oramai, attraversava per lui la pace della notte stellata: il sogno della morte. Essa era l’amica attesa, e spesso egli credeva di sentirla vicina; ed anche quella notte gli parve che qualche cosa di soave passasse improvvisamente per l’aria: non soffio di vento, non profumo, non melodia, ma qualche [p. 60 modifica] cosa di più snervante, di più dolce. Era una carezza misteriosa, il soffio di lei che passava, sfiorandolo col suo vestito di velluto nero, accarezzandolo con le sue mani di piuma…

— Deve essere morto, il condannato, - egli pensò. - Sì, ricordo, quando morì mia madre, un anno fa, mi parve che due mani invisibili, lievi come piume, mi sfiorassero il viso.

Egli passeggiava lentamente, dall’estremità del precipizio alla strada. Il sonno lo vinceva. Un bel momento non potè più camminare, e sedette, stanco, sulla sporgenza del masso che dominava il precipizio. Mise il fucile sulle ginocchia, e gli parve che una mano invisibile gli chiudesse gli occhi.

Così, per un attimo, ad occhi chiusi, vide egualmente, ma quasi attraverso il velo d’un incantesimo, il mare senza colore, i lumi, gialli sulla linea nera delle coste vicine, le stelle, il chiarore suggestivo del faro: e sotto di sè udì il respiro lamentoso delle onde, e gli parve che l’isola fosse uno smisurato mandolino capovolto sulle onde, le cui corde vibrassero entro l’abisso del mare con un lamento d’infinito dolore. Dormire, dormire! Mai come in quel momento egli aveva sentito lo spasimo del sonno non soddisfatto. Gli pareva di udire dei passi furtivi e pensava sempre al condannato agonizzante, forse già morto: quello, almeno, s’era addormentato una buona volta! Egli lo conosceva; lo aveva parecchie volte sorvegliato mentre i condannati riattavano il lastrico della strada: era un muratore romagnolo, uno dei tipi [p. 61 modifica] più miti del penitenziario, un uomo alto, magro, curvo, dal viso dolce di vecchio biondo, con due piccoli occhi giallognoli sorridenti.

Eppure... Eppure gli pareva di sentir davvero un fruscìo di passi misteriosi. Riaprì gli occhi, si scosse. Silenzio profondo. Storie di forzati evasi gli tornarono in mente. Pochi mesi prima cinque condannati, fra i quali un vecchio settantenne, erano evasi con astuzia meravigliosa, profittando appunto della barca d’un pescatore d’ostriche; ma giunti alla riva opposta non avevano saputo nascondersi, vagando per otto giorni sulle colline troppo frequentate: così erano stati cacciati come animali selvaggi, e ripresi e inchiodati di nuovo, spoglie di avoltoi, sulla cima dell’isola del castigo.

Suggestione o realtà? Un passo furtivo. Senza dubbio, un uomo scendeva strisciando lungo il muro dietro la strada. Serafino sollevò con un moto istintivo il fucile. Una pietruzza rotolò dal muro giù per la strada: non c’era più dubbio.

— Chi va là? [p. 62 modifica]

La sua voce risuonò stranamente chiara e metallica; poi, per molto tempo, tutto ritornò nel silenzio di prima.

Egli credeva di essersi ancora ingannato, quando un uomo saltò dall’alto del parapetto e scese rapidamente la strada.

— Chi va là?

Sebbene preparato a tutto, Serafino sentì un brivido salirgli dai piedi alla nuca.

— Stsss..., - soffiò l’uomo, avvicinandosi arditamente.

Nella penombra della notte si distinguevano le sue braccia protese in avanti, in atto di difesa e di supplica. Egli si fermò solo quando il fucile del soldato gli toccò una mano.

E dallo spavento passando alla meraviglia, Serafino riconobbe il condannato romagnolo.

— Fermo o vi ammazzo!

Il condannato si piegò, s’inginocchiò, sempre con le braccia protese, in atto di preghiera e di difesa istintiva.

— Dove andate? - urlò Serafino.

— Non gridate così, - pregò allora il condannato, con voce sommessa ma ancora sicura. - Legatemi, ecco le mani, ma non gridate. Siete cristiano e dovete sapere i comandamenti: non ammazzare. Sono vecchio e potete legarmi.

— Silenzio! - gridò ancora l’altro, dandosi un’aria terribile. - Dite dove volevate andare.

— Volevo evadere - rispose il vecchio, semplicemente, abbassando le braccia. [p. 63 modifica]

E accorgendosi senza dubbio che il soldato, nonostante la sua aria terribile, era «un cristiano», osò aggiungere:

— Lasciatemi andare: nessuno si accorgerà che sono passato di qui!

— Silenzio, o faccio fuoco! Adesso do l’allarme.

Allora accadde una scena rapida, commovente. L’uomo curvò ancora di più le spalle, si trascinò un po’ sulle ginocchia, e si rifugiò fra le gambe di Serafino, quasi cercando in lui una difesa contro gli altri che potevano da un momento all’altro sopraggiungere.

— No, no, figlio mio, cristiano, no, non chiamate, no, no - balbettava.

Poi, visto che Serafino lo esaudiva, ardì risollevarsi alquanto e sovrappose l’una sull’altra le mani tremanti.

— Legatemi, legatemi, - supplicò - ma non chiamate. Ho finto di essere malato per fuggire. C’è una donna, una vecchia, che mi aspetta da venti anni: è mia moglie. Ora mi ha scritto che sta male, tanto male, ma che morrebbe tranquilla se potesse vedermi ancora una volta. Le ho scritto che avrei fatto di tutto per contentarla, per darle questa gioia, dopo che per tutta la vita non le ho causato che dolori. Ora mi aspetta: bisogna che io tenga la parola, altrimenti quella muore disperata. Come farò se voi non avete pietà di me? Cristiano, abbiate pietà di me; no, di quella vecchia moribonda, che ha sempre sofferto. Se vostro padre si trovasse nelle mie condizioni, davanti a mio figlio soldato? Che dire[p. 64 modifica] ste voi? Lasciatemi andare, via; siamo tutti fratelli, nel mondo; chissà che un giorno non possa anch’io esservi utile. Ecco, - aggiunse, animato, confidando nel silenzio di Serafino, e volgendosi con le ginocchia verso lo scoglio - io scendo giù qui: la roccia non serba traccie: voi non avete visto niente di niente, e... Dio vi ricompenserà...

Serafino credeva di sognare. Avrebbe voluto dare l’allarme, legare l’uomo, compiere infine quello che i suoi superiori chiamavano «dovere», ma non poteva. Una forza misteriosa, come nei sogni, gli impediva quasi di muoversi. Il soffio ansante e supplichevole del condannato gli destava una profonda pietà, e quasi un senso d’ammirazione per quel vecchio essere che, dall’abisso della sua miseria, anelava ancora alla vita, con tanta fede e tanta passione.

Senza domandarsi se valeva più la sua o la vita del vecchio disgraziato, pensò che forse era giunta l’ora di morire. La sua morte poteva essere interpretata come un omaggio al dovere; no, non doveva lasciarsi sfuggire questa occasione.

— Andatevene - mormorò.

E rimise su il fucile e lo battè al suolo.

L’uomo allora gli abbracciò le ginocchia, in silenzio; poi mise una mano per terra, si sollevò gemendo. Alto, nero nella notte, mormorò una benedizione.

— Figlio mio, voi sarete felice e fortunato: la vostra fortuna sarà grande quanto la vostra carità... [p. 65 modifica]

Con gli occhi velati di lagrime, Serafino vide la lunga figura nera scavalcare l’orlo dello scoglio; e udì qualche piccolo frammento di roccia cadere giù, giù. Poi il canto lamentoso delle onde tornò a interrompere il silenzio della notte.

— Ricco e felice! — pensava Serafino. — Nessuno invece sarà mai più misero e infelice di me.

Non seppe perchè, in quel momento supremo, invece di rievocare qualche ricordo solenne, egli ripensò con amarezza che non aveva mai mangiato un cibo fino, tranne qualche ostrica ora che si trovava lassù. Poi gli vennero in mente altri ricordi meschini: la lotta affannosa per conservare il più che poteva intatte le scarpe; il lungo e vano desiderio d’un abito nero; i sacrifizi relativamente gravi per metter da parte il tanto da potersi comprare delle maglie di lana per l’inverno! Miseria delle miserie! Tutto era stato vecchio, umile, consunto in lui; e forse così anche la sua anima s’era logorata e ripiegata come un panno vecchio. Ma adesso tutto era finito. Finita la lotta contro la sorte, alla quale si sentiva lieto di strappare nel medesimo tempo due vittime: sè stesso e il vecchio condannato.

Non pensava che costui potesse averlo ingannato con la sua storia pietosa. [p. 66 modifica]

In quel momento egli vedeva solo la figura d’un uomo benedicente, e in fondo all’anima provava una infinita pietà per sè e per tutti gl’infelici pari suoi. Gli pareva fossero tutti simili a quei condannati, relegati in un’isola dalla quale invano si vedeva un luminoso orizzonte e il profilo azzurro di terre incantate, non raggiungibili; condannati custoditi dalle sentinelle incoscienti di una sorte stupida e crudele. Perchè non evadere da quel luogo di pena? Era il momento.

Egli rimette il fucile a terra, e appoggia la gola alla fredda bocca dell’arma.

È il momento supremo. Addio. Egli muore senza amore, senza speranza, senza fede, ma con una misteriosa dolcezza di pietà nel cuore. Nessuno piangerà per lui; ma egli muore piangendo per tutti coloro che non saranno mai compianti.

Ogni cosa è immobile e muta intorno: egli non vede più neppure la luce delle stelle e non sente più la voce del mare. Il gran manto di velluto nero della Morte copre e oscura tutte le cose.

Addio. Ma mentre egli sta per premere il grilletto, il fucile scivola e cade per terra, producendo un rumore vibrante. [p. 67 modifica]

A quel rumore egli sussultò e si svegliò: rivide le stelle, sentì il rumore delle onde lievemente agitate. Il fucile gli era realmente scivolato dalle ginocchia; ed egli, per qualche momento, non potè muoversi, neppure per raccattare l’arma, tanto l’impressione del sogno lo irrigidiva.

L’indomani venne a sapere che nell’ora in cui egli s’era addormentato sullo scoglio, il vecchio condannato era veramente evaso, fuggito per un varco ove nessuna sentinella poteva impedire il passo. Era morto.

La sera cadeva. Le acacie e le canne frusciavano come drappi di seta, sempre più nere sullo sfondo vitreo del cielo solcato di nuvole rosse. Le onde violacee e sanguigne s’increspavano appena contro il soffio già freddo del vento.

I soldati cantavano nel cortile, con urli melanconici di cani legati in luogo deserto.

Serafino, invece di mettersi davanti al portone, come prima usava, profittava delle ore di libertà per scrivere una novella. [p. 68 modifica]

Il canto dei soldati, smorzato dal fruscìo del vento, gli dava la stessa impressione sonnolenta e nostalgica del coro monotono delle donne che nelle sere estive, lungo la spiaggia da Bagnoli a Pozzuoli, si riuniscono per cantare assieme una specie di preghiera lamentosa. Egli scriveva sotto una suggestione dolorosa: sentiva un puerile desiderio di pregare, di maledire, di piangere. Gli pareva che attorno a lui le cose avessero misteriose significazioni; anche le più umili, come la goccia d’acqua che sul legno bianco del tavolo brillava al riflesso del tramonto, simile a una goccia di rugiada. Un gatto nero dagli occhi gialli, posato sullo spigolo del tavolo, guardava un po’ curioso, un po’ nervoso, e ogni tanto tirava fuori uno zampino e l’allungava tentando di afferrare la penna del soldato scrittore.

Qualche volta il soldato musicomane sedeva allo stesso tavolo e componeva una romanza con reminiscenze più o meno popolari. Il gatto allora guardava il movimento vibrato della mano del musicomane e tirava fuori lo zampino: ma un ohè senza repliche lo faceva rinculare dignitosamente.

Serafino scriveva, scriveva. Una sera il musicomane s’accorse che in fondo a una pagina lo scrittore metteva il suo nome e cognome.

— Me la farai leggere?

— Non posso, - disse sulle prime Serafino, ma dopo essersi fatto un po’ pregare cedette il manoscritto. [p. 69 modifica]

La novella era in forma di diario. Un soldato, relegato per qualche tempo a Nisida per la custodia dei forzati, si lascia giorno per giorno vincere dalla pietà per un condannato che lo prega di aiutarlo ad evadere. Il condannato è un muratore, addetto ai lavori della strada che dal mare conduce al penitenziario: quindi ha spesso occasione di parlare col soldato e di raccontargli una lunga storia d’ingiustizie e di dolori. Il soldato, che pure ha un fiero sentimento del suo dovere, finisce col lasciarsi convincere, e una notte, mentre è di guardia, vede passare il condannato e non osa dare l’allarme. Temendo però di venire scoperto, si suicida.

Il musicomane trovò la novella così commovente e umana, che la giudicò con la solita frase:

— Sembra una novella russa!

Serafino s’arrabbiò.

— E perchè non americana, anche? Figurati che questo fatto sia accaduto a me, - aggiunse battendosi il manoscritto sul petto.

— Tu sei ancora vivo!

— Eppure mi è accaduto... in sogno!

— In sogno?

— In sogno, sì, o in quel periodo della nostra esistenza che noi chiamiamo sogno, e che invece potrebbe essere realtà. Perchè, sappiamo forse noi dove comincia e dove finisce la realtà?

— Infatti, ascoltandoti mi par di sognare, - disse l’altro ironicamente. [p. 70 modifica]

E cominciarono una delle loro solite discussioni, dopo la quale si trovarono d’accordo solo nell’idea di risparmiare le spese di posta inviando nello stesso plico raccomandato, diretto a una Rivista di Milano, la romanza e la novella.

Per lungo tempo essi attesero invano la risposta.

Due anni erano trascorsi. Serafino, maestro di scuola in un piccolo paese meridionale, trascinava la vita melanconicamente. Aveva abbandonato ogni velleità letteraria, e gli pareva di cadere ogni giorno più in basso, in un luogo grigio e freddo. Nel paese ove abitava non si viveva che di pettegolezzi e d’ira. Egli stesso, con tutta la sua mansuetudine, veniva torturato a colpi di spillo. Il suo maggior nemico era il corrispondente di un giornale settimanale, un letterato che da tutti gli intellettuali del paese veniva proclamato come il più grande fra i giovani scrittori moderni. Questa grandezza non gl’impediva di temere un rivale nell’umile maestro, che aveva avuto l’ingenuità di parlargli delle sue novelle... cestinate. Invano Serafino affermava che non ne avrebbe scritto più: il letterato non pensava ad altro che ad annientarlo. Serafino soffriva, non tanto per i torti che gli venivano fatti, quanto perchè ogni giorno di [p. 71 modifica] più si convinceva che l’amore e la carità non esistono fra gli uomini.

Anch’egli, del resto, non amava nessuno: neppure i suoi trenta scolaretti monelli.

Una volta s’era proposto d’innamorarsi della più bella ed elegante signorina del paese, la figlia d’un ricco proprietario: una bruna che pareva una figurina di Zuloaga.

— Come l’amerei! — egli pensava. — Non sarei così sciocco da sognare di sposarla, ma se potessi baciarla ed esser baciato da lei una sola volta, se potessi sentire il suo cuore battere sul mio, mi parrebbe di rinascere. Soffrire per amore, come deve essere bello!

Ma quando egli passava sotto le finestre del ricco proprietario, la figurina di Zuloaga, che sognava di sposare un segretario di Ministero, gli chiudeva rumorosamente la finestra sul muso.

Egli abitava in una vecchia casa, o meglio in una casa di cui erano stati appena costrutti i muri, abbandonata poi e quasi caduta in rovina. Appena due stanze al pianterreno, mal riparate da un tetto di ardesia, servivano d’abitazione al maestro. Una scala di granito, ritrovo di lucertole e di ragni, conduceva ai piani superiori, e qualche volta Serafino s’arrampicava lassù, e vagava come le lucertole, e si affacciava al vano delle finestre [p. 72 modifica] vuote, e pensava che la vita, per lui, era come quella casa senza tetto e senza imposte, i cui muri invecchiavano inutilmente.

La montagna grigia e verde sorgeva dietro la casa: nelle notti di primavera egli sentiva l’odore dei ciclamini che crescevano sotto i boschi. Un piccolo orto incolto divideva la scuola dall’abitazione del maestro: nulla di più desolato e melanconico, specialmente nei giorni annuvolati d’autunno, di quel quadrato di terra coperto di solani neri, di vainiglie selvatiche e di cespugli di ruta dall’aspro odore. Un giorno d’autunno, appunto in uno di quei giorni umidicci e cenerognoli, quando tutte le cose appaiono come delineate su uno sfondo opaco e uniforme, ma sembrano più vicine, più legate a noi da misteriose simpatie, e basta l’odore della ruta o dell’assenzio grigio o una bacca giallo-rossa di rosaio inselvatichito per richiamarci in cuore tutto un lontano passato, Serafino ricevette una lettera col francobollo olandese. Egli guardò a lungo, meravigliato, la busta azzurrognola trasparente, sulla quale il suo nome, scritto con caratteri rotondi, gli destava una strana impressione. Dove, quando aveva veduto il suo nome scritto così? Ricordò che nella sua adolescenza, quando scriveva la prima novella, aveva sognato di diventare un celebre scrittore e di ricevere ogni giorno lettere eleganti da paesi lontani e da paesi vicini.

La lettera dall’Olanda era la prima lettera che egli riceveva dall’estero. Chi poteva aver pensato a lui in un paese lontano? [p. 73 modifica]

Ed egli aprì la lettera quasi tremando, preso da un senso di inquietudine angosciosa.

«12 ottobre, 1903.

«Signore,

«Ho letto nella Rivista di Milano la sua bellissima novella Pietà, e desidererei tanto, ove Ella non l’avesse ancora impegnata, tradurla in tedesco e olandese. Per la traduzione tedesca sarei già quasi sicura di collocarla nella Die Zeit, che, come ella sa, è una delle più note riviste di Vienna. Io sono tedesca, ma i parenti di mia madre erano olandesi, ed io che abito quasi tutto l’anno in questo paese, conosco perfettamente l’olandese. Sono stata parecchie volte in Italia, ed a Firenze ho avuto la fortuna di frequentare la casa del prof. Rigutini. Conosco quindi abbastanza l’italiano, ed Ella sarebbe quindi sicura d’una traduzione fedele. Durante un soggiorno a Napoli, ove conto di tornare anche quest’inverno, ho visitato l’isola di Nisida, dove si svolge la sua Pietà, ed anche per questa ragione la sua novella mi ha interessato. Altre ragioni, poi, mi hanno spinta a rileggere e m’hanno destato il desiderio di tradurre la sua novella, che mi è parsa veramente una vibrazione di pietà profonda e mi ha fatto ancora credere alla bontà dell’anima umana.

«Per le condizioni sarebbe facile intenderci, perchè io Le farei spedire direttamente dalla Die Zeit tutto il compenso della novella. [p. 74 modifica]

«La pregherei inoltre di farmi sapere se ha pubblicato altre novelle, e Le sarei grata se volesse darmi qualche sua notizia biografica, per una nota con la quale desidererei accompagnare la traduzione.

«Con la speranza di ricever presto una sua gradita risposta, la prego di credere ai sensi della mia sincera ammirazione.

«Elisabeth Kerker».

Serafino aveva sempre creduto che la gloria e la fortuna recassero un soffio ardente di gioia. Perchè dunque la lettera di Elisabeth Kerker, che per lui, in quel momento, rappresentava il colmo della fortuna e della gloria, gli dava quasi una specie di terrore?

Sulle prime egli non ebbe neppure il coraggio di rileggerla. Era un sogno? Volle convincersi del contrario guardandosi attorno e pungendosi la mano con una spilla: poi rilesse timidamente la lettera e la nascose, pauroso che qualche malevolo volesse rapirgli il suo tesoro.

Il suo primo pensiero, nel credersi già celebre, fu pur troppo la certezza che la gente invidiosa avrebbe fatto di tutto per avvelenargli la sua gioia. Ma egli si sentiva più buono del solito; e pur temendola, compassionava la gente invidiosa [p. 75 modifica] che per lo più è invidiosa perchè infelice. Ed egli, finalmente, si sentiva felice: tanto felice che aveva paura.

Aprì la finestra e sedette davanti al suo tavolino. Tutto era triste, grigio, silenzioso; ma per lui s’era spalancato un orizzonte immenso e fiammeggiante. Non dimenticò mai quell’ora di ebrezza dolce e paurosa.

«Gentilissima signora,

«Accetto la sua proposta, e la ringrazio con riconoscenza. Se sapesse il bene che Ella mi fa!...

«Io non sono uno scrittore, ma poichè Ella desidera sapere qualche cosa di me, mi permetta di dirle che sono un umile maestro elementare, un povero giovane esiliato in un paese triste e selvaggio. Sono solo, così solo, così abbandonato in questa triste solitudine, che una voce amica, anche lontana, basta a rincorarmi e a farmi sperare. La sua lettera, gentile signora, mi è giunta in un momento grigio, quando l’idea della morte mi accarezzava con la soavità d’una carezza materna. Ignoravo persino la pubblicazione della mia novella. La scrissi durante uno dei soliti tristi periodi della mia vita, mentre mi trovavo al servizio militare, in un’isola ove sorge un penitenziario. La mia novella è interessante perchè [p. 76 modifica] sentita: al posto del mio protagonista avrei fatto lo stesso. Anzi le dirò di più: ho sognato la mia novella. L’impressione di questo sogno fu così profonda in me, che per lungo tempo credetti di aver realmente veduto la figura del condannato che implorava da me pietà. Ancora la rivedo, questa figura, che mi benedice e mi augura fortuna. Sempre che sono stato infelice e invano ho anelato a un po’ di affetto e di carità umana, la profezia del condannato mi è tornata amaramente alla memoria e mi è parsa una ironia del destino: ma oggi comincio a credere che il mio sentimento di pietà verso il prossimo non sia stato vano. Tutte le ore arrivano, ed anche per me è arrivata un’ora di gioia. Oggi comincio a vivere; mi pare d’essermi svegliato da un lungo sonno, e sento una forza misteriosa svilupparsi in me. Credevo d’essere solo, esiliato nella vita, e ritenevo che la tanto decantata gioia di vivere esistesse solo nei romanzi sentimentali; invece sento che la voce del mio spirito può attraversare, ha anzi attraversato lo spazio ed ha richiamato la risposta di altri spiriti fratelli; e basta quest’idea - più che l’orgoglio di sapere il mio modesto lavoro conosciuto in terre lontane - per farmi amare la vita.

«Grazie, dunque, gentile signora, del bene che Ella mi ha fatto, e mi creda il suo riconoscentissimo

Serafino Rossi».

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«Signore,

«Ho ricevuto la sua lettera, e la ringrazio della sua confidenza verso di me. Ella è un’anima veramente nobile, ed io sono felice di averla conosciuta. Spero di ricevere da lei altre lettere non meno deliziosamente sincere di questa sua prima. Sento che ella è tanto giovane; io ho qualche anno più di lei; mi permetterà dunque di essere, oltre che la sua traduttrice, anche un po’ la sua amica lontana. Lontana per modo di dire, poichè oramai non esistono più distanze, tanto che, come ho letto giorni fa in un grazioso articolo del Figaro, ci sono delle signore che si rendono visita dall’Europa all’America.

«La sua lettera, egregio signore, mi ha interessato quanto e forse più della sua novella: mi ha fatto l’impressione d’una pagina di romanzo; ma chi non ha una pagina di romanzo più o meno bella, più o meno terribile, più o meno comica, nella propria vita?

«Nella sua Pietà, io avevo intuito appunto qualche cosa di vero, di sentito, che mi colpiva anche per una ragione speciale. Un vecchio amico della mia famiglia, che io amavo come un padre, venne, qualche anno fa, condannato per aver ucciso la sua seconda moglie che lo tradiva. Tentò di evadere e fu ucciso da un guardiano del penitenziario. La sua novella mi ha, come può [p. 78 modifica] figurarsi, profondamente colpito per questa ragione, ma anche per la sua forma semplice e suggestiva: io oserei consigliarle di proseguire a scrivere.

«Ho scritto anch’io parecchie novelle e ho tradotto poesie e romanzi italiani; anch’io, nei mesi che passo in questo paesello dell’Olanda meridionale, faccio scuola a una trentina di bambine povere. Come vede, i nostri destini si rassomigliano alquanto: io, però, ho più di Lei fede nella vita; tanto che oso dirle: Ella ha torto a lamentarsi. La povertà è sovente una fortuna (scusi il paradosso). L’uomo povero ha meno occasione del ricco di logorare inutilmente la sua vita: ha più del ricco i mezzi di vivere la vera vita morale; e, se non altro, la vita del povero è più completa perchè egli la deve, anche materialmente, tutta a sè stesso. L’uomo d’ingegno, poi, con un po’ di buona volontà arriva dove vuole. No, creda pura a me, la povertà è la minima delle sventure umane; del resto, la sorte è così capricciosa che spesso dà, spontaneamente e in un attimo, quanto per anni ed anni ha negato.

«Perdoni, egregio signore, se Le scrivo così malamente; vorrei possedere tutto il segreto armonioso ed espressivo della sua bella lingua per poterle spiegare tutte le mie idee filosofiche sulla vita, idee che purtroppo sono maturate nel mio cervello a furia (si dice così?) di esperienze dolorose. Ma voglio sperare che la nostra relazione continuerà, e così non mancherà occasione di conoscerci meglio e di discutere, ecc., ecc., eccetera». [p. 79 modifica]

L’ecc., ecc., eccetera, fu di Serafino, al quale l’ultima parte della lettera di Elisabeth Kerker parve troppo studiata.

— Deve essere una di quelle straniere ricche, con gli occhiali - egli pensò; - una persona ricca, insomma, di quelle che si beffano dei poveri prendendoli a proteggere e magari dicendo loro: beati voi.

Tuttavia scrisse ancora, prendendosi il gusto egoistico delle persone solitarie, di descrivere la propria casa, l’orto, la montagna coi relativi profumi, la scuola, i bambini, e infine tutta la cornice che s’adattava tanto al quadro melanconico della sua vita.

Quelle lettere furono naturalmente il primo capitolo di un romanzo epistolare, non più scipito nè più interessante di mille altri romanzi del genere, che capitano regolarmente a quasi tutti i giovani scrittori e alle giovani scrittrici.

Impossibile riprodurre qui tutta la corrispondenza dei due maestri, che durò un anno e sei mesi. [p. 80 modifica]

Dunque, un anno e sei mesi passarono. Due autunni umidi e gialli, una primavera calda, un’estate ardente, e due inverni tiepidi e chiari come primavere. Serafino non ricordava la tristezza o lo splendore delle altre stagioni attraversate da lui come da un viandante cieco; ma non dimenticò mai l’ardore di quella primavera e la dolcezza di quei due ultimi inverni passati nel villaggio ove viveva il letterato suo nemico.

Mai nemico soffrì più di questo letterato. Tutto il paese oramai riveriva il maestro per la semplice ragione che l’Amministrazione della Die Zeit gli aveva spedito dieci copie del giornale, e settanta fiorini in lettera assicurata. Veramente Serafino non aveva cercato la celebrità, nel paese ove insegnava; ma il segreto della sua gloria e della sua fortuna era stato tradito dall’ufficio postale.

Anche la figurina di Zuloaga un giorno guardò il maestro con occhi benigni, un po’ voluttuosi, ma egli oramai non s’accorgeva più di lei.

Anche se l’inverno fosse stato rigido e triste, egli non avrebbe sofferto il freddo e la miseria. Tutto oramai era bello e chiaro intorno a lui. Egli si sentiva amato: egli amava! Veramente [p. 81 modifica] Elisabeth non gli aveva mai scritto che lo amava, nè egli a lei, ma certe cose non occorre spiegarle: si capiscono.

D’altronde egli amava come aveva desiderato di amare: senza calcolo, senza speranza. Così, soltanto per amare. Elisabeth era molto ricca, anche più ricca della figurina di Zuloaga, ed anche orgogliosa, ma in modo diverso dalla signorina del paese. Una volta scrisse al suo amico queste parole:

«Io sono lieta che fra me e l’uomo che dirà di amarmi vi sia un grande ostacolo morale, uno di quegli ostacoli che non tutti hanno il coraggio di superare...»

Serafino non domandò neppure in che consistesse quest’ostacolo. C’era una macchia nel passato di Elisabeth? Poco gl’importava, sicuro come egli era di non arrivare mai alla sua traduttrice e di mai chiederle amore. Però, cosa strana, sebbene si fosse avverato il suo antico sogno romantico, ora egli non pensava più alla morte.

Arrivò così la seconda primavera: i muri rugginosi della casa incompleta si chiazzarono di musco, di fiorellini gialli, e dalla montagna scese l’odore dei ciclamini. [p. 82 modifica]

Per le vacanze di Pasqua, Serafino andò a Napoli. A Napoli comprò una cravatta di raso bianco con fiorellini di malva, e mettendosela davanti allo specchio del negozio s’accorse che gli stava bene, e che era un bel giovane, e pensò a una bizzarra notizia letta pochi giorni prima sul Mattino, d’una ricca americana che aveva sposato un conduttore della funicolare sul Vesuvio, semplicemente perchè questo conduttore era un bel giovane.

Dal negozio egli si recò all’Hôtel Cavour, dove si trovava Elisabeth, arrivata la sera prima da Roma.

Egli si sentiva stranamente calmo, deciso a mostrarsi dignitoso davanti alla ricca straniera; ma arrivato alla piazza della Stazione si fermò e si accorse che, suo malgrado, il cuore gli batteva forte.

Una folla pittoresca e multicolore animava la piazza; l’aria era tiepida, il cielo cosparso di nuvole d’un bianco perla luminoso che passavano rapide, come dirette ad un convegno.

Mentre comperava un mazzo di rose, Serafino vide una capra rossa e tranquilla, e guardò il capraro, un bellissimo giovanotto vestito come un dandy da commedia, col colletto alto e le scarpe gialle.

Allora egli si vergognò di aver pensato alla ricca americana e al conduttore della funicolare, e impugnando fieramente il mazzo delle rose si avanzò a testa alta verso l’hôtel. [p. 83 modifica]

*

Due ore dopo egli e la bella Elisabetta Kerker si trovavano sul piccolo molo di Bagnoli, in faccia a Nisida.

Elisabeth era bella quasi quanto un’italiana bella. Niente occhiali. Capelli e occhi neri, viso colorito, espressivo, fisionomia nobile, bocca grande e rosea. Ciò che non piaceva a Serafino - il quale aveva rinunziato a credersi bello davanti alla fresca bellezza della sua amica - era l’arricciar delle labbra di Elisabeth allorchè ella pronunziava qualche parola italiana difficile.

Ma a un tratto ella parlò in tedesco.

— Veda - aveva detto in italiano, guardando la riva luminosa ove il mare stendeva dolcemente il suo merletto di spuma azzurrognola - mi pare di leggere quella pagina meravigliosa delle Lettere che non lo raggiunsero, dove l’autrice racconta il suo sogno atavico, dirò così...

E in tedesco ripetè alcune frasi della «pagina meravigliosa».

— Vedevo un mare liscio come uno specchio, sopra il quale il cielo si distendeva a un’altezza infinita. Presso la riva stavano sedute due persone... sopra tutt’e due stava un infinito incanto di giovinezza, di alba, di cose primordiali...

Serafino non sapeva il tedesco, e non capì la profonda significazione del ricordo letterario di Elisabeth, ma parlando la sua lingua natìa le [p. 84 modifica] labbra della giovine donna avevano preso una linea così soave che egli le guardò come un assetato guarda un frutto maturo.

Ella sorprese quello sguardo e il suo volto s’accese. Serafino s’accorse che ella aveva arrossito e guardò lontano, deciso a non tradirsi più, a conservare tutta la sua dignità di povero. Però domandò innocentemente:

— Mi traduca in italiano quelle parole.

Elisabeth gliele tradusse, e toccò a lui ad arrossire.

Da quel momento egli cominciò a perdere la sua famosa dignità di povero. Elisabeth dunque l’amava non solo, ma lo invitava ad amarla. Egli non sapeva come doveva comportarsi: non era abbastanza ingenuo od orgoglioso per non profittare dell’occasione, ma non sapeva come cominciare. Avrebbe voluto raggiungere il più ardente dei suoi sogni; stringere Elisabeth fra le braccia e sentire il cuore di lei palpitare contro il suo. Null’altro.

Chi era Elisabeth? Donde veniva? Era libera? Era pura? Qual’era l’ostacolo da lei una volta accennato? egli non se lo chiedeva neppure. Vedeva una donna giovane, bella, elegante, che forse era venuta da lontano per lui, per lui solo, e che lo invitava ad amarla. Che sarebbe avvenuto dopo? [p. 85 modifica] Egli non lo sapeva: e giudicava inutile domandarselo.

Rimasero tutto il giorno a Bagnoli; assieme andarono a mangiare sotto il pergolato fiorito della piccola trattoria di Don Salvatore, davanti alla quale il vecchio stagnaro dal viso di bronzo, che vigilava il suo fornello primitivo, li salutò con una specie di tenerezza, credendoli due sposini; poi andarono a Nisida. La primavera mandava il suo dolce soffio anche sul mare: le onde parevano enormi ghirlande di fiori azzurri e dorati; un’aureola di nuvolette d’oro incoronava i profili delle colline verdi e delle isole azzurre: l’aria olezzava.

Ma Elisabeth, il cui busto snello e la testa elegante si disegnavano mirabilmente sull’azzurro del mare, era diventata triste, quasi cupa, col pensiero assente: pareva non accorgersi più di Serafino, ed egli non osava più guardarla.

Nisida s’avvicinava, perdendo lentamente la sua forma di enorme mandolino capovolto sul mare; apparivano sempre più vicine le sue case colorate, gli scogli turchini, le roccie, la casa bianca dei sepolti vivi...

Elisabeth guardava lassù, e non badava più a Serafino. Ma quando sbarcarono nell’isola, ella prese il braccio del compagno per attraversare il selciato livido del molo, e disse ridendo:

— In quasi tutti i romanzi v’è un capitolo, quasi di prammatica, nel quale due innamorati... o che stanno per diventarlo, fanno una gita, o una visita a un vecchio castello, o ad un convento, o [p. 86 modifica] ad una chiesa. L’autore coglie l’occasione per sfoggiare la sua cultura artistica, e i due innamorati colgono l’occasione per... spiegarsi. Credo però che nessuna coppia sia, come noi, andata a visitare un ergastolo!

— Ma davvero! - egli disse goffamente.

La voce gli tremava alquanto, il cuore gli batteva forte. Che voleva dire Elisabeth? Ch’era giunta l’ora di spiegarsi? La strada chiusa da due muraglie, di tanto in tanto interrotte da cancelli di ferro attraverso i quali si vedevano sfondi verdi e azzurri e lontananze ineffabili di mare e di cielo, era deserta, silenziosa, calda, coperta dal cielo luminoso. S’udivano gridi d’uccelli, qualche voce lontana, il picchiettìo dei tacchi di Elisabeth, dei quali uno batteva più forte dell’altro, il fruscìo della sua sottoveste.

Serafino non aveva che a stendere il braccio per stringerla a sè; e non aveva altro desiderio in cuore, altro pensiero in mente; ma non osava. Gli pareva che Elisabeth scherzasse: no, non era possibile che ella facesse sul serio. Lo stesso fruscìo delle vesti di lei metteva in guardia il povero maestro. Eppure egli aveva paura di parer ridicolo, con la sua goffa timidezza.

A un tratto la strada svoltò, s’aprì sopra un precipizio roccioso, in fondo al quale il mare sospirava un lieve lamento.

Elisabeth si fermò, e guardò con occhi pensosi il quadro meraviglioso che le si svolgeva davanti. [p. 87 modifica]

— Era un punto così? - domandò.

— Sì, - rispose Serafino, ricordando il suo sogno.

E non seppe per quale misteriosa legge mnemonica gli tornò in mente il ricordo del suo triste passato, come durante il suo sogno. E ora? Ora egli era là, amante e forse amato, là, con la sua compagna bella e intelligente, che veniva da lontano, che veniva così, come le onde, come l’aria, come le nuvole, come gli uccelli, e che forse aspettava solo una parola per offrirgli tutta la sua bellezza e la sua fortuna. E, con un ardimento quasi disperato, egli l’abbracciò.

Ella sollevò fieramente la testa, e allora egli s’accorse d’una cosa strana. Ella piangeva.

— Perchè? - egli domandò supplichevole. - Perdonatemi; sono pazzo. Ma ditemi una sola parola; ditemi che mi volete bene... poi, se vorrete, non mi vedrete più. Più, più... - ripetè come un bimbo, disperato per il dolore di lei.

— Non è per questo... - ella disse, riavvicinando il suo al viso di lui. - Io vi amo, ma piangevo per un’altra cosa... Ebbene, sì, proseguì, ve lo dirò adesso, altrimenti non potrei dirvelo più. Ricordate? Il vecchio amico che tentò di fuggire... dalla casa di pena... e fu ucciso da un guardiano che lo inseguì, era... mio padre...

— Elisabeth... Elisabeth...

Egli era pallido come un malato e il suo labbro inferiore tremava convulso. Non seppe dire altra parola. Nella rivelazione tragica di Elisabeth egli non capiva che una sola cosa. Elisabeth, che aveva [p. 88 modifica] immensamente sofferto più di lui, lo amava: egli non capiva altro.

Ella disse:

— Ecco perchè la voce della vostra anima lontana mi ha commosso. Voi avreste avuto pietà del mio babbo... voi avrete pietà anche di me...

No, veramente, fu lei ad aver pietà di lui. Nel vederlo tremare come un bambino, avvinghiato a lei, pauroso che ella gli sfuggisse, ella sorrise, con gli occhi ancora umidi, e avvicinò il viso un po’ reclinato al viso di lui, e baciò le sue labbra tremanti.