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Istoria del Concilio tridentino/Libro sesto/Capitolo VII

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Libro sesto - Capitolo VII (24 giugno - 16 luglio 1562)

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CAPITOLO VII

(24 giugno-16 luglio 1562).

[Difficoltá sorte fra i padri per la formazione del decreto sull’uso del calice. — Il contrasto fra il Simonetta e il Gonzaga. — Introduzione dell’inviato bavarese, che chiede riforma del clero, uso del calice ai laici, ammissione dei coniugati al sacerdozio. — Blanda e generica risposta del concilio. — Gli imperiali presentano richiesta dell’uso del calice per i paesi imperiali. — Discussioni in congregazione. I francesi si associano alla richiesta. — Ottengono i legati che dal decreto sia esclusa la concessione del calice, con dichiarazione di trattarne a parte. — Congregazioni preparatorie della sessione: si respingono le dilazioni chieste per attendere i prelati francesi e tedeschi. Esame dei nove capi di riforma. — Il vescovo di Veglia parla contro le dispense per retribuzione, quello di Fiinfkirchen contro le ordinazioni a titolo, quello di Csanad sulla necessitá d’iniziar la riforma dal papato. — Varia opinione dei legati sull’opportunitá di frenare la libertá di parola in concilio. — Vano tentativo dei francesi perché la sessione si limiti ad una proroga. — Gli articoli di riforma; proposte di emendamenti allo scopo di differire la sessione. — Sessione ventunesima: decreto della comunione del calice ed ai fanciulli, decreto che rinvia la decisione sulla concessione del calice, decreto di riforma. — Critiche mosse ai deliberati della sessione.]

Finite le congregazioni de’ teologi, inclinarono li legati a conceder il calice alla Germania con le condizioni di Paulo III e con qualche altre di piú; e ridotti con li loro confidenti, formarono il decreto per ciò sopra il primo, quarto e quinto, differiti gli altri, sin che pensassero come evitar le difficoltá da’ teologi messe inanzi sopra di quelli. E chiamata congregazione de’ prelati, proposero se piaceva che fossero dati li tre decreti formati, per dir li pareri nella prima congregazione. Granata, che penetrato aveva la mente dei legati ed era contrarissimo alla concessione del calice, contradisse, dicendo che [p. 418 modifica] conveniva seguir l’ordine degli articoli, qual era essenziale, essendo impossibile venir alla decisione del quarto e quinto senza aver deciso il secondo e terzo. Tomaso Stella, vescovo di Capo d’Istria, gli oppose che in concilio non conveniva andar con logiche, e con artifici impedir le giuste deliberazioni. Replicò il Granata che il medesimo era da lui desiderato, cioè che le cose fossero proposte alla sinodo ordinatamente, acciò camminando in confusione non inciampasse; fu seguito da Muzio Calino, arcivescovo di Zara; e al Capo d’Istria s’aggionse in soccorso Giovan Tomaso di Sanfelice, vescovo de La Cava, passando ambiduo a moti di parole piuttosto derisorie, che cagionò un poco di disgusto nelli spagnoli; e ne seguí tra li prelati un sussurro, che fu causa di licenziar la congregazione, dicendo il Cardinal di Mantoa agli arcivescovi che leggessero e considerassero le minute formate, e in un’altra congregazione si risolverebbe dell’ordine di trattare.

Questo luoco ricerca, perché spesse volte occorse il terminare le congregazioni per disgusto da qualche principal prelato ricevuto, che l’ordinaria causa di tal evenimento sia narrata. Di sopra è stato raccontato come nel concilio era buon numero di vescovi pensionati del pontefice; questi tutti riconoscevano e dependevano da Simonetta, come quello che piú particolarmente degli altri era preposto agl’interessi del pontefice e aveva le instruzioni piú arcane. Egli, essendo uomo di acuto giudicio, si valeva di loro secondo la capacitá di ciascuno: e in questo numero ne aveva alcuni misti di ardire e facezie, de’ quali si valeva per opporre nelle congregazioni a quelli che entravano in cose contrarie alli suoi fini. Questi erano esercitati nell’artificio del motteggiare saviamente per irritar gli altri o metterli in derisione, senza sconciarsi ponto essi, ma conservando il decoro. Merita il servizio che prestarono al pontefice e al cardinale che ne sia fatta particolare menzione. Questi furono li due soprannominati Cava e Capo d’Istria, Pompeo Giambeccari bolognese, vescovo di Sulmona, e Bartolomeo Sirigo di Candia, vescovo di Castellanetta; ciascuno de’ quali alle qualitá comuni della sua patria aveva [p. 419 modifica] aggionte le perfezioni che nella corte romana s’acquistano. Questi esacerbarono anco li disgusti nati tra Mantoa e Simonetta, de’ quali s’è toccato di sopra, coll’andar sparlando e detraendo a Mantoa cosí in parole per Trento, come con lettere a Roma; il che era attribuito a Simonetta, dal quale li vedevano accarezzati; dal che purgandosi Simonetta col secretario di Mantoa e col vescovo di Nola, disse che per quel poco rispetto portato ad un tanto cardinale gli averebbe separati dalla sua amicizia, quando non fosse stato il bisogno che di loro aveva, per opporli nelle congregazioni alle impertinenze che erano dette dalli prelati.

Agostino Baumgartner, ambasciator di Baviera, essendo stato due mesi come privato in Trento per la pretensione di precedere li veneziani, finalmente ebbe commissione dal suo principe di comparir in pubblico, e fu ricevuto nella congregazione delli 27 giugno. Sedette dopo li ambasciatori veneti, e fece prima una protestazione, dicendo che sí come le ragioni del suo principe sono validissime, cosí egli anco era pronto per defenderle in ogn’altro luoco; ma nel concilio, dove si tratta di religione, non vuole star in questi pontigli, e pertanto si contenta cedere; e che ciò fosse senza pregiudicio suo e d’altri prencipi germani del sangue elettorale dell’Imperio. Risposero al protesto li ambasciatori di Venezia, con dire che il loro dominio aveva giustamente la precedenzia, e che come il duca di Baviera li cedeva allora, cosí doveva cederli in ogni luoco. Prosegui l’ambasciator la sua orazione molto longa e libera, dove narrò lo stato della religione in Baviera, dicendo quella esser circondata da eretici, quali hanno anco dentro penetrato. Esservi parrochi zuingliani, luterani, flaciani, anabattisti e d’altre sètte, qual zizzania li prelati non hanno potuto sradicare, per esser la contagione non solo nell’infima plebe, ma anco nelli nobili. A che ha dato ansa la mala vita del clero, le gran scelleratezze del quale non potrebbe narrare senza offender le caste orecchie di quell’auditorio; ma bastarli dire che il suo principe gli rappresenta che vana sarebbe e infruttuosa l’emendazione della dottrina, se prima non erano [p. 420 modifica] emendati li costumi. Aggionse che il clero era infame per la libidine; che il magistrato politico non comporta alcun cittadino concubinario, e pur nel clero il concubinato è cosí frequente che di cento non si sono trovati tre o quattro che non siano concubinari o maritati secretamente o palesemente; che in Germania anco li cattolici prepongono un casto matrimonio ad un celibato contaminato; che molti hanno abbandonato la Chiesa per la proibizione del calice, dicendo che sono costretti ad usarlo per la parola di Dio e costume della primitiva Chiesa, il qual sino al presente è osservato nelle chiese orientali, e usato giá nella Chiesa romana; che Paulo III lo concesse alla Germania, e li bavari si lamentano del suo principe che lo invidii alli sudditi suoi; protestando che se il concilio non provvede, l’Altezza sua non potrá governar li populi e sará costretto ceder quello che non può proibire. Propose per rimedio ai scandali del clero una buona riforma, e che nelli vescovati s’introducessero le scole e accademie per educar buoni ministri. Dimandò il matrimonio de’ preti, come cosa senza la quale fosse impossibile in quell’etá riformar il clero, allegando il celibato non esser de iure divino. Richiese anco la comunione sub utraque specie, dicendo che, se fosse stata permessa, molte provincie di Germania sarebbono restate nell’obedienzia della sede apostolica, dove che le rimaste fino ad ora, insieme con le altre nazioni, come un torrente se ne dipartono; che non ricerca il duca li tre su detti rimedi per speranza alcuna che vi sia di ridur li sviati e li settari alla Chiesa, ma solo per ritener li non ancora divisi. Replicò esser necessario principiar dalla riforma, altrimenti tutta l’opera del concilio riusciria vana; ma riformato il clero, che il suo principe, se sará richiesto della sua opinione nella materia dei dogmi, opportunamente potrá forse dire cosa degna di considerazione; la quale non occorreva dir in quel tempo, non essendo pertinente trattar di far guerra al nemico, non avendo stabilito prima le forze proprie in casa. Nel filo del parlare spesso interpose che tutto ciò era dal suo principe detto non per dar legge al concilio, ma per insinuarlo riverentemente: e con questo concetto anco finií. Rispose la sinodo [p. 421 modifica] per bocca del promotore, che giá molto tempo avendo aspettato qualche principe o legazione di Germania, ma sopra tutti il duca di Baviera, antemurale della sede apostolica in quella regione, con grande allegrezza vedeva jl suo ambasciatore; quale riceve, e s’affaticherá, come anco ha fatto, per ordinare tutto quello che giudicherá esser di servizio divino e salute de’ fedeli.

Li francesi, udendo questa orazione, sentivano grandissimo piacere di non esser soli nell’ammonir liberamente li prelati di quello che era necessario raccordarli; ma udendo la risposta, s’eccitò in loro un’estrema gelosia che questa fosse graziosa, dove quella fu piena di risentimento. Ma non ebbero ragione di dolersi, perché quantonque il bavaro mordesse piú acutamente il clero in generale, nondimeno delli padri del concilio parlò con molta riverenza; dove l’orazione francese parve tutta drizzata a repressione di quelli che l’udivano; senza che a loro fu fatta risposta consultata, e al bavaro sprovvista. Ma l’una e l’altra fu ugualmente trattata, essendo state ambedue udite con le sole orecchie.

Li ambasciatori imperiali, considerato che nelle congregazioni de’ teologi li giorni inanzi dalli spagnoli e maggior parte delli italiani era stato parlato contra la concessione del calice, e da molti detto esser eretici quelli che la dimandano, per rispondere a questa e altre loro obiezioni, e per coadiuvare la proposizione del bavaro, e a fine di prevenire li prelati che non dassero nelle impertinenze dalli teologi usate, formarono in quella materia una scrittura, che nella medesima congregazione, finito il ragionamento di quell’ambasciatore, presentarono. La sostanza della quale fu: che per il carico suo hanno giudicato d’avvertir li padri d’alcune cose, inanzi che dicessero il loro parere; che li teologi nelli prossimi giorni avevano ben parlato quanto alle regioni e paesi loro propri, ma non molto a proposito per le altre provincie e regni. Pregavano li padri ad accomodar le sentenzie loro, sí che portino medicina non alle parti sane, che non ne hanno bisogno, ma ai membri mal affetti; il che faranno appositamente, se [p. 422 modifica] conosceranno quali siano le parti inferme, e che aiuto richiedino. E incominciando dal regno di Boemia, non esser bisogno andar tropp’alto, né far menzione delle cose trattate in Constanza; ma soggionger solamente che in quel regno, dopo quel concilio, nessuna pratica, nessuna forza o guerra ha potuto levar il calice. Che la Chiesa benignamente sotto certe condizioni glielo concesse, le quali dopo, non essendo servate, Pio ii lo rivocò; ma Paulo e Giulio III, per acquistar quel regno, mandarono nonci a permetterglielo, se ben il negozio per impedimenti non si condusse a perfezione. Ora in questi tempi, avendo l’imperator a sue spese instituito l’arcivescovato di Praga e ottenuto nei comizi di Boemia che li preti calistini non si ordinassero se non da quello e lo riconoscessero per legittimo prelato, ricercò la Maestá sua dal sommo pontefice che non si lasciasse perder quest’occasione di racquistarli. Avendo la Santitá sua rimesso il tutto al giudicio del concilio, in potestá di quello resterá conservar il regno, concedendoli il calice. Quei populi esser differenti in poche cose dalla Chiesa romana; non aver mai voluto sacerdoti maritati né ordinati da vescovo fuori della comunione della sede apostolica; nelle preghiere fanno menzione del pontefice, delli cardinali e vescovi. Se hanno qualche differenza picciola nella dottrina, facilmente potersi emendare, purché se gli conceda il calice. Non esser maraveglia che una multitudine rozza abbia concepito una tal opinione, poiché uomini dottissimi, pii e cattolici defendono che maggior grazia si ottenga nella comunione di ambe le specie che di una sola. Ammonivano li padri di avvertire che la loro troppa severitá non li induca a desperazione, e li faccia gettar in braccio alli protestanti. Aggionsero esser cattolici in Ongaria, Austria, Moravia, Silesia, Carinzia, Carniola, Stiria, Baviera, Svevia e altre parti di Germania, che con gran zelo desiderano il calice; il che conosciuto da Paulo III, concesse ai vescovi di comunicarli con quello; ma per molti impedimenti non si mandò ad effetto. Di questi vi è pericolo, se il calice li è levato, che non si voltino ai luterani. Li teologi nelle loro pubbliche dispute aver mosso dubbio che questi che [p. 423 modifica] richiedono il calice siano eretici; ma che dalla Maestá imperiale non è procurato se non per cattolici: ben vi è speranza con questa concessione di redur anco molti protestanti, come giá alcuni di essi protestano che si ridurrebbono. Sono sazi delle novitá, e si convertirebbono; altrimenti il contrario doversi temere. E per rispondere a chi richiese questi giorni passati chi è quello che ciò dimanda, se gli dica che la Maestá cesarea richiede che l’arcivescovo di Praga possi ordinar sacerdoti calistini, e li ambasciatori del clero di Boemia richiedono l’istesso per quel regno; e se non fosse stata la speranza di ottenerlo, non vi sarebbe piú reliquie de cattolici. In Ongaria constringono li sacerdoti con levar li beni e minacciarli su la vita a dar loro il calice; e avendo l’arcivescovo di Strigonia castigato per ciò alcuni sacerdoti, il populo è restato senza preti cattolici; onde si sta senza battesmo, e in una profonda ignoranzia della dottrina cristiana, per dar facilmente nel paganesmo. In fine pregorono li padri ad aver compassione, e trovar finalmente modo di conservar quei populi nella fede, e racquistar li sviati.

In fine della congregazione li legati diedero le minute formate sopra li tre primi articoli, per non incontrar nell’opposizione della congregazione precedente. E nelli giorni seguenti li padri trattarono sopra di quelli; e sopra il terzo si allargarono molto, entrando a parlare della grazia sacramentale, se piú se ne riceva comunicando le due specie: e chi defendeva l’una e chi l’altra parte. Il Cardinal Seripando diceva che, essendo stata discussa la medesima difficoltá nel concilio in tempo di Giulio, fu deliberato che non se ne parlasse: con tutto ciò fecero alcuni prelati instanza che si dechiarasse; ma non fu ricevuta per le contrarietá delle opinioni, e perché la maggior parte teneva che l’una e l’altra opinione fosse probabile: ma per evitar ogni difficoltá fu concluso di dire che si riceve tutto Cristo, fonte di tutte le grazie. Si preparavano alquanti vescovi per partir da Trento, di quelli che, per aver parlato con molto affetto e ardore della residenza, si vedevano esosi e dubitavano, perseverando, di qualche grave incontro. [p. 424 modifica] Tra questi era Modena, altre volte nominato, soggetto di buone lettere e sincera conscienzia, quello di Viviers, e Giulio Pavesi arcivescovo di Surrento, e Pietro Paolo Costazzaro vescovo di Acqui, e altri che avevano dalli legati ottenuta licenza: da Mantoa per vederli (come amici che gli erano) liberati, e dagli altri per rimovere l’occasioni di disgusti. Ma l’ambasciator di Portogallo dimostrò alli ligati che questo sarebbe stato con detrimento della fama del concilio, sapendosi da tutti la causa perché partivano, e sarebbe stato detto che non vi fosse libertá; che sarebbe riuscito anco con poco onore del pontefice: onde risolvettero di farli fermare, massime intendendo che, quando quelli fossero partiti, altri si preparavano per chieder licenza.

Differendo li legati di propor gli altri articoli per le difficoltá che prevedevano, il dí 3 luglio gli ambasciatori imperiali e bavaro fecero instanza che sopra quelli fossero detti li voti. A questo effetto, fatta il di seguente congregazione, li ambasciatori francesi presentarono una scrittura, esortando li padri a concedere la comunione del calice, fondando la sua richiesta con dire che nelle cose de iure positivo, come questa, conveniva condescendere e non ostinarsi tanto, ma considerar la necessitá del tempo, e non dar al mondo scandolo con mostrarsi tanto tenaci in conservar li precetti umani, e negligenti nell’osservanza delli divini, non volendo riforme; e in fine richiesero che, qualunque determinazione facessero, fosse accomodata sí che non pregiudicasse all’uso dei re di Francia, che nella sua consecrazione ricevono il calice, né al costume di alcuni monasteri del regno, che in certi tempi lo ministrano. Nella congregazione, però, altro di piú non si fece, se non che furono dati fuori tutti li sei capi della dottrina per trattarne nelle seguenti.

Restarono li legati attoniti, considerata l’esposizione de’ francesi, comprendendo che fossero uniti cogl’imperiali, e che tanto maggiormente convenisse loro camminar con cauzione: e ben ponderando li motivi de’ francesi di allargare li precetti positivi, avvertirono che la concessione del calice, oltre le difficoltá proposte, tirava seco molte altre in diverse materie. [p. 425 modifica] Raccordavansi la petizione del matrimonio de’ preti fatta dal bavaro, e che due giorni inanzi in convito, alla presenza di molti prelati invitati, Lansac, esortandoli a compiacer l’imperatore nella petizione del calice, si lasciò intendere che la Francia desiderava le orazioni, uffici divini e messe in lingua volgare, e che fossero levate le figure de’ santi e concesso alli preti potersi maritare. E conoscendo che piú facilmente si fa ostacolo alli principi che alli progressi, e con minor fatica si proibisce l’ingresso che si scaccia uno di casa, risolsero che non era tempo di trattar del calice. Operarono col Pagnano, agente del marchese di Pescara, che facesse instanza acciò non si venisse alla determinazione prima che il suo re ne fosse avvisato; intermisero le congregazioni del 6 e 7, per trattar quei giorni con li imperiali che si contentassero di differir quella materia, allegando diverse ragioni, la piú concludente de quali era la brevitá del tempo per far li padri capaci che la concessione fosse necessaria. Finalmente dopo longa trattazione condescesero li ambasciatori a contentarsi che si differisse tutta la parte spettante alli dogmi. Né questo piacendo alli legati, in fine li ambasciatori consentirono che si differisse quel solo punto, facendo però menzione della dilazione nel decreto, con promissione di determinarne un’altra volta. Restava da trattar con li francesi, dove trovarono piú facilitá che non credettero; dicendo essi che quella non era cosa da loro proposta né ricercata, ma solo in quella avevano fatto assistenza agl’imperiali. Superata questa difficoltá, si diedero a formar li decreti; il che acciò si potesse con maggior prestezza eseguire, fecero intendere che, volendo alcuno raccordare qualche cosa, la ponesse in scritto, acciò non si tardasse la composizione.

Nella congregazione delli 8 Daniel Barbaro, patriarca d’Aquileia, nel suo voto disse che essendo venuta nova dell’accordo di Francia, e dovendosi perciò credere che molti prelati venirebbono, saria bene aspettar di trattar dei dogmi sino al loro arrivo: né essendo di ciò fatta instanza da altri, meno dalli stessi ambasciatori francesi, la proposta cadette da [p. 426 modifica] sé. Nella seguente congregazione Antonio Agostini vescovo di Lerida raccordò che fosse ben far menzione delle consuetudini di Francia, secondo l’instanzia delli ambasciatori, ponendovi parole che riservassero li privilegi di quel regno; soggiongendo che ancora dopo la determinazione del concilio di Costanza li greci non sono stati vietati dal comunicare col calice, avendolo per privilegio, quale egli ha veduto. Né essendo seguito da altri che da Bernardo del Bene fiorentino, vescovo di Nimes, anco questo raccordo fu posto da canto. Dopo la congregazione, l’ambasciator Ferrier richiese l’Agostini, con curiositá, del tenore, autore e tempo di quel privilegio; il quale avendo egli riferito a papa Damaso, rise l’ambasciatore, essendo cosa certa che nella Chiesa romana cento anni dopo Damaso l’astenersi dal calice era stimato sacrilegio, e che l’ordine romano descrive la comunione de’ laici sempre col calice, e che sino del 1200 Innocenzio III fa menzione che le donne ricevevano il sangue di Cristo nella comunione.

Il dí 10 Leonardo Haller tedesco, vescovo titular di Filadelfia, arrivato la settimana inanzi, dicendo il suo voto sopra li decreti, fece una digressione in guisa d’orazione formata, ricercando li legati e la sinodo che s’aspettassero li prelati di Germania, usando diverse ragioni, e, fra le altre, tre che furono mal ricevute dalla congregazione, cioè, che non s’averebbe potuto chiamar quello concilio generale, dove fosse mancata una nazione intiera principale della cristianitá; che il camminar inanzi senza aspettarla sarebbe un precipitar li negozi; che il pontefice doveva scriverli e chiamarli particolarmente. Non era consapevole il buon padre degli uffici che il pontefice aveva fatto per mezzo del Delfino e Commendone suoi nonci due anni inanzi in Germania, e delle risposte fatte loro da protestanti e da cattolici; da quelli negando voler, e da questi scusandosi non poter trovarsi al concilio. Fu pensier di molti che dalli ambasciatori imperiali fosse stato mosso, quali, poiché si differiva di risolvere la proposta del calice, averebbono voluto prolongare il rimanente ancora.

Nella seguente congregazione furono letti nove capi di [p. 427 modifica] reformazione giá stabiliti. E al primo, del far le ordinazioni gratuite, Alberto Duimio vescovo di Veglia, che come giorno una settimana prima non s’era trovato a trattar di questa materia, disse che teneva quel capo per molto imperfetto, se insieme non si statuiva che parimente a Roma si restasse di esiger pagamento per le dispense di ricever gli ordini fuori dei tempi, inanzi l’etá, senza licenza ed esamine dell’ordinario, e sopra le irregolaritá e altri impedimenti canonici, poiché in queste si fanno le gran spese; che alli poveri vescovi, che per il piú non hanno di che vivere, si dá una picciola limosina, la qual egli vivamente sente che si levi, non però dando al mondo questo scandolo di decimar la ruta e rubar gli ori e li argenti. Con questa occasione si estese a tassare li pagamenti che in Roma si sborsavano per ogni sorte di dispensa; e soggionse che quando dispense li sono state presentate, o per ordinazioni o per altro, ha costumato d’interrogare se per quelle avevano pagato; e inteso di sí, non ha mai voluto eseguirne né ammetterne: che lo diceva pubblicamente, perché cosí era debito d’ogni vescovo di fare. Al che essendo risposto che di questo s’era giá parlato in congregazione, e risoluto di rimettere questa risoluzione al papa, il qual con maggior decoro può riformare gli uffici di Roma, replicò il vescovo che ne aveva parlato la quaresima passata in Roma piú volte a chi poteva provvederci, ma particolarmente una volta in casa del Cardinal di Perugia in presenza de molti cardinali e prelati di corte, e dette le stesse cose; da’ quali fu risposto che erano cose da propor in concilio: ora intendendo il contrario, non ne parlerá piú, poiché si vede la provvisione esser rilasciata a Dio.

Il Cinquechiese al secondo, delle ordinazioni a titolo, disse esser piú necessario provvedere, secondo li antichi instituti, che nessuno sia ordinato senza titolo ed ufficio, che senza entrata, essendo scandolo eccessivo che si vedano molti farsi preti non per servir a Dio e alle chiese, ma per goder un ozio congionto con molto lusso e una buona entrata: che a questo la sinodo doveva metter spirito e trovar modo che [p. 428 modifica] nessuna persona ecclesiastica fosse non dedicata a qualche ministerio, per aver egli osservato che in Roma, in questi prossimi tempi, sono stati dati vescovati ad alcuni solamente per promoverli, li quali in breve tempo li hanno resignati, restando vescovi titolari solamente per l’ambizione della dignitá; la qual invenzione l’antichitá averebbe detestata come pestifera. Al quarto capo, del divider le parrocchiali grandi e numerose, dopo aver lodato il decreto, aggionse che era piú necessario dividere li vescovati grandi per poterli governare, allegando che in Ongaria ve ne sono di dugento miglia di longhezza, quali non possono esser visitati e ben retti da un solo. Le qual cose non furono ben interpretate dalli aderenti romani, parendo che tutti fossero volti a rinnovar la trattazione della residenza.

Diede ancora peggior sodisfazione il vescovo di Canadia, della medesima nazione, proponendo sotto metafore la riforma dell’istesso pontefice, dicendo che non si potevano levar le tenebre dalle stelle, se non levatele prima dal sole, né medicar il corpo infermo, lasciando le indisposizioni nel capo, che le influisce a tutte le membra. E sopra l’ultimo capo delli questuari, disse non esser dignitá del concilio né utilitá della Chiesa incominciar la riforma dalle cose minime; doversi trattar prima delle cose d’importanza, e riformar prima li ordini superiori, e poi li inferiori: alle qual sentenze pareva che arridessero molti prelati spagnoli e qualche italiani ancora. Ma parte con dire che quei decreti giá erano formati, e che il tempo sino alla sessione, che era di tre giorni, non comportava che si potessero digerire nove materie; parte con far quelle opposizioni che si poteva alle cose dette da questi, e con assicurare che il pontefice averebbe fatto una strettissima riforma nella corte, li rimedi agli abusi della quale meglio si potevano e discernere e applicare a Roma, dove l’infermitá è meglio conosciuta che in concilio; e con altre tal ragioni furono deluse le provvisioni raccordate da questi e da altri prelati, e furono fatti contentar delli nove articoli per allora.

Ma finita la congregazione, li legati e altri pontifici rimasti insieme, attese le cose udite, discorsero che cresceva ogni [p. 429 modifica] giorno l’ardire delli prelati a dire cose nove, sediziose, senza rispetto, che si doveva chiamar non libertá ma troppa licenza; e li teologi ancora con la longhezza del dire occupano troppo il tempo, contrastando tra loro di niente e passando spesso alle impertinenze; che seguendo cosí non si vederá mai il fine del concilio; e oltra ciò esservi pericolo che il disordine s’aumenti e produca qualche sinistro effetto. Giovan Battista Castello, promotore, che aveva esercitato l’istesso ufficio nella precedente riduzione sotto Giulio, raccordò che il Cardinal Crescenzio soleva, quando li prelati uscivano delle materie proposte, senza rispetto interromperli, e troncar anco il filo del ragionamento, e alli troppo prolissi farglielo abbreviare, e alcune volte imporli anco silenzio; che una o due volte cosí facendo anco al presente, s’abbreviarebbe li affari del concilio e si leverebbe le occasioni di ragionamenti impertinenti. Al cardinale varmiense non piacque questo raccordo: disse che se Crescenzio si governava in quella guisa, non è maraviglia se la Maestá divina non abbia dato buon progresso a quel concilio; che nissuna cosa è piú necessaria ad una sinodo cristiana che la libertá; e leggendo li concili delli migliori tempi si vedono nelli principi di essi contenzioni e discordie, eziandio in presenza dell’imperatori potentissimi in quei tempi, le quali per opera dello Spirito santo in fine tornavano in concordia mirabile: e quello era il miracolo che faceva acquetar il mondo. Eccessive esser state le contenzioni nel niceno concilio, e nell’efesino esorbitantissime; non esser maraviglia che al presente vi siano qualche dispareri maneggiati con modi civili. Chi vorrá per mezzi umani e violenti ovviarli, fará che il mondo, stimando il concilio non libero, li perderá il credito. Esser bene rimetter a Dio, che vuole esso regere li concili e moderar li animi delli congregati in nome suo. Il Cardinal di Mantoa approvò il parer di varmiense e biasmò l’instituto di Crescenzio, soggiongendo che però non era contrario alla libertá del concilio con decreti moderar li abusi, con prescrivere l’ordine del parlare e il tempo, distribuendo a ciascuno la parte sua. Questo fu anco dal varmiense lodato, e restarono che, fatta la sessione, si darebbe ordine a questo. [p. 430 modifica]

Ma poiché gl’imperiali furono fuori di speranza di ottener il calice, cessati li loro interessi, li francesi con alquanti prelati facevano ogn’opera di metter impedimenti, acciò nella sessione delli 16 non si facesse altro che differir alla seguente, come giá due volte s’era fatto. E li legati, per evitar la vergogna, s’affaticavano con ogni spirito per stabilir le cose, sí che si pubblicassero li quattro capi della comunione e li nove di riforma. Questi cercavano di rimovere, e quelli d’interporre ogni difficoltá. Con questi fini, restando solo due giorni alla sessione, si fece congregazione la mattina delli 14; nell’ingresso della quale Granata fece instanza alli legati che, attesa l’importanza della materia che s’aveva da trattare, prorogassero la sessione; e fece come un’orazione in mostrare quante difficoltá restavano ancora in piedi, necessarie da esser decise. Li legati, risoluti in contrario, non ammisero ragione alcuna, e diedero principio all’esame della dottrina, leggendosi il primo capo. E gionto a quel luoco dove si dice non potersi inferire la comunione del sangue per quelle parole del Signore in san Giovanni: «Se non mangerete la carne del figlio dell’uomo e beverete il mio sangue ecc.», entrò Granata dicendo che quel passo non parlava del sacramento, ma della fede, sotto metafora di nutrimento, allegando il contesto e portando l’esposizione di molti Padri e di sant’Agostino in particolare. Il cardinale Seripando si diede ad espor quel passo, come se leggesse in cattedra, e pareva che ognuno restasse sodisfatto: ma ritornò Granata a replicar con maggior veemenza, in fine richiedendo che se gli aggiongesse un’ampliativa, dicendo che per quelle parole non si poteva inferir la comunione del calice, intese come si volesse, secondo varie esposizioni de’ Padri. Questa aggionta ad alcuni padri non piaceva, ad altri non importava; ma pareva strano che, dopo concluse le cose, venisse uno con aggionte non necessarie a turbare le cose stabilite; e furono cinquantasette che dissero: Non placet. Ma per venir al fine, li legati si contentarono che vi fosse aggionta la clausula, che ben pare inserta con forza, e nel latino incomincia: Utcumque iuxta varias ecc. [p. 431 modifica]

Nel secondo capo, che tratta dell’autoritá della Chiesa sopra li sacramenti, venendosi ad un passo, che ella aveva potuto mutare l’uso del calice con l’esempio della mutazione della forma del battesmo, Giacomo Gilberto vescovo d’Alife si levò; disse che era una biastema, che la forma del battesmo era immutabile, che mai fu mutata, e che nell’essenzial dei sacramenti, che è la forma e la materia, non vi è alcuna autoritá. Sopra di che essendo fatte molte parole pro e contra, in fine si risolvè di levar quella particola.

Cosa longa sarebbe narrare quante cose furono dette, da chi per metter impedimenti, da chi per non tacere, sentendo gli altri a parlare. Ed è naturale, quando una moltitudine è in moto, il fare a gara a chi piú si scuota; né mai si raccoglie un collegio di ottimati cosí scelto, che non si divida in personaggi e plebe. La pazienza e resoluzione delli legati superò le difficoltá, sí che nella congregazione della sera furono stabiliti li capi di dottrina e li anatematismi; con tutto che il Cardinal varmiense, se ben con buon zelo, frappose esso ancora difficoltá a petizione d’alcuni teologi, quali l’avvertirono che nel terzo capo della dottrina, dicendosi li fedeli non esser defraudati di alcuna grazia necessaria alla salute ricevendo una sola specie, si dava grand’occasione di dispute; perché non essendo l’eucarestia sacramento necessario, con quella ragione si potrebbe inferire che la Chiesa lo poteva levar tutto: e molti prelati aderirono a quel raccordo, dimandando che si riformasse, perché la ragione allegata contra era evidentissima e irresolubile. E con difficoltá si fermò il moto dal Cardinal Simonetta, con dire che per la seguente congregazione fosse portato in scritto in minuta come s’averebbe dovuto riformarlo.

In quella congregazione nova occasione di disgusti portò il Cinquechiese, il qual essendo stato ammonito fuori della congregazione, per le parole dette che in Roma si davano vescovati solo per promover le persone, ritornò in quel ragionamento facendoci sopra longo discorso, come per dechiarire la sua intenzione con modo che pareva di scusa, ma era confermazione delle cose dette; con fine del ragionamento, che [p. 432 modifica] fu un’esortazione alli padri a dire li voti loro liberamente senza rispetto. Restò Simonetta assai alterato per li successi di quella congregazione; la qual finita, al varmiense dimostrò quanto fosse contrario al servizio della sede apostolica ascoltare la impertinenza de’ teologi, uomini soliti solamente a libri di speculazione e, per il piú, vane sottilitá, le quali essi stimano, e pur sono chimere; di che ne può prender pruova, perché non concordano tra loro. Giá tanti di essi aver approvato quel capo senza contradizione, e ora venir alcuni con novi partiti, quali, quando si sará al ristretto, saranno dagli altri contradetti. Esser cosa chiara che, dicasi qual parole si vuole, dalli amorevoli saranno difese e dalli avversari oppugnate, poco piú o meno sicure, poco importa: ma che dopo aver intimato due sessioni, e niente operato, si faccia l’istesso in quella terza, questo esser quello che fará perder irrecuperabilmente il credito al concilio; che a questo bisogna attendere a far qualche cosa. Restò convinto il varmiense, e rispose che tutto era stato da lui fatto per bene, essendoli inviati quei teologi dalli ambasciatori dell’imperatore. S’accorse Simonetta che la bontá di quel prelato era abusata dall’accortezza altrui, e comunicò anco con gli altri legati il dubbio che dagl’imperiali non li fosse cavato qualche cosa arcana di bocca, e appuntò con loro di avvertirnelo con buona occasione.

L’ultimo giorno ebbe ancora qualche incontri, perché il vescovo di Nimes, cosí indotto dalli ambasciatori francesi, fece instanza che nel primo capo della riforma, dove si concede al notario per le patenti degli ordini pagamento, non fosse pregiudicato alla consuetudine di Francia, che niente li vien dato. Fu seguito in ciò da alcuni spagnoli; e furono sodisfatti, aggiondendo nel decreto che la consuetudine fosse salvata. Altre mutazioni di poco momento furono richieste, e tutte concesse; e messo il tutto in punto per tener la sessione la mattina, li legati si levarono per partirsi. Ma Arias Gallego vescovo di Girona, fattosegli inanzi, li fermò, e disse che sedessero e l’udissero. Si risguardarono l’un l’altro; ma il desiderio di far la sessione gl’insegnò la pazienza. Sedettero, con disgusto de [p. 433 modifica] molti prelati, massime di corte; e il vescovo, fatto legger il capo delle distribuzioni, disse parerli cosa ardua che si conceda al vescovo di pigliar la terza parte delle prebende e convertirle in distribuzioni; che giá tutto era distribuzioni, e per abuso si sono fatte le prebende; e che il vescovo da Dio ha l’autoritá di tornar li mali usi alli buoni antichi; non esser giusto che, col dar il concilio al vescovo la terza parte dell’autoritá che ha, levargliene due terzi. Però si dechiarasse che hanno li vescovi ampia facoltá di convertir in distribuzioni quanto a loro pare conveniente. Approvò questa sentenza l’arcivescovo di Praga con altre ragioni, e pareva che con la faccia li altri spagnoli mostrassero di assentire. Ma il Cardinal di Mantoa, lodata molto la pietá di quei vescovi, affermato che quel fosse punto degno di esser consultato dalla sinodo, promise per nome comune delli legati, avutone cosí consenso da loro, che se ne sarebbe parlato la sessione seguente.

Venne il di 16, e con le solite ceremonie andarono li legati, ambasciatori e prelati alla chiesa. Nella messa non è da tacere che fu fatto il sermone dal vescovo di Tiniana, il quale non ebbe risguardo, con tutto che si fosse risoluto di non parlare per allora di concedere il calice, a prender per soggetto quella materia sola, e discorrere che l’uso del calice fu comune mentre durò l’ardor di caritá; ma quello diminuito, succedendo inconvenienti per la negligenza d’alcuni, non fu l’uso di quello interdetto, ma solo fu insegnato esser minor male l’astenersene a quelli che difficilmente potevano schifar l’irreverenza: con l’esempio de’ quali, altri in progresso, per non ubbligarsi alla diligenza, se ne astennero. Lodò nelli primi l’esempio memorabile di pietá, biasmò l’impietá delli moderni novatori, che per averlo hanno cosí grand’incendio eccitato; esortò li padri alla pietá e ad estinguer l’incendio, e non comportar che per loro colpa tutto il mondo abbruggi; condescendino alla imbecillitá dei figli, che non dimandano altro che il sangue di Cristo. Gli ammoní a non aver la perdita di tante provincie e regni per iattura leggiera; e poiché ora con tanto ardore e desiderio è richiesto quel benedetto sangue, non temino che s’abbia da [p. 434 modifica] usare l’antica negligenza per quale fu tralasciato, ma lo concedino; imperocché Cristo non li vuole cosí tenaci nella propria opinione, che mantengano tra li cristiani una discordia tanto perniciosa per quel sangue che egli ha sparso per unir tutti in strettissima caritá. Passò destramente ad una esortazione alla residenza, e finí, con poco gusto delli legati e d’altri, che desideravano metter in silenzio quelle materie.

Dopo finite le ceremonie, fu dal celebrante letta la dottrina in quattro capi, contenenti in sostanza:

I. Che la sinodo, andando attorno molti errori circa il sacramento dell’eucarestia, ha deliberato espor quello che tocca alla comunione sub utraque e delli fanciulli, proibendo a tutti li fedeli di creder, insegnar o predicar altramente. Pertanto, seguendo il giudicio e consuetudine della Chiesa, dechiara che li laici e clerici non celebranti non sono ubbligati per alcun divino precetto a comunicare sub utraque; e non potersi dubitar, salva la fede, che la comunione d’una sola specie non basti; che se ben Cristo ha instituito e dato il sacramento sotto due specie, da questo non s’ha da inferire che tutti siano ubbligati a riceverlo: né meno questo si può inferire dal sermone di nostro Signore narrato nel sesto capo di san Gioanni, dove se ben sono parole che nominano ambe le specie, ve ne sono anco che nominano quella sola del pane.

II. Dechiara oltre ciò esser stata sempre nella Chiesa potestá di far mutazione nella dispensazione dei sacramenti, salva la sostanza; il che si può cavare in generale dalle parole di san Paulo: «che li ministri di Cristo sono dispensatori dei misteri di Dio»; e in speciale nell’eucarestia, sopra la quale si riservò dar ordini a bocca. Che la Chiesa, conoscendo questa sua autoritá, se ben dal principio era frequente l’uso d’ambe le specie, nondimeno, mutata quella consuetudine per giuste cause, ha approvato quest’altra di comunicar con una, la qual nessun può mutare senza l’autoritá della medesima Chiesa.

III. Dechiara inoltre che sotto ciascuna delle specie si ricevi tutto Cristo e il vero sacramento; e chi ne riceve una sola, non è defraudato di alcuna grazia necessaria alla salute, per quello che al frutto s’aspetta. [p. 435 modifica]

IV. Finalmente insegna che li fanciulli inanzi l’uso della ragione non sono ubbligati alla comunione sacramentale, non potendo in quella etá perder la grazia; non condannando però l’antichitá del contrario costume in qualche luochi servato, dovendosi senza dubbio creder che non abbiano fatto ciò per necessitá di salute, ma per altra causa probabile.

In conformitá di questa dottrina furono letti quattro anatematismi:

I. Contra chi dirá che tutti li fedeli siano tenuti per precetto divino o per necessitá di salute a ricever tutte due le specie dell’eucaristia.

II. Che la Chiesa cattolica non abbia avuto giuste cause di comunicar li laici e non celebranti con la sola specie del pane, o vero in ciò abbia errato.

III. Contra chi negherá che sotto la sola specie del pane tutto Cristo, fonte e autor di tutte le grazie, sia ricevuto.

IV. Contra chi dirá la comunione dell’eucaristia esser necessaria alli fanciulli inanzi l’uso della ragione.

Dopo questi fu anco letto un altro decreto, dicendo che la sinodo si riserva con la prima occasione di esaminar e definir due altri articoli non ancora discussi, cioè: se le ragioni, per quali la Chiesa ha comunicato sotto una specie, debbiano esser ancora ritenute, e non concesso il calice ad alcuno; e se, parendo che si possi conceder per oneste ragioni, con qual condizione ciò si debbia fare.

Mentre la messa si cantò, Alfonso Salinerone e Francesco della Torre gesuiti fecero discorso, uno col varmiense, e l’altro col Madruccio, standogli dietro le sedie, che nel primo capo della dottrina s’era parlato con oscuritá in materia dell’instituzione del sacramento nell’ultima cena sotto due specie, e che bisognava parlar all’aperta, dicendo che Cristo l’aveva instituito per li apostoli e per li sacrificanti solamente, non per tutti li fedeli; che questa clausola era necessario rimetterla dentro per levar alli cattolici ogni dubbio e agli eretici ogni ansa di opporsi e calunniare; che essi, come teologi mandati dal pontefice, non potevano restare di avvisar in cosa di [p. 436 modifica] tanta importanza. E fecero cosí grand’instanza, massime Salmerone che col varmiense trattava, che, finita la lezione del decreto, questo prima, e Madruccio seguendolo, fecero la proposizione. La quale a molti piacque, ma dalla maggior parte fu ripudiata, non per lei in sé, ma per il modo di proporla alla sprovvista, senza dar tempo di pensare. Per la stessa causa non piacque agli altri legati; ma per decoro del luoco, senza maggior moto dissero che s’averebbe riservato alla seguente sessione, nella trattazione delli due articoli rimanenti.

Furono dopo letti li nove capi di riforma:

I. Che per la collazione degli ordini, dimissorie, testimoniali, sigillo o altro il vescovo o suoi ministri non possino ricever cosa alcuna, ancorché spontaneamente offerta: li notari, dove è consuetudine di non ricever e dove non hanno salario, possino ricever un decimo di scudo.

II. Che nessun chierico secolare, se ben idoneo, sia promosso ad ordine sacro, se non ha beneficio, patrimonio o pensione sufficiente per vivere; e il beneficio non possi esser rinonciato, né la pensione estinta, né il patrimonio alienato senza licenza del vescovo.

III. Che nelle cattedrali e collegiate, dove distribuzioni non vi sono, o sono tenui, possi il vescovo convertir in quelle la terza parte dei frutti delle prebende.

IV. Che nelle parrocchiali di numeroso populo li vescovi constringano li rettori a pigliar aiuto d’altri sacerdoti; e quelle che sono grandi di spazio, siano divise, e provvisto alli rettori novi, se fará bisogno, anco constringendo il populo a contribuire.

V. Che li vescovi possino unir perpetuamente li benefici curati e non curati, per povertá e altre cause giuridiche.

VI. Che alli parrochi imperiti li vescovi diano coadiutori e castighino li scandalosi.

VII. Che li vescovi possino ridur li benefici delle chiese vecchie e ruinose ad altre, e far restorar le parrocchiali, costringendo anco il populo alla fabbrica.

VIII. Che possino visitar tutti li benefici che sono in commenda. [p. 437 modifica]

IX. Che sia levato in ogni loco il nome, ufficio ed uso di questore.

E in fine fu ordinata la sessione per il 17 del mese di settembre, con dechiarazione che la sinodo eziandio in congregazione generale possi abbreviar e allongar ad arbitrio cosí quel termine, come ogni altro che si assignerá alle seguenti sessioni.

Non furono le azioni di questo concilio in tanta espettazione nelli passati tempi quanta al presente, essendo convenuti tutti li principi in richiederlo, mandate ambasciarie d’ogni regione, congregato numero di prelati grande e quadruplo di quello che fu per l’inanzi; e, quello che piú era stimato, essendo stato dato principio giá sei mesi, e quelli consumati in quotidiane e continue trattazioni, con espedizione di molti corrieri e prelati da Roma a Trento e da Trento a Roma. Ma quando uscí in stampa la sessione, con una lingua da tutti era memorato il proverbio latino del parto delle montagne; particolarmente la dilazione delli due articoli era notata, parendo maraviglia che, avendo con quattro anatematismi fatto quattro articoli di fede, non avesse potuto dechiarare quello di conceder l’uso del calice de iure ecclesiastico. A molti pareva anco che quello dovesse esser trattato prima, poiché quando fosse stato concesso, cessavano tutte le dispute. Il terzo capo della dottrina fu assai considerato nella conclusione che, ricevendo il solo corpo di Cristo, non è fraudato il fedele di grazia necessaria, parendo una confessione che si perdi grazia non necessaria. E qui si dubitava se vi sia autoritá umana che possi impedir la grazia di Dio soprabbondante e non necessaria; e quando ben potesse, se la caritá concede questi impedimenti al bene. Due cose sopra le altre diedero a parlar assai. L’una, l’obbligazione imposta di credere che l’antichitá non tenesse per necessaria la comunione dei putti, perché, dove si tratta di veritá d’istoria, è cosa de fatto e de passato, dove non vale aver autoritá, che non può alterare le cose giá fatte. Ma è cosí noto a chi legge sant’Agostino che in nove luochi, non con una parola, ma con discorso asserisce la necessitá dell’eucaristia per li fanciulli, e [in] doi di essi la uguaglia alla necessitá [p. 438 modifica] del battesmo; anzi piú d’una volta dice che la medesima Chiesa romana l’ha tenuta e difinita per necessaria alla salute de’ fanciulli, e allega per questo Innocenzio pontefice, la cui epistola resta ancora, dove chiaramente parla. E maravigliavano come il concilio senza necessitá si fosse impedito in questo laberinto senza esito, e con pericolo che altri dicesse o Innocenzio o il concilio aver errato. L’altro, era il secondo anatematismo, con la dechiarazione che sia eretico chi dice la Chiesa non essersi mossa da giuste cause a comunicare senza il calice, che è fondar un articolo di fede sopra un fatto umano; e avevano per cosa molto mirabile confessar che l’uomo non è tenuto ad osservar il decreto se non de iure umano, ma a creder che sia giusto è ubbligato de iure divino; e poner per articoli di fede cose che si mutano alla giornata. Altri ancora aggiongevano che se vi erano quelle tanto giuste cause, conveniva dirle, e non constringer gli uomini con terrore a credere, ma con persuasione; che veramente quell’era un signoreggiare la fede, che san Paulo tanto detesta.

Sopra li capi della riforma generalmente si diceva che non potevano esser toccati particolari piú leggieri né piú leggermente, e che era imitato quel medico, il qual in corpo tisico attende a curare il prurito; e quel metter mano per forza in la borsa del populo per spesare il curato o per restaurar chiese pareva cosa molto strana, e quanto alla sostanza e quanto al modo: quanto alla sostanza, per esser superfluamente ricco il clero e piú tosto debitore alli laici per diversi ed evidenti rispetti; quanto al modo, perché né Cristo né gli apostoli mai pretesero constringere a contribuzioni, ma ben [diedero] facoltá di ricevere le volontarie: e leggendo san Paulo Alli corinti e galati, vederá il trattamento del patrone al bue che trebbia, e l’uffizio del catecumeno verso il catechizzante, senza però che quei operatori abbiano alcuna azione o dritto di esazione, né vi sia nel mondo autoritá pretoria che possi servigli.