Istoria del Concilio tridentino/Libro sesto/Capitolo X
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CAPITOLO X
(15-17 settembre 1562).
[A Roma l’ambasciatore francese insiste per la proroga della sessione: il papa mostra di rimettersi ai concilio. Come il Simonetta distornasse la proroga. — Nuove difficoltá ai decreti presentati. — Riunione degli ambasciatori: insistono perchè il concilio affronti in pieno la riforma. Risposta evasiva dei legati.— Vana insistenza degli spagnoli nell’ultima congregazione perché la sessione successiva si fissi a lungo intervallo e senza determinarne la materia. — Sessione ventiduesima. S’informa il concilio della professione di fede di Abd-Issu, patriarca d’Assiria. — Pubblicazione del decreto della messa, del decreto de vitandis et observandis nella medesima, di quelli di riforma, sulla concessione del calice deferita al papa e sulla nuova sessione al 12 novembre. — Malcontento dell’imperatore e dei suoi sudditi per il deferimento al papa della concessione del calice. — Giudizi sui decreti pubblicati, in particolare circa il vietato uso del volgare nella liturgia, l’ingerenza data ai vescovi nei beni delle opere pie e nella commutazione dei testamenti, la riserva concessa al papa nelle dispense. — Sodisfazione di Pio IV per l’esito della sessione, e sua tattica per vincere le resistenze che ritardano l’opera e la fine del concilio.]
Queste cose finite, erano angustiati li legati, non restando piú che tre giorni alla sessione e avendo ancora tante cose irresolute, e massime quella che piú importava, e dove ognuno trattava con veemente affetto, cioè la materia del calice; quando un accidente fece quasi risolver di allongar il tempo della sessione. Questo fu che, avendo l’ambasciator di Francia in Roma fatto instanza efficace a nome del re col pontefice che facesse differire sino all’arrivo de’ suoi prelati, il pontefice, quantonque non udisse cosa piú dispiacevole che parlare di prolongazione di concilio (cosí per propria inclinazione come per comune delli cardinali e di tutta la corte, che era in speranza e intenso desiderio di doverlo veder finito e dissoluto per tutto decembre), avendo nondimeno risposto, per non manifestar li suoi timori, che a lui niente importava, ma tutto doveva dependere dalla libertá dei padri (li quali non era maraviglia se aborrivano la dilazione, risguardando la longa e incomoda dimora), alli travagli de’ quali era giusto portar rispetto, e che egli non poteva né doveva costringerli o ver imporgli legge contra l’uso accostumato; che averebbe scritto alli legati l’instanzia fattagli e dichiaratosi quanto a sé di contentarsi della dilazione; che questo tanto si doveva da lui richiedere, e doveva sodisfare il re; in questa sostanza scrisse, aggiongendo che usassero quella permissione, come paresse piú ragionevole ai padri. La qual lettera, aggiorto l’esser li decreti mal in ordine, e quel che fu scritto dal Delfino, noncio appresso l’imperatore, e l’instanza degl’imperiali che non si pubblicasse il decreto della messa, fece inclinar parte delli legati a differire. Ma Simonetta, che intese la mente del papa piú come era nel capo di quello che come nella lettera espressa, tenne tanto fermo che si risolvè il contrario; e a Roma avvisò quanto fosse pericoloso metter in dubbio li ordini assoluti giá dati di venir all’espedizione, con li condizionati per dar sodisfazione di parole, prestando fomento alli mal intenzionati di attraversar le buone risoluzioni, e mettendo sopra di loro carica che li rendeva odiosi, li faceva perder la riputazione e rimaner inetti a far servizio di Sua Santitá. Fu anco Simonetta favorito dal buon evento, perché, non essendovi opposizione di momento, fu stabilito il capitolo degli abusi della messa con li undici della riforma, e il decreto della comunione ebbe minor difficoltá che non si credette. Alla prima proposta non passò, perché diceva che il papa, eziandio per voto e approbazione del concilio, facesse quello che giudicherá utile; e questo fu impugnato insieme da quelli che tenevano la negativa e da quelli della remissiva: cosa che indusse li legati a risoluzione di tralasciar a fatto quella materia. E cosí deliberato, ne fecero scusa con gli imperiali, poiché né dal pontefice né da loro veniva il mancamento. Ricercarono li ambasciatori che si proponesse, levata la clausula del voto e approbazione; ma li legati, tenendo per fermo che quella proposta arerebbe potuto causar dilazione nella sessione, si rendevano difficili per ciò. Li ambasciatori francesi protestarono che, vedendo esser fatta cosí poca stima dell’imperatore, non erano per intervenire piú né in congregazione né in sessione, sin che Sua Maestá, avvisata, avesse dato quegli ordini che convenivano alla dignitá imperiale; onde li legati non solo si contentarono di proporla di novo, levata la clausula, ma promisero anco di far officio e adoperar altri ancora. E il dí dopo, che fu precedente immediate quello della sessione, la proposta corretta passò per la maggior parte, se ben con contradizione di tutti quelli della negativa, con grand’allegrezza del li legati e pontifici, cosí perché la sessione non si prolongava (di che temevano grandemente), come anco perché pareva loro esser maggior dignitá del papa che la grazia, a chi desiderava il calice, dependesse totalmente dall’autoritá sua.
Ma li imperiali, se ben in questo particolare assai ben satisfatti, vedendo che la sessione sarebbe stata all’ordine e non si poteva piú impedire la pubblicazione delle cose del sacrificio della messa, di che avevano giá fatto instanza per nome dell’imperatore, unitisi prima con li francesi, malcontenti perché l’officio fatto in Roma per nome del re fosse rimasto inefficace, il medesimo giorno dopo il meridio congregarono tutti li ambasciatori nella casa delli imperiali, dicendo voler consultare cosa a tutti li prencipi spettante. Li veneziani e il fiorentino, chiamati, si scusarono non poter intervenirvi senza commissione espressa delli loro signori. In quella congregazione il Cinquechiese con longo discorso narrò che sino allora nel concilio non si era trattato cosa fruttuosa; che s’era disputato vanamente de’ dogmi, non portando alcuna utilitá agli eretici, che, ostinati, sono risoluti di non mutar opinione, né a’ cattolici, che non ne hanno bisogno; e di riforma non sono proposte se non cose leggerissime e di nessun momento, de notari, de questori e altre tali. Vedersi chiaramente che li legati mirano di far anco la sessione seguente col medesmo stile, e dopo di quella proseguire, tirando inanzi il tempo con dispute, con dottrine e canoni dell’ordine o del matrimonio, o qualch’altra cosa leggiera, per fuggir, secondo il solito, le cose sustanziali di riforma. Con queste e altre ragioni ben amplificate persuase gli ambasciatori ad unirsi insieme e andar alli legati, e far instanza che per quella sessione si tralasciasse di parlare de’ sacramenti e di far dottrine o canoni, perché ormai era tempo di attender ad una buona riforma, levar tanti abusi e corregger li mali costumi, e operar sí che il concilio non sia infruttuoso. Il secretario di Spagna non volle assentire, perché, avendo intenzione il suo re che nel fine del concilio almeno fosse dechiarata la continuazione, temeva pregiudicarsi, quando fosse mutato il modo di proceder fino allora usato di trattar insieme la dottrina e la riforma, poiché quella mutazione s’averebbe potuto adoperar per argomento che il novo modo di procedere arguisse novo concilio. L’ambasciator di Portogallo con longa circuizione di parole inconcludenti, mostrando desiderar riforma, ma volerla ottener con modi piú piacevoli, si ritirò dalla compagnia. Il svizzero ancora, vedendo l’esempio di quei doi, e considerato che li veneziani non erano intervenuti, temendo di commetter errore, disse che meglio sarebbe stato averci considerazione sopra di novo, prima che far risoluzione. Gli altri tutti risolvettero di andare.
Parlò per tutti, cosí d’accordo, Lansac, dicendo che dalli loro principi erano mandati per assistere e favorire il concilio, e procurare che si procedesse pertinentemente, non con dispute di dottrina (della quale, essendo tutti cattolici, nessun dubita, ed è superflua in assenza di quelli che l’impugnano), ma per procurare una buona, santa e intiera reformazione de costumi. Ma poiché, non ostanti tante loro remostranze, vedevano che si aveva voluto determinar i principali punti della dottrina controversi, senza toccar se non leggiermente la riforma, pregavano che la seguente sessione fosse implicata solamente in quella, e fossero proposti articoli piú importanti e necessari che quelli di che s’era parlato sin allora. Li legati risposero nella forma che altre volte: il desiderio del papa e loro essere di far il servizio di Dio e bene della Chiesa, e satisfar e gratificar tutti li principi; ma non esser conveniente romper l’ordine sempre tenuto nel concilio di trattar insieme la dottrina e la riforma; che le cose sino allora fatte erano solo un principio; che avevano buona intenzione di far meglio; che riceverebbono prontissimamente gli articoli che essi ambasciatori li proponessero; maravigliarsi che di Francia non fossero stati mandati li articoli deliberati a Poissi al pontefice, il quale li averebbe approvati. Al che replicò Lansac che, avendo il pontefice rimesso tutte le cose concernenti la religione al concilio, li prelati francesi, quando fossero gionti, averebbono proposto quelli e molte altre cose. Risposero li legati che sarebbono li molto ben venuti e piú volentieri ascoltati; ma non per questo conveniva differire la sessione ordinata, perché in quella non era per trattarsi cosa pregiudiciale alle proposte loro. Che li padri in gran numero erano risolutissimi di volere la sessione; che il disgustarli era pericoloso; e se con tanto loro incomodo aspettavano in Trento quelli che a loro agio differivano la andata promessa, non era giusto aggiongerli anco questo disgusto maggiore di volerli far aspettare oziosamente.
A questo officio destro non opponendosi con maggior efficacia gli ambasciatori, si andò a tener l’ultima congregazione per fermar li decreti. Quali stabiliti, quando si fu per statuire il tempo e materia per la seguente sessione, Granata consigliava che s’allongasse il tempo, acciò li francesi e polacchi avessero comodo non solo di venir, ma, anco arrivati, d’informarsi: e che non si venisse a precisa dechiarazione di quello che si doveva trattare, ma sí come altre volte s’era fatto, star sull’universale e pigliar partito secondo le occorrenze; perché, dovendo venir tante persone di novo, non si poteva restar di credere che non portassero con loro emergenti, per quali fosse necessario venir a nove deliberazioni. E a questo parere li spagnoli e molti altri aderivano, e sarebbe stato approvato dall’universale. Ma una voce sparsa, che fosse arrivato comandamento del pontefice assoluto che non si differisse piú di due mesi, e si trattasse delli sacramenti dell’ordine e matrimonio insieme, indusse li pontifici a far instanza che il tempo non fosse longato e che di tutti doi li sacramenti si trattasse: e li legati mostrarono esser costretti per questo a far il decreto in conformitá. Ma questo maneggio ebbe due altre vere cause: una, la presta espedizione del concilio, che, cosí facendo, pensavano poter ispedire con quell’unica sessione; l’altra, acciò alli spagnoli e altri fautori della riforma, molto occupati in quella materia di fede, non restasse tempo di trattar cose importanti, e particolarmente restassero impediti di promuover o almeno di insistere sopra la residenza. Questo ponto stabilito, leggendosi tutti li decreti insieme, di novo si eccitarono le contradizioni e le contenzioni solite, che con difficoltá li legati potevano fermar con buone parole. Durò la congregazione sino a due ore di notte, con poca sodisfazione delle parti e con scandalo dei buoni: tutto infine si risolvè, ma per la maggior parte dei voti, essendo poco minore quella che contradiceva.
Venuto il 17 del mese di settembre, giorno destinato alla sessione, andati con le solite cereinonie alla Chiesa li legati e ambasciatori con centottanta prelati, dopo le usate preci nel celebrar la messa, il sermone fu dal vescovo di Vintimiglia recitato. Nel quale con gravitá episcopale e senatoria, valendosi dell’usata comparazione delli corpi civili alli naturali, demostrò quanto una sinodo de vescovi sarebbe mostruosa senza capo; narrò l’ufficio di quello nell’influir virtú in tutte le membra, e la recognizione e debito di queste in aver piú cura della conservazione del capo che di se stessa, esponendosi anco alla difesa di quello; disse il principal defetto dell’eretico, secondo san Paulo, esser che non conosce un capo, dal qual depende la connessione di tutto il corpo; e con quattro parole soggionse che Cristo era il capo della Chiesa invisibile, ma con molte che il papa era il visibile. Commendò l’accurata diligenza di Sua Santitá in provveder alla sinodo, e raccordò a ciascuno il debito di conservar la dignitá del suo capo. Lodò in fine la pietá e modestia del li padri, e pregò la Maestá divina di dar progresso e fine glorioso a quel concilio, sí come era stato il principio.
Finita la messa, furono lette lettere del Cardinal Amulio, quale, come protettore delle nazioni orientali cristiane, diede conto alla sinodo esser andato a Roma Abdissi, patriarca di Muzale nell’Assiria di lá dall’Eufrate, il qual, visitate le chiese di Roma, aveva reso obedienzia al pontefice e ricevuto la conferma e il pallio da Sua Santitá. Narrò li populi soggetti a quello aver ricevuto la fede dalli santi apostoli Tomaso e Taddeo e da un loro discepolo nominato Marco, in tutto simile alla romana, con li stessi sacramenti e riti, e che di questi avevano libri scritti sino al tempo degli apostoli. Soggionse in fine l’ampiezza del paese sottoposto alla cura di quel prelato, che s’estende sino all’India interiore con innumerabil popoli, soggetti parte al Turco, parte al Sophi re di Persia e parte al re di Portogallo. La qual letta, l’ambasciator di Portogallo fece un protesto che li vescovi orientali sottoposti al suo re non conoscevano alcun patriarca in superiore, e che per l’admissione di questo patriarca non fosse fatto a loro o al suo re alcun pregiudicio. Fu letta dopo la professione della fede da quel patriarca fatta in Roma sotto li 7 marzo, nella qual giurava di tener la fede della santa Chiesa romana e prometteva di approvar e dannar quello che ella approva e danna e di dover insegnar il medesimo alli metropolitani e vescovi diocesani a lui soggetti. Dopo furono lette sue lettere direttive alla sinodo, in quali si scusava di non poter andar al concilio per la longhezza della strada; e pregava che, finito, li fossero mandati li decreti di quello, che prometteva farli osservar intieramente. Queste stesse cose erano state lette nella congregazione prima, ma non vi fu fatto sopra riflesso. La protestazione del portoghese svegliò li animi a considerare diverse assurditá che erano in quelle narrazioni, e fu eccitato qualche sussurro; e li prelati portoghesi si movevano per parlare; ma dal promotore, per ordine delli legati, fu detto che sopra questo s’averebbe parlato in congregazione.
E procedendosi inanzi agli atti conciliari, il vescovo celebrante lesse la dottrina del sacrificio della messa, in nove capi divisa, quale in sostanzia conteneva:
I. Che per l’imperfezione del sacerdozio levitico fu necessario un altro sacerdote secondo il rito di Melchisedech. Questo fu Cristo nostro Signore, il quale se ben offerí se stesso una sol volta nella croce, per lasciar nella Chiesa un sacrificio visibile, rappresentativo di quello della croce, e applicativo della virtú del medesmo, dechiarandosi sacerdote secondo il rito di Melchisedech, offerí a Dio Padre il suo corpo e sangue sotto le specie del pane e del vino, e le diede alli apostoli per riceverle, e a loro e alli successori comandò che le offerissero: e questa è quell’offerta monda da Malachia predetta, quale san Paulo chiama «mensa del Signore», e fu figurata dai vari sacrifici dell’etá della natura e della Legge.
II. E perché il medesmo Cristo nella messa è sacrificato senza sangue, il quale nella croce fu con sangue offerto, questo sacrificio è propiciatorio; e Dio placato per quell’offerta concede il dono della penitenzia, rimette tutti li peccati, essendo la medesma ostia e l’istesso offerente, per mezzo dei sacerdoti, che giá offerí se stesso in croce, con sola diversitá del modo; laonde per questa della messa non si deroga la oblazione della croce, anzi si ricevono per lei li frutti di quella che si offerisce per li peccati, pene e bisogni dei fedeli, e anco per i defonti non intieramente purgati.
III. E se bene si celebrano alcune messe in memoria dei santi, il sacrificio non si offerisce a loro, ma a solo Dio.
IV. E per offerirlo con reverenzia la Chiesa giá molti secoli ha instituito il canone netto d’ogni errore, composto dalle parole del Signore, tradizioni degli apostoli e instituti pontifici.
V. E per edificazione dei fedeli la Chiesa ha instituito certi riti di prononciare nella messa alcune cose con bassa, altre con alta voce, aggiontovi benedizioni, lumi, odori, vesti per tradizione apostolica.
VI. La sinodo non condanna come private e illecite, anzi approva quelle messe dove il solo sacerdote comunica, essendo quelle comuni perché il populo comunica spiritualmente, perché sono celebrate da pubblico ministro e per tutti li fedeli.
VII. Che la Chiesa ha comandato di adacquar il vino nel calice, perché cosí Cristo ha fatto, e dal suo lato usci acqua insieme col sangue, e vien rappresentata l’union del populo, significato per l’acqua, con Cristo suo capo.
Vili. E abbenché nella messa si contenga una grand’erudizione per il populo, nondimeno i padri non hanno giudicato ispediente che sia celebrata in volgare; però, ritenendo l’uso approvato dalla Chiesa romana, acciò il populo non sia fraudato, debbano li parrochi nel celebrar la messa esponer qualche cosa di quello che si legge in essa, massime le feste.
IX. E per condannar li errori disseminati contra questa dottrina soggionge li nove canoni, anatematizzando:
I. Chi dirá che nella messa non si offerisca vero e proprio sacrificio a Dio.
II. Chi dirá [che] con le parole di Cristo: «Fate ciò in memoria mia», egli non li abbia instituiti sacerdoti e ordinato loro di offerire.
III. E chi dirá che la messa sia sacrificio di sola lode o ringraziamento, o nuda commemorazione del sacrificio della croce, e non propiziatorio; o vero giovi solo a chi lo riceve, e non si debbi offerire per li vivi, per li morti, per li peccati, pene, satisfazioni e altri bisogni.
IV. E chi dirá che per il sacrificio della messa si deroghi a quello della croce.
V. E chi dirá che sia inganno celebrar messe in onor dei santi.
VI. E chi dirá contenersi errori nel canone della messa.
VII. Chi dirá che le ceremonie, vesti e segni esterni usati nella messa siano piú tosto incitamenti all’impietá che uffici di pietá.
VIII. Chi dirá che le messe, in quali il solo sacerdote comunica, siano illecite.
IX. Chi dannerá il rito della Chiesa romana di dir sottovoce parte del canone e le parole della consecrazione; o vero dirá che la messa si debbi celebrar in volgare, o che non si debbi mischiar acqua nel vino.
Al decreto recitato fu dalli padri assentito, eccetto che al particolare che Cristo offerisce se medesmo tredici vescovi contradissero; e alcuni altri dissero che, quantunque l’avessero per vero, nondimeno reputavano che non fosse luoco né tempo da decretarlo. E li voti furono detti con qualche confusione, per i molti che ad un tratto parlavano. Diede principio a dissentire l’arcivescovo di Granata, il quale non avendo prestato il suo assenso nelle congregazioni, per non aver occasione di far il medesmo nella sessione, aveva deliberato non intervenirvi. Ma li legati, non vedendolo alla messa, lo mandarono a chiamare piú d’una volta e lo costrinsero ad andare, e gli eccitarono con ciò maggiormente la volontá di contradire.
Immediate dopo dal medesmo celebrante fu letto un altro decreto per instruzione alli vescovi degli abusi da correggere nella celebrazione delle messe. E in sostanza conteneva che li vescovi debbino proibire tutte le cose introdotte per avarizia, per irreverenzia o per superstizione. Condiscese a nominar particolarmente per difetti d’avarizia i patti de mercede, quello che si dá per messe nove, le esazioni importune di elemosine: per irreverenzia, l’ammetter a dir messa sacerdoti vagabondi e incogniti, e peccatori pubblici e notorii; il celebrar in case private e in ogn’altro luoco fuori di chiesa e oratori, e se li intervenienti non sono in abito onesto; l’uso delle musiche nelle chiese con misura di canto o suono lascivo; tutte le azioni secolari, colloqui profani, strepiti, gridori. Per quel che tocca la superstizione, il celebrar fuori delle ore debite, con altre ceremonie o preci oltre le approvate dalla Chiesa e recevute dall’uso, un determinato numero di alcune messe o di tante candele. Ordinò anco che fosse ammonito il populo di andar alle parrocchie almeno le dominiche e maggiori feste, dechiarando che le suddette cose sono alli prelati proposte, acciocché proibiscano e correggano, eziandio come delegati della sede apostolica, non solo quelle, ma anco tutte le simili.
Il decreto della riforma comprendeva undici capi:
I. Che tutti li decreti de’ pontefici e concili, spettanti alla vita e onestá dei chierici, per l’avvenire siano osservati sotto le medesime e ancora maggiori pene ad arbitrio dell’ordinario, e siano restituiti in uso quelli che in dissuetudine sono andati.
II. Che non sia provvisto alli vescovati se non persona che, oltra le qualitá requisite dai sacri canoni, sia sei mesi inanzi in ordine sacro; e se di tutte le qualitá debite non vi sará notizia in corte, si pigli informazioni dai nonci, dall’ordinario, o vero dalli ordinari vicini. Che sia maestro, dottore o licenziato in teologia o in legge canonica, o vero dechiarato idoneo ad insegnare per pubblico testimonio d’un’accademia: e li regolari abbiano simil fede dai superiori della religion sua, e li processi o testificazioni siano gratuitamente prestate.
III. Che li vescovi possino convertir la terza parte delle entrate delle chiese cattedrali e collegiate in distribuzioni quotidiane, le qual però non siano perdute da quelle dignitá che, non avendo giurisdizione o altro ufficio, faranno residenzia in chiesa parrocchiale unita, esistente fuori della cittá.
IV. Che nessun abbia voto in capitolo, se non sia ordinato suddiacono; e per l’avvenire chi ottenirá beneficio, al qual sia annesso qualche carico, fra un anno sia obbligato ricever l’ordine, per poterlo esercitare.
V. Che le commissioni di dispense fuori della corte romana siano indrizzate agli ordinari, e le graziose non abbiano effetto sin che dai vescovi, come delegati, sia conosciuto che sono ben impetrate.
VI. Che le commutazioni de’ testamenti non siano eseguite sin che li vescovi, come delegati, non averanno conosciuto che siano impetrate con espressione della veritá.
VII. Che li giudici superiori, nell’ammetter le appellazioni e conceder inibizioni, osservino la costituzione d’Innocenzo IV, nel capitolo Romana.
VIII. Che li vescovi, come delegati, siano esecutori delle disposizioni pie, cosí testamentarie come de’ viventi; possino visitar li ospitali e collegi e confraternitá de laici, eziandio quelle che sono chiamate scole o con qualsivoglia altro nome, eccettuate quelle che sono sotto immediata protezione dei re; possino visitar l’elemosine dei monti di pietá e tutti li luochi pii, se ben sotto la cura de laici, e abbiano la cognizione ed esecuzione di tutto quello che partiene al culto di Dio, alla salute delle anime e alla sostentazion de’ poveri.
IX. Che li amministratori della fabbrica di qualsivoglia chiesa, ospital, confraternita, limosina di monte di pietá e d’ogn’altro luoco pio siano tenuti render conto al vescovo ogn’anno; e se hanno obbligo di dar conto ad altri, vi sia aggiorno anco a quelli il vescovo, altrimenti non satisfacciano.
X. Che li vescovi possino esaminar li notari, e proibirli l’uso dell’ufficio nelli negozi e cause spirituali.
XI. Che qualunque usurperá beni, ragioni o emolumenti delle chiese, benefici, monti di pietá e luochi pii, o chierico o laico che sia, quantunque re o imperatore, sia scomunicato sino all’integra restituzione del tutto e assoluzione del papa; e se sará patrono, sia anco privato del ius patronatus; ed il chierico consenziente sia soggetto alla medesima pena, privato d’ogni beneficio e inabile ad ottenerne.
Fu poi letto il decreto sopra la concessione del calice, di questo tenore: che avendosi la sinodo riservato l’esamine e definizione delli doi articoli sopra la comunione del calice nella precedente sessione, ora ha determinato di riferir tutto il negozio al sommo pontefice, il qual faccia per sua singolar prudenzia quello che giudicherá utile per la repubblica cristiana e salutifero a chi lo dimanda. Il qual decreto sí come nelle congregazioni fu approvato solamente per la maggior parte, cosí avvenne nella sessione: dove, oltra quelli che contradissero essendo di opinione che il calice non si dovesse per causa alcuna concedere, vi fu anco un numero che dimandò che la materia fosse differita e reesaminata un’altra volta; a che fu risposto dal promotore, per nome delli legati, che s’averebbe avuto considerazione. E finalmente fu intimata la seguente sessione per il 12 novembre, per determinare circa li sacramenti dell’ordine e del matrimonio. E fu la sessione col modo solito licenziata, continuando fra li padri gran discorsi sopra questa materia del calice. Circa la quale alcuno sará forsi curioso di sapere per che causa il decreto recitato non sia posto dopo quello della messa, come pare che la materia ricercasse, ma in luoco dove non ha alcuna connessione né similitudine con li articoli anteriori. Questo doverá sapere che una massima andava attorno in quel concilio, che per stabilire un decreto di riforma bastasse la maggior parte dei voti, ma un decreto di fede non potesse esser fermato, contradicendo una parte notabile; per il che li legati, giá certi che quello del calice con difficoltá averebbe superato la metá, deliberarono ponerlo per capo di riforma, e l’ultimo tra quelli, per ben dechiarare di tenerlo in quel numero. Furono anco, e allora e per qualche giorno dopo, tenuti ragionamenti per il ponto deciso che Cristo offerisse se stesso nella cena, dicendo alcuni che per il numero di tredici contradittori non era legittimamente deciso, e rispondendo altri che un ottavo non si poteva dire parte notabile. Erano anco alcuni che sostentarono la massima aver luoco solo negli anatematismi e nella sostanza della dottrina, non in ogni clausula che sia posta per maggior espressione, come questa, della quale nelli canoni non si parla.
Li ambasciatori imperiali furono molto allegri per il decreto del calice, tenendo per fermo che l’imperatore l’ottenirebbe dal pontefice con maggior facilitá e con piú favorabili condizioni, che non si sarebbe impetrato in concilio. Dove, per la varietá delle opinioni e interessi, è difficile ridur tanti in un parere, se ben buono e necessario: la maggior parte vince la migliore, e chi si oppone ha sempre maggior vantaggio che chi promove. E tanto piú speravano, quanto il papa aveva fatto ufficio favorevole alla loro petizione. Ma l’imperatore non ebbe l’istesso senso, non mirando egli ad ottenir la comunione del calice assolutamente, ma a quietare li populi delli stati propri e di Germania, che, mal inclinati verso l’autoritá pontificia per le cose passate, erano preoccupati a non ricever in bene cosa che di lá venisse; dove che, avendo la concessione dal concilio, con quella sodisfazione, e con la speranza di ottener altre richieste da loro stimate giuste, fermato il moto in qual erano, e licenziati li ministri infetti, sperava di tenirli nella comunione cattolica. Aveva giá per isperienza veduto che la concessione di Paulo III non fu ricevuta in bene e fece piú danno che beneficio, e per questa causa non proseguí l’instanza sua piú oltre col pontefice. E se ne dechiarò, perché quando ricevette la nova del decreto conciliare, voltatosi ad alquanti prelati che presenti si ritrovavano, disse: «Io ho fatto tutto quello che poteva per salvar li miei populi; ora abbiatene cura voi, a chi piú tocca».
Ma quei populi, che desideravano e aspettavano la grazia, o, come essi dicevano, la restituzione di quello che gli era debito, restarono tutti con nausea che, essendosi prima trattato per sei mesi sopra una richiesta giusta, presentata con intercessioni di tanti e cosí gran prencipi, e dopo, per farci maggior esamine, differito doi altri mesi, e disputato e discusso di novo con tanta contenzione, in fine si rimettesse al papa cosa che si poteva, senza perder tanto tempo, tanti uffici e fatiche, rimetter al bel principio. Esser la condizione dei cristiani secondo la profezia di Isaia: «Manda, remanda; aspetta, reaspetta»; poiché il papa, richiesto prima, rimesse al concilio quello che allora il concilio rimetteva a lui, beffandosi ambidoi e delli principi e delli populi. Alcuni piú sodamente discorrevano che la sinodo aveva riservato due articoli a difinire: se le cause che giá mossero a levar il calice siano tali che convenga perseverare in quella proibizione; e se non, con che condizioni si debbia concedere. Il primo de’ quali essendo non di fatto, ma indubitamente di fede, per necessaria consequenza, rimettendo al papa la concessione, era costretto il concilio confessare d’aver conosciute le cause per insufficienti, e per rispetti mondani non aver voluto farne dechiarazione. Imperocché se le avesse giudicate sufficienti, conveniva perseverare nella proibizione; se rimaneva dubbio, doveva proseguir l’esamine; solo poteva rimettere, conosciuta la insufficienza. Che se pur avesse fatto la dechiarazione negativa, cioè le cause non esser tali che convenga perseverare nella proibizione, e rimesso al papa quello che restava farsi di fatto, prendendo le informazioni necessarie, si poteva iscusare. Né potersi dire che, col rimettere al papa, la dechiarazione sia presupposta; poiché, avendo nel decreto di questa sessione replicati li doi articoli, risolvè che il negozio tutto intiero sia al papa rimesso: adonque senza presupposta alcuna.
Il decreto del sacrificio non ritrovo nelle memorie che porgesse materia a ragionamenti. E forse causa ne fu, perché la lezione delle parole non rappresenta cosí facilmente il senso, essendo la contestura piena di molti e inculcati iperbati; quali se attentamente non sono separati dalle parti proprie della orazione, distraeno uno dopo l’altro la mente del lettore a diverse considerazioni, che quando è ridotto al fine, non sa che cosa abbia letto. Della sola proibizione della lengua volgare nella messa da’ protestanti era detto qualche cosa. E pareva loro contradizione dall’un canto dire che la messa contiene molta erudizione del popolo fedele, e lodare che una parte sia detta sotto voce, e proibir in tutto la lingua volgare, ma poi comandar alli pastori di dechiarare qualche cosa al popolo. A che altri ben rispondevano nella messa esser alcune cose recondite, che debbono restar sempre coperte al popolo incapace, per causa del quale sono sommessamente dette e tenute in lingua litterale; altre di buona edificazione ed erudizione, che è comandato di dechiarare al popolo. Ma a questo veniva replicato con due opposizioni: l’una, che adunque questa seconda sorte conveniva metterla in volgare; l’altra, che bisognava distinguere quali sono e queste e quelle; perché, coll’aver commesso alli pastori che spesso dechiarino qualche cosa di quello che si legge, e non distinto che, soprastá pericolo che, per defetto di sapere, alcuno delli pastori dechiari quello che debbe esser conservato in arcano e tralasci quello che merita dechiarazione. Li studiosi dell’antichitá si ridevano di tali discorsi, essendo cosa notissima che ogni lingua litterale, e al presente ridotta in arte, fu al suo tempo nel proprio paese volgare; e che la latina, quando in Roma, in Italia tutta e nelle colonie romane in diverse provincie fu introdotta nella Chiesa, piú centenara d’anni anco dopo fu in quei luochi la lingua del volgo; e che resta ancora nel ponteficaile romano la formula dell’ordinazione del li lettori nella Chiesa, dove si dice che studino a legger distinta e chiaramente, acciò il popolo possa intendere. Ma per saper in che lingua debbiano esser trattate le cose sacre, non esser bisogno di gran discorsi: bastar solamente legger il capo XIV di san Paulo Alli corinti, che, non ostante ogni preoccupazione contraria della mente, qualsivoglia persona resterá ben informata. E chi vorrá saper qual fosse giá il senso della Chiesa romana, e quando e perché la corte mutasse pensiero, potrá osservare che Gioanni papa VIII, dopo aver per l’innanzi fatto una severissima reprensione a’ moravi del celebrar la messa in lengua slava, con precetto d’astenersene, nondimeno, meglio informato, dell’880 scrisse a Sfentopulcro, loro principe o ver conte, una longa lettera, dove non per concessione ma per dechiarazione afferma che non è contrario alla fede e sana dottrina il dire la messa e le altre ore in lingua slava, perché chi ha fatto le lingue ebrea, greca e latina, ha fatto anco le altre a sua gloria; allegando per questo diversi passi della Scrittura, e in particolare l’ammonizione di san Paulo alli Corinti: solo comandò quel papa che per maggior decoro in tutta la Chiesa l’Evangelio si leggesse in latino, e poi in slavo, come in alcune giá era introdotto, concedendo però al conte e alli suoi giudici di sentir la messa latina, se gli piacerá piú quella. Alle qual cose ben considerate doverá esser aggionto quello che dugento anni apponto dopo scrisse Gregorio VII a Vrastislao di Boemia: che non poteva permettergli la celebrazione delli divini offici in lingua slava, e che non era buona scusa allegare che per il passato non sia stato proibito, perché la primitiva Chiesa ha dissimulato molte cose che, se ben longamente tollerate, fermata poi la cristianitá, sono state per esanime sottile corrette: comandando a quel prencipe che con tutte le sue forze si opponga alla volontá del popolo. Le qual cose chi ben osserverá, vederá chiaro quali fossero le antiche instituzioni incorrotte, e come, duranti ancora quelle, è stato aperto l’adito per rispetti mondani alle corruttele; e per quali interessi parimente; poiché indebolito il buon uso, l’abuso ha preso piedi, voltato l’ordine, e posto il cielo sotto terra: le buone instituzioni sono pubblicate per corruttele e dall’antichitá solo tollerate; e li abusi introdotti dopo, sono canonizzati per correzioni perfette.
Ma tornando alli decreti conciliari, quello della riforma mosse stomaco a molti, quali consideravano che nelli passati tempi il dominio delli beni ecclesiastici era della Chiesa tutta, cioè di tutti li cristiani che convenivano ad una convocazione; l’amministrazione de’ quali era commessa alli diaconi, suddiaconi e altri economi, con la sopraintendenza de’ vescovi e preti, per distribuirli nel vitto de ministri, de vedove, infermi e altri poveri, in educazione de fanciulli e giovani, in ospitalitá, riscatto de pregioni e altre opere pie: e con tutto ciò il clero prima, se ben indebitamente, nondimeno tollerabilmente volse separare e conoscere la parte sua, e usarla secondo la propria volontá. Ma dopo, passato al colmo dell’abuso, è stato escluso in tutto e per tutto non solo il popolo dal dominio delli beni, e li chierici de amministratori dechiaratisi padroni, ma convertito in uso proprio tutto quello che era destinato per poveri, per ospitalitá, per scole e per altre pie opere. Di che per molti secoli avendosi il mondo sempre doluto e dimandato rimedio vanamente, li laici per pietá in alcuni luochi hanno eretto altri ospitali, altre scole, altri monti per somministrare alle pie opere, con laici administratori. Ora che in questo secolo il mondo ha dimandato con maggior instanza il rimedio che gli ospitali e le scole antiche e usurpate da preti in particolare siano restituite, il concilio, in luoco di esaudire cosí giusta dimanda, come si aspettava, e restituire li collegi, scole, ospitali e altri luochi pii, ha aperto la porta nei capitoli VIII e IX ad usurpar anco quelli che dopo sono instituiti, con introdurvi la sopraintendenza de’ vescovi. La qual chi vuol dubitare che, sí come è stata il mezzo con che sono stati occupati li beni di giá dedicati alle stesse opere e appropriati ad altri non pii usi, cosí non sia per partorire l’istesso effetto in brevissimo tempo?
Li parlamenti di Francia tra gli altri ebbero molto l’occhio a questo particolare; ed apertamente dicevano che il concilio avesse eccesso l’autoritá sua, mettendo mano in beni de secolari, essendo cosa chiara che il titolo di opera pia non dá ragione alcuna al prete, che ogni cristiano a suo arbitrio può applicare la roba sua a quella pia opera che gli piace, senza che l’ecclesiastico li possi impor legge alcuna; altrimenti sarebbe ben un’estrema servitú del povero laico, se non potesse fare se non quel bene che al prete pare. Dannavano anco alcuni per questo medesmo rispetto il capo VI, dove obliquamente è attribuita al clero la commutazione delle ultime volontá, con prescriver come e quando si possino commutare: dicevano esser abuso intollerabile, essendo chiaro che li testamenti hanno il loro vigore dalla legge civile, e da quella sola possono esser mutati: e se alcuno volesse che il vigor venisse dalla legge naturale, tanto meno li preti possono averci sopra autoritá, perché di quella legge ancora, dove è dispensabile, non può esser dispensatore se non chi tiene maestá nella repubblica, o ver li ministri di quella: ma li ministri di Cristo doversi raccordare che san Paulo non gli ha dato amministrazione se non dei misteri di Dio. E se qualche repubblica ha dato la cura dei testamenti alli suoi prelati, in questo sono giudici non spirituali, ma temporali, e debbono ricever le leggi da governarsi in ciò non dalli concili, ma dalla maestá che regge la repubblica, non operando qui come ministri di Cristo, ma come stati, membra o braccio della repubblica mondana, secondo che con diversi nomi sono chiamati e intervengono nel li pubblici governi.
Ma non era meno notato il quinto capo in materia delle dispense. Imperocché essendo cosa certa che nelli vecchi tempi ogni dispensa era amministrata dalli pastori nelle proprie chiese, e poi in successo li pontefici romani hanno riservato a loro medesimi alcune cose principali (potrebbe alcun dire con buon fondamento, acciò le cose importanti non fossero maneggiate da qualche persona inetta; se ben veramente è molto forte la ragione in contrario dal vescovo di Cinquechiese detta di sopra), nondimeno, poiché il concilio decreta che le dispense siano commesse agli ordinari, a’ quali appartenerebbono cessando le reserve, a che può servire il restringere la facoltá ad uno per commetterla al medesmo? Apparir ben chiaro che a Roma con le reserve delle dispense non si vuol altro se non che le sue bolle siano levate: poiché, questo fatto, giudicano esser il meglio che l’opera sia, piú tosto che da altri, eseguita da chi potrebbe eseguirla, se non fosse vietato. Diverse altre opposizioni erano fatte da quei che volentieri giudicano le azioni altrui tanto piú prontamente, quanto vengono da piú eminenti persone; le qual per non esser di gran momento, non sono degne di istoria.
Il pontefice, ricevuto avviso della sessione tenuta e delle cose successe, sentí allegrezza, come liberato da gran molestia che riceveva, temendo che nella contenzione del calice non fosse tirata in disputa la sua autoritá. E poiché era aperta via di quietar le differenze con rimetter a lui le cose contenziose, entrò in speranza che l’istesso potesse farsi nell’articolo della residenza e in qualunque altro che venisse controverso, e metter presto fine al concilio. Ma due cause prevedeva che potevano attraversar il suo disegno. L’una, la venuta del Cardinal di Lorena con li prelati francesi, la qual molto li premeva, massime per li concetti vasti di quel cardinale molto contrari alle cose del pontificato, cosí incarnati che non aveva potuto nasconderli: al che non vedeva rimedio alcuno, se non facendo che gl’italiani superassero di tanto gran lunga gli oltramontani, che nelli voti li facessero passar per numero non considerabile. Per qual effetto sollecitava continuamente tutti li vescovi, se ben titolari o che avevano rinonciato, che dovessero andar a Trento, somministrando le spese e caricandoli di speranze. Pensò anco di mandare numero di abbati, come in qualche altro concilio s’era fatto: ma ben consultato, giudicò esser meglio non mostrar tanta affezione e provocar gli altri a far l’istesso. L’altro attraversamento temeva per li pensieri che scorgeva in tutti li principi di tener aperto il concilio senza far niente: l’imperator per gratificar li tedeschi e averli favorevoli ad elegger il figlio re dei romani; il re di Francia per far il fatto suo con li medesimi e con li suoi ugonotti.
Ponderava anco molto l’introduzione di far congregazione d’ambasciatori; li pareva un concilio de secolari nel mezzo di quello de’ vescovi; considerava che le congregazioni de’ prelati sarebbono pericolose, se l’intervento e presidenza delli legati non li tenesse in ufficio; li ambasciatori, congregandosi tra loro, poter trattar cose molto pregiudiciali; esservi pericolo che, passando inanzi, introducessero dentro anco qualche prelato, essendone massime tra loro de ecclesiastici, e s’introducesse una licenza sotto nome di libertá. In questa perplessitá era sustentato in buona speranza dal vedere che la maggior parte degli ambasciatori fosse stata contraria alli tentativi proposti, non vedendosi uniti se non li cesarei e li francesi, li quali essendo senza prelati propri, poco potevano operare: esser nondimeno necessario sollecitar il fine del concilio, e conservar la poca intelligenza che s’era veduta tra li ambasciatori. Per il che scrisse immediate che s’attendesse a sollecitar le congregazioni e a digerire e ordinare le materie; e considerando che il ringraziamento mette in obbligo di perseveranza, diede ordine che per parte sua fossero lodati e ringraziati affettuosamente il portoghese, lo svizzero e il secretario del marchese di Pescara di aver ricusato di consentire con gli altri all’impertinente proposta. Alli veneti e al fiorentino fece render grazie della buona intenzione mostrata ricusando d’intervenir in congregazione, facendoli anco pregare che, se all’avvenire fossero richiesti, non ricusassero, poiché poteva tenir per certo che la loro presenza sarebbe sempre per giovar alle cose della sede apostolica e impedir li mali disegni d’altri. Né s’ingannò il pontefice del suo pensiero; imperocché da tutti tirò parole che avevano in quella maniera operato, conoscendo che in quei tempi il servizio divino vuole che sia difesa l’autoritá pontificia, e in tal risoluzione averebbono perseverato: e testificarono di sentirsi maggiormente ubbligati per li cortesi ringraziamenti di Sua Santitá, di quello che per debito avevano operato.
fine del secondo volume