Istoria del Concilio tridentino/Libro sesto/Capitolo IX

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Libro sesto - Capitolo IX (11 agosto - 14 settembre 1562)

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Libro sesto - Capitolo IX (11 agosto - 14 settembre 1562)
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CAPITOLO IX

(li agosto-14 settembre 1562).

[Congregazioni generali sul sacrifício della messa. — Arrivo del Lainez. — Gli spagnoli chiedono la soppressione dei privilegi dei conclavisti: il papa acconsente. — Il Pibrac lascia Trento. — Risorgono le dispute sulla natura del sacrificio di Cristo nell’ultima cena. — L’arcivescovo di Praga insiste perché si tratti subito della concessione del calice, a favor della quale parla il Draskovich. — Insistono i francesi, ma invano, perché si differisca la sessione dopo l'arrivo dei loro padri. — Lagnanze per la lentezza del concilio. — Discussioni sulla concessione del calice: grande diversitá di pareri fra i padri. — Esposizione delle opinioni piú notevoli.— Non senza difficoltá i legati ottengono di rimettere la decisione al papa. — Si fissa il decreto del sacrificio della messa. — Articoli di riforma degli abusi nella celebrazione di essa ed altri. — Alcuni padri chiedono che il concilio pensi a riforme piú sostanziali.]

Il dí 11 agosto li vescovi cominciarono a dar il voto sopra li decreti in materia del sacrificio, e quasi tutti passarono leggermente il tutto e concordemente; se non che alcuni non sentivano che si mettesse l’oblazione di nostro Signore nella cena, ed altri laudavano che si ponesse: e per piú giorni il numero d’ambe le parti fu quasi pari.

Non debbo tralasciare, come cosa degna di memoria, che il 14 agosto arrivò Giacomo Lainez general de’ gesuiti: sopra il luoco del quale, per esser quella Societá non mai piú intervenuta in concilio, vi fu molto che trattare, non contentandosi del luoco ultimo delli generali de’ regolari, e adoperandosi tre della medesima Societá per metterlo inanzi; per la qual causa non si vede nominato nelli cataloghi delli intervenuti in concilio. [p. 463 modifica]

Li prelati spagnoli presentarono alli legati una richiesta da tutti loro sottoscritta, dove avendo narrato molti inconvenienti, nati per le esorbitanti grazie e privilegi alli conclavisti concessi, dimandarono revocazione, o almeno moderazione. Usano li cardinali, entrando in conclave, dove hanno a star reserrati per l’elezione del futuro pontefice, aver alla servitú loro doi per ciascuno, uno come cappellano e uno come cameriere, li quali da loro sono scelti piú per servire nelle negoziazioni che alle persone dei patroni; e per ordinario sono i miglior cortigiani di Roma. Questi ben spesso hanno non minor parte nelle pratiche che li patroni; onde è invecchiato uso che nell’uscir di conclave il novo papa li riceve tutti nella sua famiglia, dá loro privilegi convenienti al grado di ciascuno, altri alli preti e altri alli secolari. Tra quelli che allora si costumava dar alli preti, questi ancora erano, che potessero resignar in mano di qualunque persona ecclesiastica piacesse loro li benefici che tenevano, e farli conferir a chi nominavano; che potessero permutar con qualunque altro beneficiato li benefici loro, eleggendo essi una persona che facesse la collazione all’uno e all’altro. Da cosí esorbitante facoltá nasceva un’aperta mercanzia; e li vescovi, dove qualche conclavista era, si vedevano ad ogni beneplacito di quelli mutar li canonicati, parrocchiali e altri benefici, con scandolo. Di questo li spagnoli fecero querimonia, perché erano novamente in Catalogna successi grandi inconvenienti. Ma li legati mostrarono che la moderazione de simili abusi non toccava se non al papa, poiché si tratta di persone della sua fameglia; e se molte volte s’era concluso di lasciar al papa la riforma della corte, maggiormente quella della famiglia sua. Promisero di scriverne a Sua Santitá, e instar per la provvisione, come anco fecero. E il pontefice, pensato che li conclavisti di conto stanno a Roma e appresso li cardinali, onde la provvisione toccava solo alcuni pochi e di poco conto, ritirati alle case loro, e che per le cose sue era utile dar qualche sodisfazione alli prelati del concilio, a’ spagnoli massime, deliberò compiacerli: e nel mese seguente fece la rivocazione de molti privilegi a quelli concessi, che però dal successore non fu seguita. [p. 464 modifica]

Partí da Trento per ritornar in Francia il Fabro, terzo ambasciator di Francia; e somministrò materia de sospetti, congetturando li pontefici che fosse andato per dar conto dello stato del concilio e sollecitar la venuta de’ vescovi francesi; tenendo fermo che averebbe fatto uffici sinistri, essendosi giá per alcune sue lettere scritte al cancelliero, intercette, veduto la sua inclinazione, per la mala sodisfazione che esso e li colleghi ebbero, non avendo impetrato la prorogazione. Le quali cose riferite a Lansac da alcune creature di Simonetta per scoprir il vero, egli rispose che era andato per suoi negozi particolari; e non era maraviglia se, vedendosi li aperti mancamenti, alcun pensasse che dovessero esser riferiti.

Ma intorno il sacrificio della messa, nelle congregazioni fatte sino alli 18, tutti i voti si risolvevano in contendere sopra l’oblazione di Cristo nella cena: e il padre Salmerone s’era fatto autor principale a persuader l’affirmazione. Andava a casa di quelli che sentivano altrimente, e massime di quelli che non avevano ancora detto il voto, persuadendoli almeno a tacere o parlar rimessamente; e si valeva del nome del cardinale varmiense principalmente, ma aggionto alle volte anco Seripando, e accennando gli altri legati senza nominarli: e fece questa pratica con tanta importunitá, che nella congregazione delli 18 agosto se ne dolsero li vescovi di Chioggia e di Veglia. E questo secondo parlò per la negativa con molta forza di ragione. Considerassero bene; perché, offerto un sacrificio propiziatorio, se quello è sufficiente per espiare, non se ne offerisce altro, se non forse per rendimento di grazia; e chi sostenta nella cena un sacrificio propiziatorio, conviene che confessi a viva forza che per quello siamo redenti e non per la morte, cosa contraria alla Scrittura e dottrina cristiana, che a quella ascrive la redenzione. E se alcun vorrá dire che sia tutto uno, principiato nella cena e finito nella croce, dá in un altro inconveniente non minore, atteso che è contradizione dire che il principio del sacrificio sia sacrificio; poiché, se dopo il principio cessasse né andasse piú oltra, nissun direbbe che avesse sacrificato. E non si dirá che, se Cristo non [p. 465 modifica] fosse stato ubidiente al Padre sino alla morte della croce, ma solo avesse fatto oblazione nella cena, noi fossimo redenti; onde non si può dire che una tal oblazione si possi chiamar sacrificio per esser principio di quello. Soggionse il vescovo che non voleva sostentar pertinacemente che quelle ragioni fossero insolubili; ma ben diceva non dover il concilio legar gl’intelletti di chi è persuaso d’una opinione con tanta ragione. Passò poi anco a dire che, sí come non gli faceva difficoltá il nominar la messa sacrificio propiziatorio, cosí non li sodisfaceva che in modo alcuno si nominasse che Cristo offerisse, poiché bastava dire che comandò l’oblazione: perché, diceva egli, se la sinodo asserisce che Cristo offerí, o fu il sacrificio propiziatorio, e cosí incorrerá nelle difficoltá suddette; o vero non propiziatorio, e cosí da quello non si potrá concludere che la messa sia propiziatorio; anzi in contrario si dirá che se l’oblazione di Cristo nella cena non fu propiziatoria, meno debba esser quella del sacerdote nella messa. Concluse che era il piú sicuro modo dire solamente che Cristo comandò agli apostoli che offerissero sacrificio propiziatorio nella messa. Poi obliquamente toccò il Salmerone, dicendo che se nelle cose della riforma si fa qualche pratiche, si può tollerare, versando circa cose umane; ma dove si tratta di fede, il voler camminar per fazione non è introduzione buona. Il parlar del vescovo mosse tanti, che fu opinione quasi comune che di sacrificio propiziatorio da Cristo offerto nella cena non si parlasse; nel resto l’opinione sua fu, come per inanzi, abbracciata da una sola parte.

Quell’istesso giorno l’arcivescovo di Praga, tornato dall’imperatore pochi giorni prima, presentò lettere di quella Maestá alli legati; e arrivarono anco lettere del noncio Delfino, residente appresso la Maestá istessa, ricercando Cesare, e per le lettere e piú esplicatamente per l’ufficio del noncio, che non si trattasse del sacrificio della messa, inanzi la dieta, e richiedendo che nella prima sessione s’ispedisse l’articolo della comunione del calice. Presentò anco l’arcivescovo per nome dell’imperatore una formula di riforma. Ma era troppo [p. 466 modifica] urgente ii comandamento del pontefice che si venisse a presta ispedizione, che non concedeva che si potesse sodisfar l’imperatore nella prima dimanda; ben costringeva, per sodisfarlo in parte, ad ispedir la materia del calice; e il pontefice, al quale l’imperatore aveva fatto le stesse instanze, scrisse il medesimo a Trento: però nella seguente congregazione Mantoa propose che, conclusa la dottrina del sacrificio, si parlerebbe della comunione del calice. E seguendo li prelati a dir li voti, fu raccordato che la difficoltá se Cristo si offerí non è stata proposta alli teologi da disputare, se ben essi ne hanno parlato accidentalmente; però sarebbe bene proporla e farla disputare professatamente, o vero tralasciarla.

Fu ultimo a parlar in questa materia il general de’ gesuiti; ed egli tutto si estese in questa materia dell’oblazione di Cristo, e consumò una congregazione solo, dove nelle altre parlarono da sette sino a dieci prelati. Avendo ognuno detto il suo voto, con tutto che fosse poco differente il numero di quelli che all’una opinione aderivano, e di quelli che alla contraria, li legati però per instanza efficace di varmiense si risolsero di metter l’oblazione, non però usando la parola di propiziatorio.

In fine della congregazione il Cinquechiese, seguendo la proposizione del Cardinal di Mantoa, fece un’orazione, in quale, commemorati prima gli uffici e fatiche dall’imperatore fatte per servizio della repubblica cristiana e per restituire la puritá cattolica, non solo dopo assonto all’Imperio, ma ancora vivendo Carlo, soggionse che la Maestá sua con esperienza aveva conosciuto le piú gravi contenzioni e querele dei popoli nascere per la proibizione dell’uso del calice; per il che aveva desiderato che se ne trattasse in concilio; onde per commissione di Sua Maestá cesarea esso e gli altri oratori primieramente raccordavano ai padri da considerare che la caritá cristiana ricercava che, per trattenere con la troppa severitá l’osservanza d’un rito, non si lasci d’impedire molti sacrilegi e uccisioni in nobilissime provincie, e di ridur al grembo della Chiesa cattolica molte anime; che è infinito il numero di quelli [p. 467 modifica] che, non abbandonata la fede ortodossa, son infermi di conscienzia, quali non si possono aiutare se non soccorrendoli con questa permissione. Che la Maestá cesarea è costretta far continua guerra con turchi, la qual non può sostenere se non a comuni spese della Germania; la qual subito che si parla di contribuire, entra a parlare della religione, e dimanda principalmente l’uso del calice; il qual se non si concede, levando con questo le controversie, bisogna aspettare che non solo l’Ongaria, ma la Germania ancora siano occupate da barbari, con pericolo anco delle provincie confinanti. Che la Chiesa ha sempre costumato di abbracciar quei riti che sono contrari alle nove eresie; per il che è bene abbracciar questo partito, che dimostra la fede della veritá della santissima eucaristia contra i sacramentari. Non esser bisogno, come alcuni richiedevano, di un procuratore mandato espresso per nome di quelli che fanno la dimanda, come fu nel concilio basiliense, perché allora essendo solo tutto un regno che richiedeva la grazia, poteva mandar procuratore; ma adesso non è un popolo o una nazione sola, ma un infinito numero disperso in diverse nazioni. Né doversi alcuno maravigliare che la petizione sia prima stata presentata e non impetrata dal pontefice, perché il papa prudentemente aveva remesso il tutto alla sinodo, per serrar la bocca agli eretici che non vogliono ricever le grazie di quella Sede, e per non parer di derogare all’autoritá del concilio di Costanza; essendo conveniente che l’uso del calice, levato da un concilio generale, fosse permesso per difinizione d’un altro; e ancora per dar riputazione alla sinodo, alla quale era conveniente rimetter questa deliberazione atta a levar le discordie della Chiesa. Ma bene che egli aveva lettere da Roma che il papa reputava la dimanda onesta e necessaria, e pigliava in buona parte che se ne facesse instanzia al concilio. Poi presentò l’articolo sopra il calice, come desiderava fosse trattato; e conteneva in sostanza che fosse conceduto agli stati dell’imperatore, in quanto comprendono la Germania tutta e l’Ongaria. Quale leggendosi in congregazione, si eccitò strepito de prelati; e si vidde, in molti, segni [p. 468 modifica] manifesti di voler contradire. Furono acquetati per allora, con dirli che averebbono potuto dir loro parere quando fossero corsi li voti.

Li ambasciatori francesi il 3 settembre fecero nova instanza alli legati che, per dar maggior autoritá al concilio e a fine di far ricever nel regno loro facilmente le determinazioni di quello, volessero prolongare la sessione un mese o cinque settimane, trattando in quel mentre altre materie, per pubblicare poi nella sussequente sessione cosí quello che giá è stato discusso e determinato, come anco quello che si trattasse e determinasse tra tanto: che cosí non si perderebbe tempo, non si prolongherebbe il concilio, e il re e tutto il regno sentirebbe gran sodisfazione; oltre che, aspettandosi anco in breve prelati di Polonia, sarebbe di molta edificazione all’universale del cristianesmo il mostrar di tenir conto di due regni cosí considerabili. La qual instanza essendo fatta che il dí inanzi avevano li legati ricevuto lettere dal Cardinal di Ferrara che Lorena e li prelati francesi dovevano in ogni modo venire, che sarebbono con loro venti dottori di Parigi (si mostravano anco lettere scritte a diversi prelati da amici con l’istesso avviso, con aggiorna anco che fosse animo loro di trattar il ponto della superioritá del papa e concilio), tanto piú giudicarono che si dovessero ispedire le cose discusse, acciò non fossero attraversate nove difficoltá e, alli mali umori che erano in Trento aggregandosene di novi peggiori e piú arditi, non fossero promosse tante difficoltá che portassero il concilio in infinito, o non fosse resoluta qualche cosa pregiudiciale. Ma tenendo li legati queste ragioni in petto, risposero alli francesi con onorate parole, nella forma altre volte con loro usata, che il concilio fu convocato principalmente per francesi; li prelati loro esser stati appellati da tanto tempo; che il trattenir cosí gran numero di padri piú longamente nella stessa aspettativa sarebbe un’indignitá del concilio; che quando non si pubblicassero le cose discusse, il mondo crederebbe che fosse per qualche dissensione tra loro, o perché le ragioni de’ protestanti avessero qualche validitá. Ma Lansac non acquetandosi [p. 469 modifica] di risposta alcuna, e premendo sempre maggiormente la dilazione, si doleva che il concilio fosse aperto per li francesi, e che non s’aspettassero; che mai aveva potuto ottener dalli legati cosa richiesta; che le sue rimostranze erano sprezzate; che in luoco di gratificar il suo re, si usava maggior precipitazione; che egli non attribuiva ciò alli legati, sapendo che non fanno cosa se non da Roma comandata; che prendevano grand’errore, avendo in sospetto la venuta delli prelati francesi; che, dopo fatte tante prove per ottener quello che era giusto e dovevagli esser concesso, ancorché non dimandato, conveniva pensar ad altri rimedi. E parlava in modo che faceva dubitare di dover far qualche cosa straordinaria. Il che fece passar voce nel concilio che sarebbe disciolto: cosa che dalla maggior parte era sentita con piacere, alcuni per liberarsi dagl’incomodi che pativano, altri vedendo di starvi con nessuno o leggerissimo servizio di Dio, li pontifici per timor di qualche tentativo. Pubblicamente si discorreva che Lorena in ogni occasione aveva mostrato animo inclinato a diminuir l’autoritá della sede apostolica; che averebbe voluto dar qualche passo alla Francia in materia del pontificato, quale non li piaceva in disposizione del collegio de’ cardinali che era de italiani; che la Francia ha sempre preteso di limitar la potestá pontificia, di sottoporla alli canoni e concili; che questa opinione sarebbe aiutata da spagnoli, quali giá, con tutto che molto riservati nel parlare, s’erano mostrati desiderosi del medesimo: e sarebbono anco seguiti da una buona parte d’italiani, che, per non poter o saper prevalersi delli comodi della corte, hanno invidia a chi li gode: oltre li desiderosi di novitá, senz’anco saper perché; il numero de’ quali per molti indici si vedeva esser considerabile.

Si pubblicò per Trento un discorso che andò per le mani de tutti, e anco dalli legati fu mandato a Roma, nel qual si mostrava esser impossibile finir il concilio in breve tempo, vedendosi tutti li principi vòlti all’allongarlo: de’ francesi e imperiali non potersi dubitare, per la instanza di dilazione che facevano; il re di Spagna dimostrar l’istesso, avendo destinato [p. 470 modifica] per ambasciator al concilio il conte di Luna, quando fosse finita la dieta di Francfort, dove era mandato prima: li prelati anco con la longhezza del dire dover portar sempre le cose in longo. Poi si discorreva l’impossibilitá di camminar cosí per molto tempo, non essendovi provvisione di grano se non per settembre, né sapendosi dove averne, per la carestia universale; e la tardanza dell’imperatore e di Baviera di dar risposta alla dimanda di vettovaglie fattagli, mostrar che non potranno sovvenire. Aggionse che li protestanti sempre averebbono tese insidie per far capitar li padri a qualche risoluzione disonorevole; che averebbono suscitato novitá per costringere li principi a promover cose pregiudiciali; che li vescovi si vedevano aspirare a libertá, e in progresso non si sarebbono contenuti in termini cosí ristretti; e la sinodo si sarebbe fatta non solo libera, ma anco licenziosa. E con un bel traslato era somigliato il progresso del concilio come d’un corpo umano, che con delettazione contrae una picciola e dal principio non stimata infezione francese, che poi si aumenta e occupa tutto il sangue e tutta la virtú. Esortava il pontefice a considerarvi, non per venire a traslazione o suspensione, per non incontrar una contradizione di tutti li principi, ma per sapersi valere di quelli rimedi che Dio gli manda.

In questi moti li legati affrettavano a concluder li decreti per la sessione. Quel del sacrificio era a buon termine; però si parlò sopra la concessione del calice. Nel che furono tre opinioni: una estrema e negativa, che in modo alcuno non si concedesse; l’altra affermativa, che si dovesse conceder in concilio, con le condizioni e cauzioni che alla sinodo fosse parso (e questa era sostenuta da cinquanta delli piú savi; e tra questi, alcuni volevano che si mandassero legati nelle regioni che ne facevano instanzia, per prender informazione se era conveniente far la concessione e con qual condizioni); la terza, media, che si rimettesse il negozio al papa. Ma questa era divisa in molti rami: alcuni volevano una remissione assoluta, senza dechiarare che egli la concedesse o negasse; ed altri che fosse con dechiarazione che la concedesse secondo [p. 471 modifica] la prudenza sua. Alcuni volevano restringerla a particolari paesi; e altri lasciarli libera facoltá. Li spagnoli tutti assolutamente la negavano, avendoli da Roma scritto l’ambasciator Vargas che cosí compliva al bene della religione e servizio del re, per il danno imminente alti Paesi Bassi e anco allo stato di Milano, quali quando avessero veduto li confinanti loro a goder quella facoltá, l’averebbono richiesto essi ancora; e concedendola o negandola, in ogni modo s’averebbe aperto una gran porta all’eresia. Li prelati veneziani, indotti dalli loro ambasciatori, tenevano essi ancora il medesimo parere per la causa istessa.

Di queste opinioni recitarò solo li autori principali e le cose singolari dette da loro. Il Cardinal Madruccio, che prima parlò, senza alcuna eccezione approvò che il calice si dovesse concedere; li patriarchi tutti tre, che assolutamente si dovesse negare; cinque arcivescovi, che seguirono, si rimisero al pontefice. Quello di Granata, perché aveva promesso agl’imperiali di favorirli per averli aderenti nella materia della residenza che sopra modo gli premeva, disse che non affermava né negava, ma non si poteva concludere in quella sessione, ed era necessario differire ad un’altra; né volse rimettersi, dicendo esser materia di grave deliberazione, perché non era cosa che si potesse regolare con le Scritture o tradizioni, ma appartenente alla prudenzia, dove è necessario proceder con circonspezione per non ingannarsi nelle circonstanzie del fatto, che non si possono accertar per speculazione o discorso. Che egli non faceva difficoltá, come molti altri, per il pericolo di effusione, mostrando l’esperienzia che non avviene ora, nel far l’abluzione, che il vino si versi: che se questa concessione fosse per apportar unione alla Chiesa, non si doverebbe aborrire, essendo rito che si può mutar secondo l’utilitá de’ fedeli; ma ben stava sopra di sé, per dubbio che dopo questa concessione non fossero dimandate altre cose stravaganti. Che per dubbio di non errare, sarebbe bene ricorrer prima a Dio con orazioni, processioni, messe, elemosine e digiuni; poi per non mancar delle diligenzie umane, non essendovi nel concilio li prelati [p. 472 modifica] di Germania, scriver loro che si radunassero con li loro metropolitani ed esaminassero bene la materia, e secondo la loro conscienzia sopra ciò scrivessero alla sinodo. Conchiuse che, non potendosi far tante cose in breve spazio, giudicava che si dovesse soprassedere e differir la deliberazione in altro tempo. Giovan Battista Castagna arcivescovo di Rossano, dissuadendo assolutamente la concessione, passò a discorrer contra chi la richiedeva e chi favoriva la richiesta, tassandoli per non buoni cattolici; perché se tali fossero, non ricercherebbono cosa indebita con scandolo degli altri: e disse apertamente che la richiesta mirava ad introdur l’eresia. E usò tal parole, che ognuno intese che inferiva sopra Massimiliano re di Boemia.

Disse l’arcivescovo di Braga o ver Braganza esser informato che in Germania erano quattro specie d’uomini: veri cattolici, ostinati e aperti eretici, eretici dissimulati e infermi nella fede. Che li primi non dimandavano la concessione, anzi erano contrari; li secondi non se ne curavano; li terzi n’erano desiderosi per poter star coperti nella loro eresia, perché in tutte le altre cose potevano fingere, ma questa sola li scopriva: però non era da conceder loro, per non dar fomento alli loro errori. Ma li deboli in fede non erano tali se non per cattiva opinione della potestá ecclesiastica, massime del sommo pontefice; e non dimandavano il calice per divozione, la qual non si vede se non in persone di santa vita, dove essi sono immersi nelle vanitá e piaceri del mondo; che mal volentieri anco si confessano e si comunicano una volta all’anno; il che non mostra tanto fervor di devozione che per quella ricerchino di comunicarsi con ambe le specie. Concluse che si dovesse imitar la diligenza dei padri di Basilea, che si eleggessero quattro o sei prelati del corpo del concilio, che come legati della sinodo, accompagnati da teologi atti a predicare, visitassero le provincie nominate dalla Maestá cesarea, e dove trovassero uomini penitenti che avessero voglia del calice per devozione o per esser abituali in quel rito, e che del resto volessero ritornar alla Chiesa, li conciliassero e glielo concedessero. [p. 473 modifica]

Il titolar filadelfiense, se ben tedesco, disse esser pericolo il negar la grazia, dimandandola l’imperatore; e il concederla pernicioso; ma che si risolveva piú tosto di dispiacer agli uomini che parlar contra la sua conscienzia. Che era impossibile metter in pratica l’uso del calice per pericolo della effusione, portandolo attorno per luochi lontani e diffícili, molte volte di notte a tempi de nevi, pioggie e ghiacci; che li eretici si sarebbono gloriati, inculcando ai popoli che pur i papisti cominciano a conoscer la veritá; e che senza alcun dubbio quelli che fanno l’instanza tengono non potersi satisfar in altro modo al precetto di Cristo che pigliando l’eucaristia sotto ambe le specie. E pigliò in mano un catechismo scritto in lingua tedesca, il qual lesse interpretandolo in latino e dechiarando qual era la loro opinione. Aggionse che li cattolici si sarebbono contristati, e in luoco di guadagnar alcuni pochi, si averebbono persi moltissimi; che averebbono dubitato a qual parte fosse la vera fede, vedendo li cattolici piegar nelle usanze de’ protestanti; che la concessione fatta alla Germania averebbe mosso le altre provincie, e massime la Francia; che li eretici vogliono far prova di penetrare con questa concessione la constanza che hanno trovata nelli dogmi della Chiesa cattolica. Concluse che si doverebbe differire almeno sino al fine della dieta, acciò li prelati germani potessero mandar al concilio, approvando l’opinione di Granata di differire, c quella di Braga, che quelli che mostravano desiderar il calice avevano tutti radice d’eresia; e soggionse che gli ambasciatori imperiali avevano fatto cosí appassionate instanze e tante strette pratiche, che essendo interessati tanto, non conveniva stessero presenti in congregazione, acciò liberamente si potesse parlare.

Fra’ Tomaso Casello, vescovo de La Cava, dopo aver raccontato che il Cinquechiese aveva persuaso molti, dicendo che, non concedendosi, seguirebbono tanti mali che meglio sarebbe non aver mai fatto concilio, si estese a mostrare che non si concedesse, se ben dovesse seguir la perdita di molte anime, perché, concedendolo, maggior numero perirebbe. [p. 474 modifica]

[Egidio Falcetta] vescovo di Caurle fece la stessa instanza che li ambasciatori imperiali si ritirassero, e inveí gravemente contra le parole del Cinquechiese narrate dal La Cava. Molti prelati spagnoli in conformitá fecero instanza alli legati che li cesarei non intervenissero nelli trattati dei padri durante questa consultazione, bastando che in fine intendessero la resoluzione della sinodo: ma contradicendo alcuni altri, e dicendo che piú essi, a chi toccava, che gli altri dovevano intervenire, e che l’escluder quelli di chi si tratta è cosa aliena dall’uso delle sinodi, li legati, considerato che giá avevano cominciato ad esser presenti e che non si potevano escluder senza pericolo di rumore, risolverono di non far altra novitá.

Il vescovo di Conimbria fu di parere che si rimettesse al pontefice il conceder la grazia, con cinque condizioni: che quelli, a chi s’aveva da far, abgiurassero tutte l’eresie, e in particolare giurassero di credere che tanto si contiene sotto una specie quanto sotto ambedua, e tanta grazia parimente si riceva; che scaccino i predicatori eretici; che ne ricevino in loro cambio de cattolici; che non possino riservare il calice né portarlo alli infermi; e che Sua Santitá non dovesse commetter ciò alli ordinari, ma mandar legati; e non si facesse la resoluzione in concilio, perché quando fosse stata pubblicata, averebbe fatto insuperbir gli eretici e dato scandolo a moltissimi cattolici. Perché, se pur questa dispensazione si doveva fare, conveniva non metterla agli occhi di tutte le genti.

Il vescovo di Modena sostenne che non si poteva negare, perché sempre dopo il concilio di Costanza la Chiesa avendosi riservata la facoltá di dispensare, ha mostrato che fosse alle volte conveniente farlo; che Paulo III giá aveva mandato nonci a rilasciarla, perché si era avveduto che la proibizione non aveva fatto frutto in tanti anni; che mai si avevano potuto ridur i boemi; che l’uso del calice era conforme all’instituzione di Cristo e servato dalla Chiesa per altri tempi.

Fra’ Gasparo di Casal vescovo di Liria, uomo di esemplaritá e dottrina, difese il medesimo parere. Disse, in somma, non maravigliarsi della diversitá delle opinioni, perché quelli [p. 475 modifica] che negavano la comunione del calice avevano tutti li moderni da seguitare, sí come quelli che la concedevano, si movevano dall’esempio dell’antichitá e del concilio basiliense e di Paulo III. Nella qual diversitá de pareri egli aderiva all’affermativo, perché la cosa era di sua natura buona e, con le condizioni proposte, utile ed espediente; ed essendo inviato per mezzo necessario a ridur le anime, chi voleva il fine era necessitato a voler il mezzo. La necessitá del mezzo non doversi metter in dubbio, poiché l’imperator l’affermava; quale egli credeva che Dio non lascierebbe ingannare in cosa cosí importante, massime che Carlo aveva avuto il medesimo giudicio; e l’istesso comprobava la dimanda del duca di Baviera e l’instanza de’ francesi. E se alcun dubitasse che li principi secolari non fossero appieno informati di questa causa, come ecclesiastica, non doveva restar di prestar fede intiera al vescovo di Cinquechiese e agli altri due vescovi ongari che erano in concilio. E perché alcuno aveva detto doversi ben imitare il padre che ricevette il figliuol prodigo, però con aspettar prima che venisse a penitenza, disse che piuttosto conveniva imitar il pastor evangelico, che andò cercando per luochi deserti e aspri, con grandissima sollecitudine, la pecora smarrita, e presala in collo la riportò all’ovile. Il parlar di questo prelato, per la fama di gran bontá ed eccellente dottrina, e piú per esser portoghese, che ognuno averebbe pensato dover esser rigorosissimo in mantener li riti usati, non solo confermò quelli che erano del suo parere, ma fece titubar assai molti del li contrari.

Il vescovo d’Osimo, che parlò dopo di lui, disse: «Dubito che ci bisognerá bever questo calice in ogni modo, ma faccia Dio che sia con buon successo». Giovan Battista Oslo, vescovo di Rieti, sostenne che non si dovesse conceder quest’uso, perché la Chiesa non è stata mai solita in alcun tempo conceder minima cosa secondo le posizioni degli eretici, anzi sempre constituir il contrario. Mostrò, per quello che era seguito nelli boemi, quali sempre erano stati piú rebelli, che non conveniva promettersi niente della conversione degli eretici, ma tenir certo di dover esser ingannati da loro; che [p. 476 modifica] bisognava far capace l’imperatore che la dimanda non era utile per li suoi stati. Fece anco instanza alli legati che non dovessero far fondamento sopra quelli che da principio avevano parlato di rimetter al papa, avendo parlato confusamente; e che si dovesse far una scelta de voti, come in altre occasioni s’era fatto, con far risponder ciascuno per il sí o per il no, e tralasciar li modi artificiosi che alcuni erano stati constretti ad usare per dar sodisfazione. Fu seguito da fra’ Gioanni de Munatones vescovo di Segorve, il quale disse che prima era stato di opinione che la grazia non fosse negata; ma udito il vescovo di Rieti, era necessitato per carico di conscienzia mutarsi e mettersi per la parte negativa: che il concilio era in questa causa giudice, al quale conveniva aver gran risguardo che, condescendendo improvvidamente alla Maestá cesarea, non si facesse pregiudicio agli altri principi. Fra’ Marco Laureo, vescovo di Campagna, disse che l’imperator non dimandava di cuore questa concessione, ma che bastava a Sua Maestá far questa mostra per acquistar i suoi populi; e però sarebbe stato ben dargli conto delle difficoltá, acciò Sua Maestá potesse giustificarsi con loro.

Pietro Danesio, vescovo di Lavaur, non definí se fosse o non fosse da conceder il calice, ma tutto si consumò contro l’opinione di rimettere al papa. Disse in sostanza che forse il pontefice ne resterebbe offeso, perché essendo prima stato ricercato lui, e, per non poter saper o voler risolversi, avendo inviato le richieste al concilio, era manifesto indicio che non gli piacerebbe vedersi riposto nelle medesime ambiguitá. E il concilio, che è un gran numero di persone, poter piú facilmente sostener la carga delle importunitá di chi non sodisfatto si dolerá e ricercará rimedio, che non il pontefice sola persona, al quale per conservazione della dignitá convien tenir conto di molti rispetti. Poi si dará ansa alli calunniatori, che diranno esser un giuoco per deluder il mondo che il papa rimette al concilio e il concilio al papa. In fine venne allo stretto, dicendo: o si vuole rimettere al papa come a superiore, o come ad inferiore; o vero se gli rimette, perché non bastando [p. 477 modifica] l’animo al concilio di risolversi per le difficoltá, rimette a potestá maggiore; o vero per liberarsi rimette ad un inferiore: né all’uno né all’altro modo è giusto il farlo, se prima non è deciso qual potestá sia superiore; perché ciascun di qua vorrá cavar argomento per l’opinione sua, e si dará causa alle dispute e alla divisione. Disse con asseveranza che nessun prelato savio doveva assentir a far la remissione, se non certificato prima in qual de’ doi modi si doveva fare; anzi non esser possibile farla in modo che le parole non mostrino o l’una o l’altra. Fu udito questo prelato da’ pontifici con impazienzia.

Ma opportunamente il Cinquechiese in quelle congregazioni volse parlar al luoco suo, come prelato; onde seguendo immediate dopo questo, con altri novi discorsi fece smenticar di questi, e con molta maniera fece longa digressione in persuadere che si concedesse; poi rispose appositamente a capo per capo a tutte le cose che erano state dette in contrario. Disse non esser bisogno risponder a quelli che volevano escluderlo dalle congregazioni, poiché le ragioni loro tanto valevano contra la Maestá cesarea, se si fosse trovata presente; che voleva tralasciar anco di rispondere ai pericoli della effusione, perché se questi fossero stati irremediabili, non occorreva che il concilio constanziense avesse riservato la facultá di dispensare; che li ragionamenti di quelli che persuadono la negativa li sono parsi gravi ed efficaci, atti a tirar lui medesmo in quella parte, quando non avesse pratica ed esperienza di quel negozio, il quale ha maggior bisogno di simrnil cognizione che di scienzia e ragioni speculative. A quelli che dicevano che di simil concessione non s’era veduto frutto per il passato, rispose che era tutto il contrario; perché dopo la trattazione di Basilea si erano conservati molti cattolici in Boemia che tuttavia vivevano in pace con li calistini, e che novamente avevano ricevuto il novo arcivescovo di Praga, dal quale facevano ordinar li loro preti. A quelli che temevano metter nuovi pensieri nelle altre nazioni rispose che quelle non si moverebbono per tal esempio, perché, essendo senza mistura de [p. 478 modifica] eretici e desiderosi di conservar la puritá della religione, rifiuterebbono il calice a chi volesse darlo loro. Che li germani tanto piú lo desiderano, quanto è loro maggiormente negato; ma se li fosse concesso, col tempo si distorrebbono da quell’uso. Il timore che, ottenuta questa grazia, passassero ad altre dimande, esser troppo suspicace; e quando pur vi passassero, sempre se li potrebbono negare. Che non si poteva dimandar novitá, poiché era stata concessa dal concilio di Basilea e da Paulo III, li ministri del quale se fossero stati piú animosi, e per leggier spavento non si fossero ritirati da quella dispensazione per parole di alcuni frati impertinenti che li predicavano contra, sarebbe stato maggior giovamento; che egli si era grandemente offeso per la ragione detta da alcuno, che sí come non si potrebbe ricever uno con condizione che gli fosse permessa la fornicazione, cosí non debbono esser ricevuti questi popoli che vogliono reconciliarsi con patto dell’uso del calice, essendo la prima condizione di sua natura cattiva; che questa non è mala se non in quanto è proibita. Al vescovo di Segorve rispose che l’imperator non litigava con principe alcuno, né procurava pregiudici ad altri; e richiedeva il calice alli suoi populi per grazia, e non per giustizia. Ma verso quelli che dicevano non doversi dar la cura agli ordinari di ciò, ma mandar delegati dalla sede apostolica, motteggiò con un poco d’asprezza, dicendo se pareva loro che a chi s’era fidata la cura delle anime e tutto il governo spirituale non si dovesse fidar una cosa indifferente; o pur se pensavano che questa fosse cosa eccedente il governo episcopale; che il rimetterlo al papa non era se non aggiongerli nove e continue molestie. Al Filadelfia rispose che non solamente li cattolici non sarebbono turbati, ma consolati, potendo viver uniti con quelli da chi sostengono molti travagli ora. A chi voleva procuratori espressi disse non esser maraviglia se nessuno viene a dimandar questa grazia, perché l’imperator ha preso a dimandarla per loro, il qual potrebbe farne venir innumerabili, se li padri cosí vorranno. Ma sí come il concilio aveva avuto rispetto di non far il salvocondotto troppo largo, acciò non venisse tanta multitudine [p. 479 modifica] de protestanti che li mettesse paura, cosí doveranno aver maggior rispetto a ricercar chi venissero a tal fine, atteso che piú venirebbono per impetrar questa concessione. Concluse che si avesse compassione alle loro chiese e si tenisse conto della dimanda di tanto principe, che per desiderio dell’unione della Chiesa non parla mai di questo negozio senza lacrime. In fine si gravò della passione de molti prelati, che per vano timore di veder mutazione nelle regioni loro vogliono veder la perdita delle altre; in particolare si querelò del vescovo di Rieti, che tenesse l’imperator per principe ignaro di governo, che non sapesse quello che fosse utile per li stati suoi, se Sua Signoria reverendissima, versata in servir alle mense de’ cardinali in Roma, non gl’insegnava. Finalmente disse che molte altre cose gli restavano da rispondere, che erano state dette da provocarlo quasi a duello; ma li pareva meglio tollerarle e passarle pazientemente. Replicò quello che altre volte aveva detto, cioè che, non concedendo l’uso del calice, saria stato meglio che il concilio non si fosse mai fatto. Le quali parole dechiarò, soggiongendo che molti populi erano restati nell’obedienzia del pontefice con speranza che dal concilio li fosse concessa questa grazia, li quali si sarebbono alienati affatto, vedendosi fraudati di quella speranza.

Andrea di Cuesta, vescovo di Leone in Spagna, disse che non si poteva dubitare dell’ottima mente di Cesare e del duca di Baviera, né disputar se la Chiesa poteva far tal permissione, ma solo considerar quello che fosse ispediente. Il parer suo essere che s’imitassero li padri antichi e l’uso continuo della Chiesa di non condescender alle petizioni de eretici. Si vede per la pratica del concilio niceno che, se ben andava il mondo sottosopra, non volsero conceder loro una sola iota, e li dottori si sono astenuti dalle parole usate da eretici, se ben avessero buon senso. Che non si sarebbono contentati di questa concessione; che li cattolici l’averebbono sentita male; che per incerta speranza di redur alcuni pochi eretici s’averebbono perduti molti cattolici: esser grand’argomento che li vescovi di Germania non facevano la dimanda, che la [p. 480 modifica] zione non era per devozione, essendo da gente che non dá nessun segno di spiritualitá: che egli non sapeva intender come fossero penitenti e volessero tornar alla Chiesa e creder che fosse retta dallo Spirito Santo, con ostinazione però di non voler tornar senza questa grazia; che questa ostinazione mostra che non hanno la ragione formale della fede; che se il concilio basiliense altre volte concesse ciò alli boemi, fu perché si rimessero assolutamente alla Chiesa, qual poi per benignitá lo concesse; che non si debbe dir vero rimedio quello che non è necessario per natura della cosa, ma per malizia degli uomini; che la sinodo non debbe nutrirla e fomentarla; che s’imita assai l’esempio di Cristo in cercar le pecore smarrite, quando si chiamano, invitano e pregano; che se questa grazia si ha da concedere, è meglio che si conceda dal papa, qual potrá revocarla se le condizioni non saranno adempite; che concedendola il concilio, se il papa vorrá annullarla, pretenderanno che non lo possi fare, e che la sua autoritá non sia sopra il concilio; che li eretici sempre procedono con falsitá e con inganni.

Antonio Corrionero, vescovo di Almeria, disse che si confirmava nella negativa per le ragioni usate dalli defensori nell’affirmativa; che se ben Dio dá molti aiuti alli impenitenti, come predicazioni, miracoli e buone inspirazioni, non però mai dispensa loro i sacramenti, ma ai soli penitenti; che volendosi mover dalla caritá, prima si debba attender a conservar li cattolici, che ridur li eretici; che si debbi imitar il concilio constanziense, che per mantener i buoni figliuoli della Chiesa proibi la comunione del calice insegnata da Gioanni Hus. Cosi si debbe far ora con li luterani; che questa concessione aprirebbe la porta ad infiniti mali; che averebbono dimandato il matrimonio de’ preti, l’abrogazione de immagini, de digiuni e altri santi instituti, sempre proponendo le loro dimande come mezzi unichi e necessari a riunirsi con la Chiesa; che ogni minima mutazione di legge partorisce gran danno, e massime essendo a favore delli eretici; che non consiglierebbe manco che lo facesse il pontefice, se ben facendolo lui sarebbe manco [p. 481 modifica] male; che i populi s’offenderebbono manco che se la concessione fosse fatta dal concilio, il qual par che abbia maggior autoritá nelle sue difinizioni appresso i populi, se ben si deve confessare che la suprema autoritá sia nel pontefice; che quando però la concedesse, non si doverebbe commetter alli vescovi, quantunque conosciuti buoni, per qualche tempo, perché possono diventar cattivi e di perversa fede, mossi da privati interessi.

Francesco Delgado, vescovo di Lugo in Spagna, fece una esortazione longa alli padri che non volessero, per fuggir difficoltá o per sodisfazione a prencipi o popoli, derogar alla dignitá e autoritá delli concili generali, l’autoritá de’ quali essendo sempre stata stimata nella Chiesa quanto ognun sa, e avendo quella mantenuto la fede, non è da lasciarla adesso vilipendere per rispetti e interessi. Allegò piú luochi di sant’Agostino dell’autoritá dei concili generali, e narrò le cose fatte dalli passati, e innalzò sommamente l’autoritá conciliare; e quantunque non descendesse mai alla comparativa con la pontificia, ognuno però intendeva che la conciliare da lui era posta per superiore. E Gerolemo Guarini vescovo d’Imola, usando concetti e parole poco dissimili, inalzò anco l’autoritá de’ concili provinciali, per confermare l’openione sua di non conceder il calice, con dire che conveniva aver l’autoritá di quelli per obbligatoria, sin tanto che da un concilio generale non fosse determinato in contrario, allegando in ciò sant’Agostino. E nel fervor del dire usci in queste parole: che il concilio generale non aveva alcun superiore. Ma avvedutosi poi che gli altri pontefici (perché di quel numero esso ancora era) restarono offesi, cercò di moderare con replicar le stesse cose e aggiongervi l’eccezione dell’autoritá pontificia: col qual modo di trattare non sodisfece né all’una né all’altra parte. Fu però scusato dal maggior numero de’ suoi, e attribuito il fatto ad inconsiderazione, poiché egli in diverse occasioni nelle congregazioni inanzi aveva redarguito quelli che allegavano il concilio basiliense. Il cardinale Simonetta però, con tutto che di lui si valesse a far simili opposizioni, non restò di [p. 482 modifica] interpretar in sinistro e attribuirgli che era trascorso, portato dall’affetto, per non essergli state spedite le bolle del suo vescovato gratuitamente, come pretendeva.

L’ultima congregazione sopra questa materia fu il 5 settembre; e fra gli altri che in quella parlarono, disse Riccardo da Vercelli, abate prevalense in Genova, canonico regolare, sostentando la parte negativa, che nel concilio basiliense quella materia fu disputata per piú giorni, restando ancora la disputa raccolta per fra’ Giovanni di Ragusi procurator dei dominicani; e finalmente fu definita, e negato alli boemi assolutamente il calice: onde non si può oggi venir ad altra deliberazione senza far apparir al mondo che allora la Chiesa fallasse in un concilio generale. Dal vescovo d’Imola, per medicar il proprio eccesso, fu ripreso di dar autoritá a quel concilio scismatico; e notato di grand’ardire che, essendo tante volte stati ripresi quelli che semplicemente allegarono il basiliense, egli allora non solo l’adducesse, ma gli dasse anco autoritá di concilio generale. Replicò il padre che sempre s’era maravegliato, e allora maggiormente, di chi parlava cosí di quel concilio, atteso che nella prossima passata sessione li quattro capi decretati nella materia del calice erano di peso pigliati da quel concilio; non saper in che modo si possi maggiormente approvare un decreto quanto rinnovarlo, non tanto nel senso, ma nelle parole ancora. E con questo riscaldatosi, passò a dire che, atteso il decreto di quel concilio, la petizione del calice sapeva eresia e peccato mortale. Di che levatosi sussurro, e volendo egli seguir piú oltre, il Cardinal di Mantova lo fece tacere; ed egli, fermato, chiese perdono; e dette alcune altre poche parole, finí. Per non parlar piú di questo padre, aggiongerò qui che egli era in nota per essersi scoperto che il dí 16 agosto fosse stato per tempo alla casa degli ambasciatori francesi a dimandar se li loro vescovi sarebbono venuti, e ad esortare che si sollecitassero a venir presto: e alle congregazioni che si fecero sopra il sacrificio pose in dubbio se l’autoritá del pontefice fosse superior al concilio, soggiongendo che quando si fosse venuto a trattar di questo, egli averebbe detto il voto suo liberamente. Le qual cose poste tutte insieme, e dalli [p. 483 modifica] legati opportunamente ponderate, fu giudicato non esser bene che un tal umore si trovasse alla venuta delli francesi, e pensarono di far che il generale suo lo chiamasse per negozi della congregazione, e con questa onestá levarlo da Trento. Ma non fu bisogno, perché il povero padre per afflizione d’animo pochi dí dopo s’infermò, e alli 26 novembre passò di questa vita.

In quella congregazione fra’ Giovan Battista d’Asti, generale de’ Servi, sostentando esso ancora la negativa, abbattuti li fondamenti delli contrari, si estese sopra il concilio di Costanza, che prima ha fatto decreto in quella materia; e commentando l’autoritá di quello, l’esaltò sopra gli altri concili generali, con dire che aveva deposto tre papi: cosa che piacque poco, ma fu passata, per non urtar tante cose insieme.

Finiti li voti, e volendo li legati dar sodisfazione all’imperatore, né apparendo come si potesse far nel concilio, prevalendo la parte della negativa, risolverono d’operar che si rimettesse al papa, sperando che col mezzo de uffici si potessero condur parte de quei della negativa in questa sentenza come media: e diedero carico a Giacomo Lomellino vescovo di Mazzara e a quello di Vintimiglia che si adoperassero con destrezza e circospezione; ed essi medesimi legati parlarono per la parte remissiva alli tre patriarchi, quali anco persuasero; e per loro mezzo restarono acquistati tutti quei del dominio veneto, numero molto considerabile. Racquistato il numero che parve bastante, credettero aver superato le difficoltá. Ridussero il negozio a questo punto: di scriver una lettera al papa nella forma ordinaria, mandando nota de tutti li voti. E mentre pensano alla forma, Cinquechiese, risaputolo, si dichiarò non contentarsi se non appariva qualche decreto nella sessione, allegando che, essendosi nella precedente riservato di trattare li due articoli, ora essendosi trattati e risoluti, è necessario far apparire negli atti della sessione la risoluzione. Il Cardinal varmiense gli mostrò quanto era difficile e pericoloso proponer decreto, e che per venir al fine lo consegliava contentarsi della lettera: al che non acquetandosi, in fine risolsero far un decreto da leggere nella sessione. In quello egli voleva fosse detto che, avendo la sinodo conosciuto esser [p. 484 modifica] ispediente conceder l’uso del calice, rimetteva al sommo pontefice a chi e con che condizioni concederlo. Dalli legati gli fu mostrato che molti della parte remissiva erano di quella opinione, per non esser certi se fosse ispediente, li quali tutti sarebbono stati contrari al decreto; e che non si poteva spontare questo passo di far dichiarar la concessione per ispediente; anzi anco tenendo questo, era bene lasciar con l’interposizione d’una settimana intepidir tanto fervore. Il Cinquechiese s’acquetò; e fu proposto, differito il capo del calice, attendere a stabilir il decreto del sacrificio, per insinuarsi con quello ad introdur proposta della comunione. S’attraversò varmiense, il qual, persuaso dalli gesuiti Lainez, Salmerone e Torres, proponeva un’altra forma di decreto del sacrificio in materia dell’oblazione di Cristo nella cena; e fu cosa difficile farlo desistere. Finalmente, dopo l’esser stati quasi fuori di speranza d’esser in ordine per far la sessione al tempo destinato, nella congregazione delli 7 fu stabilito il decreto del sacrificio, essendo stato ricevuto dalla maggior parte, se ben Granata fece ogni opera per interporre impedimenti e allongamenti.

Dopo questo furono dati dieci articoli per riformazione degli abusi occorrenti nella messa, e altri undici in diverse materie di riforme; li quali furono a studio eletti di cose facili e non soggetti a contradizione, e favorevoli all’autoritá episcopale, acciò non intervenisse qualche retardamento per l’opposizione di alcuno: e questo era molto ben noto agli ambasciatori e prelati, che se ne dolevano ancora. Sopra questi s’incominciò a parlar il dí 9 settembre, e in brevi parole li prelati si spedirono, parlando sino quaranta per congregazione. Non vi fu di singolare opposizione alcuna; ma ben il Filadelfia disse la Germania esser in espettazione che nel concilio si trattasse di cose gravi e d’importanza: nominò diverse, e fra le altre la creazione de’ cardinali e la pluralitá de’ benefici. Gioanni Suares, vescovo di Conimbria, disse che non lodava il trascurar le cose minime, ma ben parer a lui che la dignitá della sinodo ricerchi che sia seguito qualche ordine speciale, e che si vedi per qual causa siano proposti piú questi che altri particolari: che la riforma doverebbe incominciar dal [p. 485 modifica] capo, da quello passar nelli cardinali, dalli cardinali nelli vescovi, e da questi negli altri gradi; altrimenti temeva che, trattandosi riforma nel modo incominciato, s’averebbe mosso lo stomaco alli cattolici, e alli protestanti le risa. Parigi disse esser centocinquanta anni che il mondo dimanda riforma nel capo e nei membri, e sinora è stato defraudato: sarebbe oramai tempo di mostrarli che si opera dadovero, e non simulatamente; che desiderava fossero uditi anco li francesi pelli bisogni di quel regno; che in Francia s’era fatta una riforma assai piú utile che la proposta allora in concilio. Il vescovo di Segovia disse che si faceva a guisa del medico imperito, che nei mali mortali dá un lenitivo, o vero unge di olio. Il vescovo di Orense disse che Sua Santitá non doveva conceder tanta facoltá alla cruciata e alla fabbrica di San Pietro, in virtú de’ quali ognuno in Spagna vuol messe in casa; e non moderando quella, le provvisioni della sinodo saranno vane: esser necessario fare una dechiarazione che li decreti del concilio generale obbligano anco il capo. A che essendosi levato sussurro, egli, fatto segno di silenzio, soggionse: «Quanto alla virtú direttiva, non coattiva». E seguí dicendo che era necessario anco trovar via che non vi fossero liti, o almeno non fossero tante e cosí longhe, nelle cause beneficiali; che ciò riusciva di gran dispendio, mancamento del culto di Dio e scandolo del populo. Il Cinquechiese parlò sopra il capo di conferir li vescovati, esponendo le parole da lui dette, che si promovevano persone vili e indegne, dechiarando che l’abuso procedeva dalli principi, che li raccomandavano con istanza e anco con importunitá al papa, e che meglio sarebbono collocati nelli palafrenieri di Sua Santitá; e si dolse che le sue parole fossero state sinistramente interpretate.

L’agente spagnuolo, per nome del re, si gravò di tanta autoritá che alli vescovi si concedeva nel capo ottavo sopra gli ospitali, monti di pietá, luoghi pii ecc.; particolarmente per il regno di Sicilia, contra il privilegio che quel regno ha della monarchia anticamente: al quale per sodisfare, dalli legati fu aggionta al capitolo la clausula che riserva li luochi che sono immediate sotto la protezione del re.