La via del male/IV

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Capitolo IV

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III V
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IV.

Per due settimane egli rimase in paese, aiutando zio Nicola a rimettere il vino nelle botti, o lavorando in un orto vicino; poi salì sulla montagna e fece la provvista delle legna per l’inverno.

In quelle lunghe ore di solitudine, nell’orto solitario o sui boschi dell’Orthobene, egli pensava sempre alla giovine padrona. Gli pareva di non esserne innamorato, ma sebbene Maria gli piacesse immensamente, pensando a lei egli non osava più accarezzare i desideri stolti, gli sciocchi propositi di vendetta amorosa, che lo avevano qualche volta assalito.

Maria non era donna da invitare gli uomini allo scherzo amoroso: Pietro arrossiva ricordando d’essersi per un attimo illuso sulle intenzioni di lei a suo riguardo, e divertito all’idea di piacerle.

Egli ora la vedeva sempre nel suo alto posto di padrona benestante e dignitosa: lo sguardo di lei, acuto e luminoso, tagliava come una lama.

Anche nelle più umili faccende, o ridesse o si mostrasse insolitamente seria, ella era sempre una [p. 55 modifica]creatura d’una razza boriosa e superba. Ma al servo piaceva appunto così. Qualche volta egli pensava ancora all’altra, alla cugina povera, e desiderava rivederla e venire con lei ad una spiegazione; ma a poco a poco anche questo desiderio dispettoso svanì. Per due settimane il cuore di Pietro tacque, ma assopito e gonfio come la terra durante il periodo invernale.

Qualche sera il padrone si tratteneva a lungo nella cucina ove già il fuoco ardeva, e invitava Pietro a bere e cantare. Se le donne non vigilavano, padrone e servo bevevano oltre misura, e zio Nicola narrava, in versi estemporanei, gli episodi più caratteristici della sua vita.

Anch’egli era stato povero, aveva girovagato in cerca di fortuna, aveva amato e sognato.

— Povero o ricco, sempre allegro, però; Zente allegra il ziel l’aiuta, — diceva in italiano. — Una volta avevo le scarpe rotte; e pensai: appena incontro un proprietario, mi levo una scarpa e gliela sbatto sul muso. Indovina chi ho incontrato!

— Il padre di zia Luisa! — disse Pietro, beffardo.

Il padrone lo guardò con occhi brillanti.

— Sei il diavolo, tu? Come hai fatto a indovinare? — gridò, battendo lievemente il bastone sulle spalle del servo.

— Ma è davvero? — chiese Pietro meravigliato.

— Sicuro: è vero. Verissimo come è vero Dio.

— E la scarpa gliela avete scaraventata sul muso?

— Ah, ah, ah, come sei furbo! [p. 56 modifica]

Pietro non riuscì mai a sapere se zio Nicola avesse o no lanciato la sua scarpa sul muso di qualche ricco proprietario. Del resto il padrone si vantava sempre di atti più o meno eroici da lui compiuti durante la sua giovinezza, ed esagerava le sue avventure amorose: una volta lasciò capire di aver sposato zia Luisa senza amore, soltanto per fare un buon matrimonio.

— Lei però era innamorata, oh, sì, come è vero Dio. Io ero povero, sì, ma ero un bel giovine. Non faccio per vantarmi.

— Eh, si vede ancora! — lo adulava Pietro.

— Bellezza è metà dote, ragazzo mio...

Questi discorsi esaltavano Pietro.

— Se non ci fosse quel nibbio ingordo di zia Luisa... — egli pensava.

E il vino, il tepore del fuoco, il benessere della cucina, sulle cui pareti le innumerevoli casseruole di rame luccicavano e ricordavano al servo la ricchezza dei padroni, destavano in lui un’ebbrezza d’amore e di ambizione.

— Ah, sì, bella cosa esser benestanti, con una moglie piacente e giovane: sposarsi senz’amore, no, ma sposarsi bene, avere l’amore e la roba, questa è davvero la felicità!

— Chi sposerà Maria? — egli pensava sovente. — Il tale, o il tale? Forse un signore, un laureato, forse un paesano ricco. Non un povero, certo, e tanto meno un servo! Per ora ella non ama nessuno.

Questo pensiero lo rallegrava tutto. Poi, qualche volta, si sorprendeva a pensare che dopo tutto [p. 57 modifica]egli, sebbene servo, apparteneva ad una famiglia di razza per lo meno non straniera, non girovaga come la razza di zio Nicola.

— Se avessi un piccolo capitale! — desiderava. Non so leggere nè scrivere, ma il senso pratico ce l’ho. Se ne son visti tanti che han fatto fortuna! Ma no, — pensava poi. — Quelli che han fatto fortuna hanno rubato, oppure hanno, come zio Nicola, sposato una donna benestante. Anch’io potrei sposarla...

Ma diceva a sè stesso che questa «donna benestante» non sarebbe mai stata Maria Noina, e delle altre poco gli importava. E dopo aver scrollato la testa col suo solito gesto sprezzante, s’allungava sulla stuoia e si coricava, col berretto ripiegato sotto l’orecchio.

Così venne il tempo dell’aratura e della seminagione del grano.

Il terreno che Pietro doveva dissodare e seminare era assai lontano dal paese, al di là della vallata di Marrerí, quasi vicino a Lollovi, miserabile gruppo di case perduto fra i monti e gli altipiani più deserti e melanconici del Nuorese.

Il giovane servo doveva passare lassù tutto il tempo della seminagione, solo coi buoi e col cane.

Ma la solitudine non gli dispiaceva: egli vi era abituato, e d’altronde, in quei giorni, un oscuro [p. 58 modifica]istinto lo spingeva a desiderare la lontananza da quella casa tiepida, ove la sua fibra si rammolliva e la sua anima si perdeva dietro sogni insidiosi.

Prima di partire andò nella bettola del toscano, anche con la speranza di trovarvi la moglie, la facile Francesca. Ma nella bettola c’era solo il toscano, tranquillo, curioso e maldicente.

— Come va, Pietro?

— Bene. Dàmmi da bere.

— Accidenti come sei assettato. Eppure i tuoi padroni, del vino ne hanno.

— Lascia stare in pace i miei padroni.

— Oh, oh; non difenderli così. Credi tu che loro non parlino male di te?

— Se parlano male, lasciali parlare. Dov’è tua moglie?

— È andata a lavare. Eh, so perchè la vuoi, — disse l’altro, ammiccando coi suoi occhi infantili. — L’hai incaricata di cercarli moglie, dopo che Sabina ti ha dato corcofica1.

— Oh, va al diavolo. — disse Pietro, ridendo sinceramente all’idea che il toscano avessa tanta stima di Francesca da ritenerla degna di cercar moglie ad un giovane onesto.

— Sì, lo so; tu vuoi sposare una donna ricca. L'ha detto zio Nicola, l’altra sera, mentre era ubbriaco fracido.

— Ah, sì, ha detto questo? — esclamò Pietro, sollevando la testa. — E poi? [p. 59 modifica]

— E poi... niente! Perchè non sposi Maria?

— Ah, tu ti beffi di me? Io non verrò più a bere qui, piccolo forestiere, — disse Pietro con disprezzo, alzandosi.

Ma, non seppe perchè, sentì un’improvvisa gioia per lo scherzo del bettoliere.

Rientrò a casa e aggiogò i buoi: zia Luisa mise sul carro, oltre le sementi, una buona provvista di pane d’orzo, formaggio, olio, patate; e Maria una grossa zucca piena di vino rosso e un sacco perchè Pietro si coprisse bene nelle notti fredde dell’altipiano ventoso.

— E un crocifisso non glielo date? E un rosario? — chiese zio Nicola, ridendo sguaiatamente.

— Di fichi secchi?

Zia Luisa strinse la bocca, perchè non amava si scherzasse sulle sante cose, e Maria spalancò il portone.

— Bada, va a messa a Lollovi, ma non innamorarti di qualche bella lollovese...

In altri tempi Pietro si sarebbe un po’ piccato per questo scherzo, perchè le donne di Lollovi sono le più misere del circondario; ora quasi si commosse e non osò guardare Maria.

Il padrone lo accompagnò per un tratto di strada, zoppicando più del solito. Era una giornata umidiccia, e la gamba di zio Nicola se ne risentiva.

— Ah, Pietro, Pietro, che bella cosa la salute, che bella cosa la gioventù! Non sciupartele, sai; tienile bene, come si tiene una moneta dentro la cintura. Và, buon viaggio. Se hai bisogno di [p. 60 modifica]qualche cosa, mandalo a dire per qualche viandante. Tieni le sementi in luogo ben asciutto e semina al più presto possibile. Addio.

— Come è buono quell’uomo! — pensava Pietro.

Gli pareva di voler bene a zio Nicola come ad un padre, e quasi quasi sentiva di voler bene anche a quella boriosa della padrona.

Immerso nei suoi pensieri, di tanto in tanto egli pungeva forte il bue rosso dalla schiena coperta di chiazze bianche, — segno evidente che la bestia era passata in luogo ove stava nascosto un tesoro, e il bue rosso trottava pesantemente. Malafede abbaiava per incitare l’altro bue, e così Pietro arrivò presto al sentiero dirupato che scende alla valle di Marreri.

La giornata era umida e tiepida, il cielo lattiginoso. Sulla punta dell’aratro, capovolto sul carro, il vomero brillava con un tenue splendore d’argento nuovo. Nella lontananza vaporosa gli occhi lincei di Pietro scorgevano la chiesetta di Valverde, nera sull’orlo d’un dirupo, e più in là ancora la chiesa di San Francesco, bianchiccia sullo sfondo delle montagne selvagge, tra cui monte Albo si staccava azzurro come una bandiera di velluto, e monte Pizzinnu sorgeva come uno scoglio grigiastro avvolto da ondate di nebbia azzurrognola.

Pietro ricordò che sua madre, come tutte le donnine nuoresi, nutriva una profonda devozione per il piccolo San Francesco, «Santu Franzischeddu», e, sebbene con poca fede, si fece il segno della santa croce. [p. 61 modifica]

Egli credeva in Dio e nei Santi, andava a messa, e si confessava e comunicava per la santa Pasqua, ma non era divoto, non pregava mai, non pensava mai alla morte e all’eternità: in quei giorni, però, era un po’ sentimentale, un po’ mistico e più credente del solito.

Una sera, infatti, quando fu lassù, nel suo aronzu2, egli sentì bisogno di pregare, come una donnicciuola.

Intorno a lui il paesaggio, sublime di tristezza, taceva sotto il crespuscolo argenteo. Era un luogo desolato: prati melanconici sovrastavano alle chine coperte di folte macchie di lentischio, di ginepro, di cisto selvatico, il cui verdissimo ondulare veniva qua e là rotto da roccie grigie e nere che nell’incerto crepuscolo davano l’idea di mostri pietrificati.

Tutto il paesaggio, del resto, pareva un deserto mai abitato dall’uomo e vigilato soltanto da una deità selvaggia o dallo spirito di un eremita preistorico.

Pietro s’inginocchiò per terra, si fece il segno della croce e pregò: gli sembrava d’essere in una chiesa senza pareti; le stelle ardevano sull’orizzonte, ceri lontani accesi da spiriti invisibili; il ginepro esalava un odore d’incenso.

Pietro aveva paura come se stesse per morire: una malattia mortale s’era sviluppata in lui, ed egli ne sentiva tutto il pericolo. [p. 62 modifica]

— Dio mio. San Francesco mio, toglietemela dalla mente. Misericordia di me; toglietemela dalla mente. Ella non fa per me, e il mio desiderio può farmi commettere delle pazzie... Anima della madre mia, aiutami; liberami dalle cattive idee. Così sia.

E mentre pregava pensava a lei, col desiderio ardente di averla vicina, di vederla in realtà come la vedeva in sogno, e di circondarla con le sue braccia come le montagne velate dalla sera circondavano la valle fumigante, sotto gli occhi complici delle stelle.

Sì, dopo la sua partenza, dopo il segno di croce col quale egli aveva salutato il «piccolo San Francesco» per renderselo amico e complice come lo desiderano tutte le donnine, tutti gli amanti, tutti i delinquenti nuoresi, la figura della giovine padrona non l’aveva più abbandonato un solo istante.

Lontano da Maria, egli aveva istintivamente sperato di dimenticarla; la lontananza, invece, e sopratutto la solitudine gliela rimettevano dentro il cuore, gliela offrivano tutta, più seducente e bella che mai. Arrivò un momento in cui egli non ebbe più la forza di combattere la sua passione, che cresceva e si sviluppava nel suo cuore come un innesto su un giovine tronco selvatico.

I giorni passavano. Pietro lavorava dalla mattina alla sera, dissodando, abbruciando le [p. 63 modifica]camchie, estraendo le radici dei lentischi, arando e seminando i lembi di terreno liberi di vegetazione.

Nei vaporosi crepuscoli si scorgeva ancora la sua macchietta sullo sfondo del paesaggio melanconico. Egli arava ore ed ore, andando lentamente dietro i pazienti buoi rossi che trascinavano l’antico aratro sardo. Giunto alla fine del lungo solco batteva il pungolo sul fianco del bue picchiettato di bianco e lo costringeva ad una giravolta. Ridiscendendo la china, fra la terra smossa, umida e quasi nera, che fumava esalando un odore di erba in fermentazione, egli tirava la corda perchè i buoi non corressero; giunto al basso, ripeteva la giravolta e risaliva, sempre taciturno, col pungolo in mano.

I buoi respiravano faticosamente; le loro corte palpebre rosse si abbassavano quasi con dolore sui grandi occhi tristi, e le loro narici nere fumavano come fumava la terra smossa.

Il profilo dell’alta persona del servo spiccava tra i vapori violacei della sera. La solitudine del paesaggio immenso e triste, coi confini perduti in una lontananza indecisa, dalla quale le montagne emergevano livide, contribuiva a render più intenso il raccoglimento del giovine lavoratore.

La passione smuoveva il suo cuore come il vomere la terra: e come la terra egli non se ne domandava il perchè.

Qualche volta si disperava ancora, ma non invocava più l’aiuto di San Francesco o dell’anima beata di sua madre perchè lo liberassero dal desiderio che lo vinceva tutto. [p. 64 modifica]

Raramente qualche mandriano, qualche paesano a cavallo, qualche donnicciuola di Lollevi con un canestro colmo di formaggio sul capo e una gallina in mano, attraversavano il sentiero a fianco del terreno lavorato da Pietro. Un saluto semplice, rozzo, animava per un attimo la solitudine; poi il cavallo si perdeva fra i ginepri, la donnicciuola fra i radi olivastri del pendio; poi ancora silenzio.

E Pietro lavorava e sognava, sotto il cielo autunnale sempre ineffabilmente triste e velato dalle nebbie grigio-rosate delle tarde aurore, dai vapori violacei della sera, dalle nuvole gravi dei giorni cattivi, quando le macchie verdi e rossastre pareva si gonfiassero d’umido, e le roccie bagnate diventavano più grigie e tristi.

Per quasi un mese, egli non fece altro che smuovere e vincere la terra, e lasciarsi smuovere e vincere dall’amore.

Di sera si ritirava in una capanna; si sdraiava su un giaciglio di fronde e si copriva col sacco datogli da Maria. Anche per mangiare si ritirava lassù: qualche giorno faceva cuocere delle patate, altre volte si contentava di abbrustolire il pane sul quale versava poche goccie d’olio. I buoi pascolavano sulla china; Malafede, non avendo altro da fare, starnutiva ogni momento e abbaiava contro le foglie portate dal vento. [p. 65 modifica]

Di notte la solitudine, per uno strano effetto, si animava alquanto, o almeno non era così estesa e completa come di giorno.

Fuochi di altri contadini brillavano nella vallata; s’udivano tintinnii di gregge; qualche voce umana e qualche latrato di cane risuonavano nel silenzio della notte, portati dal vento.

E una figura di donna, un fantasma di bellezza e di piacere, illuminava e rallegrava i sogni di Pietro come il fuoco profumato del ginepro illuminava e rallegrava la capanna desolata.

La terra fu tutta arata e quasi tutta seminata. L’inverno lucido e freddo dissipò le nebbie autunnali.

A giorni pioveva, ma per lo più il tempo mantenevasi freddo e asciutto.

La tramontana sbatteva le sue grandi ali ghiacciate, su dai monti d’Orune; Pietro spandeva intorno a sè la semente che il vento portava lontano e la terra accoglieva sempre.

Anche i suoi pensieri si sparigliavano così, ma cadevano sempre sullo stesso terreno.

Da qualche giorno egli si sentiva allegro; aveva ripreso a parlare con Malafede, aveva sorriso passando davanti alla pietra sulla quale si era una volta inginocchiato.

— Coraggio, — diceva ai buoi, — fra poco avremo finito il lavoro. Verrà Natale; canteremo con zio Nicola e ci prenderemo una sbornia solenne. [p. 66 modifica]

A voce alta non osava dire altro; ma siccome non poteva più star zitto, si metteva a cantare.

Cantava a voce spiegata, qualche volta cercando di ripetere anche il coro che accompagna i canti nuoresi: dal tenore passava al basso, e da questo alla mezza voce; poi riprendeva la strofa. Erano le stesse canzoni d’amore che aveva cantato per Sabina; ora volavano verso Maria.

In quei giorni, in quelle ore di gioia quasi puerile, egli sperava ancora. Non era più la speranza di un amore capriccioso e sensuale, inspirato alla giovine padrona dal servo bello e ardito, ma il sogno d’una gioja ignota, al di là di ogni desiderio impuro, la speranza infine dell’amore vero e casto.

Chi conosce l’avvenire? Egli ricadeva nelle sue fantasticherie; sognava di diventar ricco, di poter un giorno sollevare gli occhi fino agli occhi di lei, e spiegarsi con un solo sguardo.

Allora cantava, e la sua voce volava lontano, al di là della valle, perchè giusto in quei momenti di speranza, quando egli tornava puro come un fanciullo e il pensiero di Maria lo faceva arrossire, l’immagine ardente di lei, che di solito lo accompagnava, migrava lontano, tornava nella cornice della casa paterna.

Ma a misura che s’avvicinava il giorno del ritorno, il senso della realtà riafferrava il giovine innamorato. [p. 67 modifica]

Qualche viandante gli portava le notizie dei suoi padroni, e le sementi e le provviste inviate da zia Luisa.

— Zio Nicola non è venuto a trovarti, perchè è stato quindici giorni a letto, con forti dolori alla gamba.

— E il medico cosa dice? Possibile che egli non trovi un rimedio?

— Eh, altro che vorrebbe trovarlo; tanto più che, dicono, vuole sposare Maria.

— Che, il medico? Ah, ah, ah!

— Perchè ridi?

— Perchè la mia padrona non sposerà certo un medico.

— Sposerà il figlio del re, allora!

— Eh, sì; sposerà un pastore ricco, ecco tutto!

Medico o pastore, certo però non avrebbe mai sposato un servo. E Pietro ritornava cupo, ricordando con sarcasmo verso sè stesso i sogni stolti che accompagnavano le sue canzoni.

Avrebbe voluto darsi dei pugni, allora, tanto la sua passione lo umiliava. Ma oramai non poteva più disperdere ciò che egli stesso aveva seminato nel suo cuore; era più facile togliere uno ad uno i granelli sparsi sulla terra arata.

I giorni continuavano a passare freddi e limpidi, o freddi e nuvolosi: ancora una o due notti e Pietro sarebbe ritornato a dormire nella casa dei padroni. Zio Nicola gli avrebbe ancora raccontato le sue storie; egli... che avrebbe fatto egli? Non lo sapeva e non ci pensava neppure. [p. 68 modifica]

Avrebbe continuato a vivere, a lavorare per gli altri.

Così arrivò l’ultima sera.

Prima di ritirarsi nella capanna, Pietro sedetto su una pietra in mezzo alla terra seminata, e stette a lungo immobile, quasi piegato in due. Pareva che sentisse finalmente la stanchezza di tutto il suo lungo lavoro.

Intorno a lui anche la terra taceva, addormentata, in un riposo fecondo.

La sera cadeva; grandi nuvole bluastre macchiavano il cielo pallido: piegato sulle ginocchia, Pietro stette a lungo immobile, con gli occhi chiusi, formando una macchia stessa, una cosa stessa con la pietra su cui stava seduto, con le onde brune della terra smossa che lo circondava. Dormiva.

Dormì così a lungo, come il granello fra le zolle, granello anch’egli buttato a caso su una terra misteriosa e selvaggia, germogliato alla ventura, abbandonato al capriccio del tempo e del destino.

Si svegliò ch’era già notte e si ritirò nella capanna. Fuori la notte, coi suoi grigi vapori, incombeva sull’altipiano, sulle valli, fino alle montagne della costa, donde veniva un rombo di vento che sembrava l’urlo del mare: e se un pezzetto di luna gialla appariva fra lo nuvole correnti, Malafede non mancava di abbaiargli contro, forse credendolo l’occhio maligno di un ladro.

  1. Zucca. Rifiuto di domanda di matrimonio.
  2. Il luogo dove si ara.