Vai al contenuto

Letture sopra la Commedia di Dante/Alla Reale Accademia della Crusca

Da Wikisource.
Carlo Negroni

Alla Reale Accademia della Crusca ../ ../Lettura prima IncludiIntestazione 25 maggio 2023 100% Da definire

Letture sopra la Commedia di Dante Lettura prima


[p. v modifica]

ALLA R. ACCADEMIA DELLA CRUSCA


I

A voi illustri e valorosi Accademici, intitolo questa mia edizione delle Lettere edite e inedite di Giovan Batista Gelli sopra la Divina Commedia; e sommamente vi ringrazio di avermene data facoltà. Per doppio titolo queste Letture son cosa vostra. Sono primieramente cosa vostra, perchè furono fatte all’Accademia Fiorentina, della quale egli fu il XV Consolo, e che stando a ciò che si afferma dallo Zannoni nella sua Breve storia, può considerarsi come precursora e progenitrice dell’Accademia vostra. E queste Lettere sono eziandio cosa vostra, perchè Giovan Batista Gelli va giustamente annoverato tra i più eleganti scrittori dello elegantissimo secolo di Leone X; e le opere sue, modello di lingua pura e di forbito stile, sono allegate per testo nel vostro Vocabolario, del quale state ora facendo la quinta impressione, e la conducete con tanta diligenza e copia di pazienti ricerche da non temere il confronto con alcuno de’ lavori che, simili a questo vostro, si fecero dalle più reputate Accademie straniere. Specialmente poi vi sono allegate le sue Letture Dantesche, già stampate dal Torrentino in dieci volumi, ma oggi divenute una rarità bibliografica. Nè le altre, rimaste sin qui inedite, e che ora per la prima volta si metteno in luce, sono di minor merito, se forse non sono di [p. vi modifica]maggiore, siccome quelle che furono composte dall’autore nell’età sua più matura, quando gli era cresciuta cogli anni la dottrina e la perizia nell’arte.

Non istarò qui a ritessere la vita di Giovan Batista Gelli, avendola già narrata il Salvini nei Fasti consolari, e il professor Agenore Gelli nella raccolta, ch’egli pubblicò nel 1855, di alcune opere del tanto rinomato suo omonimo in un volume della Biblioteca nazionale di Felice Lemonnier. Ma solo farò a quest’ultimo scritto due lievi aggiunte; l’una delle quali si riferisce alla Bibliografia, ivi esposta a pag. XXIX; e l’altra, all’antica e sempre disputata questione della lingua. Oltre ai libri stampati, che si citano dal prof. Agenore, fu dal Poccianti ricordato un volgarizzamento che Giovan Batista Gelli aveva fatto degli Apoftemmi di Plutarco. E Salvino Salvini dice alla sua volta, che nella libreria de’ manoscritti Strozzi (cod. 952) erano le Vite dei pittori, lavoro originale di esso Giovan Batista Gelli, dedicato con una erudita lettera proemiale al suo amico Francesco di Sandro; e nomina a uno a uno gli artisti, de’ quali si leggevano in quel codice compendiate le biografie. A me non riuscì di avere altre notizie di quel volgarizzamento e di queste Vite; ma qui ne feci memoria, sperando che altri più fortunato ne possa fare la scoperta. Vi è pure una commedia, col titolo di Polifilo, stampata dai Giunti nel 1546 senza nome di autore, e dedicata a Benedetto Busini, la quale da alcuni critici si giudica esser cosa del nostro Gelli; e sopra di ciò possono consultarsi il Quadrio e lo Allacci.

Quanto alla lingua, si sa che Giovan Batista Gelli fu col Giambullari e col Varchi tra i sostenitori più strenui della opinione che alla lingua nostra non altro nome abbiasi a dare, che di fiorentina. E a chi gli opponeva l’autorità di Dante, il quale nei libri De vulgari eloquio la mostrava [p. vii modifica]italiana (autorità ch’è massima per tutti, e per il Gelli era suprema), non rispondeva come da alcuni si fede ai nostri giorni, cercando di recare ad altro senso le parole e le dottrine di Dante chiarissimo, e adoperandovi certi cavilli,

Che furon come spade alla scritture
In render torti li diritti volti.

Ma fortemente convinto della sua tesi, e parendogli impossibile che Dante avesse mai tenuta e difesa la contraria sentenza, negava a dirittura che quei libri fossero di Dante; e diceva (come può vedersi nella dodicesima delle presenti Lettere, e nel Dialogo intorno alla lingua indirizzato a Pier Francesco Giambullari) le ragioni per le quali egli li credeva apocrifi, e schieravasi tra coloro che avevano giudicato non altro essere quei libri, che una invenzione o una impostura di Gian Giorgio Trissino. Recentemente ancora la medesima tesi fu sostenuta con sottili argomenti e con molta pertinacia da Filippo Scolari. Essa però dopo le vittoriose dimostrazioni datesi dal March. Gian Giacomo Trivulzio e da Pietro Fraticelli, è una opinione definitivamente condannata. Se non che, a ben considerare, la differenza tra il volgare illustre di Dante e il parlar fiorentino del Gelli è cosa tenue, che quasi non può dirsi differenza. Giacchè il fiorentino, che Dante vitupera, non è quello che si usa dalle persone educate e colte, ma quello ch’esce di bocca alla plebe. E similmente il linguaggio de’ piazzaiuoli, ma il linguaggio delle classi più elevate. Così il Gelli dal canto suo, nel portare alle stelle il parlare fiorentino non intende, come oggi da certi novatori si vorrebbe, il parlare de’ trivii, ma il parlare delle civili o costumate conversazioni. Nel sopra detto Dialogo intorno alla lingua egli mette il parlar fiorentino a paro col parlare di [p. viii modifica]Cicerone e di Cesare; ma espressamente dichiara che questa lode non ad altri si conveniva che ai veri e nobili cittadini di Firenze, «i quali per la loro grandezza hanno avuto il più del tempo a trattare di cose gravi, e a mescolarsi poco col volgo; e massimamente quando essi parlatori hanno atteso alle lettere, esercitandosi negli studj.» E anche più chiaramente nelle presenti Lettere (Lett. V, lez. 3) dice che quando s’ha a imparare e pigliare una lingua, s’ha a imparare e pigliare «da quelli che la sanno e la parlan bene, che sono i primi e più nobili di quella patria della quale ella è, e non da’ plebei, che hanno una lingua bassa o vile, e da non farsene conto alcuno.» Ma posto ciò, mi sia lecito domandare, se e quale diversità corre, sulle labbra e sotto la penna di coloro che la sanno e parlano e scrivono bene, tra la lingua che si parla e scrive a Firenze, e la lingua che si parla e scrive a Napoli o a Milano; ossia, che torna allo stesso, tra il volgare illustre che piaceva a Dante, e il parlar fiorentino che piaceva a Giovan Batista Gelli. La qual dottrina del volgare illustre o del nobile fiorentino fu riepilogata con gran brevità e non minore efficacia da Giuseppe Tebaldi là dove notò che Dante, nato fiorentino, scrisse italiano, al modo medesimo che Omero aveva saputo farsi non ionio, ma greco scrittore.

Per me credo che fosse nel vero il mio ottimo e da tutti compianto amico Quintino Sella; il quale diceva che la lingua e nazionalità sono due concetti che non si possono vicendevolmente disgiungere, poichè non potrà mai dirsi che appartengano alla medesima nazione due popoli dai quali si parli e si scriva una lingua diversa. Varii certamente sono i modi e le forme, con cui ciascuna lingua si estrinseca nelle varie parti del paese, e nei varii ordini delle persone; ma questa pluralità di dialetti e di vernacoli è condizione comune [p. ix modifica]a tutte le lingue del mondo. Sono modalità secondarie e accidentali; o si riducono poi al nulla, o poco meno che al nulla, per coloro che sanno la propria lingua, e l’hanno imparata, e la parlano e scrivono bene, come la scrisse al tempo suo il Gelli fiorentino, e come la scrissero al tempo nostro il Giordani e il Leopardi, non fiorentini nè l’uno nè l’altro. E di mano in mano che si stringe e si fortifica la unità nazionale, vanno pur facendosi minori le anomalie dei dialetti, come si è visto in Francia e in Ispagna, dopo che di parecchi regni vi si formò un regno solo, e come vediamo anche in Italia dopo il 1860. Imperocchè ella è cosa affatto naturale, che unificandosi il linguaggio delle grandi assemblee e de’ grandi poteri dello Stato, il linguaggio degli ufficii governativi, il linguaggio dei dazii, delle dogane e delle altre gravezze, il linguaggio de’ magistrati giudiziarii, il linguaggio della milizia di terra o di mare, il linguaggio de’ traffichi e delle misure e de’ pesi, e così discorrendo; è naturale, io dico, che unificandosi questi linguaggi, venga meno la moltiplicità delle antiche nomenclature, come è naturale che crescendo tra gli uomini le comunicazioni e i contatti, sempre più si facciano tra loro somiglianti le maniere di esprimersi. Ma sieno quali si vogliano, o più o meno risentite, le varietà de’ vernacoli, se in Italia vi fu, vi è e vi sarà una nazione, vi fu, vi è e vi sarà parimante una lingua italiana. Il come poi questa lingua vogliasi chiamare, poco monta. In ogni caso mi pare evidente, che tanto vale il dir fiorentino la lingua che si parla e si scrive dagl’Italiani, quanto il dir parigina quella dei Francesi, madrilena quella degli Spagnuoli, berlinese quella de’ Tedeschi, londinese quella degl’Inglesi, e così ogni altra. [p. x modifica]

II

Fa maraviglia a pensare quanto l’amore di Dante affini gl’ingegni, e dia loro forza e lena alle cose più ardue. Noi vediamo adesso un gondoliere veneto, rapito dalle bellezze della Divina Commedia, consecrare allo studio di essa le ore che ruba al sonno, o che gli rimangono tra l’uno e l’altro esercizio del suo faticoso mestiere; e tanto addentrarsi nel poema Dantesco da saperlo esporre in pubbliche adunanze tra gli applausi di numerosi ascoltatori, e darne anche per le stampe qualche sua interpretazione. E il secolo XVI vide un calzaiuolo fiorentino accendersi del suo Dante; e questa passione farsi in lui così viva, che per gustarlo maggiormente consumò sui libri, anche i più astrusi e difficili, il tempo che altri dedica al riposo e ai divertimenti; onde senza smettere l’arte aua acquistò fama, non solamente di gran letterato, ma eziandio di filosofo profondo. Questo calzajuolo fu il nostro Giovan Batista Gelli. Il quale ci narra egli stesso, che l’amore ch’egli portò sempre a Dante fu la prima e principal cagione che gli fece imparare quel tanto che seppe. Imperocchè solamente la brama d’intender gli alti e profondi concetti del suo divinissimo poeta lo messe, in quella età nella quale l’uomo è più dedito, che in alcun’altra, e inclinato ai piaceri, e nella professione ch’egli faceva, tanto diversa dalle lettere, a studiare la lingua latina, e di poi a spendere tutto il tempo, che poteva tòrre alle sue faccende, intorno alle scienze e alle buone arti; giudicando egli, che il volere intendere senza quelle il poema di Dante fosse come un voler volare senz’ali, o navigare senza bussola e senza timone. E con lui attendeva ai medesimi studii, ed ora eguale [p. xi modifica]di età, Filippo del Migliore; il quale fu poi anch’egli due volte consolo dell’Accademia Fiorentina, e deputato dal Duca Cosimo a riordinare l’Ateneo Pisano. Onde a testimonianza di perfetta amicizia dedicò il Gelli a esso Del Migliore il suo volgarizzamento di Ecuba di Euripide, fatto in versi sciolti sulla versione latina di Erasmo. A proposito però di questo volgarizzamento correggerò un errore, nel quale è caduto il Salvini, credendolo «una delle prime fatiche letterarie» di Giovan Batista Gelli. Giacchè il medesimo Gelli, nel dedicare a Filippo Del Migliore il 1° di gennaio del 1558 un altro suo libro, cioè la quarta delle presenti Lettere, dice espressamente di non avergli sino a quel tempo ancora offerto alcuno de’ suoi lavori. La dedicatoria dell’Ecuba non può esser dunque se non posteriore al 1558, vale a dire a un tempo nel quale non solo il Gelli non era più alle sue «prime» fatiche letterarie, ma si andava appressando alle ultime.

Già fino dal 1541 tanta era la fama che il Gelli si era procacciata nelle lettere, che essendosi allora fondata l’Accademia Fiorentina, fu egli tra i primi suoi socii; e fu il primo a farvi una pubblica lezione, spiegando il passo del Paradiso Dantesco (XXVI, 124) che discorre della lingua primitiva del genere umano, o delle successive sue trasformazioni. La qual lezione, fatta da lui poco meno che all’improvviso in vece di Bartolommeo Panciatichi che n’era stato non so per qual cagione impedito, tanto piacque, e tanto favore incontrò, che Anton Francesco Doni, volendo pubblicare le migliori che nell’Accademia eransi udite intorno a Dante, la pose nel libro primo della sua raccolta, insime a quelle di Francesco Verini, di Giovanni Strozzi, di Pier Francesco Giambullari, di Giovan Batista da Cerreto e di Mario Tanci. E nel nome e nello amore di Dante cominciò tra il Giambullari e il Gelli, elettissimi ingegni l’uno a l’altro, quella [p. xii modifica]cordiale amicizia e comunanza di studii, onde avvenne che scrittosi dal Giambullari un intero commentario sopra la Divina Commedia, oggi per mala ventura perduto, lo donò al Gelli, che più volte e con molto onore lo cita in queste sue Letture. Ma della stampa, che il Doni aveva fatte nel 1547, poco fu soddisfatto il nostro autore, siccome quella che gli comparve monca e lacera. E perciò la ricorresse; e la mandò novamente a imprimere dal Torrentino nel 1549, intitolandola all’amico suo carissimo Anton Maria Landi; uomo anch’esso assai letterato, due volte Consolo all’Accademia Fiorentina, alla quale fece parecchie e dotte Letture, e scrittore di una commedia intitolata Il commodo, recitata nel 1539 per le nozze del Duca Cosimo. Questa prima lezione del Gelli fu poi ristampata ancora dal medesimo Torrentino nel 1551 insieme a Tutte le lezioni di Giovan Batista Gelli fatte sino a quell’anno.

Nel 1543, essendo Consoli prima Francesco Guidetti e poscia Carlo Lenzoni, il Gelli fece un’altra Lettura Dantesca, in tre lezioni divisa. La diè quindi il luce nel 1548 coi tipi del Torrentino già nominato, intitolandola: Il Gello accademico Fiorentino sopra un luogo di Dante nel XVI Canto del Purgatorio: della creazione dell’anima razionale. E la offerse a esso Lenzoni, perchè gli portava grande affetto, e perchè a istanza di lui s’era indotto a farla, e gliene era venuto onore. E se voi per avventura (così al Lenzoni scriveva il Gelli) sentiste che qualcuno la biasimasse, piacciavi dir solamente a quelli tali, che prima discretamente considerino quale sia la professione mia, e poi giudichino a modo loro; perchè io, come persona occupatissima in esercizio diversissimo dalle lettere, non ho forse fatto poco a condurmi dove mi trovo. Il qual Lenzoni, vissuto nella prima metà del secolo XVI, fu pure appassionato di Dante; e in [p. xiii modifica]difesa di Dante e della lingua toscana scrisse un libro, assai stimato dai Dantisti, e diviso in tre giornate o tre dialoghi. Ma ne lasciò finiti due soltanto, poichè la morte gli’interruppe il lavoro; e del terzo non rimasero se non frammenti. Ne presero cura Pier Francesco Giambullari e Cosimo Bartoli, i quali insieme col Gelli erano interlocutori di quei dialoghi; e li pubblicarono nel 1556 colle stampe del sopra detto Torrentino, e con due dedicazioni, l’una del Bartoli al Duca Cosimo, e l’altra del Giambullari a Michelangelo Buonarroti. S’intende facilmente, nè a’ Bartoli io vorrò dar biasimo, che abbia voluto mettere il libro anche sotto la protezione del suo Signore. Ma prima di morire, non altro desiderio aveva il Lenzoni a’ suoi amici significato, che di veder l’opera sua venire in pubblico sotto il nome del gran Buonarroti. E bene era degno, e questo forse unicamente era degno, che al nome del divino Dante si accompagnasse il nome del divino artista, il quale dalla Commedia Dantesca aveva tolto il pensiero della maravigliosa sua pittura del Giudizio universale, e solo potè colla matita e col pennello arrivare tant’alto da non rimanere al di sotto del poeta.

Alcuni anni dopo lesse nuovamente il Gelli all’Accademia intorno a Dante; e questa volta fu nel 1551 sotto il consolato del Senatore Bernardo Canigiani, nobilissimo e virtuosissimo uomo, amico di Torquato Tasso e di Giambattista Guarini. Del quale Canigiani io faccio qui speciale ricordo; perchè egli con Anton Francesco Grazzini, con Bastiano De Rossi e con altri valent’uomini fu tra i primi fondatori della vostra Accademia della Crusca, prendendovi il nome di Gramolato. In questa sua Lettura il Gelli spiegò alcuni terzetti del Canto XXVII del Purgatorio, discorrendovi del libero arbitrio; ed è l’ultima delle lezioni che si raccolsero nel già citato volume Torrentiniano del 1551. [p. xiv modifica]

III

La universale approvazione data a queste Letture accademiche, e il grido in cui erano venute, mosse il Duca Cosimo a ordinarle in modo stabile. E così nel 1553 furono con l’autorità di questo Principe e per voto dell’Accademia deputati, Benedetto Varchi a esporre il Petrarca, e Giovan Batista Gelli a interpretare il poema di Dante. Da questo punto incomincia una serie di corsi, fatti regolarmente dal Gelli all’Accademia nei giorni di domenica intorno alla Divina Commedia col proposito di spiegarla tutta dal principio alla fine. Ciascun corso prende il nome di Lettura; e si divide in un numero ora maggiore e ora minore di lezioni, secondo ch’ebbe maggiore o minore durata. Vi sono però alcune di queste Letture, dove ale lezioni va innanzi una orazione che serve di preludio. Tale è la prima Lettura, che incomincia appunto con una orazione, in cui si dimostra come Dante sia arrivato agli ultimi confini della eccellenza e della perfezione, non solamente come poeta, ma eziandio come filosofo e come scienziato. E vi tengon dietro dodici lezioni, due delle quali sono di prolegomeni, e le altre precedono nella spiegazione dello Inferno fino al v. 75 del Canto secondo. Questa Lettura si fece sul finire dell’anno 1553 e sul cominciare del 1554, ossia negli ultimi mesi del consolato di Guido Guidi, medico e filosofo di gran nome, e nei primi del consolato di Agnolo Borghini, fratello di Monsignor Vincenzo, e letterato anch’egli di non piccolo conto. Essa fu stampata due volte; una a Firenze dal Sermartelli nello stesso anno 1554, e un’altra dal Torrentino nel 1562; con questa differenza però tra l’una e l’al[p. xv modifica]tra, che nella seconda fu omesso un brano assai vivo della dedicatoria, dove il Gelli parlando della stima che si fa degli uomini dotti e virtuosi nelle Corti de’ principi, aveva distinti i principi secolari dagli spirituali; e di questi con poco rispetto aveva affermato, che la maggior parte «avendo per fine principale il convertire prodigamente in uso e comodo proprio tutto quello che arebbe a servire, parte al culto divino, parte ad essi, e parte al sovvenimento di quei popoli d’onde ei lo traggono, allora cura non tengono, nè fanno altrimenti stima alcuna de’ litterati e degli amatori delle virtù, che il tenergli per servidori, non per affezione ch’e’ portino a quegli, ma solo perchè e’ pensano che lo averne per le loro Corti arrechi loro o lode e onore.» Onde protestava che contento del pane che gli veniva dalle fatiche delle sue mani, non aveva mai voluto «non che servirgli, ma nè corteggiarli pure.» Questa invettiva, la quale in modo chiarissimo andava a ferire la Corte Romana, e che ha riscontro in varii altri luoghi delle opere Gelliane; e più specialmente là dove si parla delle pene degli avari, e dove si descrive la statua del vecchio che volge le spalle a Damiata e il viso a Roma, questa invettiva, io dico, fu intieramente soppressa nella edizione del 1562. E non è senza notevole significato la coincidenza di tal soppressione con un altro fatto, riferito da Agenore Gelli nella vita del nostro autore, cioè che appunto nel 1562, per ordine del Concilio di Trento, e per giudizio di Monsignor Beccadelli e del Vescovo di Lerida, furono posti all’indice de’ libri proibiti i Capricci del Bottaio, che il Gelli aveva scritti e mandati a stampa da circa venti anni, e de’ quali si erano fatte tra il 1546 e il 1551 ben cinque edizioni. Addolorato per questa condanna, scrisse il Gelli a Monsignor Beccadelli e al Vescovo di Lerida [p. xvi modifica]una lettera che ha la data del 9 di maggio 1562, ed è tra le pubblicate dal prof. Agenore (pag. 431), pregandoli che lo avvertissero di quelle cose che nei Capricci fossero da emendare, e subito le avrebbe emendate senza alcuna resistenza. Fu quello il penultimo anno della sua vita; e la docilità sua nel riprovare ciò che a Roma era stato censurato, e forse anche la mutilazione, non so bene se spontanea o imposta, del brano sopra notato, lo preservarono dai rigori del Santo Uffizio.

Ancora sotto il consolato di Agnolo Borghini, e perciò nell’anno 1554, il Gelli fece poi la sua seconda Lettura. La quale incomincia, come la prima, con una orazione sul vero e proprio concetto dello Inferno Dantesco; e sèguita esponendolo in dieci lezioni, dal verso 76 del Canto secondo infino a tutto il Canto quarto. Ma questa Lettura, anzi che terminata, venne sospesa per la guerra di Siena; e se ne chiude la lezione decima col dire, che vedendo correr tempi tanto travagliati, si riserbava a più quieta stagione lo esporre il resto.

Questa Lettura seconda fu stampata dal Torrentino nel 1555; ma solo nel seguente anno 1556 il Gelli ripigliò il suo ufficio accademico, e fece la terza Lettura, e nel medesimo anno la stampò, sotto il consolato di quell’Antonio Landi, il quale già ebbi opportunità di nominare. Anche a questa Lettura terza è premessa un’orazione, dove si da lode a Dante, perchè dalla presente misera e fugace vita c’induce a considerare qual sarà la vita nostra oltremondana e immortale. Le vengono poi appresso dieci lezioni, con cui la interpretazione dello Inferno corre dal Canto quinto sino al verso 96 del settimo, là dove si dichiara quel che veramente sia la fortuna, e come e perchè accadano le sue tante e spesso inesplicabili mutazioni. Ma dopo la terza Lettura il Gelli non [p. xvii modifica]fece più alcuna orazione o discorso preliminare, avendo egli dichiarato nello esordio della quarta, che sebbene sia costume di quelli che pubblicamente espongono qualche scrittore, di ragionar da prima intorno all’onore e al diletto e all’utile che così fatti studii possono apportare, non di meno egli voleva lasciare tal cosa a dietro come superflua, per averla già fatta nei tre anni passati. Senza preamboli pertanto la quarta Lettura ripiglia le spiegazioni al punto dov’erano arrivate nell’anno precedente; e con un’altra serie di dieci lezioni prosegue dal v. 97 del Canto settimo al v. 105 del nono, ossia alla entrata di Dante e di Virgilio nella città di Dite. La qual Lettura quarta occupò l’anno accademico del 1557, quando fu Consolo messer Lelio Torelli, patrizio di Fano, cittadino di Firenze, onore del suo secolo. E’ questo nome, che dev’essere più specialmente caro alla vostra Accademia; poichè Lelio Torelli fu tra i primi fondatori dell’Accademia Fiorentina, ne scrisse gli statuti, e più di una volta si tennero in casa sua le adunanze degli Accademici. E quanta sapienza fu in quell’uomo! Tutte egli ebbe le più alte cariche dello Stato Mediceo; egli ambasciadore, egli giudice, egli segretario e consigliere del Principe, egli senatore, egli riformatore degli studii; e in tutte riuscì ammirabile. Pier Vettori, compendiandone con felice brevità i pregi, disse benissimo che Laelius Taurellius ut civilis juris est consultissimus, ita omnis elegantis doctrinae peritissimus; e similmente il Giorgio Vasari scrive, essere stato il Torelli «non meno amatore di tutte le scienze, virtù e professioni onorate, che eccellentissimo iuriconsulto». Nè soltanto egli si meritò lode di scrittore facile e ornato nella lingua nostra, ma si mostrò conoscitore esimio delle lettere greche e latine; e in queste così addentro, che lo stesso Vettori nelle sue Emendazioni Tulliane confessa e si onora di [p. xviii modifica]essersi più volte giovato del consiglio di lui. E come giureconsulto, il Torelli conseguì grandissima rinomanza in Italia e fuori con molte opere sue, e segnatamente colla pubblicazione, fatta con cura e diligenza insuperabili, delle Pandette comunemente conosciute col nome di Amalfitane o Fiorentine. Le quali Pandette, impresse dal Torrentino nel 1553, sono ancora oggidì uno de’ migliori testi della collezione Giustiniana; e sono ricercatissime dai legali e dai bibliofili. E con tutto ciò, tra i giuristi italiani, con Lelio Torelli caduto presso che in dimenticanza; cosa tra noi pur troppo non insolita. Ma a ravvivarne la memoria e a illustrarla suonò recentemente da Berlino la voce di Teodoro Mommsen; il quale nella sua edizione dei Digesta Justiniani Augusti (Berolini, apud Weidmannos, 1868-70, vol. 2 in-8) proclamò, che la stampa del Torelli, oltre alle qualità insigni dell’ingegno e della erudizione, deve reputarsi omnium emendatissima. Aggiungerò che il Torelli fu altresì del nostro Gelli familiare; tanto che avendo Simone Porzio, pubblico professore a Pisa, composta a data in luce una sua disputa latina sul punto «se l’uomo diventi buono o cattivo volontariamente» e dedicatala a Lelio Torelli, la tradusse il Gelli in volgare, come ne fa ricordo nella undicesima di queste sue Letture. E la sua versione, data a stampa dal Torrentino nel 1551, intitolò al nome di Francesco, figliuolo e seguace della scienza e della virtù di esso Lelio; poichè tenendosi il padre e il figliuolo per una sola persona, era cosa convenevole che al primo e al secondo degnissimi entrambi, si rendesse il medesimo omaggio in due lingue diverse, l’una figliata dall’altra.

Mi si dia venia della digressione in grazia del soggetto; e senza più ritorno alle Letture Dantesche, la quinta si fece dal Gelli nel 1558; e anch’essa ha dieci lezioni, con cui la [p. xix modifica] esegesi della Divina Commedia progredisce dal verso 106 del Canto nono insino al termine del Canto undecimo dell’Inferno. Allora era Consolo dell’Accademia quel Francesco Cattani da Diacceto, che fu poi Vescovo di Fiesole; dotto teologo e terso scrittore, al quale è la italiana letteratura debitrice della pubblicazione di uno fra i migliori testi del secol d’oro della lingua, voglio dire dello Specchio della penitenza di Frate Jacopo Passavanti. Tanto la Lettura quinta quanto la precedente si pubblicarono, e sempre coi tipi del Torrentino, nel medesimo anno 1558, ma in due volumi separati.

Fra la quinta e la sesta Lettura intercede ancora il silenzio di un anno intero; giacchè la sesta non si fece nel 1559, ma nel 1560. Quale sia stata la cagione di quest’altro interrompimento, il Gelli non dice; nè io voglio pigliare la facile, ma pur troppo spesso ingannevole via delle congetture per indovinarla. Fatto è che la sesta Lettura, partita anch’essa in dieci lezioni, dal Canto duodecimo dell’Inferno sino al quindicesimo inclusive, ebbe luogo nell’anno 1560, essendo capo dell’Accademia Leonardo Tanci, legista e teologo. Il quale nello assumere il consolato disse del Gelli con molta verità, che l’Accademia gli doveva essere grandemente obbligata; poichè ne’ tempi suoi più difficili non altrove che in lui aveva trovato un sicuro porto da rifuggirsi. L’estate di quell’anno 1560 dev’essere stata più che non soglia cocente; giacchè incominciando nel 1561 la sua Lettura settima, dice il Gelli, che l’anno passato si era posto fine al leggere per causa de’ calori eccessivi. Questa Lettura settima nel consolato di Tommaso Ferrini continua con undici lezioni a spiegare l’Inferno sino alla fine del Canto diciannovesimo. E nello stesso anno 1561 s’impressero dal Torrentino gli ultimi due volumi delle Letture Gelliane, che sono appunto la sesta e la settima. [p. xx modifica]

IV

Dopo il 1561 non vi sono più Letture Dantesche del Gelli a stampa. Ma anche nel 1562, e anche nel 1563, nel quale anno egli cessò di vivere, queste sue Letture si proseguirono; e si conservano manoscritte nella Biblioteca nazionale di Firenze tra i codici Magliabechiani della classe VIII, n. 49. Ne parlò il Batines nella Bibliografia Dantesca (I, 659); e ne fecero pur cenno il prof. Agenore Gelli nella Bibliografia che tien dietro alla Vita (pag. XXXII), e il Ferrazzi nel Manuale Dantesco (II, 476, o V, 254). Cadde però in errore il Batines, scrivendo che questo codice ha una Lettura sola, e che le lezioni sono ventuna; giacchè in effetto vi si trovano due Letture, e ventidue lezioni. Nel primo errore fu tratto il Batines, e altri con lui, dalla intitolazione del codice, dove è scritto: Lettura VIII di Giovanni Batista Gelli sopra lo Inferno di Dante. Ed è il vero, che colà appunto incomincia la Lettura ottava; ma oltre a questa ve n’è un’altra nel codice, ed è la nona. E che le Letture contenute nel codice sieno due, e non una soltanto, è provato innanzi tutto per la quantità delle lezioni che vi stavano riunite. Perchè queste sono, come già dissi, ventidue, oltre a due frammenti; e nessuna delle altre Letture del Gelli arriva a tanta mole, ma tutte variano da un massimo di tredici a un minimo di dieci tra orazioni e lezioni. È provato poi più direttamente per la doppia numerazione che nel codice s’incontra, vedendosi le lezioni progressivamente numerate dalla prima sino alla duodecima, col solo divario tra l’una e l’altra serie, che nella seconda si ha una lezione la quale non è segnata di alcun numero; [p. xxi modifica]e pur deve contarsi, perchè non contandole, le lezioni non sarebbero dodici, ma solamente undici. Più direttamente ancora la cosa è provata per quel che si legge a carte 80: Noi abbiamo a dar principio questo anno alle lezioni nostre ecc. Onde senza possibilità di replica si argomenta che quella fu la prima lezione dell’anno accademico, e che le altre lezioni, nelle quali si spiegano i Canti anteriori dello Inferno, sono dell’anno precedente; il che val quanto dire che appartengono a un’altra serie o Lettura. E siccome la Lettura settima è dell’anno 1561, e il Gelli morì ai 24 di luglio 1563, così è manifesto che le due Letture inedite, le quali si contengono nel codice Magliabechiano, sono la Lettura ottava e la nona, fatta quella nel 1562 e questa nel 1563; l’una cioè sotto il consolato di Giulio del Caccia, e l’altra sotto quello di Antonio Del Migliore, il quale, secodo che abbiamo dal Salvini, era stato eletto Console per suggerimento dello stesso Gelli.

Notai già che nel codice dopo le ventidue lezioni, divise come dissi in due serie, sono anche scritti a carte 125 e 126 due frammenti. E questi mettono in chiaro due particolarità non immeritevoli di attenzione. La prima è, che il Gelli colla sua nona Lettura, arrivato al Canto XXVI dell’Inferno, e dovendo fare il commento della ironia amarissima colla quale Dante vi apostrofa a Firenze, ebbe assai forte il sentimento della difficoltà che gli toccava di superare. Imperocchè, fiorentino, egli parlava a fiorentino uditorio, discorrendo di fiorentino poeta. E da una parte l’amore della sua patria, e la condizione de’ cittadini che lo ascoltavano, dall’altra l’onore del suo Dante e le parole del testo che lo mettevano in angustia. Era necessità lo esordire, accennando al tema delicatissimo, e cercando di rendersi gli uditori benevoli, senza disporli malamente nè verso il poeta nè verso l’opera di lui. E due [p. xxii modifica]volte vi si provò; perchè questi due frammenti non altro sono che due tentativi per preparare alla sua lezione un così fatto principio; nè sappiamo se dell’uno o dell’altro si sia poi contentato. La seconda particolarità che gli stessi frammenti ci fanno manifesta si è, che come in Dante e per Dante finirono insieme la sua vita letteraria, e anche la naturale. La nona sua Lettura si continuò sino all’estate del 1563; e l’uno o l’altro dei due frammenti doveva essere il cominciamento dell’ultima o della penultima lezione di quell’anno. Ma su quelle carte, ch’erano tutte per il suo Dante, e ne pigliavano la difesa anche là dove sembrò men che amorevole alla patria, gli cadde la mano stanca; e poco stante cessò di vivere.

V

Intorno al Codice Magliabechiano una ricerca importantissima è quella di sapere se esso sia o no autografo. Il compilatore del catalogo de’ manoscritti della Magliabechiana, registrando questo codice, scrisse: forse autografo. E ne ha i caratteri; perchè vi sono cancellature e correzioni di pugno dello stesso scrittore del codice, e vi sono qua e là pentimenti che mal si potrebbero attribuir ad altri che all’autore delle lezioni, essendo di quelli che spesso accadono a chi compone di proprio, non mai a chi ricopia, o a chi scrive sotto altrui dettatura. Veramente a primo aspetto la scrittura sembra che sia di più mani. Riguardata però più attentamente, non altro vi si palesa se non qualcuna delle accidentali varietà che occorrono in ogni scritto, il quale siasi messo in carta con più o meno lunghi intervalli di tempo, [p. xxiii modifica]e cambiando penna e inchiostro; del rimanente si vede essere sempre una sola e medesima la forma di carattere. E oramai ogni dubbio si può tenere come rimosso; poichè il degnissimo vostro Arciconsolo, pregato in mio nome, ebbe la bontà di confrontare il codice con alcune lettere, certamente autografe, del Gelli a Benedetto Varchi, e riconobbe che lo scrittore di questo fu pur lo scrittore di quello, tanto nel testo, quanto nelle sue postille e correzioni. Il male si è, che uno di coloro i quali dopo la morte del Gelli possedettero queste sue lezioni manoscritte, volendo riunirle nel volume che divenne il presente codice Magliabechiano, le ha ordinate o per dir meglio disordinate di tal maniera, che maggior confusioni non credo sia stata nei fogli della Sibilla dispersi dal vento. Vedendo egli che ciascuna leione stava in un proprio quaderno, e che ciascuna portava un numero, le cucì seguitando l’ordine loro numerico, senza badare se il numero fosse dell’una piuttosto che dell’altra Lettura. Onde, a cagion d’esempio, la lezione quarta, che spiega la prima parte del Canto XXIII dell’Inferno, fu messa al luogo di quella, parimente quarta, che commenta la prima parte del Canto XX. E talvolta fu materialmente alterata anche la pregressione numerica, come si vede a carte 13 e 18, dove stanno una lezione terza e una quarta, poste immediatamente dopo due altre che hanno egualmente il numero terzo e il quarto. Trovata poi fra le altre una lezione senza numero, la relegò per questo solo motivo alla fine del libro, sebbene l’ordine delle materie che vi son trattate ricercasse un altro luogo. A sì fatto disordine non era però cosa ardua il rimediare. Imperocchè da un lato era evidente, che come aveva fatto nelle precedenti sue Letture, così anche nella ottava e nella nona il Gelli non altrimenti doveva aver interpretato il poema di [p. xxiv modifica]Dante, che seguitandone il testo, canto per canto, terzina per terzina, verso per verso. E dall’altro lato non era meno evidente, che la Lettura nona ebbe il suo principio con quella lezione che certamente fu la prima del 1563, avendovi lo stesso Gelli dichiarato, che con quella egli incominciava le sue lezioni annuali. Io ho dunque riordinate le lezioni del codice, disponendole a norma dello andamento del poema, e distinguendo le due Letture ottava e nona per modo che quest’ultima incominciase dove era espressamente detto che incominciava. Solo rimasi perplesso circa alle tre lezioni che nel codice sono a carte 13, 18 e 113, se cioè avessero a far parte della Lettura ottava, oppure della nona. Ma questo è un punto d’importanza affatto secondaria, come si mostrerà qui appresso; e io dal codice volli scostarmi il meno che fosse possibile.

Se non che, oltre il disordine, occorre nel codice anche una lacuna. Avendo il Gelli, coll’ultima lezione della Lettura VIII, terminato di esporre come Virgilio e Dante fossero passati dalla bolgia de’ barattieri a quella degl’ipocriti, ed essendo così giunto al verso 57 del XXIII Canto dello Inferno, troviamo che la Lettura IX incomincia colla interpretazione del Canto XXIV, mancando affatto la lezione o le lezioni, che certamente il Gelli non omise di fare, sul Canto precedente dal verso 58 al 148, dove si descrivono le pene degl’ipocriti colle loro cappe di piombo, e Caifasso giacente in mezzo alla via, calpestato da quei pesantissimi passeggeri. Le quali lezioni, a voler farne un giusto ragguaglio colle altre, non si può credere che fossero meno di due; e forse furono più, perchè questo argomento degl’ipocriti è vasto, nè scarsa doveva il Gelli avere la lena e la voglia di maneggiarlo.

Dissi che la Lettura IX incomincia col Canto XXIV dello [p. xxv modifica]Inferno; ma vi sta innanzi una lezione, la quale non appartiene nè al Canto XXIV, nè al XXIII, nè al XXII, riepilogandosi in essa ciò che intorno al Canto XXI già era stato detto nelle lezioni 8, 9 e 10 della precedente Lettura VIII. E forse questa lezione preliminare sarebbe stata meglio collocata tra la decima e l’undicesima della Lettura VIII. Ma non essendovene una ragione assoluta, mi attenni al codice, dove essa lezione (che fuor d’ogni dubbio fu la prima dell’anno 1563) porta il numero d’ordine immediatamente successiva all’altra che interpreta i primi cinquantasette versi del Canto XXIII; e in fronte vi si legge: Cap. XXIV (che a pag. 389 del secondo volume della presente edizione fu scambiato, per errore tipografico, in XXII). Questa prima lezione dell’anno, nella quale si fa l’accennato riepilogo (e l’autore espressamente dichiara di farlo per cagione di molti, che non furono a l’ultime lezioni nostre), si sarebbe anche potuta tralasciare, se non fosse che vi s’incontrano due argomenti non esaminati prima; e sono, la significazione allegorica delle pene date nell’Inferno Dantesco ai barattieri, e il perchè si chiamo con questo nome di baratteria il peccato di coloro che fanno mercato della giustizia e degli altri ufficii del Governo. Dove la discussione si allarga sino a quella indagine di più alta dottrina, ch’è di sapere se i nomi sieno fattura arbitraria dell’uomo, o non sieno più tosto derivati della natura stessa delle cose; e a tale proposito si riferiscono le opinioni di Platone e di Aristotile, in apparenza opposte, e il modo ingegnoso onde il Leonico le concilia.

E per questo quanto si è della baratteria, devo altresì notare che in questa lezione il Gelli riporta di nuovo la definizione datane da Pietro figlio di Dante nel suo Commento alla Commedia paterna, come già aveva riportata nella lezione 8 della ottava Lettura; ma vi è divario tra l’un riferimento [p. xxvi modifica]e l’altro. Nella lezione 8 la definizione è concepita così: Baratteria est corrupta et asconsa voluntas cujuslibet praemio a justitia retentis, dove nell’altra invece di retentis, abbiamo recedentis. E io sto per il recedentis, tanto più che questo si accorda pienamente colla versione del Gelli; il quale appunto nell’altra lezione così traduce: la baratteria è una volontà corrotta e celata da qualche premio, onde si parte e si discosta dalla iustizia. Non di meno ho voluto nella lezione ottava lasciare il redentis; perchè anche da questo si poteva cavare un senso accettabile, e perchè tra l’uno e l’altro non si poteva con sicurezza decidere, se non avendo sott’occhio il codice da cui il Gelli trasse quella definizione. Il qual codice dev’essere affatto diverso da quelli che Lord Vernon e Vincenzo Nannucci adoperarono per la pubblicazione del commento di Pietro, fattasi da loro nel 1845 (Firenze, Tip. Piatti, in-8); poichè nella stampa fiorentina in vano cercai la definizione che in questi due luoghi il Gelli adduce.

Chi confronti le lezioni di queste due Letture ottava e nona avvertirà facilmente che non sono tutte di eguale finitezza; onde si arguisce che le prime già erano state rivedute dal loro autore e preparate per la stampa; e non così le altre. Giacchè dopo le prime undici lezioni dell’ottava Lettura si riscontrano alcune ripetizioni di cose già dette; come segnatamente accade nella lezione tredicesima di questa ottava Lettura, dove si torna sopra argomenti già trattati nella lezione duodecima; e come accade eziandio nella lezione quinta della Lettura nona, rispetto alla quarta lezione. Ma al poco che vi si ripete s’aggiunge il molto ch’è affatto nuovo; oltre di che anche quel poco vi è ripetuto bensì, ma con altra forma, e con isvolgimento diverso. Per il che a parer mio si fa chiaro che se il Gelli anche all’ultima [p. xxvii modifica]parte del suo lavoro avesse potuto dare le seconde cure, il numero delle lezioni non se ne sarebbe alterato, ma solo ne sarebbe stata la disposizione più perfetta.

VI

Come io ebbi conosciuto il codice Magliabechiano, che contiene queste due Letture ancora inedite, il mio primo pensiero fu di pubblicare queste soltanto; giacchè le altre già erano state pubblicate sino dal sec. XVI. Ma ho poi considerato che queste altre Letture e le lezioni Gelliane, sebbene di talune si abbiano, non una sola, ma due e anche tre edizioni, sono divenute sì fattamente rare, che pochi le conoscono, e pochissime sono le biblioteche private, e anche le pubbliche, nelle quali se ne conservi la raccolta intera. E il prezzo, non dico di tutta la collezione, presso che impossibile a trovarsi in commercio, ma delle Letture e lezioni separate, è salito tanto alto, che poche borse vi arrivano; e men che le altre, le borse dei letterati, le quali sono quasi sempre assai meschine. Mi parve dunque miglior consiglio il riunirle, ponendo insieme le edite e le inedite, e dandole agli studiosi, e particolarmente ai Dantisti, in volumi di tal costo da non essere di aggravio anche alle fortune più modeste.

Il tempo in cui si fecero le lezioni del Gelli sopra la Divina Commedia si stende per lo spazio di ventitrè anni, essendo la prima del 1541, e l’ultima del 1563. Era però cosa natuale e ovvia, che qui io le disponessi, non secondo l’ordine loro cronologico, ma secondo le Cantiche e i Canti del poema; e così prima quelle che riguardano l’Inferno, sebbene di tempo sieno posteriori; e quindi le altre che spie[p. xxviii modifica]gano qualche passo del Purgatorio o del Paradiso, ancorchè queste siensi fatte prima. Circa al metodo che seguii per la stampa delle Letture inedite, e per la stampa delle già edite, non altro dirò se non che fu il medesimo al quale già si conformò il prof. Agenore Gelli nel volume che qui sopra ho allegato, e che novamente ricordo per titolo di lode; metodo che fu pure approvato da voi, illustri Accademici, poichè a quel volume accordaste l’onore di registrarlo tra i citati. Ed è in sostanza quello che io già adottai per la mia ristampa della Bibbia volgare, alla quale più recentemente vi compiaceste di decretare lo stesso onore. Devo solo aggiungere, che come già feci per la Bibbia, così anche nella presente edizione, trovando nel codice o nelle antiche stampe alcun luogo dove mi sembrò che una o più parole mancassero, le quali dal senso fossero necessariamente volute, ve le ho messe, ma chiudendola tra segni di parentesi quadre [], acciò si conoscesse quella non essere parole del testo, ma un supplemento mio. E tanto maggiormente spero che la edizione non vi sarà discara, in quanto io la cominciai e la menai a termine coll’aiuto sempre e col consiglio dell’ottimo amico mio e collega vostro Cav. Giovanni Tortoli, così cortese e benevolo, come dotto in molti rami del sapere, e versatissimo nel magistero della lingua e in ogni particolarità della filologia. Nè solamente egli mi aiutò nelle cure della stampa, le quali chi ci ha pratica sa quanto sieno lunghe e fastidiose; ma per le Letture già edite volle cooperar meco nel confrontarne le varie stampe; e per le inedite ebbe continuamente sott’occhio e consultò il codice Magliabechiano, del quale io non possiedo altro che una copia, fatta però con gran diligenza.

A piè di pagina posi alcune postille; e sono di tre specie. La prima è di brevi avvertenze o rettificazioni che mi [p. xxix modifica]parvero opportune; e di queste non ho altro a dire. La seconda è di correzioni che feci in pochi luoghi dove il testo mi sembrò manifestamente guasto. Diedi in quei luoghi il testo corretto, ma volli che il lettore fosse informato del mutamento, e potesse darne giudizio; al qual fine non ho mai tralasciato di mettere in nota il testo delle edizioni precedenti o del manoscritto; come pure ho messo in nota la diversa lezione che talvolta s’incontra nelle diverse stampe. Più importante è la terza specie delle postille. Tutti sanno, molti essere i passi del poema di Dante, i quali sono scritti diversamente nei diversi suoi codici, e nelle diverse sue impressioni. E lo studio di così fatte varianti, e il paragonarlo tra loro, e il farne la scelta con discernimento critico, è uno de’ principali uffizii della letteratura Dantesca; e forse è oggidì il principalissimo. Imperocchè prima di ricercare che cosa Dante abbia voluto intendere, e qual sia il senso letterale o recondito de’ suoi versi, bisogna sapere con certezza che cosa egli abbia veramente scritto. Ma questa varietà di lezioni non solo è da riscontrarsi nei testi a penna e negli stampati, ma è pure da indagarsi nei commenti, e specialmente nei più antichi; i cui autori hanno avuto o potuto avere presenti uno o più esemplari della Commedia, non conosciuti da noi. Onde Carlo Witte nella dotta prefazione che fece al poema di Dante, da lui ricorretto, e pubblicato nel 1862 coi tipi di Rodolfo Decker a Berlino, raccomandò ai futuri editori lo spoglio e il raffronto de’ commenti antichi; impresa, che a parer suo non sarà di piccolo profitto, e ch’egli immerso in altre cure, lasciò poco o meno che intatta. E tra questi commenti nominò in modo particolare le lezioni del Gelli; delle quali io aggiungerò ch’è da farsi tanto maggior caso, in quanto esso Gelli nella terza lezione della sua settima Lettura dice che della Divina Commedia [p. xxx modifica]consultò e conobbe, non un solo testo, ma infiniti; nè certamente fu tal uomo da adottare a caso, e senza matura considerazione, una variante più tosto che l’altra in mezzo a questa infinita copia. Laonde ho fatto in modo che per quanto se ne può ricavare dalle Letture Gelliane, i Dantisti avessero di così fatte varianti un completo registro nella presente mia edizione. A ciò mira la terza specie delle postille, dove a una a una rilevai le varianti accettate dal Gelli, pigliando per termine di confronto, e segnando Cr., la edizione fatta dal Le Monnier nel 1837 sotto la direzione di quattro illustri Accademici vostri; edizione approvata poscia, e allegata da voi nel Vocabolario.

Una raccolta, com’è questa, dove si adunano per la prima volta e per intero le maggiori e più erudite scritture del Gelli, non doveva andare senza il ritratto dell’autore. Nelle Vite deì più eccellenti pittori, ristampate ultimamente a Firenze dal Sansoni con nuove annotazioni e commenti dell’illustre Arciconsolo vostro Gaetano Milanesi, narra Giorgio Vasari, che il Bronzino, in una tavola allogatagli da Giovanni Zanchini per farvi dentro un Cristo disceso al Limbo fra i Santi Padri, dipinse molto naturali alcuni ritratti, fra i quali (dice il Vasari) «è Giovambatista Gello, assai famoso Accademico Fiorentino.» E di che valore si fossero i ritratti del Bronzino, possiamo saperlo dal medesimo Vasari, il quale ci assicura essere stato proprio di questo maestro il ritrarre dal vero, quanto con più diligenza si può immaginare; onde i suoi ritratti erano di maniera finiti, che parevano vivi veramente, e che non mancassero loro se non lo spirito. Ma la tavola della quale si parla, dopo essere stata per molti anni sopra un altare in Santa Croce, ne fu levata e trasportata nella Galleria degli Uffizii, a cagione di parecchie figure che vi si veggono ignude contro le leggi della [p. xxxi modifica]modestia. Ora, come potremo noi conoscere, tra i volti umani che vi si ammirano con tanta squisitezza d’arte figurati, qual sia il Gelli? Varie stampe Torrentiniane di libri del nostro autore ne portano la immagine al rovescio del frontespizio; così l’hanno le tre stampe de’ Capricci del Bottaio del 1548, del 1549 e del 1551; quella della Circe del 1549; quella della Lezione Dantesca del 1548; quelle delle due lezioni Petrarchesche, entrambe del 1549, e quella della Commedia intitolata Lo errore del 1555. È però sempre la immagine stessa, finamente lavorata di tratteggio, e chiusa in una cornicetta quadrilunga, al di sopra della quale si legge in maiuscole: Il Gello, non mancando mai questa leggenda, se non nella Commedia. Bisognava dunque esaminare il quadro del Bronzino colla scorta della sopra detta immagine; e di siffatto confronto ebbe la cortesia d’incaricarsi lo stesso illustre Milanesi, del quale non saprei qual si potesse trovare giudice più capace e competente. La sentenza fu che quella immagine, e il volto di un de’ due vecchi che nella tavola del Bronzino stanno vicini alla spalla destra del Redentore, sono tra loro di perfetta rassomiglianza; onde tanto valeva il riprodurre le sembianze del Gelli da quella tavola, quanto il riprodurle dalla immagine che sta nella prima carta delle sopra dette edizioni. E si prese quest’ultimo partito per due ragioni. La prima, che l’immagine è di tal perfezione da non lasciare speranza che una copia, presa di nuovo e direttamente dal quadro, avesse a riuscir migliore. La seconda, che il tempo in cui si stampò il ritratto (ch’è il tempo medesimo che il Bronzino operava); il favore di cui godeva il Gelli presso il Duca Cosimo; il trovarsi anche il Bronzino per cose dell’arte sua alla Corte Medicea; l’essere quella del Torrentino stamperia Ducale; e sopra tutto la identità di effigie e di forma che si rav[p. xxxii modifica]visa tra la figura dipinta e la stampata, dànno fondamento alla congettura, che pur fosse del Bronzino il disegno che servì per la stampa.

VII

Qualche cosa rimarrebbe a dirsi intorno al merito di queste Letture. Ma come varii sono i giudizii della gente, e varii sono più di ogni altro i giudizii della gente letterata, così è di assoluta necessità il premettere su qual fondamento si voglia stimare il pregio di questa o di qualsiasi esposizione del poema di Dante. Vi sono alcuni, e non sono scarsi di numero nè di autorità, i quali hanno in abbominio e commenti e commentatori; e dicono, questi essere un branco di pedanti, e quelli una inutile soma; poichè, o il verso è chiaro, e allora perchè spiegarlo? o non si capisce, e allora il meglio è darlo al fuoco, essendo cosa intollerabile questa di scrivere un libro per farne intendere un altro, e così cagionare al prossimo la fatica e la noia di leggerne due in vece di uno solo. Dante però non era di questi così rigidi censori. De’ commenti egli era amico; e diceva che i commenti sono il pane col quale si mangiano le canzoni. E insistendo su questa allegoria del pane, compose egli stesso un commento, e lo chiamò Convito; e disse che la vivanda di questo convito sarebbesi di quattordici maniere ordinata, cioè di quattordici sue canzoni, sì di amore come di virtù, «le quali senza lo presente pane avevano di alcuna scurità ombra...; ma questo pane, cioè la presente sposizione, sarà la luce, la quale ogni colore di loro sentenzia farà parvente.» I libri del Convito ci rimasero incompiuti; e delle quattordici canzoni di cui dovevamo avere il commento, so[p. xxxiii modifica]lamente di tre lo abbiamo. Non di meno anche questo poco basta a dimostrare che Dante non ha creduto stoltezza lo scrivere un libro per dichiararne un altro, il quale non di secoli ma di pochi anni lo precedeva, ed era pure opera sua. Nè solamente egli scrisse un tal libro dichiarativo; ma lo scrisse in modo che la interpretazioni riuscì di mole a più doppii maggiore, che non fossero le rime interpretate. Vengono oltre a ciò i libri del Convito a darci un’idea, e un esempio assai notabile, del come credeva Dante che si avessero a commentare i suoi versi, e del come avrebbe egli stesso commentata la Commedia, se gli fosse bastata la vita, e vi si fosse voluto accingere. Non mi sembra dunque di andare lungi dal vero, se affermo, nessuno esser miglior interprete di uno scritto qualsiasi, che il suo autore; e per conseguenze nessun criterio poter essere più sicuro a giudicare della bontà di un commento Dantesco, che il confronto suo coi commenti lasciatici dal medesimo Dante.

E se questo criterio non falla, io posso anche affermare che nessun commento della Divina Commedia può mettersi innanzi a questo del Gelli. Imperocchè di quanti io ne ho veduti niuno ve n’ha, che più di questo si approssimi e si ragguagli ai libri del Convito; ai quali anche Cesare Balbo diceva doversi costantemente e principalmente attendere da chiunque si ponga all’ardua impresa di esporre la Commedia. Le Letture del Gelli e i libri del Convito si rassomigliano prima di tutto nel dettato e nello stile; poichè il Gelli col lungo studio aveva questi libri talmente fatti suoi, che la prosa di Dante, ottima fra le buone, e la prosa sua paiono avere un solo impasto e un solo colorito. Più ancora si rassomigliano nelle forme del ragionare e del distinguere i varii sensi, letterale, allegorico, morale e anagogico; come si rassomigliano nelle intramesse di alta filosofia, nella ricerca [p. xxxiv modifica]delle significazioni riposte, e nella sostanza e nell’andamento e nell’intero contesto dell’opera. Aggiungasi che le idee filosofiche del Gelli, come in generale le idee del secolo XVI, sono ancora quelle del tempo di Dante. Sia per Dante, e sia per il Gelli, Aristotile è il Filosofo per antonomasia; e l’uno e l’altro hanno per guida la metafisica e la fisica di Aristotile e di Averroe, e non come si usa da alcuni moderni, la metafisica e la fisica del secolo XVIII o del secolo XIX. Meglio di molti, i quali pur ne fecero professione espressa, il Gelli spiega Dante con Dante; e ogni volta che gli occorre, ai versi della Commedia pone a riscontro altri versi della stessa Commedia, o sentenze opportunamente ricercate in altre opere dell’Alighieri. Rispetto poi alla teologia, ch’è pur tanta parte del poema sacro, il Gelli si abbevera alle medesime fonti a cui Dante si è dissetato; delle quali principalissima è Pier Lombardo, il Maestro delle sentenze, gloria della mia Novara; i libri del quale erano ancora alla età del Gelli, come erano a quella di Dante, e come furono per molte generazioni ancora, il testo di tutte le scuole teologiche dell’orbe cattolico. Coi libri delle sentenze assai più agevolmente, che con quelli di Alberto magno, di S. Tommaso, di S. Bonaventura, e di altri seguaci del Lombardo, si possono collazionare e intendere i passi teologici (e non son pochi) della Divina Commedia. Tanto è che tutti, o presso che tutti questi passi, o sono la traduzione letterale di ciò che il Lombardo scrisse, o ne sono una manifesta parafrasi. E ben se n’era il Gelli avveduto, il quale appunto nei libri delle Sentenze trovò l’origine di alcune idee Dantesche; e più vi avrebbe trovato, se la morte non gli avesse tolto di maggiormente inoltrarsi nei gradi del Purgatorio, e nelle sfere del Paradiso.

Terminerò, come ho cominciato, nel nome di Dante e nel [p. xxxv modifica]nome vostro, o valorosi e illustri Accademici; due nomi indissolubilmente uniti per tre secoli di amorevole culto e di bene spese fatiche. E se non fosse ardire soverchio, vorrei che ascoltaste un mio voto, e che gli faceste la benigna accoglienza, la quale al cospetto vostro già trovarono questi volumi. Come Omero fu il più gran poeta del gentilesimo, così Dante fu il più gran poeta della cristianità. E da ciò procede, secondo che io penso, la universale estimazione in che Dante è venuto, non solamente in Italia, ma in tutta Europa, e nelle Americhe, e in ogni altra parte del mondo, dovunque è penetrata luce di civiltà e di scienza. Ond’egli si estolle al di sopra di ogni poeta dell’età moderna, come la piramide di Cheope sopra le altre della valle Niliaca; e alla sua fama non si può trovar degno riscontro, se non in Grecia e nei tempi che precedettero l’êra volgare. E non pure nel continente Europeo, ma oltre all’Atlantico, si son formate e fioriscono Società Dantesche; le quali non hanno altro intento, che di onorare l’altissimo poeta, e di propagarne lo studio e la venerazione. Ma per una singolarità, della quale non saprei se altra sia più deplorevole, di tali società non una è ancor sorta in Italia. Non sembra a voi, illustri Accademici, che a tale mancanza convenga riparare? Per me credo che altri non vi potrebbe riparare meglio e più degnamente di voi, che sempre aveste Dante in cima de’ vostri pensieri; che in lui principalmente cercaste il fiore della buona favella, di cui siete sindacatori e custodi; che del suo poema procuraste due edizioni, prugandolo di molti errori che vi erano trascorsi; e che siete, per quanto io sappia, l’unico sodalizio letterato, che di tanto gli sia stato cortese. Nè altrove dovrebbe questa Società italiana iniziarsi, che nella vostra Firenze, madre d’ogni coltura e gentilezza, e patria del poeta; la quale tanto ora se ne gloria, quanto una volta [p. xxxvi modifica]gli fu ingiusta per ire di parte e per cittadine discordie. Nè tempo più propizio, nè migliore opportunità potrebbe aspettarsi; poichè Dante è adesso nel cuore e sulle labbra di tutti; e alla Società e ai suoi promotori non sarà certamente per mancare il patrimonio della Famiglia Sovrana e della sua Corte, mentre vediamo che l’augusto nostro Re Umberto I ordinò la stampa di un commento Dantesco, che stava inedito nella sua Biblioteca, e lo diè in premio al Principe ereditario; e questo Principe, e l’amatissima nostra Regina e S.A.R. la Duchessa di Genova sono rampolli di quella Dinastia, onde venne alla Germania uno de’ suoi più chiari Dantisti.

Da Novara, il xx di marzo mdccclxxxvii.

Carlo Negroni.