Morgante maggiore/Canto terzo

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Canto terzo

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Canto secondo Canto quarto
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CANTO TERZO.




ARGOMENTO.

     Lionetto ucciso, il paladino Orlando
Rovescia dall’arcion Meridiana:
Torna un messo a Parigi, rapportando
Ch’Orlando è vivo e sano in carne umana.
Di lui Rinaldo e Ulivier cercando
Van con Dodone; e giunti per la piana,
Dov’era de’ giganti il concistoro,
Rinaldo ammazza il Saracin Brunoro.


1 O Padre, o giusto, incomprensibil Dio,
     Illumina il mio cor perfettamente,
     Sì che si mondi del peccato rio:
     Sebben io sono stato negligente,
     Tu se’ pur finalmente il signor mio,
     Tu se’ salute dell’umana gente;
     Tu se’ colui, che ’l mio legno movesti,
     E insino al porto aiutar mi dicesti.

2 Orlando gli rispose: Egli è dovere;
     E colle spade si son disfidati.
     E Lionetto, ch’avea gran potere,
     Molti pensieri aveva esaminati
     Per fare al conte Orlando dispiacere:
     E perchè tutti non venghin fallati,
     Alzava con due man la spada forte,
     Per dare al suo caval, se può, la morte.

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3 Orlando vide il pagano adirato,
     Pensò volere il colpo riparare;
     Ma non potè, chè ’l brando è giù calato
     In su la groppa, e Rondel fe cascare;
     Tanto ch’Orlando si trovò in sul prato,
     E disse: Iddio non si potè guardare.
     Da’ traditor: però chi può guardarsi?
     Ma la vergogna qua non debbe usarsi.

4 Poi fra sè disse: Ove se’, Vegliantino?
     Ma non disse sì pian, che ’l suo nimico
     Non intendessi ben questo latino;
     E si pensò di dirlo al padre antico.
     Orlando s’accorgea del Saracino
     E disse: Se più oltre a costui dico,
     In dubbio son, se mi conosce scorto:
     Il me’ sarà ch’ei resti al campo morto.

5 La gente fu dintorno al conte Orlando
     Con lance, spade, con dardi e spuntoni;
     E lui soletto s’aiuta col brando:
     A quale il braccio tagliava e’ faldoni1,
     A chi tagliava sbergo, a chi potando
     Venia le mani, e cascono i monconi:
     A chi cacciava di capo la mosca,
     Acciocch’ognun la sua virtù conosca.

6 Morgante vide in sì fatto travaglio
     Il conte Orlando, e in là n’andava tosto,
     E cominciò a sciorinare il battaglio,
     E fa veder più lucciole ch’agosto:
     I Saracin di lui fanno un berzaglio
     Di dardi e lance, ma gettan discosto
     Tanto, che quando dov’è il conte venne,
     Un istrice coperto par di penne.

7 Era a cavallo Orlando risalito,
     E già di Lionetto ricercava;
     Ma Lionetto, com’e’ l’ha scolpito2,
     Inverso la città si ritornava,
     E per paura l’aveva fuggito:
     Orlando forte Rondello spronava;
     E tanto e tanto in su’ fianchi lo punse,
     Che Lionetto alla porta raggiunse.

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8 Volgiti indrieto; ond’è tanta paura,
     Gridò, Pagano? E colui pur fuggiva,
     Perchè e’ temeva della sua sciagura:
     Orlando colla spada l’assaliva.
     E non potè fuggir drento alle mura
     Il giovinetto, ch’Orlando il feriva
     Irato con tal furia, e con tempesta,
     Che gli spiccò dall’imbusto la testa.

9 Nel campo si tornò poi che l’ha morto;
     Trovò Morgante che nella press’era;
     Ebbe di Lionetto assai conforto,
     E ritornossi inverso la bandiera.
     Il caso presto alla dama fu porto,
     Che luce più ch’ogni celeste spera;
     Graffiossi il volto, e straccia i capei d’oro,
     Sì che fe pianger tutto il concestoro.

10 Il vecchio padre dicea: Figliuol mio,
     Chi mi t’ha morto? e gran pianto facea.
     O Macometto, tu se’ falso Iddio,
     Non te ne ’ncresce di sua morte rea?
     Che pensi tu? che onor più ti facci’io,
     O ch’io t’adori nella tua moschea?
     Meridiana in così fatto pianto
     Fece trovar tutte sue arme intanto.

11 Vennono arnesi perfetti e gambiere
     Subito innanzi a questa damigella
     Di tutta botta, lo sbergo, e l’amiere,
     E la corazza provata era anch’ella,
     Elmetto, e guanti, e bracciali e gorgiere;
     Mai non si vide armadura sì bella;
     E spada che già mai non fece fallo:
     E così armata saltò in sul cavallo.

12 Gente non volle che l’accompagnasse,
     Uno scudiere appiè sol colla lancia;
     E così par che in sul campo n’andasse,
     Se l’autor della istoria non ciancia;
     E come giunse, un bel corno sonasse,
     Ch’avea d’avorio, com’era la guancia.
     Orlando disse a Manfredonio: Io torno
     Alla battaglia, perch’io odo il corno.

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13 Morgante presto assettava Rondello;
     Orlando verso la dama ne gía,
     Che vendicar voleva il suo fratello;
     Morgante sempre alla staffa seguía:
     Meridiana, come vide quello,
     Presto s’accôrse che Brunoro sia:
     Orlando giunse, e diègli un bel saluto;
     Disse la dama: Tu sia il mal venuto.

14 Se se’ colui ch’hai morto Lionetto,
     Ch’era la gloria e l’onor di Levante,
     Per mille volte lo Iddio Macometto
     Ti sconfonda, Apollino e Trivigante:
     Sappi ch’a quel famoso giovinetto
     Non fu mai al mondo, o sarà simigliante.
     Orlando disse con parlare accorto:
     Io son colui che Lionetto ho morto.

15 Disse la dama: Non far più parole,
     Prendi del campo, io ne farò vendetta.
     O Macometto crudel, non ti duole
     Che spento sia il valor della tua setta?
     Chè mai tal cavalier vedrà più ’l sole,
     Nè rifarà così natura in fretta.
     E rivoltò il destrier suo lacrimando;
     Così dall’altra parte fece Orlando.

16 Poi colle lance insieme si scontrorno:
     Il colpo della dama fu possente,
     Quando al principio l’aste s’appiccorno,
     Tanto ch’Orlando del colpo si sente.
     Le lance al vento in più pezzi volorno;
     E Rondel passa furiosamente
     Col suo signor, che tutto si scontorse
     Pel grave colpo che colei gli porse.

17 Orlando ferì lei di furia pieno:
     Giunse al cimier, che in su l’elmetto avea,
     E cadde col pennacchio in sul terreno:
     L’elmo gli uscì, la treccia si vedea,
     Che raggia come stelle per sereno;
     Anzi pareva di Venere Iddea,
     Anzi di quella che è fatta un alloro3,
     Anzi parean d’argento, anzi pur d’oro.

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18 Orlando rise, e guardava Morgante
     E disse: Andianne omai per la più piana:
     Io credea pur qualche baron prestante
     Pugnassi qui per la dama sovrana:
     Per vagheggiar non venimmo in Levante.
     Ebbe vergogna assai Meridiana:
     Sanz’altro dir, colla sua chioma sciolta,
     Collo scudiere alla terra diè volta.

19 Manfredon disse, com’e’ vide Orlando:
     Dimmi, baron, com’andò la battaglia?
     Orlando gli rispose sogghignando:
     Venne una donna coperta di maglia,
     E perchè l’elmo gli venni cavando,
     Su per le spalle la treccia sparpaglia.
     Com’io cognobbi ch’ell’era la dama,
     Partito son per salvar la sua fama.

20 Lasciamo Orlando star col Saracino,
     E ritorniamo in Francia a Carlo Mano.
     Carlo si stava pur molto tapino,
     Così il Danese, e lieto era sol Gano,
     Poi che non v’è più Orlando Paladino;
     Ma sopra tutti il sir da Montalbano,
     Astolfo, Avino, Avolio, e Ulivieri
     Piangevan questo, e così Berlinghieri.

21 Chimento un giorno il messaggio è tornato,
     E inginocchiossi innanzi alla corona,
     Dicendo: Carlo, tu sia il ben trovato,
     Di cui tanto il gran nome e ’l pregio suona.
     Rinaldo, che lo vide addolorato,
     Disse: Novella non debbi aver buona.
     Donde il messaggio disse lacrimando:
     Io ho trovato il tuo cugino Orlando.

22 E mentre che più oltre volea dire,
     Sì fatta tenerezza gli abbondava,
     Ch’e’ non potè le parole finire,
     Quando i baroni intorno riguardava,
     Ch’Orlando ricordò nel suo partire,
     E tramortito in terra si posava:
     Perchè ciascuno allor giudica scorto4
     Che ’l conte Orlando dovessi esser morto.

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23 Dicea Rinaldo: Caro cugin mio,
     Poi che tu se’ di questa vita uscito,
     Sanza te, lasso, che farei più io?
     Ed Ulivier piangea tutto smarrito.
     Carlo pregava umilemente Iddio
     Pel suo nipote tutto sbigottito,
     E maladia quel dì, che di sua corte
     E’ si partì, ch’a Gan non diè la morte.

24 Piangeva il savio Namo di Baviera,
     E Salamon ne facea gran lamento;
     Bastò quel pianto per insino a sera,
     Ch’ognun pareva fuor del sentimento;
     E Gan fingea con simulata cera:
     Ma risentito alla fine Chimento
     Levossi, e confortò costor, pregando
     Che non piangessin come morto Orlando.

25 Dicendo: Orlando sta di buona voglia:
     E tutti per sua parte salutoe:
     Io ’l trovai nel deserto di Girfoglia,
     Ch’ad una fonte per caso arrivoe,
     Dove un altro corrier mi diè gran doglia,
     Ma nella fonte annegato restoe:
     Che lo mandava qui Gan traditore,
     Per far morire il Roman Senatore.

26 Gridò Rinaldo: Questo rinnegato
     Distrugge pure il sangue di Chiarmonte,
     Come tu vuoi, o Carlo mio impazzato.
     Gan gli rispose con ardita fronte,
     E disse: Io son miglior in ogni lato
     Di te, Rinaldo, e del cugin tuo conte.
     Rinaldo disse: Per la gola menti,
     Chè mai non pensi se non tradimenti.

27 E volle colla spada dare a Gano:
     Gan si fuggì, ch’appunto il conosceva.
     Bernardo da Pontier suo capitano
     Irato verso Rinaldo diceva:
     Rinaldo, tu se’ uom troppo villano:
     Allor Rinaldo addosso gli correva,
     E ’l capo dalle spalle gli spiccava,
     E tutti i Maganzesi minacciava.

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28 I Maganzesi veggendo il furore,
     Di subito la sala sgomberorno.
     Carlo gridava: Questo è troppo errore;
     Rinaldo mette sozzopra ogni giorno
     La corte nostra, e fammi poco onore.
     I Paladini in questo mezzo entrorno,
     E tutti quanti confortâr Rinaldo,
     Ch’avessi pazienza, e stessi saldo.

29 Rinaldo dicea pur: Questo fellone
     Non vo’ che facci mai più tradimento;
     O Carlo, o Carlo, questo Ganellone
     Vedrai ch’un dì ti farà malcontento.
     Carlo rispose: Rinaldo d’Amone,
     Tempo è d’ adoperar sì fatto unguento;
     A qualche fine ogni cosa comporto.
     Disse Rinaldo: Ch’Orlando sia morto.

30 A questo fine il comporti tu, Carlo,
     E che distrugga te, la corte, e ’l regno:
     Io voglio il mio cugino ire a trovarlo.
     Ed Ulivier dicea: Teco ne vegno.
     Dodon pregò ch’e’ dovessi menarlo,
     Dicendo: Fammi di tal grazia degno:
     Disse Rinaldo: Tu credi ch’io andassi,
     Che ’l mio Dodon con meco non menassi?

31 Chiamò Guicciardo, Alardo, e Ricciardetto:
     Fate che Montalban sia ben guardato,
     Tanto ch’io truovi il cugin mio perfetto:
     Ognun sia presto là rappresentato;
     Ch’i ho de’ traditor sempre sospetto;
     E Gan fu traditor prima che nato:
     Non vi fidate se non di voi stesso,
     E Malagigi getti l’arte5 spesso.

32 Rinaldo, il suo Dodone, e Ulivieri
     Da Carlo imperador s’accommiatorno;
     E nel partirsi, questi cavalieri
     Tre sopravveste verde si cacciorno,
     Che in una lista rossa due cervieri
     V’era, e con esse pel cammino entrorno:
     Era quest’ arme d’un gran Saracino
     Disceso della schiatta di Mambrino.

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33 Così vanno costoro alla ventura:
     Usciron della Francia incontanente,
     Passoron della Spagna ogni pianura:
     Tra Mezzodì ne vanno e tra Ponente.
     Lasciàngli andar, che Cristo sia lor cura,
     E tratterem d’un Saracin possente,
     Che inverso Barberia facea dimoro;
     Era gigante, e chiamato Brunoro:

34 O ver cugin carnale, o ver fratello
     Del gran Morgante ch’avea seco Orlando,
     E Passamonte e Alabastro, quello
     Ch’Orlando uccise nel deserto, quando
     Il santo abate riconobbe, e fello
     Contento, il parentado ritrovando:
     Brunor, per far dei suoi fratei vendetta,
     Di Barberia s’è mosso con gran fretta.

35 Con forse trentamila ben armati,
     E tutti quanti usati a guerreggiare,
     Alla badia ne vengon difilati,
     Per far l’abate e’ monaci sbucare;
     E tanto sono a stracca6 cavalcati,
     Che cominciorno le mura a guardare:
     E giunti alla badia, drento v’entraro,
     Chè contro a lor non vi fu alcun riparo.

36 Il domine messer, lo nostro abate
     La prima cosa missono in prigione.
     Disse Brunoro: Colle scorreggiate7
     Uccider si vorrà questo ghiottone;
     Ma pur per ora in prigion lo cacciate,
     Riserberollo a maggior punizione:
     Cagione è stato principale, e mastro,
     Che Passamonte è morto e Alabastro.

37 Rinaldo in questo tempo alla badia
     Con Ulivieri e Dodone arrivava:
     Vide de’ Saracin la compagnia,
     E del signor, chi fusse, domandava.
     Brunor rispose con gran cortesia:
     Io son dess’io, e se ciò non vi grava,
     Ditemi ancor chi voi, cavalier, siete.
     Disse Rinaldo: Voi lo ’ntenderete.

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38 Noi siam là de’ paesi del Soldano
     Pur cavalieri erranti, e di ventura;
     Per la ragion com’Ercol8 combattiano9,
     Abbiamo avuto assai disavventura:
     Questo ci avvenne perchè il torto avano10,
     E la ragion pur ebbe sua misura:
     Nostri compagni alcun n’è stato morto,
     Che, nol sappiendo, difendeano il torto.

39 Disse Brunoro: Io mi fo maraviglia,
     Che voi campassi, e per Dio mi vergogno,
     A dirvi quel che la mente bisbiglia:
     Voi siete armati in visione e in sogno.
     Se voi volete colla mia famiglia
     Mangiar, che forse n’avete bisogno,
     Dismonterete, ed onor vi fia fatto,
     E fate buono scotto per un tratto.

40 Disse Rinaldo: Da mangiare e bere
     Accetto; il re chiamava un Saracino;
     Disse: Costor son gente da godere,
     E vanno combattendo il pane, e ’l vino,
     E carne, quando ne possono avere:
     Non debbe bisognar dar loro uncino,
     O por la scala, ove aggiungon con mano:
     Dice che son cavalier del Soldano.

41 Se la ragione aspetta che costoro
     L’aiutino, in prigion sen’andrà tosto,
     S’avessi più avvocati, argento, o oro,
     O carte, o testimon, che fichi agosto,
     Dicea fra sè sorridendo Brunoro:
     A Ercol s’agguagliò quel ciuffa ’l mosto,
     O cavalier di gatta, o qualch’araldo:
     Ed ogni cosa intendeva Rinaldo.

42 Truova colà che faccin colezione,
     Se v’è reliquia11, arcame12 o catriosso13
     Rimaso, o piedi o capi di cappone,
     E dà pur broda e macco14 all’uom ch’è grosso:
     Vedrai come egli scuffia quel ghiottone,
     Che debbe come il can rodere ogni osso:
     Assettagli a mangiare in qualche luogo,
     E lascia i porci poi pescar nel truogo.

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43 Rinaldo facea vista non udire,
     E non gustar quel che diceva quello:
     Non si voleva al pagano scoprire
     Per nessun modo, e fa del buffoncello;
     Ecco di molta broda comparire
     In un paiuol, come si fa al porcello,
     Ed ossa, dove i cani impazzerebbono,
     E in Giusaffà15 non si ritroverrebbono.

44 Rinaldo cominciava a piluccare,
     E trassesi di testa allor l’elmetto;
     Ma Ulivier non sel volle cavare,
     Così Dodon, chè stavon con sospetto:
     Perchè Brunor, veggendogli imbeccare16
     Per la visiera, guardava a diletto17,
     E comandava a un di sua famiglia,
     Ch’a’ lor destrier si traessi la briglia.

45 E fece dar lor biada e roba assai,
     Dicendo: Questi pagheran lo scotto,
     O l’arme lasceran con molti guai;
     Non mangeran così a bertolotto18.
     Dicea Rinaldo: Alla barba l’arai19;
     E cominciò a mangiar com’un arlotto20:
     Ma quel sergente, a chi fu comandato,
     Avea il caval di Dodon governato.

46 Poi governò dopo quel Vegliantino
     Ch’avea con seco menato il marchese;
     Poi se ne va a Baiardo il Saracino;
     E come il braccio alla greppia distese,
     Baiardo lo ciuffò come un mastino,
     E ’n sulla spalla all’omero lo prese,
     Che lo schiacciò, come e’ fussi una canna,
     Tal che con bocca ne spicca una spanna21.

47 Subito cadde quel famiglio in terra,
     E poi per grande spasimo morio;
     Disse Rinaldo: Appiccata è la guerra,
     Lo scotto pagherai tu, mi cred’io:
     Vedi che spesso il disegno altrui erra.
     Quando Brunor questo caso sentio,
     Disse: Mai vidi il più fiero cavallo,
     Io vo’ che tu mel doni sanza fallo.

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48 Rinaldo fece Albanese messere;
     Disse: Quest’orzo mi par del verace.
     Brunor diceva con un suo scudiere:
     Questo caval si vorrà, chè mi piace.
     Rinaldo torna, e riponsi a sedere,
     E rimangiò com'un lupo rapace;
     Un Saracin, che ancor lui fame avea,
     Allato a lui a mangiar si ponea.

49 Rinaldo l’ebbe alla fine in dispetto,
     Però che diluviava22 a maraviglia,
     E cadegli la broda giù pel petto:
     Guardò più volte, e torceva le ciglia,
     Poi disse: Saracin, per Macometto,
     Che tu se’ porco, o bestia che ’l somiglia:
     Io ti prometto, stu non te ne vai,
     Farò tal giuoco che tu piangerai.

50 Disse il Pagan: Tu debb'esser un matto,
     Poi che di casa mia mi vuoi cacciare.
     Disse Rinaldo: Tu vedrai bell’atto.
     Il Saracin non se ne vuole andare,
     E nel paiuol si tuffava allo imbratto.
     Rinaldo non potè più comportare,
     Il guanto si mettea nella man destra,
     Tal che gli fece smaltir la minestra.

51 Chè gli appiccò in sul capo una sorba23,
     Che come e’ fussi una noce lo schiaccia:
     Non bisognò che con man vi si forba;
     E morto nel paiuol quasi lo caccia,
     Tanto che tutta la broda s’intorba.
     Dodon gridava al marchese: Su spaccia,
     Lieva su presto, la zuffa s’appicca;
     Donde Ulivieri abandonò la micca24.

52 Allora una brigata di que’ cani
     Subito addosso corsono a Dodone,
     E cominciossi a menarvi le mani:
     Rinaldo vide appiccar la quistione,
     E in mezzo si scagliò di que’ Pagani;
     Così faceva Ulivier Borgognone:
     Trasse la spada dal lato suo bella,
     Ma presto sanguinosa e brutta fella.

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53 Al primo che trovò la zucca taglia
     Dodone uccise un Pagan molto ardito.
     Brunor veggendo avviar la battaglia,
     Subito verso Rinaldo fu ito,
     E disse: Cavalier, se Dio ti vaglia25,
     Per che cagion se’ tu stato assalito?
     E gridò forte che ciascun s’arresti,
     Tanto che ’l caso a lui si manifesti.

54 Subito la battaglia s’arrestava.
     Saper voleva ogni cosa Brunoro:
     Verso Rinaldo di nuovo parlava:
     Dimmi, baron, perchè tu dài martoro
     Alla mia gente, che troppo mi grava?
     Disse Rinaldo: Come san costoro,
     Non vo’ mai noia, quand’io sono a desco,
     E sto, come il caval, sempre in cagnesco26.

55 Venne a mangiar qua uno: io lo pregai
     Che se n’andassi, e’ non curò il mio dire:
     Mangiato non parea ch’avessi mai,
     Ed ogni cosa faceva sparire:
     Le frutte dopo al mangiar gli donai,
     Perchè il convito s’avessi a fornire:
     E mentre che dicea questo al Pagano,
     Frusberta sanguinosa tenea in mano.

56 Disse Brunor: Poi che così mi conti,
     Di questo fatto se ne vuol far pace;
     Non siate così tosto al ferir pronti:
     Io t’ho fatto piacer; se non ti spiace,
     I peccati commessi sieno sconti;
     Rimettete le spade, se vi piace.
     Rimisson tutti allora il brando drento;
     Brunor seguiva il suo ragionamento:

57 Detto m’avete, s’io v’ho inteso bene,
     Che combattete sol per la ragione,
     Però d’un altro caso vi conviene
     Dirne con meco vostra opinione:
     Dirovvi prima quel che s’appartiene,
     E voi poi solverete la quistione;
     Se non, tu lascerai qui il tuo cavallo,
     Che ristorò dell’orzo il mio vassallo.

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58 Disse Rinaldo: Apparecchiato sono.
     Brunoro allor gli raccontava il fatto:
     Questa badia s’è messa in abbandono,
     Perchè due miei fratelli furo a un tratto
     Fatti morir, sanza trovar perdono;
     Ond’io sentendo sì tristo misfatto,
     Venuto sono a vendicarli, e preso
     L’abate ho qui, da cui mi tengo offeso.

59 Se la ragion tu di’ che suoi difendere,
     Tu doveresti aiutar me per certo;
     Ed a me par che tu mi vogli offendere:
     Onor t’ho fatto, aspettando buon merto.
     Disse Rinaldo: Falso è il tuo contendere;
     Io ti dirò quel ch’io n’intendo aperto:
     Con un sol bue, io non son buon bifolco;
     Ma s’io n’ho due, andrà diritto il solco.

60 Se due campane, l’una odi sonare,
     E l’altra no; chi può giudicar questo,
     Qual sia migliore? io odo il tuo parlare,
     Vorrei da quello abate udire il resto.
     Disse Brunoro: E questo anco a me pare.
     Venne l’abate, appiccato al capresto,
     E liberato fu della prigione,
     Perchè potesse dir la sua ragione.

61 Disse Brunoro: Io ho detto a costui
     L’oltraggio che da te ho ricevuto;
     Contato gli ho come diserto fui
     Pe’ tuoi consigli da chi t’ha creduto:
     Or tu le ragion tue puoi dire a lui,
     Che mi pare uomo assai giusto e saputo.
     Disse l’abate: Or l’altra parte udite,
     A voler ben giudicar nostra lite.

62 Io mi posavo in queste selve strane;
     E’ suoi fratelli ognidì mi faceano
     A torto mille ingiurie assai villane,
     E spesso i faggi e le pietre sveglieano;
     Hanno più volte rotte le campane.
     E de’ mie’ frati con esse uccideano:
     Convennemi alcun tempo comportargli,
     Chè forze non avea da contrastargli.

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63 Ma come piacque a quel signor divino
     Ch’aiuta sempre ognun c’ha la ragione,
     Ci capitò un mio fratel cugino,
     Il qual si chiama Orlando di Milone:
     E come quel ch’è giusto Paladino,
     Ebbe di me giusta compassione;
     E in su quel monte andò a trovar costoro,
     E con sua mano uccise due di loro.

64 Il terzo per suo amor si convertie,
     E con quel conte Orlando se n’andoe
     Verso Levante, e da me si partie;
     Tanto che sempre io ne sospireroe.
     Quando Rinaldo le parole udie,
     Molto d’Orlando si maraviglioe,
     E non sapea rassettar nella mente,
     Come l’abate fussi suo parente.

65 E cominciò così al Pagano a dire:
     Or ti parrà che ’l solco vada ritto,
     Or due campane si possono udire:
     Tu mi parlavi simulato e fitto:
     Però s’a questo non sai contraddire,
     La mia sentenzia è data già in iscritto:
     Se vero è quel che l’abate m’ha porto,
     Egli ha ragione, e tu, Pagano, hai ’l torto.

66 E intendo di provar quel ch’io ti dico
     A corpo a corpo, a piede o a cavallo,
     Perch’io son troppo alla ragione amico.
     Disse il Pagano: E’ si vorria impiccallo
     Con teco; or guarti27 come mio nimico:
     Tu debb’essere un ghiotto sanza fallo.
     Disse Rinaldo: Com’io sarò ghiotto,
     Tu mel saprai dir meglio al primo botto.

67 Disse Brunoro: Noi faremo un patto,
     Che s’io ti vinco, io vo’ questo destriere;
     Ch’al primo so ti darò scaccomatto,
     Colla pedona in mezzo lo scacchiere28.
     Disse Rinaldo: Come vuoi, sia fatto;
     Se tu m’abbatti, questo è ben dovere;
     Ed anco a scacchi ti potria dir reo29,
     Ch’io fo i tuo’ par ballar come ’l paleo30.

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68 Ma voglio un altro patto, se ti piace,
     Che s’io ti vincerò nella battaglia,
     L’abate liber sia lasciato in pace
     Dalla tua gente sanza altra puntaglia31:
     Così, se ’l mio pensier fussi fallace,
     Questo caval ch’i’ ho coperto a maglia,
     Vo’ che sia tuo; ma stu m’abbatterai,
     A ogni modo che dich’io l’arai.

69 Poi che l’accordo così si fermava,
     Ognun quanto volea del campo tolse:
     Come Brunoro il suo destrier girava,
     Così Rinaldo Baiardo rivolse:
     Il Saracin la sua lancia abbassava;
     Sopra lo scudo di Rinaldo colse,
     Passollo tutto, e pel colpo si spezza;
     Rinaldo ferì lui con gran fierezza.

70 E passògli lo scudo e l’armadura;
     Per mezzo al petto la lancia passava,
     Due braccia o più d’una buona misura
     Dall’altra parte sanguinosa andava;
     E cadde rovesciato alla verzura;
     L’anima nell’inferno s’avviava:
     Gli altri Pagani, veggendol morire,
     Ulivier presto corsono assalire.

71 Rinaldo non avea rotta la lancia:
     Il primo ch’egli scontra de’ Pagani,
     Gli passò la corazza, e poi la pancia;
     Poi con Frusberta sgranchiava le mani:
     Ed Ulivier, ch’è pur di que’ di Francia,
     Que’ Saracini affetta come pani,
     E sopra Vegliantino era salito;
     E del diciotto teneva ogni invito32.

72 Allor Dodone all’abate correa,
     Il quale era legato molto stretto;
     Tagliò il capestro, e le mani sciogliea:
     L’abate presto si misse in assetto;
     Uno stangon dalla porta togliea,
     Ch’a un Pagan levò il capo di netto;
     Poi nella calca in modo arrandellollo,
     Ch’a più di sei levò il capo dal collo.

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73 I frati ognun la cappa si cavava;
     Chi piglia sassi, e chi stanga, e chi mazza;
     Ognuno addosso a costor si cacciava,
     Molti uccidean di quella turba pazza:
     Rinaldo tanti quel dì n’affettava,
     Che in ogni luogo pel sangue si guazza;
     A chi balzava il capo, e chi ’l cervello,
     Come si fa delle bestie al macello.

74 E Ulivieri, ch’aveva Durlindana,
     Tu dè’ pensar quel che facea di loro;
     E’ fece in terra di sangue una chiana33:
     Dodon pareva più bravo ch’un toro.
     Missesi in fuga la gente pagana,
     Chè non potean più reggere al martoro;
     L’abate all’uscio per più loro angoscia
     S’era recato, e nell’uscir fuor croscia34.

75 Subito la badia isgomberorno;
     Molti ne fecion saltar le finestre,
     Fino al deserto gli perseguitorno,
     Poi gli lasciorno alle fiere silvestre;
     I monaci la porta riserrorno,
     E rassettârsi alle antiche minestre:
     Poi riposato all’abate n’andava
     Rinaldo presto, e così gli parlava:

76 Voi dite, abate, che siete cugino,
     Se bene ho inteso tal ragionamento,
     D’Orlando degno nostro Paladino;
     Però di questo mi fate contento,
     Donde disceso siete, e in qual confino,
     E che cagion vi condusse al convento.
     Disse l’abate: Se saper t’è caro
     Quel che tu di’, tu sarai tosto chiaro.

77 Io fui figliuol d’un figliuol di Bernardo,
     Che si chiamò dalla gente Ansuigi,
     Fratel d’Amone, e fu tanto gagliardo,
     Ch’ancor la fama risuona in Parigi
     D’Ottone e Buovo, s’i’ non son bugiardo:
     E la cagion ch’io vesto or panni bigi,
     Fu dal ciel prima giusta spirazione,
     Poi per conforto di Papa Lione.

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78 Rinaldo, udendo contar la novella,
     Con molta festa lo corse abbracciare,
     E ringraziava del cielo ogni stella;
     E disse: Abate, io non vi vo’ celare,
     Poi che scacciata abbiam la gente fella,
     Il nome mio, ch’io non lo potre’ fare,
     Tanta dolcezza supera la mente:
     Son come Orlando anch’io vostro parente.

79 Io son Rinaldo, e fui figliuol d’Amone;
     E come a lui a me cugino ancora
     Siete: e piangeva per affezione:
     Perchè l’abate lo strigneva allora,
     E mai non ebbe tal consolazione:
     O giusto Iddio ch’ogni Cristiano adora,
     Dopo tante altre grazie e lunga etate,
     Veggo Rinaldo mio; dicea l’abate.

80 Ed ho veduto il mio famoso Orlando,
     Benchè del suo partir sia sconsolato:
     Nunc dimitte servum tuum, quando
     Omai ti piace, Signor mio beato.
     Rinaldo allor soggiunse lacrimando:
     E questo è Ulivier, ch’è suo cognato;
     Questo è Dodone, figliuol del Danese:
     L’abate abbraccia Dodone e ’l marchese.

81 I monaci facevon molta festa,
     Perchè partito è il popol saracino
     E che per grazia Iddio lor manifesta
     Che Rinaldo è dell’abate cugino.
     Ma perch’io sento la terza richiesta
     Di ringraziar chi ci scorge il cammino,
     Farò sempre al cantar quel ch’è dovuto:
     Cristo vi scampi, e sia sempre in aiuto.

Note

  1. [p. 75 modifica]e’ faldoni. Faldone è accrescitivo di falda; e così chiamasi la materia distesa, che agevolmente ad altra si soprappone. Qui significa quella parte dell’armatura fatta a scaglie che pendeva dalla panziera, e ricuopriva le reni scendendo sulle parti deretane e sulle cosce.
  2. [p. 75 modifica]com’e’ l’ha scolpito. Qui il verbo scolpire ha il significato di vedere, [p. 76 modifica]

    scorgere. Il Vocabolario non dà che questo esempio.

  3. [p. 76 modifica]di quella ch’è fatta un alloro. Dafne, figliuola di Peneo fiume di Tessaglia e della Terra, la quale fu convertita dal padre in alloro, mentre ella voleva fuggire Apollo, che la inseguiva. Vedi Ovidio, Metamorfosi, lib. I. Di altre due Dafne ci parla la favola; l’una Oreade, o ninfa de’ monti, sacerdotessa della Dea Tellure, di cui pronunziava gli oracoli in Delfo; l’altra figliuola di Tiresia, e profetessa essa pure; anzi considerata da alcuni come una Sibilla.
  4. [p. 76 modifica]scorto. In forza d’avverbio, e vale chiaramente.
  5. [p. 76 modifica]getti l’arte. Gettar l’arte vale fare incantesimi.
  6. [p. 76 modifica]a stracca. Di forza tanto da straccarsi. Diciamo però anche comunemente pigliare una cosa alla stracca, e vale prenderla a suo bell’agio.
  7. [p. 76 modifica]scorreggiate. Colpi di correggia; e viene dal lat. corrigia, che era una specie di staffile, o funicella di cuoio, colla quale percuotevansi i servi colpevoli; onde da corrigere, fu detta corrigia.
  8. [p. 76 modifica]combattiano. Combattiamo. Tal cangiamento in n della m, nelle prime persone plurali del presente dell’indicativo, fu molto in uso presso gli antichi fiorentini. Ne abbiamo un chiaro esempio nell’Ajone del Buonarroti, dove tal cambiamento non è fatto, come in questo luogo, per servigio della rima:

    Senza consiglio tutti stiàn sossopra.
    Canto III, v. 10.

  9. [p. 76 modifica]com’Ercol. Varii sono stati gli Ercoli finti dall’antichità come uccisori di mostri, e d’uomini feroci e tirannici. Ma togliendo il velo della favola, non altro si scorge essersi voluto adombrare sotto la figura di questi eroi, cui attribuironsi forme gigantesche e forza meravigliosa, che i primi civilizzatori delle nazioni. Ma di ciò più distesamente si parla nella Prefazione, dove può vedersi eziandio la somiglianza fra questi Ercoli antichi e i Giganti e gli Eroi dei Poemi romanzeschi, fra i quali primeggia Orlando, che può risguardarsi come l’Ercole degli Italiani. In questo luogo il Poeta parla dell’Ercole greco Ηράκλιος, il più celebre, e il più conosciuto di tutti, e col quale vengono anzi confusi sovente gli altri. Sono note le sue dodici fatiche tollerate per comandamento di Euristeo, e le altre sue gesta. Fu dopo morte riguardato come un Semideo, e fu ad esso consacrato il pioppo bianco, perchè dicevano essersi delle foglie di quello incoronato, quando discese all’Inferno per trarne il Cerbero. Piacemi qui notare una cosa, che vale a dar maggior risalto alla dignità di quest’Eroe, ed è questa; che egli avesse per culla lo scudo paterno, e da quello pugnasse coi due serpenti. Tale idea è del Chiabrera, e se ne valse in una delle sue Canzoni:

    Era tolto di fasce Ercole appena,
         Che pargoletto, ignudo
         Entro il paterno scudo
         Il riponea la genitrice Alcmena;
         E nella culla dura
         Traea la notte oscura.
    Quand’ecco serpi a funestargli il seno
         Insidïose e rie;
         Cura mortal non spie
         Se pur sorgeva il gemino veneno;
         Chè ben si crede allora
         Ch’alto valor s’onora.
    Or non sì tosto i mostri ebbe davante,
         Che colla man di latte
         Erto sui piè combatte,
         Già fatto atleta il celebrato infante;
         Stretto per strani modi
         Entro i viperei nodi.
    Alfin le belve sibilanti e crude
         Disanimate stende;
         E così vien che splende
         Anco ne’ primi tempi alma virtude;
         E da lunge promette
         Le glorie sua perfette.
                             Canzone XV.

  10. [p. 76 modifica]avano. Avevamo.
  11. [p. 76 modifica]reliquia. Quel che comunemente chiamiamo gli avanzi.
  12. [p. 76 modifica]arcame. Ossame, lo stesso che carcame. Forse da Arca; che così chiamavano i depositi delle chiese, ove ponevansi i morti.
  13. [p. 76 modifica]catriosso. Ossatura del cassero degli uccelli.
  14. [p. 76 modifica]macco. Specie di minestra, detta anche faverella, fatta di fave sgusciate, cotte, e ridotte in pasta. Chiamasi macco anche la polenda, che comunemente ora si fa di farina di castagne, o di granturco. Il Biscioni, nelle note al [p. 77 modifica]Malmantile, fa venir questa voce, come pure l’altra Macca, che significa abbondanza grande, dal lat. mactus, composto di magis e auctus, quasi mauctus, e che si usava anche avverbialmente, e quasi a modo di vocativo: Macte virtute esto, disse Seneca. È qui da notare la etimologia del nome del pittore Buffalmacco, fatto celebre più che dalle opere proprie da quelle del Boccaccio, il qual significa «Soffiar nel macco, o nella polenda;» perchè bufar, in Provenzale, significava soffiar colla bocca. Di qui il nome di Buffoni a coloro che si teneano, ne’ bassi tempi, per le corti dei gran Signori, affinchè divertissero coi lor motti, e gesti, e scherzi, fra i quali vi era quello di gonfiare lo gote, e poi facendosele percuotere, mandar fuori della bocca il fiato con un certo strepito, o suono. Dalla stessa voce Provenzale abbiamo buffa, che vale burla, vanità ec., quasi cosa da nulla, e che è come un soffio; e diciamo di cosa molto leggiera è un soffio. Dal suo fischio, o suono quasi d’un che soffia, chiamarono i Siciliani Bufferanna una sorta di serpenti, come rilevasi da un passo di Guido Giudice: «Overo di quello, il quale Bufferanna in Sicilia si chiamasse.» E credo che buffa si sia chiamata quella parte dell’elmo, detta anche visiera, che cuopre la faccia, e si alza e cala a voglia altrui, e buffa anche quella specie di cappuccio che si prolunga insin sulla faccia, e che usano di porre allo lor cappe i fratelli delle Compagnie o Confraternite, perchè chi ha cotale impaccio sulla bocca è costretto a respirare con maggior fatica, per cui ansa e soffia.
  15. [p. 77 modifica]E in Giusaffà. Ecco un esempio di quel ridicolo o specie di disprezzo di cui il Poeta suole spesso cospergere le cose più sacre; difetto, del quale non può in modo alcuno scusarsi; e ciò sia detto una volta per sempre.
  16. [p. 77 modifica]imbeccare Per la visiera. Cioè introdurre i bocconi per il foro della visiera. Imbeccare vale mettere il cibo nel becco agli uccelli che non sanno per loro stessi beccare; qui è usato figuratamente.
  17. [p. 77 modifica]a diletto. A, per, con, ed è vaga maniera. «Furo ricevuti tutti a grandissimo onore,» disse Giovanni Villani; e Dante:

    Raccomandò che l’amassero a fede.
                   Parad., Canto XI.

  18. [p. 77 modifica]Non mangeran così a bertolotto. Mangiare a berlolotto vale mangiare senza pagare, il che dicesi anche passare per bardotto. Modo proverbiale, ed è l’asymbolum comedere di Terenzio.
  19. [p. 77 modifica]Alla barba l'arai. Alla barba vale in dispetto, in onta, e simili, ciò che i Latini dicevano ingratiis; onde qui Rinaldo viene a dire quasi a Brunoro: sì, mangerò senza pagare, a tuo dispetto.
  20. [p. 77 modifica]Arlotto. Dicesi a uomo goffo, gaglioffo. È conosciuto sotto questo nome il Piovano di Maciuoli, celebre per gli spiritosi suoi motti, coi quali rallegrava la corte medicea.
  21. [p. 77 modifica]ne spicca una spanna. La spanna è la lunghezza della mano distesa, e aperta dalla estremità del dito mignolo a quella del grosso. Viene questa voce, a mio credere, dalla greca σπιθαμή, che ha lo stesso significato, dalla quale corrotta, si è formato spanna. I Latini dissero dodrans. Svetonio: Statura ejus fuit quinque pedum, et dodrantis.
  22. [p. 77 modifica]diluviava. D’uno che mangia con gran voracità, e rifinisce ciò che ha davanti, dicesi ch’e’ diluvia.
  23. [p. 77 modifica]gli appiccò sul capo una sorba. Modo proverbiale, e vale, gli scaricò un colpo sul capo.
  24. [p. 77 modifica]micca, minestra. Il Salvini fa venir questa voce dal latino mica, o dal greco μικρά, o meglio μικκή, o μικκηύλη, che vale piccola; e di fatto la minestra si fa ponendo nel brodo delle piccole [p. 78 modifica]porticelle, o pezzetti di pane, paste, o simili cose. Anche quelle piccole particelle di pane o altro che avanzano a mensa, dette comunemente minuzzoli, delle quali il Vangelo dica che davansi a’ cani, si chiamavano micæ.
  25. [p. 78 modifica]se Dio ti vaglia. Modo deprecativo, o desiderativo. La particella se è qui usata al modo che i Latini usavano il sic. Sic te Diva potens Cypri, disse Orazio; o come adoperavano la particella ἤ i Greci, i quali per esprimere il nostro se Dio vuole, dicevano ἢν Θεὸς θέλῃ.
  26. [p. 78 modifica]in cagnesco. Stare in cagnesco vale con viso arcigno, torvo vultu.
  27. [p. 78 modifica]guarti. Guardati.
  28. [p. 78 modifica]ti darò scaccomatto, Colla pedona in mezzo lo scacchiere. Avere, ricevere, o dare lo scacco, o lo scaccomatto, vale torre, o esser tolto di posto; e anche ricevere, o cagionare danno e perdita; tratta la similitudine dal giuoco degli scacchi, dove dicesi dare scacco matto quando si vince il giuoco, facendo prigione il Re. Questo giuoco degli Scacchi è antichissimo, e fu usato anche dai Greci, i quali ora lo chiamano ζατρίκιον, e poi da’ Latini che lo dissero ludus latrunculorum, e lo scacco matto calculus incitus, o ad incitas adactus, cioè soggiogato, abbattuto, e ridotto alle strette in luogo da non si poter muovere; e di fatto Scaccomatto è quando la figura chiamata il Re non può far più mossa. E perchè questo Re rimane vinto, soggiogato, lo diciamo nell’italiano Scaccomatto dalla antica voco latina mattus, che vale bagnato e soggiogato, e viene dal greco μάττω pigiare, pestare, consumare, ec. Di qui mactare che significa soggiogare, domare, e di qui similmente noi Italiani chiamiamo matto colui, la retta ragione del quale è come abbattuta, soggiogata; e l’uccidere diciamo ammazzare, quasi ammactare, cioè superare altrui colla morte. Altri però ha opinato che il verbo ammazzare derivi invece da uccidere con mazza. Vedi il Grassi. Del resto noi chiamiamo un tal giuoco gli Scacchi, perchè il tavoliere sul quale si giuoca, è distinto in tanti quaretti rassomiglianti a quei che si veggono dipinti sulle divise, e nelle insegne o armi gentilizie, e che si dicono scacchi, in greco ἐμβλημάτια.
  29. [p. 78 modifica]ti potria dir reo. Dire reo vale aver mala sorta, cattiva fortuna, e ciò specialmente nel giuoco. I Latini dicevano: adversa fortuna, ec.
  30. [p. 78 modifica]paleo. Strumento con cui giuocano i fanciulli, facendolo girare con una sferza, e lo chiamano anche fattore. Si rassomiglia esso per la sua figura alla trottola, ma ne differisce però, come ne fa fede una certa cantilena degli antichi ragazzi, riportata dal Minucci nelle note al Malmantile, Canto II, St. 23, e che dice:

    E il Cristian non è Giudeo,
    E la trottola non è paleo,
    E il paleo non è trottola.

    Il Salvini nel medesimo luogo fa venire la voce Paleo dal greco verbo πολέειν, vertere; quasi dicesse da prima poleo, poi paleo. I Greci dalla sua figura piramidale lo chiamarono κῶνος, e i Latini turbo. Si dà anche il nome di Paleo a una specie di erba che nasce intorno alle lagune.
  31. [p. 78 modifica]puntaglia. Contrasto, combattimento.
  32. [p. 78 modifica]E del diciotto teneva ogni invito. Modo proverbiale, e dicesi di chi è soverchiamente loquace, o come dicevano i Latini Moschus canens Bœoticum. Qui pare voglia significare non rifiutare, nè temere di venire alle mani con chiunque.
  33. [p. 78 modifica]chiana. Palude, stagnum.
  34. [p. 78 modifica]croscio. Crosciare significa il cadere della subita e grossa pioggia: e vale anche, come qui, mandar giù con violenza, con forza, infligere ictum.