Poesie edite e inedite/Appendice a Lavorare stanca

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Appendice a Lavorare stanca

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Poesie edite e inedite Note generali al volume

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Appendice a «Lavorare stanca»

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In appendice alla edizione 1943 della raccolta di poesie Lavorare stanca. Pavese pubblicava due scritti sulla sua esperienza di poeta, premettendo ad essi la seguente nota:


Unisco, in appendice all’edizione definitiva di questo mio libro (che integra e sostituisce la prima edizione licenziata nell’ottobre 1935), due studi con cui cercai successivamente di chiarirmene il significato e gli sbocchi. Il primo, Il mestiere di poeta, lo scrissi nel novembre 1934, e ha per me un interesse ormai soltanto documentario. Quasi tutte le sue affermazioni e i suoi orgogli appaiono rientrati e superati nel secondo, A proposito di certe poesie non ancora scritte, composto nel febbraio 1940. Qualunque sia per essere il mio avvenire di scrittore, considero conclusa con questa prosa la ricerca di Lavorare stanca. [p. 193 modifica]

I. Il mestiere di poeta (a proposito di Lavorare stanca)

La composizione della raccolta è durata tre anni.

Tre anni di giovinezza e di scoperte, durante i quali è naturale che la mia idea della poesia e insieme le mie capacità intuitive si sian venute approfondendo. E anche ora, benché questa profondità e quel vigore siano molto scaduti ai miei occhi, non credo che tutta, assolutamente tutta, la mia vita si sia appuntata per tre anni nel vuoto. Farò o non farò altri tentativi di poesia, mi occuperò d’altro o ridurrò ancora ogni esperienza a questo fine: tutto ciò, che già mi ha preoccupato, voglio per ora lasciare in disparte. Semplicemente, ho dinanzi un’opera che m’interessa, non tanto perché composta da me, quanto perché, almeno un tempo, l’ho creduta ciò che di meglio si stesse scrivendo in Italia e, ora come ora, sono l’uomo meglio preparato a comprenderla.

Invece di quella naturale evoluzione da poesia a poesia che ho accennato, qualcuno preferirà scoprire nella raccolta ciò che si chiama una costruzione, una gerarchia di momenti cioè, espressiva di un qualche concetto grande o piccolo, per sua natura astratto, esoterico magari, e cosí, in forme sensibili, rivelato. Ora, io non nego che nella mia raccolta di questi concetti se ne possano scoprire, e anche piú di due, nego soltanto di averceli messi.

Mi si intenda bene: io stesso mi sono fermato pensieroso davanti ai veri o presunti canzonieri costruiti (Les Fleurs du Mal o Leaves of Grass), dirò di piú, anch’io sono giunto a invidiarli per quella loro vantata qualità; ma al buono, al tentativo cioè di comprenderli e giustificarmeli, ho dovuto riconoscere che di poesia in poesia non c’è passaggio fantastico e nemmeno, in fondo, concettuale. Tutt’al piú, come nell’Alcione, si tratta di un legame temporale, fantasie da giugno a settembre. Un po’ diverso naturalmente sarà il discorso a proposito di un racconto o poema, dove il [p. 194 modifica] passaggio fantastico e concettuale insieme è dato proprio dall’elemento narrativo, dalla consapevolezza cioè di un’unità ideale insieme e materiale che raccoglie i diversi momenti di un’esperienza. Ma allora bisogna rinunciare alla pretesa di costruire un poema semplicemente giustapponendo delle unità: si abbia il coraggio e la forza di concepire l’opera di maggior mole con un solo respiro. Come due poemi non formano un unico racconto (si fermano tutt’al piú a legami di parentela tra i rispettivi personaggi o consimili ripieghi), cosí due o piú poesie non formano un racconto o costruzione, se non a patto di riuscire ciascuna per sé non finita. Dovrebbe bastare alla nostra ambizione, e basta in questa raccolta alla mia, che nel suo giro breve ciascuna poesia riesca una costruzione a sé stante.

Tutto ciò pare quasi elementare, ma, non so se per ingenuità mia iniziale o per un gusto poetico che tuttora respiro nell’aria, è proprio in un lungo travaglio intorno a quest’identità — ogni poesia, un racconto — che tecnicamente si giustificano tutti i tentativi compresi in questo libro.

Il mio gusto voleva confusamente un’espressione essenziale di fatti essenziali, ma non la solita astrazione introspettiva, espressa in quel linguaggio, perché libresco, allusivo, che troppo gratuitamente posa a essenziale. Ora, il falso canzoniere-poema giunge appunto all’illusione costruttiva attraverso gli addentellati che una pagina presta all’altra per mezzo dell’evanescenza delle sue voci e della concettosità dei suoi motivi.

Seguire il mio gusto e non cadere nel canzoniere-poema fu quindi una sola esigenza, tecnica per il rispetto sotto cui l’ho considerata sinora, ma, ben s’intende, impegnativa di tutte le mie facoltà.

Andava intanto prendendo in me consistenza una mia idea di poesia-racconto, che agli inizi mal riuscivo a distinguere dal genere poemetto. Naturalmente non è soltanto questione di mole. Le riserve del Poe, che ancora reggono, sul concetto di poema vanno integrate appunto di considerazioni contenutistiche, che saranno poi una cosa sola con quelle esteriori sulla mole di un componimento. È qui che, agli inizi, non vedevo chiaro ed anzi, con una certa baldanza, mi lusingavo bastasse un energico atto di fede nella poesia, che so io, chiara e distinta, muscolosa, oggettiva, essenziale, ed altri traslati. Parlavo in principio di evoluzione. E [p. 195 modifica] l’evoluzione è tutta qui. Nella crescente consapevolezza di questo problema, che ancor oggi mi pare, dal canto mio, tutt’altro che esaurito.

La prima realizzazione notevole di queste velleità è appunto la prima poesia della raccolta: I mari del Sud. Ma va da sé che, fin dal primo giorno che ho pensato a una poesia, ho lottato col presentimento di questa difficoltà. E innumerevoli tentativi hanno preceduto I mari del Sud, cui l’esperienza concomitante di una prosa narrativa, o soltanto discorsiva, toglieva ogni gioia di realizzazione e rivelava nella loro disperante banalità.

Come nettamente io sia passato da un lirismo tra di sfogo e di scavo (povero scavo che sovente dava nel gratuito e sfogo vizioso che sempre finí nell’urlo patologico) al pacato e chiaro racconto de I mari del Sud, ciò mi spiego soltanto ricordando che non d’un tratto è avvenuto, ma per quasi un anno prima de I mari del Sud non ho seriamente pensato a poetare e intanto, come già prima, ma con maggiore intensità, andavo da una parte occupandomi di studi e traduzioni dal nordamericano, dall’altra componendo certe novellette mezzo dialettali e, in collaborazione con un amico pittore, una dilettantesca porno teca, di cui troppo piú che non sia lecito dovrei dire qui. Basti che questa pornoteca risultò un corpo di ballate, tragedie, canzoni, poemi in ottave, il tutto vigorosamente sotadico, e questo poco importa ora, ma anche, ciò che importa, vigorosamente immaginato, narrato, goduto nell’espressione, diretto a un pubblico di amici e da alcuno apprezzatissimo, ragione pratica, questa di un pubblico, che mi pare da supporsi quasi concime alla radice di ogni vigorosa vegetazione artistica.

Il rapporto di queste occupazioni con I mari del Sud è dunque molteplice: gli studi letterari nordamericani ponendomi in contatto con una realtà culturale in male di crescita; i tentativi novellistici avvicinandomi a una migliore esperienza umana e oggettivandone gli interessi; e finalmente la mia terza attività, tecnicamente intesa, rivelandomi il mestiere dell’arte e la gioia delle difficoltà vinte, i limiti di un tema, il gioco dell’immaginazione, dello stile, e il mistero della felicità di uno stile, che è anche un fare i conti con l’ascoltatore o lettore possibile. E insisto in specie sulla lezione tecnica di questa mia ultima attività, perché gli altri influssi, [p. 196 modifica] cultura nordamericana ed esperienza umana, sono troppo facilmente comprensibili nell’unico concetto di esperienza che tutto, e quindi nulla, spiega.

Ancora. Per un rispetto piú sottilmente tecnico le tre attività che ho detto hanno influito sui convincimenti e disegni, dati i quali ho posto mano a I mari del Sud. Nei tre casi, entrai variamente in contatto con l’awenimento di una creazione linguistica a fondo dialettale o per lo meno parlato. Intendo la scoperta del volgare nordamericano nel campo dei miei studi e l’uso del gergo torinese o piemontese nei miei naturalistici tentativi di prosa dialogata; entrambi, entusiastiche avventure di giovinezza, e tali su cui fondai piú di un pensamento presto dissolto e integrato dall’incontro con la teoria identificatrice di poesia e linguaggio.

In terzo luogo, lo stile sempre parodistico della versificazione sotadica mi abituò a considerare ogni specie di lingua letteraria come un corpo cristallizzato e morto, in cui soltanto a colpi di trasposizioni e d’innesti dall’uso parlato, tecnico e dialettale si può nuovamente far correre il sangue e vivere la vita. E sempre, questa triplice e unica esperienza mi mostrava, nel groviglio donde diramano i diversi interessi espressivi e pratici, la fondamentale interdipendenza di questi motivi e il bisogno di un continuo rifarsi ai principi, pena l’isterilimento; mi preparava cioè all’idea che condizione di ogni slancio di poesia, comunque alto, è sempre un attento riferimento alle esigenze etiche, e naturalmente anche pratiche, dell’ambiente che si vive.

I mari del Sud, che viene dopo questa naturale preparazione, è dunque il mio primo tentativo di poesia-racconto e giustifica questo duplice termine in quanto oggettivo sviluppo di casi, sobriamente e quindi, pensavo, fantasticamente esposto. Ma il punto sta in quell’oggettività del divenire dei casi, che riduce il mio tentativo a un poemetto tra il psicologico e il cronistico; comunque, svolto su una trama naturalistica. Insistevo allora sulla sobrietà stilistica per fondamentale posizione polemica: c’era da raggiungere l’evidenza fantastica fuori di tutti gli altri atteggiamenti espressivi viziati, a me pareva, di retorica; c’era da provare a me stesso che una sobria energia di concezione portava con sé l’espressione aderente, immediata, essenziale. Nulla di piú ingenuo che il mio contegno di allora davanti all’immagine retoricamente intesa: non ne volevo nelle mie poesie e non ce ne mettevo (se non per sbaglio). Era per [p. 197 modifica] salvare l’adorata immediatezza e, pagando di persona, sfuggire al facile e slabbrato lirismo degli imaginifici (esageravo).

È naturale che con un tale programma di semplicità si veda la salvezza unicamente nell’aderenza serrata, gelosa, appassionata all’oggetto. Ed è forse soltanto la forza di questa passione e non la sobrietà oggettiva, che salva qualcosa di quelle prime poesie. Poiché non tardai a sentire l’impaccio dell’argomento, ossia dell’oggetto, inevitabile in una simile concezione materialistica del racconto. Mi scoprivo sovente ad almanaccare argomenti, e questo è il meno male: lo faccio tuttora con indubbio profitto. Ciò che non va, è cercare un argomento disposti a lasciarlo svilupparsi secondo la sua natura psicologica o romanzesca e prender atto dei risultati. Ossia, identificarsi con questa natura e supinamente lasciarne agire le leggi. Questo è cedere all’oggetto. Ed è quanto facevo.

Ma quantunque già allora l’inquietudine congenita a un tale errore non mi lasciasse pace, pure motivo di soddisfazioni ne avevo. Anzitutto, proprio lo stile oggettivo mi dava qualche consolazione con la sua solida onestà: il taglio incisivo e il timbro netto che ancora gli invidio. Si accompagnava anche a un certo piglio sentimentale di misogino virilismo di cui mi compiacevo e che, in definitiva, con qualche altro piglio compagno formava la vera trama, il vero sviluppo di casi, della mia poesia-racconto, che io fantasticavo oggettiva. Poiché, lodando il cielo, se sovente si teorizza bene e realizza male, qualche volta accade il contrario. E insomma, dopo anni di evanescenze e strilli poetici, ero giunto a far sorridere una mia poesia — una figura in una poesia — e questo mi pareva il suggello tangibile del conquistato stile e dominio dell’esperienza.

Mi ero altresí creato un verso. Il che, giuro, non ho fatto apposta. A quel tempo, sapevo soltanto che il verso libero non mi andava a genio, per la disordinata e capricciosa abbondanza ch’esso usa pretendere dalla fantasia. Sul verso libero whitmaniano, che molto invece ammiravo e temevo, ho detto altrove la mia e comunque già confusamente presentivo quanto di oratorio si richieda a un’ispirazione per dargli vita. Mi mancava insieme il fiato e il temperamento per servirmene. Nei metri tradizionali non avevo fiducia, per quel tanto di trito e di gratuitamente (cosí mi pareva) cincischiato ch’essi portano con sé; e del resto troppo li avevo usati parodisticamente per pigliarli ancora sul serio e cavarne un effetto di rima che non mi riuscisse comico. [p. 198 modifica]

Sapevo naturalmente che non esistono metri tradizionali in senso assoluto, ma ogni poeta rifà in essi il ritmo interiore della sua fantasia. E mi scopersi un giorno a mugolare certa tiritera di parole (che fu poi un distico de I mari del Sud) secondo una cadenza enfatica che fin da bambino, nelle mie letture di romanzi, usavo segnare, rimormorando le frasi che piú mi ossessionavano. Cosí, senza saperlo, avevo trovato il mio verso, che naturalmente per tutto I mari del Sud e per parecchie altre poesie fu solo istintivo (restano tracce di questa incoscienza in qualche verso dei primi, che non esce dall’endecasillabo tradizionale). Ritmavo le mie poesie mugolando. Via via scopersi le leggi intrinseche di questa metrica e scomparvero gli endecasillabi e il mio verso si rivelò di tre tipi costanti, che in certo modo potei presupporre alla composizione, ma sempre ebbi cura di non lasciar tiranneggiare, pronto ad accettare, quando mi paresse il caso, altri accenti e altra sillabazione. Ma non mi allontanai piú sostanzialmente dal mio schema e questo considero il ritmo del mio fantasticare.

Dire, ora, il bene che penso di una simile versificazione è superfluo. Basti che essa accontentava anche materialmente il mio bisogno, tutto istintivo, di righe lunghe, poiché sentivo di aver molto da dire e di non dovermi fermare a una ragione musicale nei miei versi, ma soddisfarne altresí una logica. E c’ero riuscito e insomma, o bene o male, in essi narravo.

Che è il gran punto in esame. Narravo, ma come? Ho già detto che giudico le prime poesie della raccolta materialistici poemetti di cui è caritatevole concedere che il fatto costituisce nulla piú che un impaccio, un residuo non risolto in fantasia. Immaginavo un caso o un personaggio e lo facevo svolgersi o parlare. Per non cadere nel genere poemetto, che confusamente sentivo condannabile, esercitavo una vigliacca economia di versi e in ciascuna poesia prefissavo un limite al loro numero, che, parendomi di far gran cosa ad osservare, non volevo nemmeno troppo basso, per il terrore di dare nell’epigramma. Miserie dell’educazione retorica. Anche qui mi salvò un certo silenzio e un interessamento per altre cose dello spirito e della vita, che non tanto mi portarono un loro contributo, quanto mi permisero di meditare ex novo sulla difficoltà, distraendomi dallo zelo feroce con cui facevo pesare su ogni mia velleità inventiva l’esigenza della virile oggettività nel racconto. Per restare in biblioteca, un nuovo interesse fu la rabbiosa passione [p. 199 modifica] per Shakespeare e altri elisabettiani, letti tutti, e postillati, nel testo.

Capitò che un giorno, volendo fare una poesia su un eremita, da me immaginato, dove si rappresentassero i motivi e i modi della conversione, non riuscivo a cavarmela e, a forza d’interminabili cincischiature ritorni pentimenti ghigni e ansietà, misi invece insieme un Paesaggio di alta e bassa collina, contrapposte e movimentate, e, centro animatore della scena, un eremita alto e basso, superiormente burlone e, a dispetto dei convincimenti anti-imaginifici, «colore delle felci bruciate». Le parole stesse che ho usato lasciano intendere che a fondamento di questa mia fantasia sta una commozione pittorica; e infatti poco prima di dar mano al Paesaggio avevo veduto e invidiato certi nuovi quadretti dell’amico pittore, stupefacenti per evidenza di colore e sapienza di costruzione. Ma, qualunque lo stimolo, la novità di quel tentativo è ora per me ben chiara: avevo scoperto l’immagine.

E qui diventa difficile spiegarmi, per la ragione che io stesso non ho ancora esaurito le possibilità implicite nella tecnica di Paesaggio. Avevo dunque scoperto il valore dell’immagine, e quest’immagine (ecco il premio della testardaggine con cui avevo insistito sull’oggettività del racconto) non la intendevo piú retoricamente come traslato, come decorazione piú o meno arbitraria sovrapposta all’oggettività narrativa. Quest’immagine era, oscuramente, il racconto stesso.

Che l’eremita apparisse colore delle felci bruciate non voleva dire che io istituissi un parallelo tra eremita e felci per rendere piú evidente la figura dell’eremita o quella delle felci. Voleva dire che io scoprivo un rapporto fantastico tra eremita e felci, tra eremita e paesaggio (si può continuare: tra eremita e ragazze, tra visitatori e villani, tra ragazze e vegetazione, tra eremita e capra, tra eremita e sterchi, tra alto e basso) che era esso argomento del racconto.

Narravo di questo rapporto, contemplandolo come un tutto significativo, creato dalla fantasia e impregnato di germi fantastici passibili di sviluppo; e nella nettezza di questo complesso fantastico e insieme nella sua possibilità di sviluppo infinito, vedevo la realtà della composizione. (A questo piano si era trasferita la mania di oggettività, che ora si chiariva bisogno di concretezza). [p. 200 modifica]

Ero risalito (o mi pareva) alla fonte prima di ogni attività poetica, che avrei potuto cosí definire: sforzo di rendere come un tutto sufficiente un complesso di rapporti fantastici nei quali consista la propria percezione di una realtà. Continuavo a sprezzare, evitandola, l’immagine retoricamente intesa, e il mio discorso si manteneva sempre diretto e oggettivo (della nuova oggettività, s’intende), eppure era finalmente cosa mia il senso tanto elusivo di quel semplice enunciato che essenza della poesia sia Pimmagine. Le immagini formali, retoricamente parlando, le avevo incontrate a profusione nelle scene degli elisabettiani, ma appunto andavo in quel tempo faticosamente persuadendomi che la loro importanza non stava tanto nel significato retorico di termine di paragone, quanto piuttosto in quel mio significato, ultimamente intravveduto, di parti costitutive d’una totalitaria realtà fantastica, il cui senso consistesse nel loro rapporto. Favoriva questa scoperta la natura peculiare dell’immagine elisabettiana, cosí piena straripante di vita, e ingegnosa, e compiaciuta di questa sua ingegnosità e pienezza come della propria giustificazione ultima. Per cui molte scene di quei drammi mi parevano trarre il loro respiro fantastico esclusivamente nell’atmosfera creata dalle loro similitudini.


La storia delle mie composizioni successive al primo Paesaggio è naturalmente, in un primo tempo, una storia di ricadute nell’oggettività precedente, psicologia o cronaca; come accade ad esempio per Gente che non capisce, tutta percorsa però anch’essa di brividi nuovi. In seguito, la traduzione in fantasia di ogni motivo dell’esperienza mi si venne facendo quasi metodica, sempre piú sicura, istintiva; e fu a questo punto che presi coscienza del nuovo problema da cui non sono ancora uscito.

Va bene, dicevo, sostituire al dato oggettivo il racconto fantastico di una piú concreta e sapiente realtà; ma dove si dovrà fermare questa ricerca di rapporti fantastici? cioè, quale giustificazione di opportunità avrà la scelta di un rapporto piuttosto che un altro? Mi impensieriva, in una poesia come Mania di solitudine, la sfacciata preminenza data all’io (che fin dal tempo de I mari del Sud era stato mio polemico vanto ridurre a mero personaggio e talvolta abolire), non tanto intendendolo argomento oggettivo, ché era ormai timore puerile, quanto perché alla preminenza dell’io [p. 201 modifica] mi pareva di vedere accompagnarsi un piú sregolato gioco di rapporti fantastici. Quando, insomma, la potenza fantastica diventa arbitrio? La mia definizione dell’immagine non mi diceva nulla in proposito.

Ancor adesso non sono uscito dalla difficoltà. La ritengo perciò il punto critico di ogni poetica. Intravvedo tuttavia una possibile soluzione, che però poco mi soddisfa perché poco chiara. Comunque, essa ha il pregio ai miei occhi di riportarmi a quella convinzione della fondamentale interdipendenza tra motivi pratici e motivi espressivi, di cui parlavo a proposito della mia formazione linguistica. Consisterebbe, il criterio di opportunità nel gioco della fantasia, in una discreta aderenza a quel complesso logico e morale che costituisce la personale partecipazione alla realtà spiritualmente intesa. Va da sé che questa partecipazione è sempre mutevole e rinnovabile e quindi il suo effetto fantastico incarnabile in infinite situazioni. Ma la debolezza della definizione risulta da quella discrezione cosí necessaria e cosí poco concludente agli effetti del giudizio sull’opera. Bisognerà dunque affermare la precarietà e superficialità di ogni giudizio estetico? Si sarebbe tentati.

Ma intanto smaniavo sotto Passillo creativo, e faticosamente inciampando in modo vario sempre nella stessa difficoltà, mettevo insieme altre narrazioni d’immagini. Ormai mi compiacevo anche in rischi virtuosistici. In Piaceri notturni, per esempio, volli costruire un rapporto, a contrasto, di notazioni tutte sensoriali, e senza cadere nel sensuale. In Casa in costruzione, nascondere il gioco delle immagini in un’apparente narrazione oggettiva. Nella Cena triste, rinarrare a modo mio, a intrico di rapporti fantastici, una trita situazione.

Per ciascuna di queste poesie rivivevo l’ansia del problema di come intendere e giustificare il complesso fantastico che la costituiva. Diventavo sempre piú capace di sottintesi, di mezze tinte, di composizione ricca, e sempre meno convinto dell’onestà, della necessità del mio lavoro. Al confronto, talvolta mi parve piú giustificato il nudo e quasi prosastico verso de I mari del Sud o di Deola che non quello vivido, flessibile, pregnante di vita fantastica, di Ritratto d’autore e del Paesaggio IV. Eppure tenevo fede al chiaro principio della sobria e diretta espressione di un rapporto fantastico nettamente immaginato. Tenevo duro a narrare e non [p. 202 modifica] potevo certo perdermi nella decorazione gratuita. Ma è un fatto che le mie immagini — i miei rapporti fantastici — andavano sempre piú complicandosi e ramificando in atmosfere rarefatte. [p. 203 modifica] II.     A proposito di certe poesie non ancora scritte

È un fatto che va osservato: dopo un certo silenzio, ci si propone di scrivere non una poesia ma delle poesie. Si giudica la pagina futura come un’esplorazione rischiosa di quello che da domani in poi sapremo fare. Parole taglio situazione ritmi da domattina ci promettono un campo piú largo del singolo pezzo che scriveremo.

Se questo slargo sul futuro mancasse di orizzonte, e cioè coincidesse con tutto il nostro futuro possibile, sarebbe il normale desiderio di campare e lavorare a lungo, e buona notte. Ma succede che una certa dimensione o durata spirituale gli è implicita, e per quanto non se ne vedano i limiti questi sono presenti nella stessa logica interna della novità che stiamo per creare. La poesia che stiamo per scrivere aprirà delle porte alla nostra capacità di creare, e noi passeremo per queste porte — faremo altre poesie —, sfrutteremo il campo e lo lasceremo spossato. Qui è l’essenziale. La limitatezza, cioè la dimensione, della nuova provincia. La poesia che faremo domani ci aprirà alcune porte, non tutte le possibili: verrà cioè un momento che faremo delle poesie stanche, vuote di promessa, quelle appunto che segneranno la fine dell’avventura. Ma se l’avventura ha un principio e una fine, vuol dire che le poesie in essa composte formano blocco e costituiscono il temuto canzonierepoema.


Non è facile accorgersi quando una simile avventura finisca, dato che le poesie stanche, o poesie-conclusione, sono forse le piú belle del mazzo, e il tedio che accompagna la loro composizione non è gran che diverso da quello che apre un nuovo orizzonte. Per esempio, Semplicità e Lo steddazzu (inverno 1935-36) le hai composte [p. 204 modifica] con inenarrabile noia e, forse proprio per sfuggire alla noia, tratteggiate in modo cosí bravo e allusivo che piú tardi a rileggerle ti sono parse pregne di avvenire. Il criterio psicologico del tedio non è quindi sufficiente a segnare il trapasso a un nuovo gruppo, dato che la noia, l’insoddisfazione, è la molla prima di qualunque scoperta poetica, piccola o grande.

Piú attendibile è il criterio dell’intenzione. Per esso le nostre poesie si definiscono stanche e conclusive, oppure iniziali e ricche di sviluppo, a seconda che si sceglie noi di considerarle. Evidentemente questo criterio non è arbitrario, poiché mai ci verrà in mente di decretare a capriccio la portata di una poesia, ma sceglieremo per farle fruttare quelle appunto che non solo componendole ci hanno promesso avvenire (che sarebbe ben raro, per la ragione sopraddetta del tedio) ma che, rimeditate una volta composte, ci offrono concrete speranze di ulteriori composizioni. Con che si viene a dire che l’unità di un gruppo di poesie (il poema) non è un astratto concetto da presupporsi alla stesura, ma una circolazione organica di appigli e di significati che si viene via via concretamente determinando. Succede anzi che, composto tutto il gruppo, la sua unità non ti sarà ancora evidente e dovrai scoprirla sviscerando le singole poesie, ritoccandone Pordine, intendendole meglio. Mentre Punità materiale di un racconto si fa per cosí dire da sé ed è cosa naturalistica per il meccanismo stesso del raccontare.

Hai intanto escluso che la costruzione del nuovo gruppo possa essere un disegno autobiografico, che sarebbe narrazione nel suo significato naturalistico.


Devi ora decidere se certe poesie sciolte (non comprese nel primo Lavorare stanca) sono la conclusione di un vecchio gruppo e l’inizio di uno nuovo. Che componendole tu avessi l’intenzione di superare Lavorare stanca, risulta per lo meno dal fatto che allora (inverno 1935) il libro era già in tipografia. L’inverno del ’33-36 segnò la crisi di tutto un ottimismo basato su vecchie abitudini e l’inizio di nuove meditazioni sul tuo mestiere, che si espressero in un diario e si allargarono via via a un approfondimento prosastico della vita intera, e attraverso preoccupazioni successive (1937-39) t’indussero a tentare novelle e romanzi. Ogni tanto facevi una poesia — l’inverno 1937-38 ne produsse parecchie sotto un ritorno [p. 205 modifica] materiale alle condizioni del 1934, l’anno di Lavorare stanca — ma sempre piú ti convincevi che il tuo attuale campo era la prosa, e le poesie rappresentavano un afterglow. Poi il 1939 non ne vide piú. Ora che con l’inizio del 1940 ci sei tornato, si domanda se quelle estravaganti rientrano in Lavorare stanca o presagiscono il futuro.

Sta il fatto che riprendendo in mano il libro e rimaneggiandone l’ordine per includervene alcune censurate nel 1933, le nuove vi hanno trovato posto agevolmente e sembrano comporre un tutto. La questione è quindi praticamente risolta, ma resta che l’intenzione delle estravaganti ti faceva chiaramente sperare un nuovo canzoniere.

Vediamo. Queste sbandate poesie cadono in due gruppetti, anche cronologici. Inverno 1933-36, la liquidazione del confino: Mito, Semplicità, Lo steddazzu; inverno 1937-38, la rabbia sessuale: La vecchia ubriaca, La voce, La puttana contadina, La moglie del barcaiolo. È chiaro che questi due momenti sono già in Lavorare stanca, e il primo mazzo si riconnette a Terre bruciate e Poggio Reale; il secondo a Maternità e La cena triste. La gran questione è se qualcosa nel loro accento giustifica l’intenzione di erogarle nel futuro canzoniere, come senza dubbio componendole speravi.

Non pare. La novità di Lo steddazzu era solo apparente. Il mare, la montagna e la stella, l’uomo solo, sono elementi o fantasie che si trovano già in Ulisse, in Gente spaesata, in Mania di solitudine. Né il ritmo del fantasticare è diverso o anche solo piú ricco che in passato. Non si esce dalla figura umana veduta nei suoi gesti essenziali e attraverso questi raccontata. Lo stesso puoi dire dei ritratti di donne nel secondo gruppo (La vecchia ubriaca e La moglie del barcaiolo), che, a parte la novità tutta esteriore del sogno, ripetono la presentazione figurativa di Ulisse e Donne appassionate ricorrendo all’immagine interna (un particolare del quadro, usato come termine di paragone nel racconto) e non giungendo quindi nemmeno al nebuloso ideale dell’immagine-racconto avanzato già nel 1934. Quanto alla sobrietà di tratti della Moglie del barcaiolo, siamo ancora addirittura a Deola.


A dire il vero, in questi anni l’intenzione costruttiva piú che nelle nuove poesie si esprime nelle meditazioni diaristiche che le accompagnarono e alla fine soffocarono (1937-39). E siccome solo [p. 206 modifica] la consapevolezza critica conclude un ciclo poetico, questo continuo insistere con note di prosa sul problema dei tuoi versi è la prova che una crisi di rinnovamento s’andava svolgendo. Diremo quindi che, se nel travaglio sei giunto insensibilmente a definirti Lavorare stanca, tanto che ultimamente l’hai ripreso e rimaneggiato scoprendovi una costruzione (ciò che ti pareva assurdo nel 1934), tu miravi piú in là. Esaminando la poetica dei gruppi estravaganti e scoprendola coerente col resto di Lavorare stanca, manifestavi la velleità di una nuova poetica e ne delineavi la direzione. Qual è dunque la molla di queste ripetute e frammentarie indagini prosastiche che hai esercitato per tre anni?

Definito Lavorare stanca come l’avventura dell’adolescente che, orgoglioso della sua campagna, immagina consimile la città, ma vi trova la solitudine e vi rimedia col sesso e la passione che servono soltanto a sradicarlo e gettarlo lontano da campagna e città, in una piú tragica solitudine che è la fine dell’adolescenza — hai scoperto in questo canzoniere una coerenza formale che è l’evocazione di figure tutte solitarie ma fantasticamente vive in quanto saldate al loro breve mondo per mezzo dell’immagine interna. (Esempio. Nell’ultimo I della nebbia, l’aria inebria, il pezzente la respira come respira la grappa, il ragazzo beve il mattino. Tale è tutta la vita fantastica di Lavorare stanca).

Ora, tanto l’avventura vissuta come la sua tecnica evocativa in questi quattro anni si sono dissolte. La prima si è conclusa con l’accettazione pratica e la giustificazione della solitudine virile, la seconda con la provata esigenza e qualche scarno tentativo di nuovi ritmi e nuove figurazioni. Com’era giusto, la tua critica si è accanita soprattutto sul concetto d’immagine. L’ambiziosa definizione del 1934, che l’immagine fosse essa stessa argomento del racconto, si è chiarita falsa o per lo meno prematura. Tu hai sinora evocato figure reali radicandole nel loro campo con paragoni interni, ma questo paragone non è mai stato esso stesso argomento del racconto, per la sufficiente ragione che argomento era un personaggio o paesaggio naturalisticamente inteso. Non è un caso infine che tu abbia intravisto la possibile unità di Lavorare stanca soltanto sotto forma di avventura naturalistica. Quale il canzoniere, tale la singola poesia.

Sia detto chiaramente: la tua avventura di domani deve avere altre ragioni. [p. 207 modifica]

Questo nuovo canzoniere porterà in sé la sua luce quando sarà fatto, quando cioè dovrai negarlo. Ma due premesse risultano dal sin qui detto:

1) la sua costruzione sarà analoga a quella di ogni singolo pezzo poetico;

2) non sarà riassumibile in racconto naturalistico.

Ciò che in questi due punti è gratuito — l’esigenza di una poesia non riducibile a racconto — è tuttavia il lievito di domani. È l’elemento arbitrario, precritico, che solo in quanto tale può stimolare la creazione. È un’intenzione, una premessa irrazionale, che sarà giustificata soltanto dall’opera. Quattro anni di velleità e d’introspezione te l’impongono, come nel 1931-32 una voce t’imponeva di raccontare versi.

È logico che davanti a quest’esigenza scompaia quella, inconcludente, di sapere che cosa dirà la nuova poesia. Lo dirà la poesia stessa, e quando l’avrà detto sarà cosa del passato, come ora Lavorare stancaFonte/commento: ec.

È certo che anche stavolta il problema dell’immagine terrà il campo. Ma non sarà questione di raccontare immagini, formula vuota, come s’è visto, perché nulla può distinguere le parole ch’evocano un’immagine da quelle ch’evocano un oggetto. Sarà questione di descrivere — non importa se direttamente o immaginosamente — una realtà non naturalistica ma simbolica. In queste poesie i fatti avverranno — se avverranno — non perché cosí vuole la realtà, ma perché cosí decide l’intelligenza. Singole poesie e canzoniere non saranno un’autobiografia ma un giudizio. Come succede insomma nella Divina Commedia — (bisognava arrivarci) —, avvertendo che il tuo simbolo vorrà corrispondere non all’allegoria ma all’immagine dantesca.

Al canzoniere sarà inutile pensare. Come s’è visto con Lavorare stanca, basterà di volta in volta assorbirsi nella singola poesia, superare in essa il passato. Se la prima delle due degnità è vera, basterà fare una sola poesia nuova — e forse è già fatta — e sarà assicurato l’intero canzoniere-poema. Non solo, ma dato un verso tutto vi sarà implicito. Verrà un giorno che una tranquilla occhiata porterà l’ordine e l’unità nel laborioso caos che domani incomincia.