Storia della letteratura italiana (De Sanctis 1912)/VII. La Commedia/VII

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VII. La Commedia - VII.

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Chi vuole ora concepire il Purgatorio, si metta in quella etá della vita che le passioni si scoloriscono, e l’esperienza e il disinganno tolgono le illusioni, e, scemata la parte attiva e personale, l’uomo si sente generalizzare, si sente piú come genere che come individuo. Spettatore piú che attore, la vita si manifesta in lui non come azione ma come contemplazione artistica, filosofica, religiosa. In quella calma delle passioni e de’ sensi era posto l’ideale antico del savio, l’ideale nuovo del santo, fuso insieme in quel Catone, che Dante chiama nel Convito anima nobilissima e la piú perfetta immagine di Dio in terra. Catone è il savio antico, pinto come i filosofi, con quella [p. 202 modifica]sua lunga barba, in quella calma e gravitá della sua decorosa vecchiezza:

                                         degno di tanta reverenza in vista,
che piú non dee a padre alcun figliuolo.
     

Ma è qualcosa di pili: è il savio battezzato e santificato, con la fronte radiante, illuminata dalla grazia, si che pare un sole. Virgilio non comprende questo savio cristianizzato, e parla al Catone di sua conoscenza, ricordando la sua virtú, la sua morte per la libertá, la sua Marzia. E il nuovo Catone risponde: — Marzia, che piacque tanto agli occhi miei, non mi move piú; ma, se Donna del cielo ti guida, non ci è mestier lusinga:

                                         basta ben che per lei tu mi richegge. —      

Che cosa è il Purgatorio? È il mondo dove questo doppio ideale è realizzato: il mondo di Catone o della libertá, dove lo spirito si sviluppa dalla carne e cerca la sua libertá:

                                         Libertá va cercando, ch’è si cara,
come sa chi per lei vita rifiuta.
     

Altro concetto, altra natura, altro uomo, altra forma, altro stile. Non è piú l’Iliade: è l’Odissea, è un nuovo poema. Paragonare Inferno e Purgatorio, e maravigliarsi che qui non sieno le bellezze ammirate colá, gli è come maravigliarsi che il purgatorio sia purgatorio e non inferno. O se pur vogliamo maravigliarci di qualche cosa, maravigliamoci che il poeta abbia potuto cosí compiutamente dimenticare l’antico se stesso, le sue abitudini di concepire, di disporre, di colorire, e, seppellito in questo nuovo mondo, ricrearsi l’ingegno e la fantasia a quella immagine, e con tanta spontaneitá che pare non se ne accorga: obblio dell’anima nella cosa, il secreto della vita, dell’amore e del genio.

L’inferno è il regno della carne, che scende con costante regresso sino a Lucifero. Il purgatorio è il regno dello spirito, che sale di grado in grado sino al paradiso. È lá che si sviluppa il mistero, la commedia dell’anima, la quale dall’estremo del male [p. 203 modifica]si riscote e si sente e, mediante l’espiazione e il dolore, si purifica e si salva. Onde con senso profondo il purgatorio esce dall’ultima bolgia infernale; e Lucifero, principe delle tenebre, è quello stesso per le spalle del quale Dante salendo esce a riveder le stelle.

Ci è un avanti-purgatorio, dove la carne fa la sua ultima apparizione. Il suo potere non è piú al di dentro: l’anima è giá libera; della carne non resta che la mala abitudine. Gradazione finissima e altamente comica, dalla quale è uscito l’immortale ritratto di Belacqua; caricatura felicissima nella figura, ne’ movimenti, nelle parole, e tanto piú comica quanto piú Belacqua si sforza di rimaner serio, usando un’ironia che si volge contro di lui.

Questo avanti-purgatorio è quasi una transizione tra l’inferno e il purgatorio: il peccato vi è e non v’è; è ancora nell’abitudine, non è piú nell’anima; il demonio ci sta sotto la forma del serpente d’Eva, involto tra l’erbe e i fiori, cacciato via da due angioli dalle vesti e dalle ali di color verde, simbolo della speranza. Comparisce per scomparire, quasi per far testimonianza che se ne va dalla scena per sempre. Innanzi alla porta del purgatorio scompare il diavolo e muore la carne, e con la carne gran parte di poesia se ne va.

L’anima non appartiene piú alla carne, ma l’ha avuta una volta sua padrona e se ne ricorda. La carne non è piú una realtá come nell’inferno, ma una ricordanza. Ne’ sette gironi, rispondenti a’ sette peccati mortali, le anime ricordano le colpe per condannarle, ricordano le virtú per compiacersene.

Quel ricordare le colpe non è se non l’inferno che ricomparisce in purgatorio per esservi giudicato e condannato; quel ricordare le virtú non è se non il paradiso che preluce in purgatorio per esservi desiderato e vagheggiato: l’inferno ci sta in rimembranza; il paradiso ci sta in desiderio. Carne e spirito non sono una realtá: la tirannia della carne è una rimembranza; la libertá dello spirito è un desiderio.

Poiché la realtá non è piú in presenza ma in immaginazione, essa vi sta non come azione rappresentata e drammatica ma [p. 204 modifica]come immagine dello spirito, a quel modo che noi riproduciamo dentro di noi la figura delle cose non presenti e pingiamo al di fuori quello spettro della mente. Questa realtá dipinta vien fuori nelle pareti e nei bassirilievi del purgatorio. Nell’inferno e nel paradiso non sono pitture, perché ivi la realtá è natura vivente: è l’originale, di cui nel purgatorio hai il ritratto. Inferno e paradiso sono in purgatorio, ma in pittura, come il passato e l’avvenire delle anime, non presenti agli occhi ma all’immaginativa. Quelle pitture sono il loro «memento», lo spettacolo di quello che furono, di quello che saranno, che le stimola, mette in attivitá la loro mente, si che ricordano altri esempli e si affinano, si purgano.

Siamo dunque fuori della vita. Le passioni tornano innanzi alle anime, ma non sono piú le loro passioni: sono fuori di esse, contemplate in sé o in altri con l’occhio dell’uomo pentito. Anche le virtú sono estrinseche alle anime, contemplate al di fuori come esempli e ammaestramenti. Le anime sono spettatrici, contemplanti, non attrici. Passioni, buone o cattive, non sono in presenza e in azione, ma sono una visione dello spirito, figurata in intagli e pitture.

Questa concezione, cosí semplice e vera nella sua profonditá, è la pittura e la scoltura, l’arte dello spazio, idealizzata nella parola e fatta poesia. Perché il poeta non dipinge, ma descrive il dipinto. La parola non può riprodurre lo spazio che successivamente, e perciò è inefficace a darti la figura, come fa il pennello e lo scarpello. Né Dante si sforza di dipingere, entrando in una gara assurda col pittore; ma compie e idealizza il dipinto, mostrando non la figura ma la sua espressione e impressione: dinanzi all’immaginazione la figura diviene mobile, acquista sentimento e parola. Le aguglie di Traiano in vista si movono al vento; la vedovella è atteggiata di lagrime e di dolore; nell’attitudine di Maria si legge: «Ecce attcilla Dei»; l’angiolo intagliato in atto soave non sembrava immagine che tace:

                                         giurato si saria ch’ei dicess’ — Ave. —      
[p. 205 modifica]Davide ballando sembra piú e meno che re; e gli sta di contro Micol, che ammirava:
                                         si come donna dispettosa e trista.      

Erano i tempi di Giotto, e parevano maravigliosi quei primi tentativi dell’arte. Quest’alto ideale pittorico di Dante fa presentire i miracoli del pennello italiano. Il poeta avea innanzi all’immaginazione figure animate, parlanti, dipinte da

                                         colui che mai non vide cosa nuova,      
ben piú vivaci che non gliele potevano offrire i suoi contemporanei.

Piú in lá il dipinto sparisce: senza aiuto di senso, per sua sola virtú, lo spirito intuisce il bene e il male, ricorda i buoni e i cattivi esempli, vede da se stesso e in se stesso. La realtá non solo non ha la sua esistenza, come cosa sensata, il sensibile; ma neppure come figurativa, in pittura: diviene una visione diretta dello spirito, che opera giá libero e astratto dal senso. Nasce un’altra forma dell’arte, la visione estatica. L’anima vede farsi dentro di sé una luce improvvisa, nella quale pullulano immagini sopra immagini, come bolle d’acqua che gonfiano e sgonfiano, e l’universo visibile si dilegua innanzi a questa luce interiore, di modo che il «suono di mille tube» non basterebbe a rompere la contemplazione. Dante trova forme nuove ed energiche ad esprimere questo fenomeno. Le immagini «piovono» nell’alta fantasia; la mente è

                                                                                 si ristretta
dentro da sé, che di fuor non venia
cosa che fosse allor da lei ricetta.
     
L’immaginativa ne «ruba» di fuori, si
                                                             ch’uom non s’accorge
perché d’intorno suonin mille tube.
     

L’anima, vòlta in estasi, ficca gli occhi nell’immagine con ardente affetto:

                                         come dicesse a Dio: — D’altro non calme. —      
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Tra queste visioni bellissima è quella del martirio di santo Stefano: un quadro a contrasto, dove tra la folla inferocita, che grida: — Martira, martira, — è la figura del santo, la persona giá aggravata dalla morte e china verso terra, ma gli occhi al cielo preganti pace e perdono: è il soprastare dell’anima nell’abbandono del corpo.

Siamo dunque in piena vita contemplativa. Il processo della santificazione si sviluppa. Nell’inferno, i tumulti e le tempeste della vita reale appassionata dal furore de’ sensi: qui, entriamo in quel mondo di romiti e di santi, in quel mondo de’ misteri e delle estasi, cosí popolare, nel mondo di Girolamo, di Francesco d’Assisi e di Bonaventura, dove la pittura attingea le sue ispirazioni.

Nella visione estatica lo spirito ha giá un primo grado di santificazione: ha conquistato la sua libertá dal senso, ha giá il suo paradiso; ma è un paradiso interiore, immagine e desiderio, e non sará realtá, paradiso reale, se non quando quella luce e quelle immagini, vedute dallo spirito entro di sé, sieno fuori di sé, sieno cose e non immagini. Il purgatorio è il regno delle immagini, uno spettro dell’inferno, un simulacro del paradiso.

Nella visione estatica lo spirito è attivo e conscio; nel sogno è passivo e inscio: è una forma di visione superiore, non solo senza opera del senso, ma senza opera dello spirito; è visione divina, prodotta da Dio. Perciò il sogno,

                                         anzi che ’l fatto sia, sa le novelle;      
e l’anima
                                         alle sue vision quasi è divina.      

Nel sogno si rivela il significato delle visioni e delle apparenze del purgatorio. Che cosa significano quelle pitture e quelle estasi? che cosa è il purgatorio? È il regno dell’intelletto e del vero, dove il senso è spogliato delle sue belle e piacevoli apparenze e mostrato qual è, brutto e puzzolento. L’apparenza è una sirena:

                                              — Io son — cantava, — io son dolce sirena,
che i marinari in mezzo il mar dismago,
tanto son di piacere a sentir piena. —
     
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Ma una donna santa, la Veritá, fende i drappi; e gliela mostra qual femmina balba e scialba, e gli mostra il ventre:

                                    quel mi svegliò col puzzo che n’usciva.      

Vinto il senso e l’apparenza, si presenta a Dante in sogno l’immagine della vita, non quale pare ma qual è: la vera vita a cui sospira e che cerca nel suo pellegrinaggio. E vede la vita nella prima delle due sue forme, la vita attiva, lo affaticarsi nelle buone opere per giungere alla beatitudine della vita contemplativa. La sirena è rozzamente abbozzata: manca a Dante il senso della voluttá; senti nel verso stesso non so che intralciato e stanco. Lia è una delle sue piú fresche creazioni: personaggio tipico cosí perfetto nel suo genere come la Fortuna. La sua felicitá non è ancora beatitudine, come è della suora che vive guardando Dio, il suo miraglio; ma appunto perciò è piú interessante e poetica, piú umana, piú vicina a noi, questa bella fanciulla, che va tutta lieta pel prato e coglie fiori e se ne fa ghirlanda e si mira allo specchio. Tale è la prima immagine che il giovine incontra sovente ne’ suoi sogni!

L’ultima forma sotto la quale si presenta la realtá è la visione simbolica, dove la forma non significa piú se stessa, ma un’altra cosa. Il purgatorio finisce tra’ simboli: è il paradiso che si offre all’anima sotto figura. Cristo è un grifone, e il carro su cui sta è la Chiesa; e Dante ha una serie di strane visioni, che rappresentano simbolicamente la storia della Chiesa.

Cosi la realtá corpulenta e tempestosa dell’inferno si va diradando e sottilizzando, per trasformarsi nella vera realtá, lo spirito o il paradiso. Questo processo di carne a spirito è il purgatorio, dove la forma diviene pittura, estasi, sogno, simbolo. Il simbolo giá non è piú forma, ma puro spirito, lavoro intellettuale. Sotto la figura ci è la nuova e vera realtá, pronta a svilupparsene e comparire essa direttamente.

L’uomo del purgatorio ha i sentimenti conformi a questo stato dell’anima. Il suo carattere è la calma interiore, assai simile alla tranquilla gioia dell’uomo virtuoso, che nella miseria terrena, sulle ali della fede e della speranza, alza lo spirito al [p. 208 modifica]paradiso. Le ombre sono contente nel fuoco, gli affetti hanno dolci e temperati, il desiderio puro d’inquietudine e d’impazienza. Ne nasce un mondo idillico, che ricorda l’etá dell’oro, dove tutto è pace e affetto e dove si manifestano con effusione le pure gioie dell’arte, i dolci sentimenti dell’amicizia. In questo mondo di pitture e scolture Dante si è coronato di artisti: Casella, Sordello, Guido Guinicelli, Buonagiunta da Lucca, Arnaldo Daniello, Oderisi, Stazio; e ne ha cavato episodi commoventi, che fanno vibrare le fibre piú delicate del cuore umano. Ricorderò il suo incontro con Casella, e il ritratto di Sordello, e i cari ragionamenti dell’arte con Guinicelli e Buonagiunta, e rincontro di Stazio e Virgilio. È un lato della vita nuova, pur cosí vero in tempi che la vita intima della famiglia, dell’arte e dell’amicizia era un rifugio e quasi un asilo fra le tempeste della vita pubblica. Come tocca il core l’amicizia di Dantee di Forese, fratello di Corso Donati, il principale nemico di Dante, e quel domandar ch’egli fa di Piccarda! I movimenti improvvisi dell’affetto e della maraviglia sono còlti con tanta felicitá, che rimangono anche oggi vivi nel popolo, come è l’«oh!» lungo e roco delle anime che veggon l’ombra di Dante; o il paragone delle pecorelle; e la calma di Sordello,

                                    a guisa di leon quando si posa,      
mutata subito in un si vivace impeto di affetto; e Stazio che corre incontro a Virgilio per abbracciarlo, obliando di essere un’ombra; e il cerchio dell’anime intorno a Dante,
                                    quasi obbliando d’ire a farsi belle;      
e Casella che se ne spicca e si gitta tra le braccia di Dante:
                                         Oh ombre vane, fuor che nell’aspetto!
tre volte dietro a lei le mani avvinsi,
e tante mi tornai con esse al petto.
     

Questa intimitá, questo tenere nel cuore un cantuccio chiuso al mondo, riservato alla famiglia, agli amici, all’arte, alla natura, quasi tempio domestico, impenetrabile a’ profani, è il mondo [p. 209 modifica]rappresentato nel Purgatorio. Le ricordanze de’ casi anche piú tristi sono pure di amarezza, raddolcite dalle speranze dell’ultimo giorno. Manfredi non ha una ingiuria per i suoi nemici: chiede perdono, ed ha giá perdonato:

                                                                            Io mi rendei
piangendo a Quei che volentier perdona.
     
Buonconte di Montefeltro racconta le circostanze piú strazianti della sua morte con una calma e una serenitá, che diresti indifferenza, se non te ne rivelasse il secreto il sentimento espresso in questi versi:
                                         Qui vi perdei la vista, e la parola
nel nome di Maria finío, e quivi
caddi, e rimase la mia carne sola.
     

Ciascuno ha conservato in quel cantuccio del cuore il suo tempio domestico. Ciascuno vuol essere ricordato ai suoi diletti. Come è caro quel Forese con quel «Nella mia»,

                                    la vedovella mia che tanto amai!      
E Buonconte ricorda la sua Giovanna e gli altri che si sono dimenticati di lui; e Manfredi vuol essere ricordato a Costanza; e Iacopo a’ suoi fanesi, che pregassero per lui: la sola Pia non ha alcun nome nel suo santuario domestico, e non ha che Dante che possa ricordarsi di lei:
                                    Ricordati di me, che son la Pia.      

Questo mondo cosí affettuoso è penetrato di malinconia: sentimento nuovo, che avrá tanta parte nella poesia moderna, e generato qui, nel Purgatorio. Questo sentimento ti prende a udir la Pia, cosí delicata nella solitudine del suo cuore; eppure non era sola, e ricorda la gemma, pegno d’amore. La tenerezza e delicatezza de’ sentimenti dispone l’animo alla malinconia; perché malinconia non è se non dolce dolore, dolore raddolcito da immagini care e tenere. Richiede perciò anime raccolte che vivano in fantasia, sieno «pensose», non distratte dal mondo, [p. 210 modifica]chiuse nella loro intimitá. La malinconia è il frutto piú delicato di questo mondo intimo. Come ti va al core quell’ora che incomincia i tristi lai la rondinella, presso alla mattina, e quella squilla di lontano:

                                    che paia il giorno pianger che si more,      

e quell’ora della sera che i naviganti partono e s’inteneriscono, pensando

                                    lo di c’han detto a’ dolci amici addio.      

Qui Dante gitta via l’astronomia, che rende spesso cosí aride le sue albe e le sue primavere, e rende tutte le dolcezze di una natura malinconica. Tra le scene piú intime, piú penetrate di malinconia, è il suo incontro con Casella. Cominciano espansioni di affetto. Nel primo impeto corrono ad abbracciarsi. Casella dice:

                                                                  Cosi com’io t’amai
nel mortai corpo, cosí t’amo sciolta.
     

Dante risponde: — Casella mio! — E lo prega a voler cantare, come faceva in vita, che col canto gli acquietava l’anima, e ora l’anima sua è cosí affannata. E Casella canta una poesia di Dante; e Dante e Virgilio e le anime fanno cerchio, rapite, dimentiche del purgatorio, sgridate da Catone. Ma se Catone non perdona, perdonano le muse. Quest’oblio del purgatorio, questa musica che ci riconduce alle care memorie della vita, la terra che scende nell’altro mondo e si impossessa delle anime, si che obliano di essere ombre e vogliono abbracciare gli amici e pendono dalla bocca di Casella, questo è poesia. Ci si sente qua dentro la malinconia dell’esilio, l’uomo che, giovine ancora, desiderava, con la sua Bice e i suoi amici e le loro donne, ritrarsi in un’isola e farne il santuario dei suoi affetti e obliarvi il mondo.

E c’è la malinconia propria del purgatorio, quel vedere di lá con mutati occhi le grandezze e gli affetti terreni, quel disabbellirsi della vita, quel cadere di tutte le illusioni: [p. 211 modifica]

                                         Non è il mondan romore altro ch’un fiato
di vento, ch’or vien quinci ed or vien quindi,
e muta nome perché muta lato.
     

Una delle figure piú interessanti è Adriano. All’ultimo della grandezza dice:

                                         Vidi che li non si quetava ’l core,
né piú salir poteasi in quella vita;
per che di questa in me s’accese amore.
     
Questo papa disilluso ha lunga e mala parentela, e sono tutti morti per lui, eccetto la buona Alagia:
                                    E questa sola m’è di lá rimasa.      
Quest’ultimo verso è pregno di malinconia.

Questa calma filosofica, che fa guardare dall’alto del purgatorio la vita e ne scopre il vano e il nulla, restringe il circolo della personalitá e della realtá terrena. Gli individui appariscono e spariscono, appena disegnati; hanno la bellezza, ma anche la monotonia e l’immobilitá della calma. Sono uomini che discutono e conversano in una sala, piú che uomini agitati e appassionati. I grandi individui storici, le grandi creature della fantasia scompariscono.

Piú che negli individui, la vita si manifesta nei gruppi: la vita qui è meno individuo che genere. La comune anima ha la sua espressione nel canto. Nell’inferno non ci son cori, perché non vi è l’unitá dell’amore. L’odio è solitario; l’amore è simpatia e armonia; la musica e il canto conseguono i loro effetti nella misurata varietá delle voci e degl’istrumenti. Qui le anime sono esseri musicali, che escono dalla loro coscienza individuale, assorte in uno stesso spirito di caritá:

                                    Una parola in tutte era ed un modo,
si che parea tra esse ogni concordia.
     
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Le anime compariscono a gruppi e cantano salmi e inni; espressione varia di dolore, di speranza, di preghiera, di letizia, di lodi al Signore. Quando giungono al purgatorio, le odi cantare: «In exitu Isräel de Aegypto». Giungono nella valle, ed ecco intonare il «Salve Regina». La sera odi l’inno: «Te lucis ante terminum Rerum creator poscimus». Entrando nel purgatorio, risuona il «Te Deum». Sono i salmi e gl’inni della Chiesa, cantati secondo le varie occasioni, e di cui il poeta dice le prime parole. Ti par d’essere in chiesa e udir cantare i fedeli. Quei canti latini erano allora nella bocca di tutti, erano cantati da tutti in chiesa; il primo verso bastava a ricordarli. Il poeta ha creduto bastar questo ad accendere ne’ petti l’entusiasmo religioso. E forse bastava allora, quando quei versi suscitavano tante rimembranze e immagini della vita religiosa. La poesia qui non è nella rappresentazione, ma in quei lettori e in quei tempi. Un nome, una parola basta in certi tempi a produrre tutto l’effetto: con quei tempi se ne va la loro poesia, e restano cosa morta. Molte parti del poema dantesco, aride liste di nomi e di fatti, soprattutto le allusioni politiche, allora cosí vive, oggi son morte. E tutta questa lirica del purgatorio è cosa morta. Perché Dante non crea dal suo seno quei sentimenti, ma li trova belli e scritti nei canti latini, e si contenta di dirne le prime parole. Pure, la situazione delle anime purganti è altamente lirica; la loro personalitá non è individuale ma collettiva, e l’espresione di quella comune anima svegliatasi in loro è l’onda canora de’ sentimenti. Qui mancò la vena e la forza al gran poeta, e si rimise a Davide di quello ch’era suo compito. Piú che visioni e simboli e dipinti, la vita del purgatorio era questa effusione lirica di dolore, di speranza, di amore, di quell’incendio interiore che rende le anime affettuose, concordi in uno stesso spirito di caritá. Ha saputo cosí ben dipingerle queste anime ardenti, che s’incontrano, si baciano e vanno innanzi, tirate su verso il cielo!

                                         Li veggio d’ogni parte farsi presta
ciascun’ombra, e baciarsi una con una,
senza ristar, contente a breve festa.
     
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                                         Cosi per entro loro schiera bruna
s’ammusa l’una con l’altra formica,
forse a spiar lor via e lor fortuna.
     

E che poteva e sapeva con pari felicitá esprimere i loro sentimenti, non solo il vago e l’indeterminato, ma anche il proprio e il successivo, ed essere il Davide del suo purgatorio, lo mostra il suo «paternostro», rimaso canto solitario.

Le fuggitive apparizioni degli angeli sono quasi immagine anticipata del paradiso nel luogo della speranza. In essi non è alcuna subbiettivitá: sono forme eteree vestite di luce, fluttuanti come le mistiche visioni dell’estasi, e nondimeno ciascuna con propria apparenza e attitudine:

                                    Tal che parea beato per iscritto...
     Verdi, come fogliette pur mò nate,
erano in veste, che da verdi penne
percosse traean dietro e ventilate...
     Ben discerneva in lor la testa bionda,
ma nelle facce l’occhio si smarria,
come virtú ch’a troppo si confonda...
     A noi venia la creatura bella,
bianco vestita, e nella faccia quale
par tremolando mattutina stella.
     
Molto per la pittura, poco per la poesia. Manca la parola, manca la personalitá. Ci è il corpo dell’angiolo, non ci è l’angiolo. Nelle dolci note, tra quelle forme d’angioli, l’anima s’infutura, «gusta le primizie del piacere eterno». Di che prende qualitá la natura del purgatorio, una montagna, scala al paradiso, in principio faticosa a salire:
                                    E quanto piú va su, e men fa male.
     Però quand’ella ti parrá soave
tanto, che ’l suso andar ti sia leggiero,
com’a seconda in giuso andar con nave,
     allor sarai al fin d’esto sentiero.
     
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Il luogo è rallegrato da luce non propria, ma riflessa dal sole e dalle stelle, che sono il paradiso dantesco. La prima impressionedella luce, uscendo dall’inferno, cava a Dante questa bella immagine:
                                         Dolce color d’oriental zaffiro,
che s’accoglieva nel sereno aspetto
ell’aer puro, infino dal primo giro,
     agli occhi miei ricominciò diletto.
     
La natura è l’accordo musicale e la voce di quel di dentro: qui natura, angeli e anime sono un solo canto, un solo universo lirico. Scena stupenda è nel canto settimo, maravigliosa consonanza tra le ombre sedute, quete, che cantano «Salve Regina», e la vista allegra del seno erboso e fiorito dove stanno:
                                         Non avea pur natura ivi dipinto,
ma di soavitá di mille odori
vi faceva un incognito indistinto.
     «Salve Regina» in sul verde e in su’ fiori
quindi seder, cantando, anime vidi.
     
Le anime piangono e cantano, e il luogo alpestre è lieto di apriche valli e di campi odorati: il quale contrasto ha termine quando l’anima si leva con libera volontá a miglior soglia, tolte le «schiume della coscienza», con pura letizia. Cosi come nell’inferno si scende sino al pozzo ghiacciato della morte, nel purgatorio si sale sino al paradiso terrestre; immagine terrena del paradiso, dove l’anima è monda del peccato o della carne, è rifatta bella e innocente. Tutto è qui che alletti lo sguardo e lusinghi l’immaginazione: riso di cielo, canti di uccelli, vaghezza di fiori, e tremolare di fronde e mormorare di acque, descritto con dolcezza e melodia, ma insieme con tale austera misura che non dá luogo a mollezza ed ebbrezza di sensi, né il diletto turba la calma.

Il purgatorio è il centro di questo mistero e commedia dell’anima; è qua che il nodo si scioglie. Dante, piú che spettatore, è attore. Uscito dall’inferno, appena all’ingresso del purgatorio, l’angiolo incide sulla sua fronte sette «P», che sono i sette peccati mortali, che si purgano ne’ sette gironi. Da un girone all’altro [p. 215 modifica]una «P» scomparisce dalia fronte, finché van via tutte, e puro e rinnovellato giunge al paradiso terrestre. Passa da uno stato nell’altro in sonno, cioè a dire per virtú della grazia, senza sua coscienza. È Lucia, «nemica di ciascun crudele», che lo piglia dormente e sognante e lo conduce in purgatorio. Cosi la storia intima dell’anima, i suoi errori, le passioni, i traviamenti, i pentimenti, sono storia esterna e simbolica: il dramma è strozzato nella sua culla. La crisi del dramma, il punto in cui il nodo si scioglie, è il pentimento, l’anima che si riconosce, e caccia via da sé il peccato, e si pente e si vergogna e ne fa confessione. A questo punto il dramma si fa umano, e ciò che avrebbe potuto far Dante, si vede da quello che ha fatto qui; ma una storia intima, personale, drammatica dell’anima, com’è il Faust, non era possibile in tempi ancora epici, simbolici, mistici e scolastici.

Qui tutt’i personaggi del dramma si trovano a fronte. Di qua Dante, Virgilio, Stazio; di lá Beatrice con gli angeli; in mezzo è il rio che li divide, bipartito in due fiumi: Lete, l’obblio, ed Eunoè, la forza. Nell’uno l’anima si spoglia della scoria del passato; nell’altra attinge virtú di salire alle stelle:

                                         L’alto fato di Dio sarebbe rotto,
se Lete si passasse, e tal vivanda
fosse gustata senza alcuno scotto
     di pentimento, che lagrime spanda.
     
Di lá è Matilde, che tuffa le anime, pagato lo scotto del pentimento, e le passa all’altra riva, rifatte nell’antico stato d’innocenza. E lo specchio dell’anima rinnovellata è Matilde, che danza e sceglie fiori; in sembianza ancora umana, celeste creatura, con l’ingenua gioconditá di fanciulla, conia leggerezza di una silfide, col pudico sguardo di vergine, il viso radiante di luce. Tale era Lia, affacciatasi al poeta in sogno: il presentimento di Matilde, il nunzio del paradiso terrestre.

La scena dove questo mistero’ dell’anima si scioglie ha le sacre e venerabili apparenze di un mistero liturgico: una di quelle sacre rappresentazioni che si facevano durante le processioni. [p. 216 modifica]Vedi una chiesa animata e ambulante in processione: sette candelabri, che a distanza parevano sette alberi d’oro, e dietro gente vestita di bianco che canta «Osanna», e le fiammelle lasciano dietro di sé lunghe liste lucenti, e sotto questo cielo di luce sfila la processione. Ecco a due a due i profeti e i patriarchi dell’antico Testamento: sono ventiquattro seniori coronati di giglio:

                                         Tutti cantavan: — Benedetta tue
nelle figlie di Adamo, e benedette
sieno in eterno le bellezze tue. —
     

Segue la Chiesa, in figura di carro trionfale a due ruote (i due testamenti), tra quattro animali (i quattro vangeli), tirato da un grifone (simbolo di Cristo); a destra, Fede, Speranza e Caritá; a sinistra, Prudenza, Giustizia, Fortezza e Temperanza, vestite di porpora; dietro, due vecchi, san Luca e san Paolo; e dietro a loro, quattro in umile paruta, forse gli scrittori dell’Epistole, e solo e dormente, san Giovanni dall’Apocalisse:

                                    E diretro da tutti un veglio solo
venir dormendo con la faccia arguta.
     

Si ode un tuono. La processione si ferma. Comincia la rappresentazione. Virgilio guarda attonito, non meno che Dante. Il senso di quella processione allegorica gli sfugge. La missione del savio pagano è finita. Hai innanzi la dottrina nuova, la Chiesa di Cristo co’ suoi profeti e patriarchi, co’ suoi evangelisti e apostoli, co’ suoi libri santi.

Fermata la processione, uno canta e gli altri ripetono: «Veni, sponsa, de Libano»; e sul carro si leva moltitudine di angioli che cantano e gittano fiori:

                                         Tutti dicean: — Benedictus qui venis: —
e fior gittando di sopra e dintorno,
manibus o date lilia plenis. —
     

Tra questa nuvola di fiori appare donna sovra candido velo, cinta d’oliva, sotto verde manto, vestita di colore di fiamma: [p. 217 modifica]appare come la Madonna nelle processioni, sotto i fiori che le gittano dalle finestre i fedeli. Dante non la vede, ma la sente: è Beatrice.

Quest’apoteosi di Beatrice, questo primo apparire della sua donna, ancora velata fra tanta gloria, scioglie l’immaginazione dalla rigiditá de’ simboli e de’ riti, e le dá le libere ali dell’arte. Il dramma si fa umano; spuntano le immagini e i sentimenti:

                                         Io vidi giá nel cominciar del giorno
la parte oriental tutta rosata,
e l’altro ciel di bel sereno adorno;
     e la faccia del sol nascere ombrata,
si che, per temperanza di vapori,
l’occhio la sostenea lunga fiata.
     Cosí dentro una nuvola di fiori,
che dalle mani angeliche saliva
e ricadeva giú dentro e di fuori,
     sovra candido vel, cinta d’oliva,
donna m’apparve, sotto verde manto,
vestita di color di fiamma viva.
     

L’apparire di Beatrice è lo sparire di Virgilio. Qui l’astrattezza del simbolo è superata. Ti senti innanzi ad un’anima d’uomo. Quella donna è la sua Beatrice, l’amore della sua prima giovinezza; e Virgilio è il dolcissimo padre che sparisce, quando piú ne aveva bisogno, quando era proprio come un fantolino in paura che si volge alla mamma; e si volge, e non lo vede piú, e lo chiama tre volte per nome nella mente sbigottita. Il mistero liturgico si trasforma in un dramma moderno:

                                         E lo spirito mio, che giá cotanto
tempo era stato ch’alia sua presenza
non era di stupor tremando affranto,
     sanza dagli occhi aver piú conoscenza,
per occulta virtú, che da lei mosse,
d’antico amor senti la gran potenza.
     Tosto che nella vista mi percosse
l’alta virtú, che giá rn’avea trafitto
prima ch’io fuor di puerizia fosse;
     
[p. 218 modifica]
                                         volsimi alla sinistra, col respitto
col quale il fantolin corre alla mamma,
quando ha paura o quando egli è afflitto,
     per dicer a Virgilio: — Men che dramma
di sangue m’è rimaso, che non tremi:
conosco i segni dell’antica fiamma. —
     Ma Virgilio n’avea lasciati scemi
di sé; Virgilio, dolcissimo padre;
Virgilio, a cui per mia salute dièmi.
     

Dal pianto di Dante esce un felicissimo passaggio per introdurre in iscena Beatrice:

                                         Dante, perché Virgilio se ne vada,
non pianger anco, non piangere ancora,
ché pianger ti convien per altra spada.
     

Gli occhi di Dante sono lá verso la donna, che lo chiama per nome:

                                         Guardami ben: ben son, ben son Beatrice.
Come degnasti d’accedere al monte?
non sapei tu che qui l’uomo è felice?
     
E gli occhi cadono nella fontana e, non sostenendo la propria vista, cadono sull’erba:
                                         Gli occhi mi cadder giú nel chiaro fonte;
ma, veggendoini in esso, io trassi all’erba:
tanta vergogna mi gravò la fronte.
     

Qui è la prima volta e sola che un’azione è rappresentata nel suo cammino e nel suo svolgimento, come in un mistero; e Dante vi rivela un ingegno drammatico superiore. I piú intimi e rapidi movimenti dell’animo scappan fuori; i due attori, Dante e Beatrice, vi sono perfettamente disegnati; gli angioli fanno coro e intervengono. La scena è rapida, calda, piena di movimenti e di gradazioni fine e profonde. La vergogna di Dante senza lacrime e sospiri giunge a poco a poco sino al pianto dirotto. Dapprima sta li piú attonito che compunto; ma, quando gli [p. 219 modifica]angioli nel loro canto hanno aria di compatirgli, come se dicessero: — «Donna, perché si lo stempre?» — scoppia il pianto. Quello che non potè il rimprovero, ottiene il compatimento. Gradazione vera e profonda e rappresentata con rara evidenza d’immagine. Instando Beatrice: — «Di’, di’ se questo è vero», — tra confusione e vergogna, esitando e incalzato, gli esce un tale «si» dalla bocca, che si poteva vedere ma non udire:

                                    al quale intender für mestier le viste.      
I sentimenti dell’animo scoppiano con tanta ingenuitá e naturalezza, che rasentano il grottesco. Quando Beatrice dice: — «Alza la barba», — il nostro dottore con linguaggio della scuola riflette:
                                    e quando per la «barba» il «viso» chiese,
ben conobbi ’l velen dell’argomento.
     
II berretto dottorale spunta tutto a un tratto sul capo di Dante fra le lacrime e i sospiri, e dá a questa magnifica storia del cuore un colorito locale.

Queste gradazioni corrispondono alle parole di Beatrice. Qui non ci è dialogo: è lei che parla: le risposte di Dante sono le sue emozioni. Pure non ci è monotonia né declamazione: tutto esce da una situazione vera e finamente analizzata. «Regalmente proterva», la sua severitá è raddolcita poi dal canto degli angioli. Beatrice non parla piú a Dante: parla agli angioli e narra loro la storia di Dante. La situazione diviene meno appassionata, ma piú elevata: mai la poesia non s’era alzata a un linguaggio si nobile; lo spiritualismo cristiano trovava la sua musa:

                                         Quando di carne a spirto era salita,
e bellezza e virtú cresciuta m’era,
fu’ io a lui men cara e inen gradita;
     e volse i passi suoi per via non vera,
immagini di ben seguendo false,
che nulla promission rendono intera.
     
Poi si volta a Dante; e il discorso diviene personale, stringente, implacabile nella sua logica. È una sola idea sotto varie forme, ostinata, insistente, che vuole da Dante una risposta. — Sei uomo, hai la barba: come potesti preferire a me le cose fallaci della terra,
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                                                                            o pargoletta
od altra vanitá con si brev’uso? —
     
E quando Dante potè formare la voce, viene la risposta:
                                                                       Le presenti cose
col falso lor piacer volser miei passi,
tosto che ’l vostro viso si nascose.
     

Come si vede, è l’antica lotta tra il senso e la ragione, che qui ha il suo termine; è la vita tragica dell’anima fra gli errori e le battaglie del senso, che qui si scioglie in commedia, cioè in lieto fine, con la vittoria dello spirito. L’idea è piú che trasparente: è manifestata direttamente nel suo linguaggio teologico. Ma l’idea è calata nella realtá della vita e produce una vera scena drammatica, con tale fusione di terreno e di celeste, di passione e di ragione, di concreto e di astratto, che vi trovi la stoffa da cui dovea sorgere piú tardi il dramma spagnuolo.

Dante, pentito, tuffato nel fiume Lete, è menato a Beatrice dalle virtú, sue ancelle:

                                         Noi sem qui ninfe, e nel ciel semo stelle.
Pria che Beatrice discendesse al mondo,
fummo ordinate a lei per sue ancelle.
     Menrenti agli occhi suoi...
     
E Beatrice gli svela la sua faccia. Non è poesia che possa rendere quello che Dante vede, quello che sente:
                                         O isplendor di viva luce eterna,
chi pallido si fece sotto l’ombra
si di Parnasso, o bevve in sua cisterna,
     che non paresse aver la mente ingombra,
tentando a render te, qual tu paresti
lá, dove armonizzando il ciel ti adombra,
     quando nell’aere aperto ti solvesti?
     

Compiuta la rappresentazione, ricomincia la processione sino all’albero della vita; dove, antitesi a questa Chiesa gloriosa di [p. 221 modifica]Cristo, apparisce in visione allegorica la Chiesa terrena, trafitta dall’impero, travagliata dall’eresia, corrotta dal dono di Costantino, smembrata da Maometto, e in ultimo meretrice fra le braccia del re di Francia. Concetto stupendo, questo apparire della vita terrena nell’ultimo del purgatorio, germogliata dall’albero infausto del peccato di Adamo. Il terreno apparisce quando ci si dilegua per sempre dinanzi, non solo in realtá ma in ricordanza. Siamo giá alla soglia del paradiso.

Cosi finisce questa processione dantesca, una delle concezioni piú grandiose del poema, anzi in se sola tutto un poema, dove ci vediamo sfilare davanti tutt’i grandi personaggi della Chiesa celeste; immagine anticipata del regno di Dio, un’apoteosi del cristianesimo, entro di cui si rappresenta il piú alto mistero liturgico, la commedia dell’anima.

Questa processione dovè far molta impressione in quei tempi delle processioni, de’ misteri e delle allegorie, quando gli angeli, le virtú e i vizi, e Cristo e Dio stesso entravano in iscena. Ma è appunto questo carattere liturgico e simbolico che qui scema in gran parte la bellezza della poesia. Questo difetto nuoce soprattutto nella rappresentazione della Chiesa terrena, dove l’aquila, la volpe e il drago e il gigante e la meretrice rimpiccoliscono un concetto cosí magnifico, una storia cosí interessante.

Lo stesso contrasto si affaccia a Dante quando il mantovano Sordello, sentendo Virgilio esser di Mantova, esce dalla sua calma di leone:

                                                             — O mantovano, io son Sordello
della tua terra. — E l’un l’altro abbracciava.
     
E Dante pensa alla sua Firenze, dove
                                                             l’un l’altro si rode
di quei ch’un muro ed una fossa serra.
     
Qui non è impigliato nelle allegorie. Scoppia il contrasto, impetuoso,

eloquente; e n’esce una poesia tutta cose, dove si riflettono i piú diversi movimenti dell’animo, il dolore, lo sdegno, la pietá, l’ironia, una calma tristezza.