Storia della rivoluzione di Roma (vol. II)/Capitolo VIII

Da Wikisource.
Capitolo VIII

../Capitolo VII ../Capitolo IX IncludiIntestazione 9 giugno 2020 75% Da definire

Capitolo VII Capitolo IX

[p. 160 modifica]


CAPITOLO VIII.

[Anno 1848]


Sul discioglimento dei Gesuiti nella Francia, e quindi sul loro discacciamento prima dalla Svizzera e poi dall’Italia in febbraio e marzo 1848. — Riflessioni suscitate dai modi indegni e violenti coi quali vennero discacciati.1


Non è da noi il parlare adeguatamente di questo celebre sodalizio religioso il quale da Ignazio di Loyola venne fino dal 1540 istituito.

Non entrerà quindi nel nostro proposito di tesserne le lodi o di profonderne il biasimo in queste pagine, poichè tanto fu scritto dagli uni in pro e dagli altri contro, che volerne parlare con perfetta cognizione di causa importerebbe di sottoporre ad un lungo e severo esame tutte le opere che ne hanno trattato. Ma a far ciò non abbiamo nè tempo, nè volontà. Ci limiteremo pertanto a narrare storicamente e per sommi capi tutto quello che al discacciamento dei Gesuiti nel 1848 si riferisce.

Una sola osservazione dobbiam premettere, ed è che per gli esempi somministratici dalla storia venne chiarito che sia che la rivoluzione odiasse i Gesuiti, o che i Gesuiti non vedesser di buon occhio la rivoluzione, eran questi due elementi tali da non potere star insieme, e quindi ove entrava l’uno escir doveva l’altro.

In comprova del nostro asserto riportiamo l’annotazione di un avvocato napoletano ad un opuscolo, di cui a piè di pagina diamo il titolo.

[p. 161 modifica]«Ogni abolizione di Gesuiti, qualunque ne sia stata la cagione, forma pei futuri nelle pagine della storia una prova monumentale di questa asserzione: poiché ormai non vi ha quasi abolizione di Gesuiti non seguita dal fatto fatale di un qualche rovescio politico. Egli è vero che il raziocinio post hoc, ergo propter hoc, giusta i dialettici, non vale a conchiudere causalità, ma è pur vero presso i medesimi che la costante sequela di un effetto dietro un fatto, dà il giusto diritto di conchiudere almeno una veemente influenza dello stesso sull’effetto.» 2

E difatti quando si maturava in Europa lo sviluppo dei principi del 1789, la prima cosa cui si volse l’attenzione fu il discacciamento dei Gesuiti; e tanto fecer le associazioni occulte (che noi astenendoci da ogni epiteto odioso chiamerem progressiste), tanto si disse e si scrisse a carico dei Gesuiti, che i sovrani stessi e i lor ministri ne furono allarmati, e gridaron loro la croce addosso, e i Gesuiti vennero quasi dappertutto sbandeggiati e depressi. 3

Giunto il famoso anno 1789, venne incontanente la rivoluzione a farci la sua visita, e signoreggiò per vari anni la Francia, e quindi la Francia e l’Italia insieme, e potè farlo impunemente, perchè non attraversata dal gesuitico ingombro.

Accaduta però la restaurazione del 1815, furono i Gesuiti a poco a poco, quasi dappertutto, riammessi e reintegrati in quegli esercizi che formavan la base e lo scopo della loro istituzione.

Dopo aver goduto però per vari anni la pace, e preparandosi in Francia la ripetizione di quella che Luigi Blanc chiamò la commedia dei 15 anni, cioè avvicinandosi la [p. 162 modifica]rivoluzione europea che nel 1848 ebbe il suo massimo sviluppo, i Gesuiti incominciaron gradatamente a non esser veduti di buon occhio, e quindi gli umori addensandosi si convertirono in fiera tempesta. Ed a tal punto si venne suscitando l’odio contro i Gesuiti, che in Parigi, nel collegio di Francia, i professori Michelet e Quinet davan delle pubbliche lezioni ove il nome, lo spirito, e le gesta della compagnia di Gesù eran gittati poco men che nel fango, in guisa che lo stesso arcivescovo di Parigi pubblicò alcune osservazioni in sua difesa.4

In seguito di che il re Luigi Filippo, interprete (non volendolo credere fomentatore) dell’opinione ostile al loyolano sodalizio, aperse pratiche colla corte di Roma, e, mediatore adattissimo il celebre conte Pellegrino Rossi, ne ottenne nel 1845 lo scioglimento in Francia. Non si creda peraltro che ne fosse auspice il papa Gregorio XVI, giacché esso non volle pronunziare la sua sentenza, ma sì bene lo stesso generale dell’ordine gesuitico, il padre Roothan, il quale ad evitare ogni inconveniente, consigliò il pacifico e parziale diradamento dei religiosi nelle varie case ove trovavansi riuniti.

Ottenuto appena questo desiderato trionfo, fu sollecito il ministro Rossi d’informarne subito il suo governo, ed il Monitore del 6 Luglio 1845 annunziò il fatto nei termini seguenti:

«Il governo del Re ha ricevuto notizie da Roma. La negoziazione di cui aveva incaricato il signor Rossi, ha raggiunto il suo scopo. La congregazione de’ Gesuiti cesserà di esistere in Francia, e si va a disperdere da se stessa. Le sue case saranno chiuse, ed i suoi noviziati disciolti.»5

[p. 163 modifica] Di tal guisa le cose passaronsi tranquillamente, e senza violenza. Rimasero in Francia quei che vollero restarvi, ma privatamente e non come corpo religioso.

Intanto le opere dell’abate Gioberti venivano in luce. Lodati i Gesuiti nel suo Primato morale e civile, venivano accusati, biasimati e vituperati acerbamente nei Prolegomeni; e siccome il Gioberti faceva testo di lingua in politica, parlare allora dei Gesuiti e della peste, era quasi la stessa cosa. Il Tommaséo, che nel suo dizionario dei sinonimi all’articolo peste non trovò per sinonimo che lue, sarebbe stato grandemente applaudito se secondo il pensar di que’ tempi, vi avesse aggiunto il vocabolo Gesuitismo.

Ed affinchè le nostre parole non sembrino esagerate, diremo come fra le tante pubblicazioni anti-gesuitiche dell’anno 1848 che corsero l’Italia, una ve ne fu che portava in incisione un Gesuita coll’abito dell’ordine, tenendo un Crocifisso ed un calice nella man sinistra, un pugnale nella destra. Vi si vedeva l’Europa sotto i piedi del Gesuita con sopravi corone reali, tiara pontificale e faci e serpenti e pugnali. Sotto alla vignetta leggevasi:

Anni memorabili dei Gesuiti

Nel 1540 Nel 1774 Nel 1848
istituiti condannati distrutti6

A noi poco interessa d’investigare se con quanto è detto di sopra si fossero accomodate o guastate le cose dei Gesuiti in Francia. Passiamo quindi alla Isvizzera; e siccome il loro discacciamento preluder doveva allo scoppio della rivoluzione europea, che appunto in Svizzera venivasi tramando, così vogliamo far precedere, prima di parlare dell’Italia, la narrazion dei fatti che al loro discacciamento dalla repubblica svizzera si riferiscono.

[p. 164 modifica]Era divenuta la Svizzera da vari anni, e massime fin dal 1831 in qua, il rifugio di tutt’i compromessi nelle passate rivoluzioni, come bene esperimento anch’egli lo stesso Pellegrino Rossi, di cui testè abbiam parlato. In Isvizzera Mazzini il 13 aprile 1834 gittò le basi della Giovine Europa. Le dottrine le più sovvertitrici sia in politica come in religione, ed il radicalismo più pronunziato non solo vi erano in voga, ma vi avevan gittato profonde radici.

L’atto solenne di fratellanza e di federazione fra i capi della Giovane Italia, della Giovane Alemagna, e della Giovane Polonia viene riportato dal Crétineau-Joly.7 Nel 1834 inoltre Mazzini impiantò la Giovine Svizzera e si ordinarono comitati nel Bernese, nei cantoni di Ginevra e di Vaud, nel Vallese, nel cantone di Neuchatel, e altrove.8

In seguito di ciò la città di Lucerna, volendo, rimediare ai disastri morali del radicalismo, decise in maggiorità, e facendo uso del suo diritto incontestabile, di chiamare alla direzione del suo seminario i seguaci del Loyola.9 E il papa Gregorio XYI ordinò loro di assumere la direzione della istruzione della gioventù clericale.

I radicali armaronsi per impedire lo installamento dei Gesuiti, ma armaransi ancora i loro amici; e nell’anno 1845 nacque un conflitto nel quale i radicali ebber la peggio.10

Proseguiron dopo questo scontro le mene pubbliche e segrete, e la Svizzera, sotto la moltiplice influenza delle consorterie politiche che l’irretivano in tutti i sensi, rimase costantemente in uno stato di agitazione, finché un capo famoso del radicalismo Giacomo Fazy, già stato compilatore dell’Europa centrale e quindi della Rivista di Ginevra, si decise a piegarsi secondo le viste del famoso Ochsenbein, capo dell’agitazione radicale, non che delle società segrete che lo sostenevano.

[p. 165 modifica]Erasi formata intanto come baluardo contro la invasione del radicalismo una lega fra i sette cantoni cattolici, che nel germanico idioma chiamossi la lega del Sonderbund.

I sette cantoni che la componevano erano i seguenti:

1.° di Lucerna
2.° di Uri
3.° di Schwytz
4.° di Unterwald
5.° di Zug
6.° di Friburgo
7.° del Vallese.11

Il 3 ottobre 1846 fu risoluto dal Gran Consiglio di Ginevra che la lega cattolica denominata del Sonderbund era contraria al patto federale, e se ne richiese lo scioglimento.12 Allora il grido di morte ai Gesuiti corse per le bocche di tutti i protestanti, e le calunnie più assurde ed infamanti contro di essi propalaronsi.

I protestatiti stessi però divisi fra loro in conservatori e radicali erano in continua lotta. Ed intanto la Svizzera coprivasi di corpi franchi pronti di venire alle mani sotto gli ordini dei loro direttori. Friburgo e Lucerna fortificavansi; ed in tutti i sette cantoni organizzavasi la riserva (la Landwehr), e parlavasi ancora di leva in massa.13

II 26 febbraio 1847 il cantone direttore Berna, chiamato il Vorort, finge di stupire per questi preparamenti, e intanto si raddoppiano le vessazioni contro i cattolici. Si escludon questi dalle funzioni pubbliche perchè sospetti di simpatizzare pei Gesuiti; e tutti coloro ch’erano stati educati nei collegi cattolici si dichiarano inabili agl’impieghi. In quella città stampavasi e divulgavasi un ordine del giorno così concepito: Incatenare gli oltramontani colle lor [p. 166 modifica]corone (chapelets), impiccare i paesani coi loro scapolari e sgozzare gli uomini dalla calotta a piè degli altari.14

Con simili mezzi speravasi di disarmare il Sonderbund, il quale invece mostravasi impassibile alle minaccie de’ suoi nemici. Per tal modo la Svizzera era divenuta il teatro ed il centro delle macchinazioni per isconvolgere tutti gli stati europei. Lo stesso Mazzini da Londra v’inviava i suoi ordini, e sembrò perfino voler fare di Bellinzona la sede della futura repubblica, non già repubblica svizzera o italiana, ma sì bene universale. Si disse perfino che fossero iniziate delle pratiche per richiamare i reggimenti al servizio della corona di Napoli e della Santa Sede.15

Il 28 maggio 1847 il famoso Ochsenbein fu proclamato presidente del Vorort.16 Lo stesso giorno il Gran Consiglio votò alla quasi unanimità la distruzione del patto federale e la dissoluzione del Sonderbund.17

Con questo atto l’Europa ricevette una sfida. Le potenze entrarono in negoziati con Ochsenbein capo dei corpi franchi.

Le potenze straniere che già in qualche parte avean lasciato lacerare i trattati del 1815, ed avevano permesso che si organizzassero in Isvizzera gli elementi di una conflagrazione europea, vedevano impassibli colare dalle sue montagne come fiumi di lava le teorie sovversive ch’eransi escogitate nell’ombra per la loro distruzione.

Furonvi però delle note colle quali dichiaravasi non potersi soffrire l’annientamento del patto del 1815 e della sovranità, cantonale; Francia ed Austria massimamente minacciate alle lor frontiere, tenevansi in armi e [p. 167 modifica]rassicuravano il Sonderbund. Il Nestore coronato della rivoluzione Luigi Filippo, era in quel tempo all’apogèo della sua potenza; e lo essere scampato le tante volte al pugnale dei rivoluzionari, avevagli impresso il marchio di una provvidenziale invulnerabilità, la quale conciliava rispetto alla sua persona.

Egli divisò pertanto, assistito dal suo ministro Guizot, di occuparsi seriamente della questione svizzera, ponendo se fosse possibile un termine ad uno stato di cose che minacciava la quiete dell’Europa intiera, e quindi inviò per prima cosa in Isvizzera il signor Bois le Comte.18 La Inghilterra sola sembrò non voler secondare i desideri di Luigi Filippo, ed i cantoni cattolici si mostrarono contrari all’intervento straniero.

Disgraziatamente la questione del Sonderbund ch’era tutta politica, non si vedeva che a traverso il prisma dei Gesuiti, e pareva alle celebrità politiche che prender parte pel Sonderbund fosse la stessa cosa che prender parte pei Gesuiti. Da qui la loro freddezza di assumere risolutamente la difesa del Sonderbund, ch’era la difesa dell’ordine, della giustizia, della libertà, della indipendenza e dei trattati solenni. In somma perchè vi erano i Gesuiti di mezzo, parve che tutti si vergognassero di occuparsene.

Mentre però la Francia cercava di opporre un qualche riparo al radicalismo svizzero che tutto minacciava di sconvolgere, i rancori di lord Palmerston pei matrimoni spagnuoli manifestavansi ovunque, e trattavasi di attraversare le viste di Luigi Filippo. A tal effetto spedì il signor Peel al capo del Vorort signor Ochsenbein, porgitore di parole confortatrici e benevole. Bastò questo perchè si riaccendessero maggiormente le speranze dei radicali, e queste speranze si accrebbero ancora quando lord Minto, come [p. 168 modifica]inviato officioso del primo ministro inglese, fece in Isvizzera la sua apparizione.

Allora sì che tutti gli uomini di retto sentire videro e con dolore che il Sonderbund il quale solo garantiva gli avanzi della indipendenza elvetica, sarebbe stato sacrificato in olocausto ai nemici della fede cattolica. Eppure, secondo il Journal des débats che al certo non era tenero pei Gesuiti, i membri che lo componevano erano tutto ciò che la Svizzera racchiudeva di spiriti moderati, liberali, tolleranti, in una parola conservatori.

Nell’ottobre del 1847 una memoria dei cattolici svizzeri fu rimessa al Santo Padre, ove si diceva: «Allora per eccitare sempre più queste masse di uomini perduti, protestanti o radicali, a proseguir l’opera d’iniquità e di oppressione, s’immaginò di gettar loro come pasto il nome dei Gesuiti, nome abborrito realmente da tutt’i nemici della Chiesa; si gridò subito e da per tutto che mai non vi sarebbe pace con i Gesuiti; che essi erano il flagello e la rovina del protestantesimo; che la loro chiamata a Lucerna aveva già costato alla Svizzera due guerre fratricide; che non si cessava, da vari anni, di interpellare ed incolpare i cantoni cattolici i quali ostinavansi a conservare questo elemento di perpetua discordia per tutta la Confederazione.

» Tuttavia, aggiungevasi, anche in mezzo allo scatenamento di tutti questi odi e di tutte queste collere, giammai non si è potuto proporre contro i Gesuiti alcuna plausibile accusa, nè pur l’ombra di un fatto colpevole o imprudente. Da una parte essi erano odiati ed attaccati da tutt’i cantoni dove non risiedevano, dall’altra erano venerati e difesi da tutt’i cantoni dove trovavansi.»

Si conchiudeva con le seguenti parole: «Tutti noi, è vero, detestiamo con tutta la nostr’anima la guerra cui la necessità ci trascina. Ma poiché abbiamo a fare con nemici con i quali la pace è impossibile, se non a spese [p. 169 modifica]della nostra coscienza e della nostra libertà, noi, seguendo l’esempio de’ padri nostri, siamo risoluti di morire piuttosto che essere schiavi dell’empietà.»19

Si richiese l’approvazione del papa su questa determinazione, ma egli, coerente sempre alla sua missione pacifica, non volendo, incoraggiarli ad una resistenza che portato avrebbe lo spargimento del sangue fraterno, rispose in vece nel modo seguente:

«La Santa Sede in tutta questa questione ha deciso che resterebbe passiva.»20

La vera causa del dissidio che travagliava la Svizzera dal 1831 al 1847 era soltanto la revisione del patto federale. Il 16 agosto del detto anno venne dato il colpo fatale, ed i dodici cantoni per la lega di Berna votarono la distruzione del patto federale, secondo le idee dell’unitarismo repubblicano di Mazzini21

Dichiarò però il Sonderbund, con risoluzione del 25 agosto, di non voler consentire ad una simile risoluzione.

Lord Palmerston intanto, tutte le volte che se gli parlava della sovranità cantonale, della indipendenza e della libertà elvetica compromessa, rispondeva sempre che l’affare interessante era l’espulsione dei Gesuiti.

Fu consultato il rappresentante inglese in Berlino signor Howard da lord Palmerston, ed egli rispondeva il 6 settembre, che il barone di Canitz, interpellato, sosteneva che il Sonderbund essendo una lega difensiva, non importava di conseguenza infrazione all’articolo sesto del patto federale; e che quanto ai Gesuiti, eglino non eran che un pretesto, in guisa che, ove fossero stati allontanati, si sarebbe trovato subito qualche altro motivo di discussione. »22

[p. 170 modifica]Gli spiriti però, lungi dal calmarsi, si esacerbavan sempre più; difatti scriveva il signor Peel a lord Palmerston il 23 settembre 1847, che la guerra era inevitabile a meno che il papa con una bolla non avesse ordinato ai Gesuiti di abbandonar la Svizzera. Esso raccomandava perciò la immediata partenza di lord Minto per Roma.

Il dottor Goindet svizzero di origine, ed uomo per ogni conto ragguardevole, professore di diritto e successore di Pellegrino Rossi nella cattedra di diritto romano in Ginevra, diceva che non vi era alcuno in Isvizzera che non ridesse sul naso a chi parlasse dei Gesuiti.23 E non lo diceva soltanto ai suoi amici in Isvizzera, pubblicandolo ben anco per le stampe, ma lo diceva in Roma a me che scrivo, quando nell’anno 1857 ebbi l’onore di conoscerlo personalmente.

Ma oltre al signor Goindet, altri Svizzeri di gran conto e per posizione sociale e per cultura d’ingegno che conoscemmo in Roma nel marzo del 1857, ci confermaron le stesse cose. A questi è da aggiungere un ginevrino rispettabilissimo il signor Odier de Cazeneuve, membro del Consiglio municipale di Ginevra, il quale ci raccontava che mentre tramavasi in Isvizzera il discacciamento dei Gesuiti e la distruzione del papato, esso stesso, quantunque protestante, diceva francamente che la guerra che facevasi al catolicismo ed a Roma, era una crociata contro la civiltà.

Narriamo tutte queste cose àa dilucidazione dello spirito che animava la persecuzione contro i Gesuiti, spirito che era essenzialmente anti-cattolico; e non possiamo quindi non deplorare questi fatti tristissimi, cui il solo governo inglese dette un valido appoggio.

La dieta intanto veniva prorogata al 18 di ottobre.

Ochsenbein informato di tutto ciò che macchinavasi dalle [p. 171 modifica]associazioni segrete, profetizzava che l’Europa era alla vigilia di grandi avvenimenti. .

Lo stesso giornale il Times, in sullo scorcio del mese di ottobre 1847, conveniva nelle due cose seguenti:

1° Che i Gesuiti erano un pretesto.

2° Che colla distruzione del Sonderbund si esercitava la più tirannica usurpazione della indipendenza dei piccoli cantoni.24

I Gesuiti, intanto che in numero di sette e non più erano stati chiamati a Lucerna, non ritiravansi perchè avevan pattuito coi Lucernesi di dirigere la educazione della gioventù clericale. La loro coscienza dunque,i loro doveri, e l’impegno solenne che avevano assunto ve li ritenevano. I cantoni cattolici poi ve li volevano ad ogni costo, perchè finalmente sentivano di esser padroni in casa loro.

Se col loro ritiro si fosse potuto allontanar la tempesta, sarebbonsi ritirati all’istante; ma i cantoni cattolici, cui era grave la nota di viltà, vi si opponevano trattenendoli. E ne avevano ben ragione, perchè tre dei sette cantoni cioè quelli di Unterwalden, Schwitz, e Uri erano precisamente quelli che avevan fondato la libertà elvetica.

La dieta che dicemmo essere stata prorogata al 18 di ottobre, si riunì in quel giorno, ed emise ciò che chiamasi un ordine del giorno per discutere le misure coercitive da doversi adottare contro il Sonderbund.25

II 30 di quel mese l’ambasciatore di Francia Bois Le Comte, parlando del Sonderbund, pronunziava queste parole:

«Se noi lasciamo schiacciare questa brava gente la colpa ne sarà stata in gran parte della condotta tenuta qui dall’Inghilterra.»26

[p. 172 modifica]In questi frangenti i dodici cantoni protestanti armaronsi contro il Sonderbund, e ponevano cento e diciotto mila uomini sul piede di guerra.27

E tutto questo apparato di forza non avea già per iscopo principale, come si facea credere, il discacciamento dei Gesuiti, chè sarebbe stata cosa ridicola e da non credersi, che per isbandeggiare pochi individui inermi si fosse dovuto porre in piedi un esercito, ma sì bene l’opprimere e schiacciare nella propria cuna l’elvetiche libertà.

I Gesuiti poi che risiedevan nelle provincie della Svizzera eran cento cinquantadue, dei quali centodue appartenevano al Sonderbund, e gli altri eran nati nei cantoni che non facevano parte di quell’associazione. Essendo però Svizzeri come gli altri, aveano il diritto di restarvi. Nè potevan così di leggieri rassegnarsi a partire dalla casa propria. Essi che per predicare in terre straniere il vangelo, e diffondervi la civiltà, affrontavan perfino il martirio.

Resa pertanto inutile qualunque pratica di conciliazione, venne dai confederati assediata Friburgo il 14 novembre. Non potendo resistere capitolò; e sciolto il Sonderbund, venne occupata la città, e impiantatovi un governo provvisorio. La casa di pensione dei Gesuiti venne messa a sacco quattro giorni dopo, ed i medesimi a perpetuità banditi insieme coi Redentoristi, coi Marianiti, coi Fratelli della dottrina cristiana, e con le Suore di san Giuseppe, di san Vincenzo de’ Paoli e del sacro Cuore.28 Le spese della guerra in sei milioni di lire svizzere furono addossate al Sonderbund, il quale prima della fine del dicembre dovette pagare il primo milione.29

Le soldatesche vittoriose pare che non sapessero contenersi non solo, ma che per tre giorni consecutivi [p. 173 modifica]facessero uno scempio crudele del cantone ov’era Friburgo; e la devastazione, il sacrilegio e la morte vi signoreggiarono liberamente a tal segno, che lo stesso generale Dufour scriveva al colonnello Rilliet il 18 novembre: «Divido la vostra indignazione pei disordini senza esempio, che sono stati commessi in Friburgo malgrado delle nostre premurose raccomandazioni.»30

Espugnata Friburgo, si volle portar la guerra contro il Sonderbund. L’armata contava novantaquattro mila uomini senza la riserva, ed era sussidiata da duecento cannoni di grosso calibro. L’armata del Sonderbund non contava che un terzo dell’armata avversaria. Ma il Morin dice che giungeva alla metà.31

Il generale Dufour però esortava a dar l’ultimo colpo, ed il ministro britannico n’era inquieto: quando ecco che un nuovo dispaccio dal gabinetto di S. James raccomandava di finirla ad ogni costo col Sonderbund. E il cappellano dell’ambasciata inglese era incaricato di notificarlo al generale Dufour. Lo scopo del gabinetto britannico era di prevenire lo scioglimento del dramma prima che la interposizione dell’Austria, della Francia e della Prussia potessero impedirlo.32

Chi desiderasse di conoscere i meriti, il valore e l’importanza che si dette in Isvizzera al generale Dufour che venne scelto per capitanare la guerra contro il Sonderbund, non avrà che a leggere la relazione che ne fece il colonnello Ellger capo di stato maggiore nell’armata dello stesso Sonderbund.33

A questi preparamenti, anche il governo del cantone di Zug capitolò. Dopo vari piccoli scontri il 24 novembre capitolò Lucerna, e venne occupata dai radicali. Il governo [p. 174 modifica]provvisorio emise un ordine del giorno per la cacciata dei Gesuiti e degli altri ordini religiosi dal cantone, ed il Sonderbund venne disciolto definitivamente.34

Gioirono immensamente per un avvenimento siffatto tutti i nemici dei Gesuiti. Intanto, giunto che fu in Berna il diplomatico inglese sir Strafford Canning, fu talmente colpito dalla gravità del caso, e delle conseguenze ch’erano a temersene, che il giorno 15 dicembre indirizzò alla dieta una nota talmente savia e temperata, che ove fosse stata emanata da un ecclesiastico, l’avremmo chiamata un omilia pastorale; ma essendo stata fatta da un laico protestante, la chiameremo una omilia filantropica o umanitaria.

E mentre un linguaggio sì temperato ed onesto tenevasi da un laico protestante, il prete cattolico Gioberti nella sua animosità (confinante colla gesuitofobia) scriveva invece a Zurigo parole di rallegramento per la sconfìtta del Sonderbund e pel discacciamento dei Gesuiti, consigliando perfino una inchiesta giuridica a carico loro, pei loro delitti palesi ed occulti.35 Agli uomini imparziali pertanto non potè non saltare agli occhi che mentre il Coindet svizzero, il diplomatico inglese sir Strafford Canning, ed il prussiano barone Kanitz prendessero in certo modo le difese dei Gesuiti, fosse riserbato ad un prete cattolico di scrivere sfacciatamente contro di loro.

Analogamente ai desideri dell’accusatore Gioberti si visitarono difatti le loro case, si ricercarono i milioni che si diceva tenessero ammassati in Lucerna, e si rovistaron perfino le camere destinate all’esercizio della magia ed ai preparamenti dei lor sortilegi. Non vi si rinvennero però, con istupore universale de’ lor nemici, che le macchine costituenti il loro gabinetto di fisica.

[p. 175 modifica]Stranezza e inconseguenza dei tempi che correvano! I Gesuiti educavan la gioventù, ne ingentilivan lo spirito, e ne arrìcchivan di utili cognizioni la mente; e pure a tanto giungeva l’animosità invereconda e maligna che perfino quegli strumenti che a raggiungere sì utile scopo eransi procurati, si apponevan loro a delitto!

Allora ossia il 30 novembre 1847, le cinque potenze, Francia, Inghilterra, Austria, Prussia e Russia, come parti contraenti del trattato di Vienna dell’anno 1815, inviarono alla dieta per mezzo dell’ambasciatore francese una nota collettiva, colla quale offerivano la loro mediazione nello scopo soltanto di evitare un conflitto.

A questa nota, che giunse troppo tardi, perchè il sacrificio del Sonderbund era già consumato, dava la sua adesione lo stesso lord Palmerston.

Rispose la dieta con altra nota il giorno 7 dicembre; e finalmente il 18 gennaio 1848 una nota collettiva dei ministri di Austria, di Russia e di Prussia fu indirizzata da Neuchatel per mezzo del rappresentante della Francia signor Bois le Comte, alla dieta di Berna.36 La Inghilterra sola o non vi prese parte o non fu chiamata a parteciparvi.

In questa nota si deplorava la guerra civile fra dodici e due mezzi cantoni sovrani, e sette cantoni egualmente sovrani, si diceva che una tal guerra aveva attaccato la libertà cantonale, ossia la base fondamentale della confederazione elvetica, e si dichiarava apertamente doversi rimettere le cose in pristinum onde la sovranità e la indipendenza dei cantoni, a termini del patto federale, fossero sinceramente ed effettivamente rispettate in Isvizzera, come quelle della Svizzera stessa in Europa.

Durante queste trattative, alle quali la Inghilterra non prese parte veruna, accadde il 24 febbraio 1848 la rivoluzione di Parigi che cacciò Luigi Filippo e con esso la [p. 176 modifica]monarchia dalla Francia, e così ebbe termine l’intervento pacifico delle quattro potenze per assestar le cose della Svizzera.

Abiamo discorso finora della persecuzione contro i Gesuiti in Francia e in Isvizzera. Ci resta ora a parlare dell’Italia, ove l’accanimento di pochi ma prepotenti*, valse a discacciarli con modi sì aspri e brutali, che troppo male si accordavano colla vantata civiltà e tolleranza del secolo XIX.

Ed affinchè ciò che saremo per narrare sia più agevolmente inteso, dobbiam premettere alcune considerazioni, e sottoporle al giudizio di chi ci leggerà.

Riescirà a molti inesplicabile, ne siam certi, come un sodalizio che vanta tanti uomini insigni per pietà e per dottrina, ed è illustre da per tutto per operosità nel promuovere il culto divino; che cotanto si adopera per la civile e religiosa educazione dei giovani; e che senza parlare di altro, dette in Roma nel 1837 (quando v’infieriva l’asiatico morbo) il più luminoso esempio di vera carità evangelica, soccorrendo esso il primo coll’opera e col danaro, e abbracciando coraggiosamente i colerosi, quando e medici ed ecclesiastici e laici, e i parenti stessi dei colpiti dal morbo, esterrefatti fuggivano, o con infinite cautele avvicinavan gl’infermi; riescirà, dicevamo, inesplicabile, che un ordine il quale si mostrava in modo sì aperto cotanto amico della umanità, venisse così facilmente perseguitato ed oppresso, senza che le popolazioni insorgessero per prenderne le difese.

A queste osservazioni che molti facevano, e che a noi paion giustissime, contrapponevansi da altri le seguenti considerazioni che sarà bene vengano apprezzate da chi leggerà le presenti carte.

Egli è a sapersi, dicevano, che il popolo, ma quello vero non quello fittizio, in tutti i paesi generalmente è passivo, bada ai propri affari, non attacca, non grida, non esamina, non rampogna, non condanna da se, non si [p. 177 modifica]abbandona a movimenti concitati e violenti sia per offendere, sia per difendere, sé qualcuno non lo eccita o non lo muove.

Quelle agglomerazioni di gente che nei tempi di cui discorriamo chiamavansi popolo, costituivano un popolo artefatto e accaparrato, e forse compro in gran parte, come cel descrisse il d’Azeglio.37 Vi figuravano alcuni di apparente civile condizione, parte imberbi, parte barbuti (e con che barbe!), e giornalisti, e tipografi, e poeti, e impiegati di mala tempra, cui era grave il recarsi all’officio, e artisti senza lavoro, e sfaccendati, e la parte non migliore della scolaresca, e un po’ di melma sociale pur anco, che nelle grandi città mai non manca.

D’altra parte essendo in quel tempo organati per tutto in Italia e circoli e quartieri civici e officine giornalistiche, fra le cose palesi, ritrovi o consorterie politiche, fra le clandestine, egli è chiaro che il metter su una dimostrazione in qualunque senso si fosse, riusciva una cosa delle più facili e spedite.

Aggiungi, dicevasi, che nelle grandi città massimamente, ove se havvi maggior cultura, havvi pure sovrabbondanza di corruzione, era molto diffusa l’idea che gesuitismo e ipocrisia fosser sinomini, e bene spesso accadeva che nel proverbiar qualcuno o per poca sincerità o per infingimento, sentivasi dire che la faceva da gesuita. La stampa liberale poi venire già da molti anni bersagliando i Gesuiti acerbamente. Gl’Italiani e la gioventù massimamente leggere più biasimi che lodi; non esser quindi meraviglia se molti fosser divenuti a loro ostili o per lo meno tiepidi e indifferenti. Doversi pur tenere conto della impressione che facevano in ogni luogo i Prolegomeni del Gioberti, libro ch’essendo divenuto di moda, veniva letto avidamente e lodato anche da non pochi del clero, ed in ispecial modo da quella parte meu dotta e meno esemplare che non era [p. 178 modifica]inaccessibile alla invidia, nel vedere la molta stima di che godeva, e la influenza ch’esercitava sulle classi più nobili il loyolano sodalizio. E a ciò doversi attribuire quei casi non pochi di clericali sollucherantisi nel vedere avvilito e depresso quell’ordine religioso che per dottrina, potenza, e celebrità agli altri sovrastava.

Ma il motivo più potente ancora ritenevasi essere quello di averli messi da per tutto in voce di avversatori delle riforme di Pio IX e di favoreggiatori dell’Austria, e tanto ciò esser vero, che in allora cominciossi ad usare l’espressione di Austro-Gesuitismo; onde avvenne che rifuggiva ognuno dai prendere le difese dei Gesuiti in un momento in cui l’epiteto di Gesuitante consociavasi con quello di Austriacante o Austriaco: e così il timore soltanto di passare per favorevole all’Austria, bastava per indurre i devoti o partigiani della compagnia a far causa comune coi lor detrattori, o a perseverare nel più stretto silenzio.

Ora che abbiarn dato queste spiegazioni sui parlari che facevansi in Roma, e sullo spirito pubblico che in essa città in quel tempo prevaleva, verremo narrando le vicende e i discacciamènti che subirono i Gesuiti in Italia, incominciando prima di tutto dal Piemonte.

La Sardegna fu quella che dette il segnale, e che prima fra le provincie di quel reame, discacciò i Gesuiti.38 In Sassari ciò accadde il giorno 11 febbrajo.39 Quanto a Cagliari capitale della Sardegna, togliamo dal Risorgimento ch’era il giornale di Balbo e di Cavour, la narrazione dei fatti seguenti.40

Fino dai primi giorni del febbrajo 1848 gli studenti della università recaronsi sotto le finestre del reale convitto, gridando a più riprese, e in modo abbastanza energico: abbasso i Gesuiti, non vogliamo più i Gesuiti. Questa prima dimostrazione comechè non potesse dirsi [p. 179 modifica]popolare, intimorì eccessivamente la compagnia di Gesù. Essa richiese tosto al governo un sostegno valido e pronto, e il governo ordinò immediatamente che la città venisse perlustrata da numerose pattuglie non solo di notte, ma ancora di pienissimo giorno. I padri, che in seguito a quella prima dimostrazione si tenevano ascosi, rassicurati in tal modo, ricominciarono a uscire a due, a quattro, a sei per volta; ed imbattendosi lungo la via in qualche soldato, lo carezzavano con dolci parole, e con affettuose strette di mano. Alla popolazione tutto ciò pareva insulto, e fin d’allora cominciò a smettere quell’atteggiamento di rassegnazione al quale era avvezza. Da quel momento i Gesuiti divennero per così dire il segno della universale esecrazione. Da per tutto uno sdegno profondo contro di essi, un dispetto che più non poteva soffocarsi. All’alba del giorno 14 le batterie della darsena salutarono con ventun colpi di cannone il più grande avvenimento politico italiano — la costituzione negli stati sardi. Al dopo pranzo formaronsi dei drappelli i quali sul far della notte giunti presso la chiesa di santa Teresa, appartenente e contigua ad un collegio di Gesuiti, parecchi del popolo presero a canticchiare uno strambotto composto da un pezzo contro i padri della compagnia; e la folla senza punto riflettere alle possibili conseguenze di quella inopportuna manifestazione, inco minciò a gridare di proposito: abbasso i cappelloni, fuori le spie. Il dado era tratto. La plebe cominciò a infellonire, alcune pietre furon lanciate contro le finestre del convento, e tosto la piazza fu ingombra da un popolo immenso.

L’indomani si riaprì la chiesa ed il popolo prese ciò per una sfida. La sera ricominciò il tumulto, e si tentò di dar fuoco al portone. All’alba del giorno seguente i Gesuiti continuarono a rintoccar le campane, e si fecer vedere nei confessionali. Nacque altro tumulto, la chiesa si vuotò, e i convittori furon tolti. Richiesto in seguito di ciò l’arcivescovo (così sempre il corrispondente [p. 180 modifica]del Risorgimento), soscrisse, con le lacrime agli occhi, una lettera colla quale invitava i Gesuiti a partire immediatamente.

Verso le 2 pomeridiane il corpo municipale, seguito da una immensa folla di popolo, si recò ai conventi di santa Teresa e di san Michele; ed i padri, accettato il consiglio di partire, in presenza della intera popolazione uscirono dai lor conventi. Nel dopo pranzo del 17 febbraio si apposero i sigilli alle porte dei conventi, e il popolo non si ristette dal gridare: viva il re, viva la costituzione, viva l’Italia. L’arcivescovo addolorato partì io stesso giorno.

Questa è la relazione delle cose accadute in Sardegna, la qual relazione non pretendiamo e non porremmo la mano sul fuoco che dica ingenuamente la verità: perchè ricordiamoci che il giornale che la riporta, è il Risorgimento, giornale inspirato da Camillo Benso di Cavour (non amico al certo dei Gesuiti) il quale ne era ad un tempo direttore ed estensore in capo.

Dopo Cagliari avvenne il discacciamento dei Gesuiti da Genova. Colà gli spiriti infocolatisi democraticamente in sui primi di marzo, a causa della francese rivoluzione, diedersi a fare tumulti. Ecco come si esprime il Risorgimento del 3 marzo:

«Mentre per noi si esprimeva il voto che venissero dal governo allontanati i Gesuiti, il popolo di Genova si levava contro di essi a tumulto, ed i Gesuiti partivano. Noi avremmo voluto che costoro non avessero mai posto il piede sul territorio della nostra patria, dove furono occasione di discordie e di scandali; noi non lamentiamo certamente di vederli partiti da Genova, ma checché possano dirne i lodatori di ogni manifestazione popolare, deploriamo che siasi fatto a tumulto di popolo, ciò che dovea farsi per autorità di legge e di governo.»

Si credette o si finse di credere che i Gesuiti discacciati da Cagliari fossersi ricovrati in Genova; da ciò presero origine gli assembramenti, le grida, e le sassate che [p. 181 modifica]incominciarono il giorno 28 febbraio, e rinnovaronsi con più furore il giorno seguente; cosicché per calmare la rabbia che minacciava di venire agli ultimi eccessi, si adottarono alcuni provvedimenti. Ma i consigli dei buoni, e il bando dello stesso governatore di Genova, non valsero a rattemprare quel cieco furore che dominava. Tutto fu vano: si lanciano i facinorosi contro il convento di sant’Ambrogio, e le scuole ch’eran dietro il palazzo Turzi, e gittate a terra le porte, invadono le stanze e gli archivi. E quanto entro vi rinvennero, e vesti, e suppellettili, e carte, ed ogni cosa in somma ai Gesuiti appartenente, videsi volare tutto dalle finestre.41

A Genova tenne dietro Torino, da dove furono discacciati con modi meno aspri e disumani. Alla Spezia però, in Alessandria e a Sarzana, quando passaronvi, furono insultati e assaliti acerbamente. Lo stesso Gioberti da Parigi, informato di tanti eccessi, se ne formalizzava. Quegli diciamo, che vedeva ardere il combustibile stesso che fino allora aveva in tanta abbondanza somministrato.42

Quanto operossi in questo discacciamento desta veramente orrore, e meglio si affarebbe ai cannibali, che ai popoli chiamati civili. Partirono i Gesuiti fra gli urli e i fischi di una plebaglia sfrenata, la quale poco mancò che li facesse in brani.

Compiuto il racconto di ciò che accadde ai Gesuiti negli stati del re di Sardegna, passeremo a parlare del discacciamento che subirono in Napoli e nello stato pontificio, lasciando Roma per ultima, perchè qui fu messo il suggello alla loro persecuzione.

Volendo parlare pertanto di quel che soffersero i Gesuiti nel reame di Napoli e massimamente nella sua [p. 182 modifica]capitale, abbiam dovuto attingerne le notizie da un opuscolo intitolato: «Semplice esposizione elei fatti seguiti nella uscita dei PP. Gesuiti da Napoli43

Risulta dal medesimo che fin dai primi di febbraio si ebbe qualche sentore in Napoli della tempesta che minacciavali. Vi furon dei foglietti comminatori, e degl’insulti parziali per istrada, e nulla più.

Il 12 febbraio ebbe luogo una dimostrazione più strepitosa. Erano un cento individui circa, dell’infima plebe, capitanati da cinque o sei di apparente civil condizione. S’incominciò colle grida di viva la lega italiana, viva la indipendenza italiana, viva Gioberti, e si finì col gridare: morte agl’iniqui, morte agl’ipocriti, morte agli assassini, morte ai traditori, abbasso e morte ai Gesuiti.

La sera del 9 marzo (in cui già conoscevasi la rivoluzione di Francia) altra dimostrazione meno numerosa, ma più feroce, venne a portar lo scompiglio tra i padri della compagnia. Si gridò in quell’occasione: viva l’Italia, viva Gioberti, morte ai traditori, abbasso, fuori e morte ai Gesuiti, coraggio contro i Gesuiti.

Accorse la guardia nazionale per sedare il tumulto, e allora gridossi: viva la guardia nazionale. Furono invitati i gridatori a ritirarsi, ed una voce allora s’intese, che diceva: basta per questa sera, domani alle undici al luogo stabilito. Coraggio contro i Gesuiti; e tutti risposero: coraggio, coraggio.

Il venerdì 10 marzo gli assembrati, ch’eran già vicini alle porte, inviarono un foglio che diceva: «sgombrassero tosto i Gesuiti le due loro case: questa essere volontà del popolo, altrimenti verrebbesi al sangue ed al fuoco

Vennero in discorso alcuni col padre provinciale col padre rettore, e col padre Liberatore, ai quali dicevano:» il popolo fremere, infuriare, non ne volere saper più di Gesuiti; al popolo non si potere far fronte, sì che partissero, [p. 183 modifica]sgombrassero tutti e incontanente; in altro caso si verrebbe a scene luttuose

Si promise la partenza. Ma quando? Al più presto possibile. E pure i radicali svizzeri avevan concesso tre giorni. Convennesi per l’indomani alle dieci. Se ne informò il direttore di polizia il quale recossi da loro in quel giorno, e disse le seguenti parole:

«Venire dal Consiglio di stato, costituitosi in permanenza per l’affare dei Gesuiti. Significare il suo rammarico e quello del Consiglio stesso per la illegale, arbitraria e soverchiatrice maniera onde erano trattati: il governo non aver nulla, propriamente nulla contro di essi; anzi la città molto avere di che lodarsi dei loro servigi. Il governo non poterli in quella guisa disciogliere; e dove si venisse a questo punto, doversene avere intelligenza con Roma trattandosi di un corpo religioso. Ma che fare in momenti sì trepidi, in una società convulsa, dove il governo o non ha forza o non può farla valere? Essere suggerimento del Consiglio che si appartassero uscendo dal regno; ed aspetterebbesi miglior tempo a far valere le loro ragioni. Nel resto i Gesuiti esser padroni di loro e delle loro cose, andassero, restassero: lui non recare ordini, ma insinuazioni e consigli.»

Allora uno dei padri osservò: «quell’esilio a che eran condannati centotrentasei religiosi senza pur l’ombra non che di colpa, ma d’imputazione, essere cosa aliena da ogni umanità, da ogni giustizia — Se il voto di un branco di furiosi dee esser fatto pago, perchè dovrem fare più di quello che essi pretendono? Perchè dovrem noi attenere più di quello che per forza abbiam promesso? Si è promesso che domani alle dieci le nostre case sarebbero sgombre, e lo saranno; ma perchè il governo vorrà insinuarci ad uscire dalla patria? Perchè chi vuole non potrà rientrare in famiglia, e si dovrà dare lo spettacolo di giovanetti trilustri strappati dal fianco dei loro cari, e cacciati in bando rei [p. 184 modifica]non altro che d’essersi consecrati a Dio da pochi mesi in una Religione? E poi non è possibile che in tempo sì corto escan da Napoli tante persone, si gettino ad un ramingare incertissimo, massime che ce ne ha dei vecchi impotenti, e degl’infermi gravissimi. — Usciremo e ciascuno penserà a sè: nè si creda che i Gesuiti abbiano ad essere trucidati per le contrade: i pochi fanatici arrabbiati stanno su di una porta; e se voi ci guarentite quell’uscita o ce ne schiudete un’altra, noi sarem sicuri in ogni punto della città, meglio che in nostra casa.»44

Trovate giuste queste osservazioni dal direttore, corre al Consiglio dei ministri, promettendo di recare fra mezz’ora la risposta. Essa fu di questo tenore:

«Sia libero a ciascuno il ricoverare ove creda meglio, tanto solo che il faccia con prudenza da schivare pericoli; porti ognuno con seco ciò che vuole: gli archivi, i gabinetti, la biblioteca; ogni cosa sia sugellata; restino in casa i vecchi e i gravemente infermi; più tre o quattro padri per la custodia della chiesa, della casa stessa, e per l’amministrazione economica; stantechè non essendo legalmente disciolta la Compagnia, le rendite doveano reputarsi tuttavia di sua pertinenza.»

Ne uscirono allora una ventina dalla porta del Mercatello, e diciotto da un’altra porta, col permesso del colonnello della guardia nazionale. Quantunque travestiti, due ne furono riconosciuti, e bastò questo perchè coloro che dicevansi rappresentanti del popolo, e che li avrebbero voluti tutti scacciati onninamente dal regno, si recassero al direttore di polizia, ch’era tuttora alla porteria del convitto, gridando contro la determinazione del governo troppo ai Gesuiti favorevole. S’impegnò una lizza a parole, nella quale il direttore si sforzò di mostrare l’ingiustizia di quel procedere, chiedendo ad essi chi fossero, e dichiarando [p. 185 modifica]essere quella anarchia, confusione e manomessione di ordini. Propose quindi esso stesso di consultare la guardia nazionale. Nove battaglioni si pronunziarono per la determinazione del governo, e tre contro; ma le grida furibonde dei tre prevalsero alla volontà dei nove. Il direttore volò di nuovo al Consiglio; gli ammutinati però non attesero risoluzione veruna, e irruppero furibondi nella casa, e furon persino puntate le baionette alla gola del padre provinciale. Fu cercata la tabella dei nomi, e tutti i reverendi padri, vecchi, giovani, sani e malati, vennero riuniti nel salone del convento per riscontrarli co’ presenti. Durò tre ore questo costituto, che fu pei padri una vera agonia. Dire degl’insulti, e delle villanie pronunziate in quella occasione, ci rifugge l’animo, e rimandiamo i nostri lettori all’opuscolo sovraccennato.45

Risulta però dal ràcconto fatto dall’opuscolo stesso, che la guardia nazionale napolitana nella immensa sua maggiorità, era composta di persone educate, umane, e benevoli; e che, come da per tutto occorse, e anche in Roma, i pochi cattivi fecer disonore ai moltissimi buoni.

E se vi furon dei pessimi nella guardia nazionale napolitana erano di quelli, che come ausiliari, non avevano inscritti i loro nomi nei ruoli del corpo.46

La mattina del sabato 11 marzo finalmente i Gesuiti venner posti in chiaro sulle loro sorti. Fosser tutti, senza nulla aver con essi, esportati fuori del Regno, ed un piroscafo napolitano il dì vegnente, nelle ore pomeridiane, dovesse accoglierli per trasportarli.

Prima però di partire ricevettero la visita di uno dei ministri del governo, il quale (ed era il ministro dell’interno) pronunziò queste parole:

[p. 186 modifica] «Il governo non cacciarli da Napoli, non mandarli in bando, ma quelli essere momenti di transizione e circostanze trepidissime: doversi obbedire alla necessità; ma i loro diritti sarebbero rispettati, e tutto farsi per loro sicurezza e custodia; frattanto andati al porto monterebbero sopra un piroscafo, e partiti sentirebbero in mare le ulteriori determinazioni.»

Udissi allora una voce fra gli ausiliari che gridò: bravo Bozzelli, viva Bozzelli47. Il padre provinciale volea rispondere per richiamare a più miti consigli il ministro, ma le parole gli furono soffocate in gola dal pianto. Piangevan pur anco i circostanti, ma fu forza rassegnarsi; e così usciti in numero di centoquattordici per la porta del Mercatello, e trovatevi venticinque carrozze per trasportarli, vi montaron entro, garantiti dalla guardia nazionale, dai reggimenti svizzeri, fra lo sbigottimento e il cupo silenzio delle moltitudini circostanti.

Furon quindi trasportati sul Flavio Gioia, piccolo battello regio della forza di quaranta cavalli, adoperato comunemente pel trasporto dei galeotti. Senza poi protrarre più a lungo il discorso, nè raccontare le particolarità del loro viaggio, diremo come fosser condotti a Malta, ove sbarcarono e furono ricevuti ospitalmente dai Gesuiti di colà, ed ebbero anche visite e segni di rispetto dalle autorità locali e da altri ragguardevoli personaggi.

Lo storico napolitano Marulli parlando dei Gesuiti, dice: «tale fu la causa del bando dei Gesuiti avvenuto nel 10 marzo; il solo volere di pochi e la debolezza del ministero decise illegalmente ed obbrobriosamente su questo fatto.» E poscia, in una nota: «l’atto del bando dei Gesuiti fu un atto non solo anticostituzionale, ma di vituperevole condiscendenza. Il ministero concorse a [p. 187 modifica] quel bando, suggellando una decisione illegale, violenta ed obbrobriosa.»48

Venendo ora a parlare degli stati romani, troppo lungo sarebbe lo enumerar tutte le vessazioni cui soggiacquero nelle varie città che ne fan parte, e non solo essi, ma ben anco le loro così dette dipendenze.

Ci limiteremo quindi a ricordare in prova di ciò, che un principio di persecuzione contro i Gesuiti si manifestò in Roma fin dai primordi del pontificato di Pio IX, quando cioè, per festeggiare ancor essi il suo innalzamento alla sublime dignità di Sommo Gerarca del cattolicismo, dettero un’accademia di poesia al collegio romano il 2 settembre 1846. In quell1 occasione furon molte le dicerie a loro carico per discreditarli presso le moltitudini, quasi che 10 facessero furbescamente e loro malgrado, per accattivarsi il favore del pubblico assai mal prevenuto contro di loro in que’ tempi. Altri poi francamente andavan buccinando che lo facessero per paura.

Quando però il Santo Padre onorò di sua presenza la casa de’ Gesuiti in sant’Ignazio il giorno 27 giugno 1847, e amministrò in chiesa il pane eucaristico alla scolaresca,49 allora le grida e i rimbrotti non ebber fine. Si disse perfino che essi preparavano il ritorno al potere del cardinale Lambruschini; e due giorni dopo furon trovati affissi per le vie di Roma alcuni foglietti anonimi, coi quali si premuniva 11 Santo Padre di non dare ascolto ai suoi nemici che avrebber trascinato esso con loro in un abisso. Si disse pure o si gridò al Santo Padre che si guardasse dal cioccolatte. Furono fin d’allora messi fuori gli epiteti di rugiadosi, e ai loro aderenti, quelli di Gesuitanti o Austro-Gesuiti. Si fece stampare in Losanna nel 1847 dal Bonamici e si diffuse per Roma la vita di papa Ganganelli; e articoli nei giornali si pubblicarono, e foglietti clandestini distribuironsi, [p. 188 modifica]tutti nello stesso spirito, collo stesso linguaggio, allo stesso scopo, quello cioè di vilipenderli e sopraccaricarli di contumelie e d’obbrobrio. In questo poi distinguevasi precipuamente il giornaletto clandestino intitolato l’Amica Veritas.

A tal punto poi giungeva l’odio di chi fomentava cosiffatte improntitudini, che nel giugno 1847 si minacciò al principe Borghese d’incendiar la sua villa unicamente perchè dava un ballo la sera del 30, ed il suo grande delitto (come accennavasi in un foglietto a stampa divulgato) era quello di mostrarsi devoto dei Gesuiti.50 Allorquando poi s’inventò di pianta la famosa congiura dei sanfedisti, di cui abbiamo lungamente parlato nel capitolo XIV del primo volume, non si mancò di cacciarvi dentro l’elemento gesuitico. Si osservi difatti il quadro in litografìa rappresentante i congiurati, e fra i Nardoni, i Bertòla, e i Minardi si vedrà un Gesuita col famoso cappellone.51 Non basta. Avendoci dato la rivoluzione altra litografìa rappresentante l’appiccamento della spia Minardi, questi non solo vi è rappresentato con abito da Gesuita, ma porta perfino al disotto la iscrizione di padre Minardi.52 Si rammentino in ultimo i nostri lettori che cosa si fece la sera dell’8 di settembre, ed i foglietti stampati che a profusione si pubblicarono in occasione della riapertura delle scuole bel novembre dello stesso anno 1847 per distogliere i padri di famiglia dal mandare i giovanetti alla scuola dei Gesuiti,53 e si dovrà ammettere che si fece di tutto, tanto all’aperto, quanto copertamente, per predisporre gli animi e spargere in tutti l’odio e il disprezzo verso il loyolano istituto. Ma ciò che mise il colmo agli atti ostili ai Gesuiti, fu la dimostrazione del 3 dicembre dello stesso [p. 189 modifica]anno, quando si seppe eli’ erano stati discacciati dalla Svizzera, in seguito della sconfitta del Sonderbund. 54

L’anno 1847 pertanto si chiuse ben tristamente per loro; ma l’anno 1848 fu infinitamente peggiore, perchè cacciati nel febbraio e nel marzo, come raccontammo, dalla Sardegna, dalla Liguria, dal Piemonte, e dal regno di Napoli, non era presumibile che volesse farsi loro la grazia negli stati pontifici: ivi soltanto ci si miser le mani più tardi, e a cose assicurate negli altri paesi.

E difatti, conosciutasi appena la rivoluzione di Francia del 24 febbraio, ed i rivoluzionari in Roma avendo preso coraggio, quasi ogni sera si udirono grida e lanciaronsi pietre in vicinanza del collegio romano, e della casa professa del Gesù.

La civica veniva chiamata ogni sera per disperdere gli autori del tumulto; ma tutto ciò aveva piuttosto l’aria di una farsa o di una comparsa scenica, che quella di un provvedimento serio, essendochè ogni sera gli ammutinati in luogo di diminuire aumentavano. Il governo temeva, o non amava al certo di cimentare la civica in qualche conflitto per sostenere i Gesuiti, dei quali quasi a mal in cuore in quel momento pronunziavasi il nome. Gli ordini che davansi eran tutt’altro che rigorosi, e quasi pareva che gli ammutinati anzichè i padri, perseguitati favorissero.

Tutto ciò peraltro era naturale e conseguente: perchè non solo la polizia, ma il governo stesso fin dal 10 marzo erano nelle mani di chi di Gesuiti non ne voleva punto sapere, e quindi operar non poteva diversamente da quello che faceva.

Gli stessi civici, gente proba ed onesta per la massima parte, e di temperati consigli dotata, prestavansi di buon grado agli appelli nei rispettivi quartieri, e avrebber voluto vedere rispettati gli ordini religiosi, non escluso quello dei Gesuiti. Intervenivano, lo ripetiamo, alle chiamate, [p. 190 modifica]stavansi a pattugliare, e con animo deciso di terminare queste baldorie vituperevoli al nome romano; ma andando, le cose alla lunga, incominciaronsi ancor essi a stancare, e venivan dicendo che finalmente non era cosa piacevole per loro (molti dei quali eran padri di famiglia) il trovarsi costantemente nel rischio di fare a schioppettate per sostenere dei religiosi i quali finalmente non costituivano la cattolica religione; e poichè i tempi eran talmente cambiati ed avversi ad essi, da non volerceli più, sarebbe stato miglior divisamento il consigliarli a ritirarsi chetamente. Così risparmiate sarebbonsi scene mortificanti per loro, e conflitti sanguinosi per chi avesse voluto difenderli in un momento in cui si navigava eontr’acqua. Partendo, la pace pubblica verrebbe ristabilita; ed i padri trasferitisi sotto cielo più benigno, avrebber potuto esercitare pacificamente il loro ministero.

In seguito di questi fatti, i quali per verità manifestaronsi prima nelle provincie, l’eminentissimo Bofondi in allora segretario di stato, aveva emesso fin dal 28 febbraio una circolare, ove fra le altre cose diceva così: «Quello però che maggiormente ha riempito di amarezza il cuore di Sua Santità è stato lo apprendere che in alcune città dello stato da disordinate e ristrette moltitudini siasi fatta violenza ad alcune famiglie religiose per discacciarle, e ciò o coll’intimorirle o coll’intimare perfino apertamente ad esse la emigrazione. Questa specie di criminosi avvenimenti non potevansi certamente attendere nei nostri tempi, nei quali s’invocano e si esigono legalità, moderazione ed umanità. Quindi la Santità Sua e come -sovrano e come capo della cattolica religione, non può non altamente disapprovare e condannare sì gravi attentati che disonorano la civiltà stessa e contradicono apertamente le libertà che s’invocano55

[p. 191 modifica]Ma ritornando alle cose di Roma, egli è a sapersi che il cuore del pontefice fu trafitto siffattamente dagli attentati indegni che nella sua Roma commettevansi, che coll’atto del 14 marzo da lui pubblicato, e che incominciava «Romani e quanti siete figli ec.,» dopo aver condannato gli eccessi in discorso, terminava con queste parole:

«Non vogliamo amareggiare il nostro spirito e il cuore di tutti i buoni colla previsione delle risoluzioni che saremmo costretti di prendere per non soffrire lo spettacolo dei flagelli coi quali suole Iddio richiamare i popoli dagli errori.»

Gravi risoluzioni pertanto venivano minacciate dal pontefice, ma quali esser potessero non ci è, nè ci fu dato di conoscere. Una scomunica forse, o un allontanamento da Roma; ma dall’una o dall’altra di queste determinazioni non potevano scaturire se non le più disastrose conseguenze: imperocchè nel primo caso tratta vasi di porre fuori del grembo della cattolica Chiesa i persecutori degli ordini religiosi e dei Gesuiti in ispecie, e qiielli non eran pochi; nel secondo poi, partendo il papa, partiva ancora il sovrano, e così Roma era sul punto di perdere il suo padre ed il suo principe nel tempo stesso.

Avremmo, e con noi avrebbe creduto ogni uomo sensato, che un simile linguaggio, un pregare sì commovente, ed un minacciare sì risoluto avesser dovuto colpire il cuore e la mente di coloro che a cosiffatti abbom ine voli attentati abbandonavansi.

Ma no: a nulla valsero. E pure chi pregava era quel desso, cui come capo della cattolica fede s* inchinano riverenti dugento milioni di cattolici sparsi per tutto il globo, e quindi come tale poteva dirsi ed era in fatti il padre della più numerosa famiglia ch’esista sulla terra. Era il sovrano di uno stato piccolo sì, ma il primo per antichità di possesso, e per ineccezionalità della sua origine. Era l’iniziatore delle romane larghezze, che poi divennero [p. 192 modifica]pel suo esempio larghezze italiane. Era quegli infine in grazia del quale ebbe origine tutto il movimento italiano. Questo sovrano benefico in oltre era stato innalzato alle stelle, ed a lui avean promesso gratitudine e fede; e mentre severe parole pronunziava colratto del 14 marzo, veniva preconizzato tuttora siccome lo spirito animatore del risorgimento d’Italia. L’allocuzione del 29 di aprile non era ancora emanata; quindi le illusioni e il prestigio duravano vergini e incontaminati. Il velo del tempio in somma non era per anco squarciato.

Queste considerazioni avrebber dovuto persuaderli essere del loro interesse il mantenere tuttavia il mondo in inganno. Arrischiare tutto rompendola col papa, mentre tenendoselo amico vi avrebber potuto trovare il loro vantaggio, non era ella una insensatezza?

Nondimeno piuttosto che il cuore ed il senno, agì in loro soltanto il cieco furore. Quindi si proseguì cogl’insulti- e colle minaccie verso i padri inoffensivi; e finalmente stringendo sempre più le cose a loro danno, si leggeva nella Gazzetta di Roma del 30 marzo quanto segue:

«Vennero più volte rassegnate a Nostro Signore le istanze dei reverendi padri Gesuiti, con le quali rappresentavansi le angustie ond’è travagliata anche qui nella capitale la loro Compagnia, e il bisogno perciò che si provvedesse alla personale loro sicurezza. Il Santo Padre, che con somma compiacenza ha riguardato sempre i Religiosi medesimi come instancabili collaboratori nella vigna del Signore, non potè non provare nuova e più viva amarezza per sì disgraziata vicenda; ma tuttavia per la ognor crescente concitazione degli animi, e per la diversità dei partiti minacciante serie conseguenze, gli fu forza di prendere in seria considerazione la gravità del caso. Laonde avanti ieri, per mezzo di ragguardevole personaggio, volle far noti al reverendo padre generale della sullodata Compagnia i sopra espressi sentimenti, ed insieme l’agitazione in che egli era per la [p. 193 modifica]difficoltà dei tempi, ed il pericolo di qualche serio inconveniente. Alle quali significazioni avendo il padre generale chiamati i padri consultori a deliberazione, fu da essi risoluto di cedere alla imponenza delle circostanze: non volendo che la loro presenza serva di pretesto ad un qualche grave disordine e spargimento di sangue.

«Dopo tutto ciò sono stati presi gli opportuni concerti col reverendo padre generale, sì pel modo di effettuare tale risoluzione, sì per provvedere alle scuole del collegio romano, alle case religiose da essi abitate, ed alla tutela dei loro beni e delle loro proprietà; affinchè per tal guisa venga specialmente soddisfatto al loro mantenimento.

»Presso questa esposizione di cose siamo autorizzati a dichiarare essere insussistente quanto divulgavasi ieri in un foglio anonimo a stampa.56

Il foglio anonimo di cui si fa menzione, e che evidentemente fu emanato dal partito perturbatore, è forse quello che ha per titolo:

»Risposta del ministro di polizia alle deputazioni dei casini per l’allontanamento dei Gesuiti

Esso viene riportato da noi soltanto in sommario, non valendo la pena di trascriverlo in questo capitolò una volta che dall’autorità non venne riconosciuto quanto nel medesimo si esponeva.57 Pur tuttavia diremo che in esso si racconta come il ministro Galletti, rispondendo alle varie deputazioni dei circoli richiedenti lo scioglimento dei Gesuiti, annunciò che il Santo Padre aveva già provveduto all’allontanamento di questi; che il Cardinal Castracane aveva avuto l’incarico di comunicare al padre Roothan loro generale, il sovrano volere; e che l’amministrazione dei loro beni era stata affidata al Cardinal Vizzardelli.

[p. 194 modifica]In seguito di quanto abbiamo di sopra esposto si sciolse la compagnia; parecchi padri ricovraronsi nello stato pontificio, altri in esteri paesi, e qualcuno, deposto prudentemente l’abito, rimase in Roma.

La persecuzione come dicemmo non essendosi limitata soltanto alla capitale, ebbe luogo più o meno da per tutto e noi possediamo ancora alcuni documenti che ce lo attestano.

Eccone i titoli:

1.° La sparizione dei Gesuiti da Spoleto.58

2.° La fuga precipitosa dei Gesuiti da Tivoli e Ferentino. 59

Il Farini parlando del discacciamento dei Gesuiti così si esprime:60

«Non io dirò dunque che il papa ed il governo dovesserò porre ad estremo rischio la securtà dello stato con inefficace difesa del sodalizio esoso: sì voglio fare questa considerazione, che se fra’ Gesuiti erano uomini brutti di colpe e perniciosi cospiratori, e’ si dovevano invigilare e castigare come rei cittadini; ma non si potea, nè dovea condannare e punire tutto un sodalizio religioso laddove il papa aveva seggio e la suprema autorità della Chiesa. Il papa solo aveva potere di condannare l’intiero sodalizio, e la sola condanna del papa poteva essere giusta ed efficace nella opinione, e nella coscienza dei cattolici, e dare quei risultamenti politici ch’erano desiderati.»

E più sotto:

«Per la qual cosa io non ho dubbio di affermare, che la espulsione dei Gesuiti dallo stato della Chiesa, operata a malgrado del papa, fu un atto imprudente, di nessuna utilità allora, di molto e certo danno allora e poi.»

Comunque si voglia, i professori di liberalismo, e quelli non pochi che senza saper bene che cosa significasse, amavano di passare per tali, andavan tutti in visibilio per [p. 195 modifica]questa vittoria; e dàlli a ridere e sui rugiadosi fuggenti, e sul loro petaso colossale, e su tutte quelle storielle che sogliono allietar le brigate. Che dicessero gli uomini temperati i quali rifuggivan da queste improntitudini non lo sappiamo, perch’ei parve che si fosser posta la museruola alla bocca; ma intanto il. partito anti-gesuitico, col parlare e coll’agire apertamente, e i settatori del dio Arpocrate (ch’erano i temperati) col mantenere il più stretto silenzio, tu sentivi un cicalare ed un motteggiare continuo contro i Gesuiti che ti assordava le orecchie.

Noi abbiam narrato sommariamente come ad agevolare la rivoluzione europea del 1848 fossersi prese le misure in antecedenza col discacciare per prima cosa i Gesuiti dove volea farsi rivoluzione. Abbiamo taciuto della Germania e della Spagna, perchè troppo ci saremmo dilungati parlandone.

Ci limitammo pertanto a tessere la storia del loro discioglimento in Francia, e del loro discacciamento dalla Svizzera e dall’Italia. Abbiamo consultato le storie del Crètineau-Joly e del Morin per le cose di Svizzera, perchè in esse soltanto se ne parla, e nella prima massimamente. Consultammo anche all’occasione gli annali dell’abate Coppi. Nè per le cose di Sardegna, di Genova e del Piemonte attingemmo le nostre notizie dall’Ebreo di Verona del padre Bresciani o da altre sorgenti gesuitiche, sì bene da giornali liberali quali sono il Corriere livornese, la Concordia, il Risorgimento, e la Lega italiana. Abbiam riportato le opinioni degli storici Ranalli e Farini, i quali, quantunque liberali, non ci sembra che facessero l’apologia dei modi usati pel loro discacciamento. Abbiamo riferito l’opinione di un anonimo avvocato napolitano, e quella dello storico Marulli; e se per il racconto delle cose di Napoli abbiam consultato la Esposizione dei fatti seguiti nella uscita dei PP. Gesuiti da Napoli, quantunque scritta dal padre Curci, egli è perchè non altra esposizione così ragguagliata ci venne fatto di rinvenire sulle cose dei Gesuiti in quel reame. E poi [p. 196 modifica]chi non sa che le azioni ingiuste e vituperevoli possono raccontarsi da chi le sofferse, e non da chi le commise?

Ma i fatti sussistono, e questi sarebbe follia il contrastarli. Ci siamo astenuti dall’emettere parole, di lode o di biasimo sull’istituto gesuitico, e sul bene o sul male che si attribuisce ai suoi affigliati, lasciando che i fatti parlino, e i lettori possan da per se giudicarne.

E siccome professiamo ancor noi il principio che la volontà delle popolazioni (ove però potesse conoscersi perfettamente, e fosse generale e non parziale, spontanea e non insinuata ad arte, e diretta a fin di bene) deve rispettarsi, in guisa che se la maggiorità sensata ed onesta degl’Italiani avesse desiderato che si allontanassero con garbo i Gesuiti, avremmo ancor noi chinato il capo; così vogliamo ed è nostro dovere di biasimare apertamente ciò che si operò contro di essi, perchè contrario alla libertà e dignità dell’uomo, alla civiltà del secol nostro, ed ai diritti sagrosanti della umanità. Facendo questo possiam vantarci di essere a mille doppi più liberali di coloro che ne usurpano il nome.

Così potremo dire con ragione, riferendoci al racconto che tessemmo sul discacciamento dei Gesuiti, che vergogne italiane e non glorie sono queste; e checchè si faccia o si dica per avversarci, il severo stile della storia le ha già notate in caratteri incancellabili. Non sappiamo quindi persuaderci con qual fronte si ardisca dagli eroi di fatti sì vituperevoli di assordare l’aere in estranei paesi col lugubre pianto del dolore e della sventura. Se vuol fondarsi in Italia il regno della onesta libertà, non se ne rovesci l’idolo, e non se ne lasci diserto il tempio. Tempo verrà in cui allo spirito di vertigine che fa ora il giro del globo, sottentrerà l’impero della ragione, ed allor si vedrà se meglio si apponeva chi sghignazzando allietavasi per questi fatti brutali, ovvero chi ricoprivasi il volto di rossore per esserne stato testimonio.




Note

  1. Le ripetizioni dei fatti relativi ai Gesuiti sono una conseguenza inevitabile dell’aver voluto riunire in questo capitolo ciò che ai medesimi si riferisce, e che in parte abbiamo già narrato.
  2. Vedi l’opuscolo intitolato I seminari ecclesiastici e la compagnia di Gesù — ragionamento storico. Napoli 1851, vol. I. in-8. nel volume 61 delle Miscellanee storico-politiche della nostra raccolta num. 2, pagine 24.
  3. Vedi Lubiensky, Guerres et révolutions d’Italie. Paris, 1852, pag. 87 e seg.
  4. Vedi le Lezioni sui Gesuiti di Michelet e Quinet, recitate nel collegio di Francia. Parigi 1844, in 12. — Vedi Conseils de Satan aux Jesuites, traqués par messieurs Michelet et Quinet, Paris 1845, in-12. — Vedi inoltre Dezamy. Le Jesuitisme vaincu et anéanti par le socialisme. Paris 1845, in-8.
  5. Vedi Crétineau-Joly. Histoire religeuse, politique et littéraire de la compagnie de Jesus ec., Paris 1846 vol. VI. pag. 526. — Farini vol. I, pag. 120.
  6. Vedi il vol. IV, dei Documenti, num. 134. A.
  7. Vedi Crétineau-Joly, Histoire du Sonderbund, vol. I. pag. 128.
  8. Vedi Mazzini, Scritti editi ed inediti, Milano 1852, vol. V pag. 48.
  9. Vedi Crétineau-Joly, op. cit. vol. I. pag. 463.
  10. Vedi Coppi, Annali d’Italia vol. VIII, pag. 534.
  11. Vedi Solaro della Margherita, Memorandum, pag. 321.
  12. Vedi A. Morin, Precis de l’histoire politique de la Suisse ec. Genève, 1856-1858. vol. II, pag. 301 e 302.
  13. Vedi Crétineau-Joly, Histoire du Sonderbund. vol. II, pag. 200.
  14. Vedi Crétineau-Joly, Histoire du Sonderbund pag. 203.
  15. Vedi Crétineau-Joly, Histoire du Sonderbund vol. II. pag. 207. — Vedi la Concordia del 4 febbraio 1848. — Vedi Mazzini Scritti editi ed inediti. Milano 1852 vol. III, pag. 336 e 337. — Vedi inoltre il vol. V. pag. 320.
  16. Vedi Crétinean-Joly, op. cit. vol. II, pag. 218. — Morin, op. cit. vol. II. pag. 295.
  17. Crétineau-Joly, op. cit. vol. II, pag. 218. — Morin, op. cit. pag. 297.
  18. Vedi Crétineau-Joly, op. cit. vol. II. pag. 233. — Vedi Gualterio, parte II. Le riforme vol. I, pag. 219 e 499.
  19. Vedi Crétineau-Joly, vol. II, pag. 274, 275 e 279.
  20. Vedi Crétineau-Joly, op. cit. vol. II, pag. 280.
  21. Vedi il suddetto, vol. II, pag. 295. — Vedi anche Morin, op. cit. vol. II, pag. 315.
  22. Vedi Crétineau-Joly, op. cit. vol. II, pag. 299 e 300.
  23. Vedi Crótineau-Joly, op. cit. vol. II. pag. 303. — Vedi Coindet Les radicaux et le Sonderbund, pag. 129.
  24. Vedi Crétineau-Joly, op. cit. vol. II. pag. 304 e 306. — Vedi il Journal des débats del 1, 3, 4, 5 novembre 1847.
  25. Vedi Crétineau-Joly, op. cit., vol. II. pag. 343 e 346.
  26. Vedi detto, op. cit., vol. II, pag. 355.
  27. Vedi Crótineau-Joly, op. cit., vol. II. pag. 388. — Vedi il Journal des débats 3, 4, 5 e 6 novembre 1847.
  28. Vedi detto, op. cit., vol. II. pag. 419. — Vedi Coppi Annali d’Italia 1847, pag. 278. — Vedi il Journal des débats del 26 novembre 1847.
  29. Vedi Morin, op. cit., vol. II. pag. 308.
  30. Vedi Crétineau-Joly, op. cit. vol. II, pag. 422 e 423.
  31. Vedi Morin, op. cit., vol. II, pag. 306.
  32. Vedi Crétineau-Joly, op. cit. vol. II, pag. 426 e 434. — Vedi il Journal des débats dei 24, 26 e 27 novembre 1817.
  33. Vedi Morin op. cit. vol. II, pag. 310.
  34. Vedi Crétineau-Joly, op. cit. vol. II., pag. 445. — Vedi il Journal des débats dei 26, 27 e 28 novembre 1847.
  35. Vedi Crétineau-Joly, op. cit. vol. II, pag. 462.
  36. Vedi Crétineau-Joly op. cit. vol. II, pag. 468, 475, 481. — Vedi il Journal des Débats del 24 gennaio 1848 che la riporta per intiero.
  37. Vedi Ai suoi elettori Massimo d’Azeglio. Torino, 1849, pag. 26.
  38. Vedi la Concordia del 15 febbrajo 1848 pag. 159
  39. Vedi la Concordia del 26 detto.
  40. Vedi il Risorgimento del 2 marzo.
  41. Vedansi, a schiarimento dei fatti sovraccennati, il Corriere mercantile, la Concordia, la Lega italiana, il Risorgimento dei primi giorni del marzo 1848, non che il supplemento al Corriere livornese (giornale del Guerrazzi) del 7 marzo.
  42. Vedi Ranalli, vol. II, pag. 262.
  43. Vedi il suddetto opuscolo nel vol. VI delle Miscellanee, n. 2.
  44. Detto opuscolo, pag. 18.
  45. Vedi l’opuscolo intitolato: Semplice esposizione dei fatti seguiti nella uscita dei padri Gesuiti da Napoli, nel vol. VI. Miscellanee storico politiche, n. 2, dalla pag. 26 alla pag. 30.
  46. Vedi il detto opuscolo dalla pag. 42 alla pag. 45.
  47. Era il Bozzelli alla testa del carbonarismo costituzionale, come dagli Annali d’Italia del Coppi, anno 1848, pag. 59. — Vedi Montanelli, vol. I, pug. 94.
  48. Vedi Marulli Avvenimenti di Napoli del 15 maggio 1848. pag. 18.
  49. Vedi il Diario di Roma del 28 giugno 1847.
  50. Vedi il vol. II, dei Documenti n. 71.
  51. Vedi il vol. Stampe e Litografie, n. 4-3.
  52. Vedi il detto vol. n. 43. A.
  53. Vedi il capitolo XX, del I vol. di queste storie. — Vedi il volume III. Miscellanee, n. 73 e 82.
  54. Vedi il Diario di Roma del 4 dicembre 1847.
  55. Vedi il vol. I, Motu-propri ec. n. 36. — Vedi la Gazzetta di Roma del 28 febbraio 1848.
  56. Vedi la Gazzetta di Roma del 30 marzo 1848. — Vedi il documento n. 133 nel vol. IV, Documenti, intitolato: Istanze dei RR. PP. Gesuiti al Santo Padre. — Vedi l’Epoca del primo aprile.
  57. Vedi il Sommario, n. 18. — Vedi ancora il documento del IV vol. n. 134.
  58. Vedi fra i Documenti del IV vol. il n. 145.
  59. Vedi nel detto vol. il n. 146.
  60. Vedi Farini Lo stato romano, terza ediz. vol. II, pag. 17.