Trento, sue vicinanze, industria, commercio e costumi de' Trentini/Descrizione o Guida di Trento

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Descrizione o Guida di Trento

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Ai lettori Vicinanze di Trento


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Descrizione o Guida di Trento

Trento è città edificata su la sinistra ripa del fiume Adige, e su la destra del fiumetto Fersina, che altri appellano torrente, tributario di quello, ai piè della pendice detta le Laste, pendice, la quale, come tutte le altre che fanno a Trento d’ogni lato corona, è coperta di viti, di gelsi e di arbori da frutto, e in varj luoghi offre ampie cave di bianca e di rossa pietra bellissima.

Ci si viene da oriente per la valle del Brenta, detta Valsugana, discendendo sulla destra del Fersina, giù per le Laste, e si entra per la Porta d’Aquileja, che il volgo, abbreviatore d’ogni vocabolo, nomina dell’Aquila.

[p. 8 modifica]Ci si arriva da mezzodì salendo per la vallea dell’Adige, e, oltrepassate Ala e Rovereto, piccole ma brillanti città, dopo un nojoso camminare tra muri troppo alti che cingono e sottraggono alla vista belle campagne, si fa l’entrata pel borgo di Santa Croce e per la Porta Veronese.

Dal lago Benaco, ora di Garda, e dalle valli di Giudicarie e di Sarche, uscendo ad occidente per la stretta che dicesi Buco di VellaFonte/commento: Pagina:Trento sue vicinanze 1836.djvu/167, si arriva all’Adige su la sua destra, dove, passato il ponte di San Lorenzo, si è introdotto in città per Porta Bresciana.

I Tedeschi, che dalle loro settentrionali vallate calano in giù, come pure gli abitanti di Fieme e Cembra, che sono al nordeste, e quelli della Naunia, o Valle di Non, che giacciono a nordoveste, entrano in Trento per la Porta di San Martino, la quale è pur detta Porta di Germania, perchè n’escono coloro che passar vogliono in quella regione. Anticamente appellavasi questa porta di Santa Marta per l’Ospitale e ’l Priorato di tal nome, ch’era nel fabbricato ove ora si lavorano vetri e stoviglie. N’era fondatore un certo Videto, di cui fassi menzione in documenti del 1191 e 1197, nel qual tempo esisteva già la chiesa di San Martino.

[p. 9 modifica]Il principale corpo di questa antichissima città consiste in una lunga contrada, che stendesi d’oriente in occidente, da Porta Aquilejense alla Bresciana, e in altre cinque, le quali, partendosi da quella, volgono a mezzodì e conducono alla cattedrale. Non è però gran fatto minore in ampiezza il rimanente che vedesi, e non tutto, in passando da Porta di San Martino alla Veronese, fuori della quale resta a vedersi ancora il borgo di Santa Croce.

Tutte le vie sono comodamente selciate con duri ciottoli di grigio e rosso granito, e fornite ai lati di largo lastricato per li pedoni, e sempre nette da ingombri e immondizie, le quali sono trasportate dall’acqua che scorre nel mezzo di esse in canali scavati in vivi massi di pietra, che, per togliere ogni pericolo, trovansi dappertutto coperti. A destra e a sinistra di queste strade si presentano alla vista alcune case di men piacevole aspetto, nelle quali hanno dimora i meno agiati, o, come dice Mercey, ove soggiorna la povertà accanto all’opulenza, cosa che in Francia non vedesi in nessun luogo! ma la maggiore, anzi la massima parte delle case, merita l’attenzione del viaggiatore. Solidità, simmetria, ricchezza di materiali ne’ basamenti, nelle porte, [p. 10 modifica]nelle finestre, nelle cornici, questo è quello che vede chiunque ha occhi in tutte le abitazioni, in tutti gli edifizj di questa città. Da poco tempo in qua l’avere belle case costruite secondo le regole della bella italica architettura è divenuta passione generale de’ ricchi, i quali, non per superbia, come afferma il maligno Lewald, ma per amore del comodo e del bello, vogliono veder ristaurate con decenza le proprie abitazioni, e ridotti ad aspetto dignitoso i pubblici edifizj. Gran lusso, non disgiunto da buon gusto, si osserva ancora nelle botteghe degli artisti, de’ caffettieri e dei mercadanti.

Essendo Trento molto popolata, e concorrendovi assai gente per sue bisogne, in ispecie durante i dieci mesi ne’ quali vi soggiorna la scolaresca (nella calda estate e al tempo della vendemmia quasi tutti i doviziosi trovansi colle famiglie loro in campagna), vi si osserva con diletto gran movimento in ogni parte, e un operare continovo. Lewald, che vide alla festa di San Vigilio affollata la gente come nelle grandi città, e che il giorno dopo non scòrse più quella gran moltitudine, volle far credere che Trento, eccettuato il giorno della detta festa, sia poco meno che deserta. Trovò [p. 11 modifica]invece ventimila anime nella più piccola Rovereto! Noi daremo il novero degli abitanti di Trento, de’ suoi dintorni, del Circolo e della Diocesi in altro luogo.

Chi ama di percorrere questa città per vedere il più notabile del suo materiale, seguendo il mio consiglio, si farà condurre per primo a Porta d’Aquileja, e quivi gli si presenterà maestoso alla vista il Palazzo di Castello. Intorno al quale amo di lasciar parlare un illustre imparziale straniero, che, da me pregato, dettò su questo edifizio e su quelli di Santa Maria e della Cattedrale, suoi così detti Cenni artistici. Questi è il valente Rodolfo Vantini da Brescia, architetto già conosciuto per sue opere mirabili. Dovendo per altrui consiglio fare mia la sua esposizione, voglio che ad esso ne sia data la debita lode.

Il Palazzo di Castello è l’edifizio che torreggia su gli altri di questa città e per la gigantesca sua mole e per essere collocato nel luogo più eminente di essa. Fu per lungo tempo residenza de’ vescovi principi di Trento, e quindi nelle sue elevazioni esterne, come negl’interni compartimenti, presenta saldezza di forme, grandiosità di proporzioni, e magnificenza di ornamenti. E però noi [p. 12 modifica]reputiamo patria sventura che tanta mole, oggetto di storiche reminiscenze e di nazionale decoro, siasi lasciata in abbandono.

L’edifizio componevasi di due corpi di fabbrica innalzati in epoche disparate. Il più antico dicesi Castel Vecchio, negli antichi documenti appellato Castrum boni consilii, e forma la parte settentrionale, difesa da una torre, ch’è opera romana, di robustissima struttura circolare. Il popolo, nominandola, diceva la Tor d’Agost, ch’è lo stesso che dire la Torre di Augusto. Quello che sulla sua sommità vedesi di nuovo è opera del 1809, fatta dagli Austriaci per collocarvi cannoni. Il fabbricato annessovi manifesta quel modo di edificare che fu adoperato nel secolo decimoterzo. La loggia che guarda verso occidente offre la maggiore cospicuità, ma fu nel 1813 danneggiata dalle artiglierie.

La parte più moderna, posta a mezzodì, appartiene al secolo decimosesto, e fu edificata dal Vescovo Principe Bernardo della naune illustre famiglia Clesio, come dichiarano le iscrizioni scolpite in più luoghi sotto le insegne di quel famoso prelato e cardinale. La semplicità delle forme e la correzione dello stile che dominano in questo edifizio [p. 13 modifica]indussero taluni a credere che Palladio ne fosse l’architetto; ma ove si ponga mente che quando compievasi questa fabbrica il famoso Vicentino era ancora giovinetto, si farà manifesta la erroneità di questa opinione accreditata dal P. Bonelli. Se dallo stile del palazzo dovessimo fare giudizio del suo architetto, saremmo inclinati a crederlo opera del Sammicheli, o della sua scuola. Se non che, considerando che Giovanni Maria Falconetto, proscritto da Verona, visse parecchi anni esule in Trento, al tempo appunto in cui reggeva il Clesio, e che lo stile del nostro palazzo consuona con quello di più altre fabbriche dal Falconetto architettate in Padova e fuori, delle quali parlano il Vasari e il Temanza, noi consentiamo nella opinione dell’erudito Conte Benedetto dei Giovanelli, che al menzionato Falconetto sieno dovuti i disegni di questo bell’edifizio.

A noi piace di far osservare la bella proporzione della cornice che corona il palazzo, indi il cortile, dove ammirasi tuttavia un portico con dipinture del Romanino da Brescia, e con medaglioni a rilievo ne’ peducci degli archi, e con altri ornamenti convenientissimi. Di molto decoro appajono le porte principali [p. 14 modifica]che introducono nel ricinto del palazzo, poste nel lato rivolto verso la città; e se meschina è la porticella per cui si ascende nell’interno dell’abitazione, e la scala non conveniente alla vastità dell’edifizio, questo è perchè non si è che in parte eseguito il concetto del palazzo. Il principale ingresso doveva essere da quella parte dov’è la bellissima porta per ciò appunto detta del Vescovo. Certamente il gusto e l’accorgimento dell’architetto s’appalesa sì nelle belle proporzioni delle camere, de’ loggiati e delle sale, che nella varietà delle forme di esse, e nella diversa configurazione delle vôlte, e dei compartimenti dei lacunari, quali appunto quivi si ammirano.

Mirabilissimi affreschi del Romanino, di Giulio Romano, del Brusasorci e d’altri valenti si veggono qua e colà spiccare tuttavia dalle vôlte e dall’alto delle pareti come pochi avanzi di un grande naufragio. Geme l’animo all’aspetto della passata devastazione, la quale si presenta maggiore come più s’inoltra il passo negl’interni penetrali, incitati dal desiderio di pur vedere qualche resto di una magnificenza che avea pochi pari. Lewald non seppe dir altro di questo castello se non che è interamente decaduto, ed ha però un aspetto [p. 15 modifica]imponente. Combini chi può la bugia colla verità sopra il medesimo soggetto! Noi non abbiamo tanto di filosofia.

L’Archivio principesco e vescovile che quivi era, abbondante di preziosi manoscritti, è adesso in Innsbruck. Per buona sorte gran numero di documenti ne abbiamo stampati ne’ volumi del P. Bonelli, e moltissimi ne trascrisse di propria mano il Vescovo Principe Felice degli Alberti, i cui manoscritti si conservano da S. E. il presidente d’Appello Mazzetti, il quale ha pure copia del famoso Codice Vanghiano, pregiatissima raccolta di antiche memorie fatta per opera di Federico Vanga, Vescovo Principe, della Chiesa e del Principato assai benemerito, che resse in sul principio del secolo decimoterzo.

Uscito dal castello, passi il viaggiatore su la sottoposta piazza, ch’è detta la Mostra, ed osserverà ivi non piccolo movimento presso la Regia Dogana. Si faccia indi a considerare l’antica Torre Verde, che, non so per qual ragione, dicevasi una volta de’ Cavoli; quella torre alla quale fanno capo le mura che dal castello stendonsi in giù fino all’Adige, dove in tempo d’assedio attignevasi l’acqua occorrente al presidio. È opinione di alcuni che [p. 16 modifica]ella sia più antica di quella del castello, e che se ne debba la fondazione agli Etruschi, e forse ai Rezj.

Uscendo per la porta che sta quivi aperta, vedesi una parte del Borgo di San Martino, dov’è la cappella di cui si è detto sopra, dedicata a questo Santo, nella quale si ammira un bel dipinto, capolavoro di Cignaroli, rappresentante il beato Vescovo moriente.

Scenda poi su la ripa dell’Adige presso la torre, là dove sopra un forte parapetto di pietra sono due piramidi, e lungo esso una regolare piantagione di alberi ombrosi. Molti si dilettano qui osservando il corso del fiume, l’opposta penisola, e l’aspetto delle fabbriche della città, che in semicerchio disposte lungo la ripa, stendendosi in giù fino al ponte di San Lorenzo, che pur si vede, fanno argine al fiume, il quale, talvolta insuperbito di sua grandezza e potenza, pare che minacci di penetrare nella città, che pur si gloria e godesi di averlo vicino.

Volgendo il passo per recarsi al Cantone, entrerà in una pulita via, che dicono Contrada Tedesca, non già perchè ella sia abitata da Tedeschi, come falsamente fu scritto, ma perchè è diretta e conduce verso Germania [p. 17 modifica], paese de’ Tedeschi. Anticamente, se non prendo sbaglio, nomavasi contrada dei Cappellani. Osserverà qui la Cappella detta del Suffragio, con bella facciata di ordine corintio; e noterà un corso di portici che nella calda estate sono frequentati dalla gente che va in cerca di ombra e di fresco. Mercey vide in questa contrada due femmine che rissavano per gelosia, e se ne maravigliò assai. Nel suo paese le donne non sono elle forse gelose? Sarà perchè i mariti non danno loro mai motivo di sospettare! Lewald trovò qui un altro scandalo, e fu che molta gente, mentre il sacerdote somministrava il santo Viatico ad un infermo, pregava per questo in ginocchio su la via con voce da potersi intendere l’un l’altro. L’iperboreo filosofo crede che un moribondo, se ode i suoi fratelli pregare per lui il Giudice eterno, debba esserne sconfortato ed afflitto!

Il Cantone è il quadrivio a capo dei menzionati portici. Quivi mirando in su verso Porta d’Aquileja per contrada di San Marco, nominata così per un convento di Agostiniani ed una chiesa ch’ivi fu intitolata a questo Santo, gli verrà veduta una piccola casa, la cui facciata è dipinta a fresco. Il lavoro è del [p. 18 modifica]Ricci, detto il Brusasorci, e la casa appartiene al Conte Cloz, che promise a noi di far nettare dalla polvere quelle bellissime dipinture. Vedesi nello spazio maggiore una battaglia, e al basso la bella Spagnuola che Scipione ridona al di lei amatore. Sfregio a questi dipinti, se vero è che la decenza dee preferirsi ad ogni cosa, è la nudità della donzella.

Contrada di San Pietro e Contrada Lunga sono le due altre vie che fanno capo al Cantone. La prima, che porta a mezzodì, è assai frequentata per le molte botteghe che vi sono di mercadanti ed artisti. La chiesa parrocchiale di San Pietro ha nell’interno belle colonne e marmorei altari. La cappella di San Simonino, posta presso al presbitero, acquistò celebrità per le circostanze che accompagnarono l’istoria del Santo, di cui ivi conservasi il corpo. Nell’anno 1475 si trovò in Trento il cadavere di un fanciullo di circa anni due e mezzo di età, ferito e mutilato. Era il corpo di Simone, figlio di un onesto cittadino. Sospettossi che gli uccisori potessero essere stati Ebrei, perchè di quei tempi erano i miseri dal fanatismo indotti a commettere simili delitti. Catturatine alcuni, furono rinvenuti nelle [p. 19 modifica]case loro gli strumenti adoperati a martirizzare il fanciullo. Ma persistendo essi a negare il delitto, secondo il barbaro e ingiusto costume invalso allora in Europa, e non per anco abolito interamente, furono messi alla tortura, e per tal mezzo ottenutane la confessione, si dannarono a morte. Gli altri Ebrei ebbero il bando dalla città, nè poterono più mai ristabilirvisi. Era allora Vescovo Principe Giovanni Hinderbach, tedesco, uomo rigidissimo, al quale i Giudei cagionarono molte brighe, e cui riuscì arduo il discolparsi in Roma, dove fu accusato d’ingiustizia e di crudeltà. Il tormentato fanciullo fu ed è onorato qual innocente e martire perchè dato a morte in odio di Gesù. Oltre questa si eressero in memoria del fatto e in onor suo altre cappelle, una in casa de’ Conti Bortolazzi, ed una in quella de’ Baroni Salvadori, dove fu preso e dove fu tormentato Simone. Chi messo in sospetto da una confessione estorta coi tormenti, e dal processo fatto contro il Principe, volesse dubitare della reità degli Ebrei, non avrebbe per ciò motivo alcuno di biasimare i Trentini, che onorano qual beato in Cielo un fanciullino innocente che dovette soffrire da mani scellerate una morte [p. 20 modifica]penosissima. La Chiesa Cristiana onora pur come santi e martiri i bambini messi a morte per ordine del crudo Erode! Se i derisori Mercey e Lewald avessero voluto o saputo porre mente a tutto ciò, sarebbonsi forse astenuti dal motteggiare. Ma ei non seppero nemmeno che il mostrare spirito col deridere la gente in punto di culto religioso è fare offesa grave ai derisi, e un mezzo di attirarsi il disprezzo delle persone giudiziose e dabbene. Saria pur tempo che il volteriano buffoneggiare avesse una fine!

Prossima a San Pietro è la non inelegante cappella di Sant’Anna. Nell’attiguo fabbricato ha sede l’uffizio della Congregazione di Carità. A’ tempi andati era questo un ospitale fondato per ricovero degli Alemanni. Presso alla detta cappella vedesi un’arca di marmo greco in bella forma lavorata, con iscrizione, la quale dice contenervisi reliquie di S. Vigilio. Duolmi di dover avvertire che bisogna o tôrre di là quell’arca, o fare in modo che la sia rispettata.

Contrada Lunga presenta, a chi la percorre osservando, varj aspetti piacevoli. Al primo bivio è nell’angolo a sinistra l’albergo dell’Europa. La via che volgesi a mezzodì è contrada del Teatro, che più oltre nomasi di [p. 21 modifica]San Benedetto. L’antico nome della prima parte era della Morte, perchè ivi adunavasi in una cappella una Società di uomini che avevano per istituto di assistere in ogni modo i moribondi, non esclusi i dannati dalla giustizia.

Il Teatro, ch’è presso all’albergo d’Europa, fu edificato, son ora quattro lustri, da un uomo assai industrioso ed operosissimo. Il danaro che Felice Mazzurana sborsò per la costruzione di questa bella fabbrica, venne in sue mani da quelle dei compratori delle loggie, i quali son ora possessori di tutto l’edifizio, ed è per ciò che appellasi Teatro Sociale. Fu disegnato dal trentino ingegnere signor Giuseppe Ducati, cui, come subalterno, assisteva un Filippini, pur esso da Trento; e la fabbrica, per l’instancabile attività di Mazzurana (che non avea bisogno di avere ajutante il folletto che gli associò l’impudente Lewald), si condusse a termine entro quindici mesi da artisti nati nel Trentino. Ambrosi da Trento e Cipolla di Valsugana furono i dipintori. Poche città di provincia possono vantarsi di avere un teatro che vada al pari di questo. L’ingresso corrisponde male alla sua bellezza, ma non si tarderà molto a costruirvi [p. 22 modifica]una facciata conveniente. In primavera e in autunno vi si danno commedie, e nella estate vi è opera ogni anno.

Nella contrada di San Benedetto è da osservarsi la casa Cazzuffi, su la cui regolare facciata sono dipinture a fresco riputate degne di attenzione, ma oltraggiate dal tempo. Un poco più in là presentasi alla vista un palazzo, del quale il basamento, le porte, le finestre, le cornici formano un insieme di robustezza grandiosa e per essere costruito di marmo dall’imo al sommo, ed ornato di rilevati medaglioni d’attraente bellezza. Il che si crederà facilmente ove sappiasi che al Decano Tabarelli de Fatis, che ’l fece costruire, ne diede il disegno Bramante da Urbino.

Tornando a scendere giù per contrada Lunga non può non essere osservato il sontuoso palazzo Zambelli, che più comunemente è detto Galasso. Non ci fermiamo a darne la descrizione perchè dobbiamo farne altre, e vogliamo essere brevi. Diremo solo essere questa una fabbrica, la quale, per comparire in tutta la sua grandiosità, dovrebbe essere posta sopra una piazza. A Lewald non piacciono questi palazzoni italiani. Quando non vi dimorano che due o tre vecchie donne, dic’egli, ed ha [p. 23 modifica]ragione! quasi tutto l’edifizio resta disabitato! Ei non potè nè pur immaginare che ci possano essere in Italia signori a’ quali sia bisogno avere così grandi e spaziosi fabbricati per adagiarvi la famiglia, gli ospiti, gli amici e la numerosa gente di servizio. Ei non seppe che in Italia la estate per respirare aria fresca bisogna ricoverarsi o nelle grandi chiese, o sotto gli alti portici, o nelle ampie camere e sale de’ palazzoni. E non merita nessuna lode il gusto per la bella architettura? Così non pensava, benchè tedesco, quel ricco Fugger, il quale, innamorato di una avvenente donzella dell’illustre casa Madruzzo (altri dicono di una nobile Particella che amava un vescovo Madruzzo), perchè essa rifiutava di seguirla sposa in Germania, fece erigere dai fondamenti questo palazzo. Se spesi avesse i suoi denari in clamorose caccie di cervi e di cinghiali, o in pranzi e cene da Epulone, sarebb’egli stato più savio? Il palazzo passò dai Fugger ai Galasso, da questi ai di Tono, ora Conti Thunn, e per vendita fattane dalli Thunn, passati di qua due secoli or sono in Boemia, al C. Giacopo Zambelli, ora defunto, che lo ristaurò ed abbellì, e riaperse al pubblico la elegante cappella de’ santi [p. 24 modifica]martiri della Naunia, Sisinio, Martirio, Alessandro, celebri nel Cristianesimo, ponendo sull’altare, in luogo dello smarrito bel dipinto che rappresentava la loro morte, un Gesù orante, del signor Udine roveretano.

Vicino a questo palazzo è il Seminario vescovile, bello, ampio e solido edifizio de’ Gesuiti. Per opera del vescovo Francesco Saverio Luschin fu ai dì nostri ampliato verso occidente, lasciando la parte orientale ad uso delle scuole elementari; ma gl’intelligenti piangono la distruzione della chiesa detta del Carmine, che abbelliva il luogo dove innalzossi la nuova fabbrica. Ai seminaristi, che, essendo la diocesi vasta e molto popolata, vi concorrono in gran numero, danno lezioni ed ammaestramento Professori che bene conoscono lo spirito della cristiana Religione. E tra le virtù che sono ad essi raccomandate hanno luogo non ultimo l’umiltà e l’obbedienza al legittimo Superiore, senza le quali nè qui nè altrove non può alcuno ottenere posto dove fare ed avere del bene. La quale verità pare che a Lewald non sia ancora entrata nel capo. O che voleva egli insegnare quando scrisse che in niun luogo come in Trento l’umiltà e la sommessione conducono sicuramente allo [p. 25 modifica]scopo? I furbi ipocriti sono conosciuti e detestati qui come in ogni altro paese dove la gente non è stupida. E stupidi perdio non siamo. E Lewald, che forse ne credea tali, potrà farcene presto testimonianza. L’interno del tempio (per tacere della sua facciata che non merita una parola) è assai regolare, e ricco di marmi nostrani che adornano le pareti, le loggie e gli altari. San Francesco Saverio, battezzante Indiani, quadro ch’è sul maggior altare, vuolsi che sia bene rappresentato, ed è creduto lavoro del nostro Pozzi, che dipinse la chiesa del Gesù in Roma.

Quella che si offre allo sguardo nell’uscir dalla chiesa del Seminario è contrada Larga, e la gran mole che sorge nel fondo la Cattedrale. Il nome della strada indica qual ella sia. Vi si reggono poche botteghe, perchè pochi dei suoi abitatori si applicano al commercio. Quivi è la casa del civico magistrato, che ha bisogno di essere ristaurata. In questa si conservano romane lapidi scritte, che interpretate con dottrina e retto giudizio dal nostro signor Conte Benedetto Giovanelli, con altre non poche da altri nostri dotti illustrate, valsero a mettere in chiaro assai punti rilevantissimi dell’antica nostra istoria. Vedesi [p. 26 modifica]ivi anche una Maria egiziaca di buon pennello, e l’originale quadro del Concilio tenutosi in questa città. La vecchia abitazione degli spenti Geremia, ora de’ signori Tevini, è notabile per la sua esterna struttura, e merita che se ne faccia menzione, perchè in essa fu, per opera de’ Nauni Bernardo Clesio, Sigismondo di Tono e Antonio Quetta, l’anno 1535, conchiusa pace tra i Veneti e gl’Imperiali. Dirimpetto a questa si mostrano le case che furono de’ Bellenzani, famiglia famigerata molto tra noi, e che ora sono possedute dai conti di Thunn, nelle quali, specialmente in quella che rinnovasi dietro il disegno del lodato Vantini, veggonsi belle dipinture di un altro bresciano, Tomaso Castellini.

Presso alla piazza è la chiesetta dell’Annunziata, nella quale sono colonne di marmo trentino, le quali, essendo grandi e di un solo pezzo, non deesi trascurar di vedere. Su d’una tela rozzamente dipinta conservasi quivi memoria della peste che desolava questa città nel secolo decimosettimo. Più micidiale però fu quella che infierì nel decimoquarto; la quale è descritta da Giovanni Parma, canonico trentino, il cui manoscritto, [p. 27 modifica]che deploravasi perduto, venne per felice sorte scoperto da S. E. il presidente Mazzetti da Trento, diligente raccoglitore di tutto ciò che spetta alla istoria trentina.

Scendendo ancora per contrada Lunga si e presenta, a chi mira verso mezzodì, un’altra via, chiamata delle Orfane, perchè ivi è l’ Orfanotrofio, femminile e maschile, colla semplicissima iscrizione: Orphano tu eris adjutor. Noi vedremo che questo divino precetto non fu qui scolpito inutilmente. Benedizione celeste, eterna benedizione a chi udiva e a chi udirà ubbidendo queste voci di Dio! Fondatore del maschile era un Piissimo della nobile estinta casa de’ Baroni Crosina, ragione per cui gli allievi sono detti Crosinotti. Essi portano sul vestito, in quella parte ch’è presso al cuore, una croce in segno di riconoscenza verso il cristiano benefattore.

Si trova più basso, volta come le altre a mezzodì, la contrada della Prepositura, nella quale entra chi viene pel ponte di San Lorenzo. Questo è difeso da una torre costrutta in alto di cotto. È opera del celebre Federico Vanga, Vescovo e Principe, del quale porta il nome, chiamandosi Torre Vanga, e faceva parte della munizione di Porta [p. 28 modifica]Bresciana, di cui l’osservatore scopre gli avanzi agevolmente. Sul principio del secolo decimoquinto fuvvi rinchiuso, da Rodolfo de’ Bellenzani, capo de’ malcontenti Trentini, il bizzarro ed infelice Giorgio di Liechtenstein, Vescovo Principe, le cui strane vicende formano un curiosissimo e molto istruttivo periodo della nostra istoria. Di questo e del menzionato Federico Venga si leggeranno con piacere le avventure e le azioni nel compendio istorico che stiamo dettando. Il ponte fu fatto di nuovo l’anno 1835, distruggendo affatto il vecchio provvisorio, che in qualche itinerario fu detto grandioso, e che non meritava per nulla questo aggiunto. Quello che veramente era tale fu bruciato nella guerra dell’anno 1796. Bello e grandioso è lo spettacolo che si presenta a chi da questo ponte volge intorno gli sguardi. E noi vedemmo colte viaggiatrici fermarsi quivi per disegnare quelle bellissime vedute.

In capo alla contrada fu la casa de’ Prepositi capitolari, convertita da poco in collegio. In tempi da noi lontani vi stavano monache di Santa Margherita, e diceransi Monache del Sobborgo, perchè allora questi luoghi erano fuor delle mura. A sinistra della [p. 29 modifica]via che guida in su verso oriente è un’antica fabbrica, la quale fu detta la Casa di Dio, ed era un ospitale fondato dai Bellenzani. Chiamossi anche Casa de’ Battuti, perchè una società di Flagellanti adunavasi nella cappella dell’ospitale per fare le loro lodevoli devozioni e matte flagellazioni.

Ora abbiam dinanzi a noi la chiesa di Santa Maria Maggiore, che prima di essere rinnovata dicevasi di Santa Maria Coronata, e vi facevano lo uffizio i Fratelli Alemanni, che il volgo sincopò in Frallemani, e Frallemano appellò anche il luogo ov’essi abitavano, che fu il locale ora convertito in caserma. Di questa chiesa, valendoci dello scritto del signor Vantini, possiamo dire, con tutta verità, esser essa il più pregevole monumento di sacra architettura del secolo decimosesto che per noi si possa offerire alla curiosità del forestiere, sia per la venustà dello stile, sia per istorica reminiscenza, perchè appena compiuta fu convegno alle gravi disputazioni di quegli uomini sapientissimi che composero il Concilio Ecumenico il quale ebbe nome dalla nostra città.

La sua costruttura è pur essa dovuta alle solerti cure del Principe Vescovo Clesio, il [p. 30 modifica]quale sì grandi cose operò in onore della Religione, dello Stato, delle arti e di qualsiasi nazionale incivilimento da fare disperata ne’ successori l’idea di poterlo non che vincere forse, emulare più mai. E noi crediamo di non essere lungi dal verosimile, supponendo che un’interna inspirazione il movesse a preparare al generale Concilio un luogo degno con sì bella fabbrica e sontuosa. Vantini si sforza di provare, a modo di congettura, che lascia al giudizio degl’intelligenti, dalle parole: Bernardo Clesio Auctore, che leggonsi scolpite in bella lapide sull’esterna parete del coro, doversi conchiudere che l’idea della fabbrica, ossia la invenzione, attribuire si debba a lui medesimo, al Clesio. Ma il C. Giovanelli vuole che quell’ Auctore vaglia lo stesso che il Dedit scritto in una lapide di Augusto in Piè di Castello di là dell’Adige, e che tanto il Dedit quanto lo Auctore significhi: Diede il pensiero, il comando ed i mezzi.

Lo stile di questo tempio ricorda quell’architettura originale e tutta italiana che apparve nel secolo decimoquinto, e che poco stante, per una malintesa imitazione dell’antico, si modellò su gli avanzi dell’architettura romana, e quindi con rapida transizione si [p. 31 modifica]abbandonò alle matte stravaganze di quello stile che fu detto barocco. Qui tutto accenna e sveltezza di forme e semplicità di ornamenti. Alcuni pilastri di maniera jonica dividono esternamente in regolari comparti la facciata, i fianchi ed il coro. Le finestre si presentano arcuate, di ragionevoli proporzioni, e circondate da stipiti senza modanature. Le pareti sono tutte quante incrostate di un marmo rossiccio, ed i pilastri, gli stipiti e le cornici d’ogni maniera sono costrutti di marmo bianco, tolti amendue dalle nostre cave suburbane, ed è bellissimo l’accordo che risulta dall’armonia degli anzidetti colori.

La porta che vedesi all’ingresso principale non appartiene a questa maniera di costruire, e sembra che si facesse eseguire in appresso dal Cardinale Madruzzo, come il manifesta il suo stemma gentilizio che vi sta sopra. Dicasi medesimamente della porta minore a mezzodì, la quale appartiene certamente ad altro tempio, forse a quel medesimo che vi era prima, e sente della maniera de’Lombardi.

L’interno della chiesa presenta una sola navata, e tre altari per ciascun lato di essa, i quali si addentrano nello sfondato di altrettanti archi semicircolari di bella proporzione, [p. 32 modifica]con archivolti ed imposte elegantissime. Nel presbitero allato del maggior altare, sostenuta da grandi mensole, si sporge la tribuna o cantoria dell’organo, tutta di candido marmo lunense, pregevolissimo lavoro di Vincenzo Vicentin, il cui nome si legge scolpito su la modanatura di una cornice. E questi è pur esso scultore italiano degno di bella fama, sfuggito per mala ventura alle dotte investigazioni del valentissimo Autore della storia della scultura dopo il suo risorgimento. Noi non dubitiamo di affermare, questa tribuna essere un capolavoro dell’arte, e massimamente in fatto di scultura ornamentale. Veggonsi in essa distribuiti in regolari comparti parecchi bassirilievi i e statuette, che ricordano il fare di Tullio Lombardo; ma soprattutto ammirasi tanta squisitezza di gusto negl’intagli delle cornici, e ne’ fregi d’ogni maniera, di che va copiosissima, che ben poche opere del cinquecento possono per bontà di stile a questa agguagliarsi, e non è forse alcuna che le stia sopra. Più guardi a questi ornamenti, e più ti compiaci nella leggiadria delle invenzioni, nella spiritosa movenza de’ fogliami, nella morbidezza de’ contorni, nella gentilezza degl’intagli, nella grazia bellissima delle curve, e [p. 33 modifica]più ti persuadi questo essere il sommo delle arti decoratrici, e nulla (in ciò almeno) rimanere ai moderni da invidiare ai secoli di Pericle e di Augusto. Per che noi conchiudiamo col fare voti che lavoro così stupendo sia fatto conoscere al Pubblico con diligenti incisioni, nella persuasione che ne debba venire giovamento alle arti, gloria all’artefice, e decoro a questa città.

Sovrastante alla tribuna era quell’organo tanto famoso per intensità di suono, soavità di voci, e incanto d’armonia, che notavasi come una meraviglia; ma un fulmine, scoppiato nel campanile l’anno 1819, venne a scomporre ed incendiare così mirabile congegno, nel quale disastro perirono anche alcune belle dipinture di Girolamo Romanino da Brescia, ond’erano effigiate le imposte. Il nuovo organo, tuttochè sia quanto di meglio operossi ai nostri dì in questo genere, non presenta che una sparuta sembianza di quello che più non esiste. Antonio Zurlet fece a proprie spese eseguire e l’organo e la cantoria, come ne avvisa un’iscrizione del 1534, che vi è unita, e il nome di lui passar dee onoratissimo alle remote generazioni. Lewald, che, come ei dice, venne in questo tempio [p. 34 modifica]per vedere se vi fossero belle ragazze! non vide quanto bello fosse il tempio, nè pose attenzione alla cantoria; ma non mancò di riferire come interessante la favola che narra, avere i Trentini acciecato e fatto perire in carcere l’artefice (loro concittadino) dell’organo antico.

Coperto da cortinaggio serbasi un quadro che raffigura l’ordine in cui sedevano i Padri del Concilio; e ciò non è per adescare la curiosità dello straniero, ma per rispetto alla sacra adunanza che vi è rappresentata. Una tela di Alessandro Bonvicini da Brescia, nominato il Moretto, che è posta sul secondo altare a destra di chi entra per la porta maggiore, non debbesi lasciare inosservata. Sono rappresentati alcuni Dottori di Santa Chiesa in atto di fare disputa tra loro, e in alto è Nostradonna col Bambino, atteggiata con grazia particolarissima. Si vede espressa ne’ disputanti la concitazione che deriva da un animato parlare, ed è bellissimo il contrasto tra queste mortali perturbazioni e quella calma immortale, illeggiadrita da un celeste sorriso che irradia il volto della Regina de’ Cieli.

Del Concilio tenutosi in questo tempio (durò dal 1545 sino al 1563) parlarono [p. 35 modifica]scrittori senza numero. E perchè molti mostrarono, parlandone, di essere grandi ignoranti, tra i quali non ultimo luogo meritossi il Mercey, il quale amò di esser anche inverecondo spregiatore, e gli scritti di costoro si leggono, lasciando ai teologi quelli che esposero verità, crediamo essere debito nostro il dare di questo celeberrimo Concilio una giusta idea in poche parole, a fine di rettificare sopra un oggetto d’altissima importanza i giudizj della gente cattolica ed accattolica. E preghiamo gli amatissimi nostri fratelli che chiamansi Protestanti, a ponderare ben bene le nostre parole, che sono parole di amore e di verità.

I Vescovi e i Teologi consultori che composero il Concilio di Trento si occuparono di due cose. L’una fu esaminare ed indi esporre chiaramente la dottrina generale della cristiana antichità, salendo fino ai tempi apostolici, intorno ai punti che i seguaci di Lutero, Calvino, ec., mettevano allora in dubbio o negavano. Ad uomini dotti, quali erano i più de’ Prelati e Dottori, non riuscì l’esame e la decisione difficile, imperocchè ed avevano alle mani la Scrittura Sacra, le decisioni de’ Concilj anteriori, le opere de’ Santi Padri, ossia scrittori de’ primi secoli, nonchè [p. 36 modifica]quelle de’ Teologi posteriori i più accreditati; ed essendo eglino venuti da tutte le regioni cristiane non già prima infette di eresia o di scisma, conoscevano troppo bene qual fosse la credenza antica delle Chiese particolari che per l’unità della fede formavano il gran corpo della cristiana Chiesa. L’altra loro cura si fu prendere notizia de’ molti e gravi disordini introdottisi nel clero e nel popolo cristiano, ed apprestarvi con saggi decreti di riforma e pronto efficace riparo e rimedio. Perchè bisognava venire in chiaro di molte verità, per ciò movevansi o proponevansi dei dubbj, e perchè in punto di disciplina dagli uni volevasi una cosa e dagli altri un’altra, ci furono quistioni e lunghi dibattimenti, quali non mancarono nemmeno al Concilio tenutosi in Gerusalemme dagli Apostoli ed Anziani. Finalmente si venne al: Visum est Spiritui Sancto et nobis: pubblicandosi i canoni e decreti bene ponderati della sacra Assemblea. Tutta la Chiesa Cattolica riconobbe, non senza esame da parte sua, infino ad oggi, dunque pel lungo corso di circa tre secoli, essere conforme agli antichi insegnamenti degli Apostoli e de’ santi e dotti loro successori, e all’universale credenza de’ Fedeli, la [p. 37 modifica]dottrina dogmatica e morale esposta dai Padri del Concilio Tridentino; tutta la Chiesa accettò ed eseguì, con poche locali eccezioni suggerite dalla prudenza, i salutari decreti di riforma. Nel dogma e nella morale non si cangiò od innovò nulla, perchè gli uomini non possono a quello che Dio rivelò aggiungere o levar sillaba; anzi i canoni tutti, sì in questo Concilio, come negli altri, in ogni tempo si fecero per dannare i novatori: nella disciplina sonosi fatti molti cangiamenti e molte innovazioni, per le quali i costumi del clero e del popolo si corressero, e migliorarono di molto. Che importa mai che molti de’ prelati fossero molli avari ambiziosi? Eglino, col fare i decreti di riforma che pur dovettero fare, dannarono sè stessi, e la Chiesa tutta danna ancor oggi ed essi e i loro simili. Per chi ha sano intendimento è questa una prova novella che Quegli il quale disse agli Apostoli e ai loro successori: Ego vobiscum sum usque ad consummationem sæculi, obbliga, onnipotente qual è, ad insegnare la verità e a volere il buon costume il Corpo unito de’ Vescovi, anche quando molti di loro amano poco l’una e meno l’altro.

Da Santa Maria a piazza del Duomo arrivasi [p. 38 modifica] in pochi passi per quella via, su la cui sinistra è un’antica torre, pertenente all’edifizio dove risiede il civico Magistrato. Tre corsi di comodi portici, una grande fontana, il palazzo di Giustizia, la facciata settentrionale del Duomo colla sua cupola e col campanile, ed una gran torre, arresteranno quivi il forestiere, dilettandolo grandemente. Vuolsi che la torre sia di antichità remotissima, almeno al basso; chè la sommità è opera di pochi secoli. Una campana, posta su questa torre, conserva il nome di Renga, perchè o il Magistrato o il Vescovo facevanla suonare quando volevasi arringare il popolo. Così nel 1275 il Vescovo Enrico II, suonata la campana ad arengam publicam, adunò il popolo nella chiesa di San Vigilio, ed ivi il popolo, che poco prima avea valorosamente scacciato dal territorio il tiranno Ezzelino, giurò innanzi ad un aureo crocifisso di riconoscere lui, il Vescovo Enrico, tanto nelle cose spirituali che nelle temporali vescovo e signore. La fontana, molto ampia, ornata di gradinate, di belle e capaci conche, nelle quali versano acqua delfini e tritoni, e sormontata dalla statua di Nettuno col tridente, è opera di un Jongo trentino, eseguita per volere [p. 39 modifica]della città, che se ne gloria come di un suo bello ornamento. Il palazzo pretorio fu anticamente, almeno in parte, episcopio; ciò leggesi anche in una iscrizione appesa dal Vescovo Principe Sigismondo Alfonso di Thunn alla facciata che guarda su la piazza. Su questa piazza si dà, la sera della festa di S. Vigilio, protettore della Diocesi, spettacolo di fuochi artificiali, al quale accorre ogn’anno da tutte le parti gran folla di gente.

Del Duomo dice Lewald: È un bello edifizio gotico. Ed aggiungendo ch’è dedicato a S. Vigilio, vescovo e martire nostro, ciò ch’è vero, non ha potuto a meno di cacciarvi dentro una maligna bugía, affermando che Vigilio perì per mano del carnefice, quando sapeva che fu lapidato dai rustici di una delle nostre valli, cui il santo uomo annunziava la lieta novella. Ma intorno all’edifizio udiamo quello che ne dice Vantini.

Il Duomo, o chiesa cattedrale di Trento, presenta, nella sua elevazione esteriore, un monumento pregevolissimo dell’architettura italiana all’uscire del secolo decimoterzo. Le cronache notano come sul finire del quarto secolo S. Vigilio vescovo fabbricasse una chiesa ai Santi Gervasio e Protasio là dove al [p. 40 modifica]presente è il Duomo, e come per opera del di lui successore Eugippo un’altra se n’erigesse, o quella primitiva si ampliasse, perchè vi avessero sepoltura onorata le spoglie mortali del medesimo S. Vigilio.

Da queste prime memorie fin dopo il mille non conosciamo patrj documenti ne’ quali si faccia menzione di questa fabbrica. Siamo nonpertanto nell’opinione, che, durante il dominio de’ Longobardi, essendo allora Trento residenza di duchi, sorgesse qui un tempio di notevole cospicuità per assumere nome e decoro di chiesa cattedrale. Forte congettura di ciò sono, a parer nostro, gli architravi delle tre porte che danno presentemente accesso a questo tempio, i quali recano scolpito un ricco ornato di stile evidentemente longobardo, che dagl’intelligenti non si può confondere con nessun altro. Si riconoscono di leggieri alle estremità dei detti architravi le traccie della mutilazione e del riadattamento. Opera longobarda è pure un capitello elevato poche braccia dal suolo e posto nel nicchione dell’altare che sta presso la porta orientale; e molti per avventura n’esistevano nell’antica cripta, che fu distrutta per erigere sopr’essa il maggior altare. È ragionevole [p. 41 modifica] il credere che i detti architravi appartenessero alla porta o alle porte di un tempio fabbricato nel settimo o nell’ottavo secolo; e dalla loro ampiezza, come dalla ricchezza de’ loro ornamenti, si può argomentare che il tempio, cui davano accesso, dovess’essere di notevole capacità e di non minore decoro. E di ciò tutto è prova non dubbia la parte orientale esterna della cappella de’ Santi Biagio e Lucia (ora convertita in sagrestia), la quale osservasi in forma semicircolare con una nicchia, in cui è posta una immagine di Nostra Donna. Tutti gl’intelligenti affermano concordi, essere questa opera longobardica.

Coll’undecimo secolo ripigliasi il filo delle notizie istoriche di questa Cattedrale. E ci è narrato che Udalrico II, il quale fu il primo Vescovo Conte, Marchese, e Duca di Trento (ei tenne il seggio dal 1022 al 1055), fondò la cripta, e mutò in meglio tutta la chiesa; che Alberto, ovvero Adelpreto I, riedificò il vetusto altare dov’erano reliquie di Santi; e che dopo corto intervallo il vescovo Altemanno conchiuse la riedificazione del tempio, il quale, col di lui ministero, e con quello del Vescovo concordiense, e del Patriarca d’Aquileja (ch’era un trentino, figlio di Ottone [p. 42 modifica]di Poo), fu nel 1146 solennemente consecrato.

Se non che gli esterni abbellimenti dell’edifizio, che attraggono maggiormente gli sguardi e de’ nazionali e de’ forestieri, appartengono al secolo decimoterzo, e ne fu architetto maestro Adamo di Arogno comacino, il quale operò sotto il principato di Federico Vanga, che diede eziandio compimento al palazzo vescovile, il quale, siccome detto è di sopra, sorgeva presso la Cattedrale. Nel lato esterno di questa, ch’è volto a mattina, dov’era l’antico cimitero, è un’iscrizione sepolcrale, che ad Adamo di Arogno della diocesi di Como, quivi seppellito co’ suoi figliuoli, dà l’onore di essere stato l’architetto di ciò che di bello vedesi e dentro e fuori di questa fabbrica. La quale iscrizione, poichè è ancora leggibile, e fu pubblicata dal P. Bonelli e dal C. Giovanelli nel suo erudito libro intorno alla Zecca trentina, noi per amore di brevità ci asteniamo da qui trascrivere. Diciam solo che porta la data del 1212.

Lo stile della parte esteriore di questa chiesa mirabilmente si accorda coi progressi delle arti rinascenti dopo il mille, e ne richiama al pensiere la torre, il battistero e la cattedrale di Pisa. E però opiniamo che il nome [p. 43 modifica]dell’architetto maestro Adamo di Arogno, fin qui dimenticato nell’istoria delle arti, non sia men degno di bella fama che quello di coloro che operarono in Pisa. Nella costruttura di maestro Adamo si presenta una eleganza di forme, di cui indarno si cercherebbero esempj nelle opere della decadenza che precedettero il mille. Quella loggietta che ricorre per l’edifizio (eccettuata una parte del lato meridionale che fu costrutto cento anni dopo per munificenza di Guglielmo da Castelbarco), composta con archi a semicerchio sorretti da colonnette binate, serve opportunamente di fregio alla sommità delle pareti del tempio, v’induce leggerezza, e si accorda cogli ornamenti delle sottoposte finestre, le quali veggonsi qui non a guisa di feritoje, come ne’ secoli precedenti, ma di svelta forma e di ragionevole grandezza. Consonante alle predette opere sorge il portico, che serve di vestibolo a quell’ingresso ch’è volto ad oriente, e in esso, come nelle finestre del coro, apparisce quell’aggruppamento di quattro colonnette formanti un solo sostegno, i cui fusti si annodano con bizzarro intreccio nel loro mezzo; la quale pratica non considereremo con severità di giudizio, ma come lavoro di [p. 44 modifica]esecuzione difficile, e forse anche come concetto simbolico, chè a que’ giorni ancora l’architettura ecclesiastica era tutta simbolica e piena di arcane significazioni.

Che se ci facciamo a considerare quest’edifizio dal lato settentrionale che risponde sulla piazza, non sarà inopportuno l’osservare come si veggano in questa fabbrica manifesti indizj di epoche diverse nelle quali fu data opera alla sua costruzione. Si guardi all’imbasamento, e si conoscerà di leggieri come dal suolo fino all’origine delle finestre le pietre presentino nella superficie tale stato di corrosione da non lasciare alcun dubbio che a questa base dell’edifizio non si debba attribuire una priorità di alcuni secoli sulla parte sovrastante. Di ciò fanno prova alcuni avanzi ornamentali di romane sculture innestati nella parte più antica della muratura, e il mutilamento delle parastate, o risalti a guisa di lesene, alcune delle quali riescono appunto là dov’è il vano delle finestre, ciò che manifesta chiaro essersi mutato il disegno. Si noti poi l’epoca in cui operò l’architetto e scultore Adamo arognese, i cui lavori si manifestano precisamente dall’origine delle finestre infino al tetto. Quindi si guardi al portico, il quale [p. 45 modifica]sta innanzi alla porta, e si vedrà appartenere al secolo decimoquinto, come ne fanno fede i capitelli delle colonne di fronte, e gli ornamenti della soprastante cimasa. Questo portico è formato di ruderi dell’antico edifizio, come sarebbe il leone, il cui dosso fu goffamente incavato per appoggiarvi l’attuale colonna, e come sono i capitelli che veggonsi più presso alla porta. Finalmente osservando il campanile nella sua parte più eminente, ed il tamburo della cupola, si presenta un lavoro del secolo decimosesto. E in fatti è noto che amendue queste parti del tempio s’innalzarono sotto gli auspicj del nostro munificentissimo vescovo principe Clesio. La cupola, tutta di rosso marmo costrutta, è, chi ben considera, una maraviglia dell’arte in ogni senso.

Procedendo nell’interno del tempio ne duole dover osservare com’esso è soggiaciuto a quella malnata tendenza di voler rimodernare l’antico invalsa ne’ due secoli che precessero il nostro, e che non ancora potè sradicarsi col gridare dei più assennati. Veggonsi le antiche oscure pareti discordare sconciamente coi moderni bianchi intonachi delle vôlte, resi più ingrati dalle ammanierate pitture di cui [p. 46 modifica]furono ricoperti, e tutta la grave architettura del tempio dissonare coi bizzarri corniciamenti degli altari, e colle strane baroccherie della cappella del Sacramento, la quale al di fuori è per la sua schietta semplicità molto elegante. Fu eretta sul finire del secolo decimosettimo dal vescovo Francesco degli Alberti. E pur dissonante il maggior altare eretto nel 1744, a simiglianza della confessione del Bernini in San Pietro a Roma. Questo ha tuttavia un non so che di svelto ed ardito che piace all’occhio, sebbene la ragione il condanni; e per essere di marmo merita di esserne ammirata la difficile costruzione.

L’osservatore avvertirà alle scale praticate nelle interne pareti che guidano a’ loggiati esteriori, ed a quello che riesce internamente nel muro che si atterga alla facciata sopra la grande finestra di figura circolare, pur essa osservabile; e noterà l’accorgimento dell’architetto, il quale adoperò l’arco a sesto acuto, come più resistente, nelle prime arcate che sono presso alla porta principale; perciocchè tali vôlte servono quivi a sostegno de’ campanili (uno de’ quali è da farsi), mentre le altre tutte, sì dentro che fuori, sono di figura circolare, come più aggraziata dell’altra. [p. 47 modifica]La forma interna del tempio è una croce latina, il cui braccio maggiore è ripartito in tre navi divise da colonne, che diremmo piuttosto grandi pilastri assai forti e di bellissima composizione, su cui si aggirano archi a pieno centro, e formano due ordini di vôlte, delle quali le più depresse corrispondono su le navi laterali, e la più elevata su la centrale.

Che se a taluno piacesse notare alcuni particolari sulla costruzione interna di questo tempio, i quali, come facemmo osservare al di fuori, dimostrano le differenti epoche in cui venne innalzato, noi gli additeremo le colonne che circondano il presbitero, e le altre che sporgono per metà dalle pareti delle navate laterali, le quali tutte presentano ne’ loro capitelli un intaglio di fogliami ed una sagomatura d’abaco meno aggraziata d’assai che non quella de’ capitelli che sovrastano alle colonne isolate che fiancheggiano la nave di mezzo; queste consuonano affatto con lo stile di maestro Adamo di Arogno, e le prime segnano un’epoca di qualche secolo anteriore.

Tra i Depositi, che sono in questa Cattedrale in buon numero, noi indicheremo per primo quello di Pietro Andrea Mattioli, che su i nostri monti raccolse molte piante, di [p. 48 modifica]cui arricchì il suo celebre Trattato di Botanica. Vedesi presso alla porta principale a destra di chi entra. Poi quello del valoroso duce dei Veneti Sanseverino, che pugnando presso Calliano perì nell’Adige, e dai Trentini vincenti ebbe onorifici funerali e degna sepoltura. È osservabile anche quello che gli sta presso, del Vescovo Udalrico III, sopra il quale appeso alla parete è un gran quadro del 1504, dipinto in su la tavola e rappresentante la Crocifissione, riputato ottimo. Si veggono questi due da chi entra per la porta orientale. L’ultimo, e più degno d’attenzione, è su la parete meridionale sotto la cappella del Santissimo Sacramento, ed è, quello di Bernardo Clesio. Vedesi il di lui ritratto su la tela soprapposta in quel Cardinale che da S. Vigilio è presentato alla Vergine. Il dipinto è di Palma certamente, ma non saprei affermare se del vecchio o del giovine.

Dipinti notabili, oltre i due indicati, sono una Nostra Donna nel coro, dove se ne veggono altri di minor pregio, ma pure degni d’osservazione. Su lo altare, ch’è a destra di chi viene per la porta orientale, è una Madonna con alcuni Santi, opera di Francesco Morone. Su la colonna dov’è la mensa degli [p. 49 modifica]Acoliti, che servono al maggior altare, è un San Rocco dell’Orbetto. Le tele che sono su i due altari vicini alla cappella del Crocifisso, hanno pure non piccol pregio, in ispecie quella che rappresenta la Vergine e San Biagio, che è del Romanino. Non immeritevoli d’essere osservate sono le due grandi che coprono le pareti della menzionata cappella, le quali sono lavoro del bavarese Lott. Opera stimata è il Cristo, che ivi è velato sull’altare. Molti rivolgono a Dio loro preci innanzi ad esso con grande fiducia, perchè al suo cospetto furono pubblicati i Canoni, ossia le dogmatiche decisioni del Concilio tenutosi in Santa Maria; e non pochi affermano di avere conosciuto persone, a favore delle quali si verificò il Fides tua te salvum fecit.

La Sagrestia non è ricca, ma pure trovasi a sufficienza fornita di sacri arredi e di pregevoli reliquiarj, tra i quali è un’argentea cassa in cui son ossa di San Vigilio. Per maestria di lavoro si ammirano alcuni grandi arazzi istoriati.

Intorno alla Cattedrale dobbiam notare per ultimo che le sacre funzioni vi si fanno (come pure nelle altre chiese) con molta compostezza e dignità; e che, specialmente nella Quaresima [p. 50 modifica], e al tempo della festa di San Vigilio, che cade a’ ventisei di giugno, vi annunziano la parola di Dio valenti predicatori. E quando Lewald paragonò quello che udì per un momento al ciarlatano che veduto ed udito avea su la piazza, manifestò di essere villano sprezzatore, e impudentissimo uomo senza principj di onestà e di religione; chè solo un commediante il quale abbia perduto ogni pudore e insieme ogni rispetto a ciò che tutti riveriscono, può avere la sfacciataggine di offendere in modo cotanto indegno un sacro ministro, e un numerosissimo devoto Pubblico che intento lo ascoltava!

Uscendo per la porta posta a mattina si riesce sur un trivio, dove, mirando verso oriente su per una larga e lunga contrada, che fu detta de’ Calapini, e che ora ha nome da San Vigilio, vedesi, a capo di quella, Porta Nuova, che è la quinta di questa città, aperta non è molto, essendone state più altre in altri tempi murate. Di là inoltrandosi per l’altra via verso mezzodì si giunge ad un secondo trivio, ove da una parte si offre alla vista Porta Veronese, o di Santa Croce, e dall’altra la facciata di una chiesa che appellano di Santa Trinità. Salendo per la via del medesimo [p. 51 modifica] nome, che a questa conduce, vedrà il forestiere la Casa ove si raffina lo zucchero, stabilimento eretto pochi anni sono da una compagnia di Azionisti. Nell’umile fabbricato presso la chiesa, ricovero un tempo de’ Padri Filippini, si raduna la scolaresca assai numerosa del Ginnasio e del Liceo, che vi sta co’ suoi valenti professori a disagio. Nel locale del Liceo è da vedersi un Gabinetto fisico, rigenerato dal benemerito professore ab. Lunelli da Civezzano, il quale con raro disinteresse va sempre arricchendolo di nuove macchine.

Di quivi dirigendosi per un vicolo verso settentrione scendesi per contrada di San Vigilio, dove si vede nuovamente la raffineria dello zucchero, e là presso la Piazza delle Erbe. Questa è detta delle Erbe perchè vi si tiene mercato cotidiano d’ogni sorta di erbaggi, ed anche di agrumi, de’ quali si fa qui grande consumo, cosa non osservata da Lewald, il quale con una solenne menzogna affermò, non coltivarsi in Tirolo per dare in tavola che cavoli e patate, il che è falso anche se intendeva parlare del Tirolo propriamente detto, ossia della parte tedesca. Si vendono e compransi su questa piazza anche frutta d’ogni qualità, butirro, pesce, uccelli, pollame, ostriche, selvatico, ec., ec.

[p. 52 modifica]Partendosi da questa piazza, che la mattina è piena di gente, e volgendo il passo ancora a settentrione, si arriva su la piazzetta che dicesi del Vecchio Macello, d’onde si scorge, guardando ad occidente, contrada Oriola, anticamente appellata Auriola, ove sono molte botteghe, la quale va ad unirsi a quella di San Benedetto per condurre alla torre della maggior piazza presso il Duomo: più su a manca, mirando a tramontana, tornasi a vedere contrada di San Pietro; e progredendo ad oriente si giunge a quella di Santa Maria Maddalena, che va a finire a Porta d’Aquileja. Questa via ha il nome della santa Penitente perchè ivi era una chiesa a lei dedicata, nella quale adunavansi i parrocchiani per le sacre funzioni. Al presente questa parrocchia è unita a quella di San Pietro. Là dov’è l’abitazione ristaurata de’ Conti Consolati, e in tutta l’isola formata dalle case prossime a quella, furono scoperte reliquie di una fabbrica antica e solidissima, la quale credesi che fosse un anfiteatro. E in altri luoghi ancora nel fare scavi per fondamenta nuove o cantine, si trovarono a molta profondità pietre lavorate, frammenti di colonne, acquedotti, utensili, monete ed altri avanzi di [p. 53 modifica]antichità molto rimota, di che fui testimonio io medesimo quando si fecero le profonde fosse per mettervi le fondamenta del nuovo palazzo del conte Leopoldo di Thunn.

Le mura di questa città, costruite di marmorei massi al di fuori, e nell’interno di sassi tenacemente uniti con calce, sì che anche togliendone l’intonaco il muro non discade, ma restasi come roccia sospeso, ornate di merli con feritoje e difese da torri, le quali hanno tra sè comunicazione per un interno corritojo, si vedranno dal viaggiatore s’egli vorrà con noi uscirne per prendere cognizione de’ bellissimi dintorni. Qui gli diciamo solamente, che da tutti gl’indizj artistici e dalle istorie ancora, si evince esser elle opera degli Etrusci, rifatta da Romani, poscia dal re d’Italia Teodorico, ed indi in epoche diverse ristaurata, e in più luoghi elevata ed ampliata. Elle volgono intorno più d’un miglio italiano, ma in tempi antichi il loro circuito era più ristretto. Sembra potersi provare da certi vestigi e da documenti, che una volta scorrevano da oriente in vicino al Duomo, e di quivi sotto, ma presso a Santa Maria, fino alla Portella, o Porta Bresciana, ch’era di qua della torre Vanga. Certo è che i [p. 54 modifica]fabbricati occidentali di contrada della Prepositura, e il convento delle monache di Santa Margherita, formavano un sobborgo, e che Borgo Nuovo appellasi ancor oggi la parte della città ch’è presso a Porta Veronese.

Le cose da noi sinora vedute e notate in Trento sono esposte agli occhi del pubblico, e il tutto dimostra che questa fu città italiana molto ricca, e che anco al presente si trova ella in istato di floridezza. Questo si manifesta più ancora a chi può entrare nell’interno delle abitazioni de’ ricchi, nelle quali s’incontrano indizj antichi e moderni non solo di opulenza, ma di buon gusto e coltura eziandio, ed in buon numero. Quadri assai pregevoli, statue, monete, medaglie e molte altre cose preziose conservano con gelosia molti di questi signori. Se le tele ch’ei posseggono del Guercino, di Guido Reni, del Perugino, del Dolce, dei Rosa, di Tiziano e d’altri valentissimi, che gl’intelligenti sanno discernere, fossero in una sala unite, formerebbero una ragguardevole galleria, che sarebbe e bel decoro della città, e scuola atta a sviluppare il buon gusto ne’ giovani artisti. I servi di piazza potranno dire agli stranieri, quali possessori di rarità preziose, aprono volontieri ai curiosi i loro [p. 55 modifica]gabinetti, e indicare forse alcuni che io, per difetto di maggiori notizie, non posso nominare.

Non tralascerò pertanto di avvertire che belle dipinture sono presso il Vescovo Principe; che molti affreschi ornano la sala de’ conti Lodron; che antichi dipinti, e moderni, di Hayez, di Canella, di Palagi, ha nelle sue camere il C. Girolamo Malfatti; che i conti di Wolckenstein, i baroni Turco, Salvadori, Gaudenti, e i signori di Lupis, Schrek, Sardagna, Travaglia, Corradi, sono pure forniti di rare e pregevoli tele; che i conti di Thunn, e Spaur Giovanni (i quali per debito onoro e venero), oltre le rarità che custodiscono ne’ loro castelli nella Naunia, conservano anche qui dipinture bellissime; che il conte Simone Consolati ha una preziosa raccolta di quadri, d’incisioni e di sculture, e tra queste alcune opere del naune Insombe, che lavora in Firenze; e che il C. Benedetto Giovanelli fece con molta spesa dotta collezione di monete e medaglie e reliquie; altre dell’antichità, spettanti in gran parte al Trentino. Sua Eccellenza D. Antonio dei Mazzetti unì da ogni parte, senza risparmio d’industrie e di spese, quanto gli fu possibile di avere, ed ha moltissimo di documenti e di libri stampati e manoscritti risguardanti la nostra Istoria.