Vestigi della Storia del Sonetto Italiano dall'anno MCC al MDCCC/Postille

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Postille ai vestigi della Storia del Sonetto Italiano

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Vestigi
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POSTILLE


Guittone. Benchè, da cento e più anni innanzi, fosse stato preceduto da molti rimatori, fu il primo forse che abbia dato migliore forma alle rime. In questo suo sonetto non trovo parola che oggi non s’usi. La lingua italiana, con unico esempio nella storia degl’Idiomi, conserva freschi per seicent’anni quasi tutti i suoi vocaboli e modi di dire. Le voci moderne l’hanno poco o molto raffardellata; ma la sua schietta e nativa ricchezza sta tuttavia nelle antiche. — giunto, come leggesi nel penultimo verso, si dice anche oggi ed elegantemente in poesia, in vece di aggiunto.

Cavalcanti. Fiorentino; fu d’alto animo, e d’acuto ingegno; fu prode in armi; amatore disinteressato della sua patria; lodato dopo la sua morte da tutti gli storici, se non che lo accusano tutti d’indole troppo altera e sdegnosa. E doveva pur essere dotato di predominante carattere; da che Dante che pur era nato alterissimo fra mortali, confessa che Guido, benché gli fosse amico consideratissimo, gl’imponeva rispetto. Amò una giovane Tolosana; e morì in esilio quindici o vent’anni prima di Dante. Vedendosi imminente la morte, poco innanzi di chiudere gli occhi, ne diede avviso alla sua donna con que’ versi malinconici: [p. 126 modifica]

Perch’io non spero di tornar giammai,
Ballatetta, in Toscana ec. —

ballatetta è diminutivo di ballata; nome di canzoni al canto delle quali guidavasi dalle giovani il ballo. — Nel sonetto qui riportato a’re è sincope di aere in grazia della rima: nè oggi si usurperebbe — caritate vuol dire benevolenza graziosa: in questo verso il poeta intendeva che la beltà della sua donna spirasse a quanto sfavale intorno quel soavissimo fremito che viene dalla meraviglia e dall’amore improvviso — umiltate, suona dolcezza modesta — piacenza, vocabolo disusato e significava amabilità — per salute intendisi grazia di lume divino, necessaria a conoscere i pregi soprannaturali d’una perfetta beltà corporea e morale. — Raffrontisi questo co’ tre seguenti sonetti di Dante, Petrarca, e Giusto: trattano tutti quattro lo stesso soggetto, e quasi ad un modo.

Dante. Non fu ne’ sonetti di tanta felicità di quanta nelle canzoni per le quali, innanzi di scrivere il suo poema, era salito in alto concetto. Nè credo che abbia composto sonetti fuorché in gioventù. Fu di cuore innamorativo; e ancor giovinetto senti il dolore di veder seppellire la bella Angioletta ch’egli aveva amata sin da fanciullo. Vaneggiò poscia per altre donne; fra le quali egli nomina una donzella di Lucca; e il Boccaccio rammemora un’alpigiana, amata da Dante nell’età matura: e non di meno non cantò versi d’amore se non se per la sua Beatrice. E questo sonetto è pieno di vaghi e spirituali pensieri abbelliti poi dal Petrarca; e, se non isbaglio, fu scritto intorno al 1292.

Cino. Pistoiese: era giureconsulto, e ricavò l’idea e le frasi di questo sonetto dalla scienza ch’ei professava. Chiama imperatrice la ragione, come quella che impone leggi alle nostre passioni; e le assegna un tribunale — Secondo le leggi romane rigidissime contro agli schiavi domestici, un servo fuggitivo era punito capitalmente ad arbitrio del [p. 127 modifica]padrone — piato suona anche oggidì controversia legale davanti al giudice — il Petrarca trasse da questo componimento quella sua egregia canzone morale, che comincia:

Quell’antico mio dolce, empio Signore

e conclude per l’appunto come Cino, benché con altre parole:

Piacenti aver vostre ragioni udite:
Ma più tempo bisogna a tanta lite.

Pianse il Petrarca la morte di Cino, con quel sonetto:

Piangete, donne, e con voi pianga Amore.

Petrarca. Ne’ poeti anteriori le fantasie dell’amore ideale sono abbozzate con estro passionato, con grazia schietta ed originale:, nel Petrarca sono disegnate più esattamente dipinte con tinte più calde e mirabilmente adornate — in questo sonetto la parola Idea, stando a’ Platonici, significa modello primitivo sul quale Iddio e la Natura formano poscia più o meno perfetti gli enti dell’universo. — L’ottavo verso è una pennellata da maestro: e gitta un inimitabile chiaroscuro con quella rapida riflessione che le belle doti della donna amata esacerbano la passione dell’animo innamorato: ed è vero pur troppo! — nel verso nono in quelle parole mira per bellezza, sottintendesi facilmente per trovare; ed uno de’ mille modi spediti co’ quali questo poeta padroneggiando la lingua seppe abbreviarla, arricchirla e nobilitarla; e riesce chiarissimo sempre: bensì chi vuole in questa parte imitarlo riesce oscuro; tanto può l’ingegno! — l’ultimo verso è della povera Saffo, in quell’ode:

Colui mi sembra agli alti Dei simile
Che teco siede, e sì soavemente
Cantar t’ascolta, e in atto sì gentile
                    Dolce ridente.
Com’io ti veggio, palpitar mi sento
Nel petto il core; in quel beato istante
Non vien più suono d’amoroso accento
                    Sul labbro ansante:


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Muta s’intrica la mia lingua; accensa
Scorre ogni vena; ronza tintinnìo
Dentro gli orecchi; notte alta s’addensa
                    Sul guardo mio:

Sudor di gelo le mie guance innonda,
Tremito assale e abbrivida ogni membro,
E senza spirti, pallida qual fronda,
                    Morta rassembro.


Quest’ode io tradussi, or sono vent’anni o più; e tenni il metro greco inventato da Saffo; sol vi ho aggiunto le rime: nè so d’averla neppur mai ricopiata: ma fidando che solamente pochissimi la leggeranno la stamperò qui (benchè senta lo stile assai giovanile) affinchè si raffronti come e i Greci e i nostri esprimono diversamente le passioni del cuore. Saffo dipinge ardentemente gli accidenti naturali dell’amore, e il Petrarca le immaginazioni ideali. Anche Orazio chiude un’ode col dolce parlante dolce ridente che trovasi nella prima strofetta di Saffo; se non che nel poeta latino la stessa idea e le stesse parole spirano più amenità che passione: tanto gli scrittori malgrado ogni loro studio denno obbedire al cuore che detta sempre secondo gli affetti ch’ei prova. Il Petrarca essendo più affettuoso d’Orazio e meno sensuale di Saffo potè ritenere l’eleganza latina e temprare il furor della poetessa; onde alla circostanza del dolce parlare e del dolce ridere aggiunse di suo il bel Verso

Chi non sa come dolce ella sospira!
È gran lite fra’ critici se Giustina Levi Perotti da Sassoferrato contemporanea del Petrarca, abbiagli intitolato il seguente sonetto, nel quale gli propone il problema se a donna si disdica l’aspirare a fama di poetessa: eccolo qui appresso: [p. 129 modifica]

          Io vorrei pur drizzar queste mie piume
               Colà, Signor, dove il desio m’invita,
               E dopo morte rimaner in vita,
               Col chiaro di virtute inclito lume.
          Ma il volgo inerte che dal rio costume
               Vinto, ha d’ogni suo ben la via smarrita.
               Come degna di biasmo ognor m’addita
               Ch’ir tenti d’Elicona al sacro fiume,
          All’ago, al l’uso, più ch’al lauro o al mirto,
               Come che qui non sia la gloria mia,
               Vuol ch’abbia sempre questa mente intesa.
          Dimmi tu omai, che per più dritta via
               A Parnaso ten’ vai, nobile spirto,
               Dovrò dunque lasciar sì degna impresa?

V‘ è certa lindura che pare posteriore a quella età: — ir troncatura d’ire, com’è nel verso ottavo, dicesi anche oggi in poesia invece di andare. — A ogni modo gli eruditi ne fanno merito alla Giustina. Certo che il sonetto:

La gola, il sonno e le oziose piume etc.

fu dal Petrarca scritto per le rime in risposta a questo; e sciolse il problema da quel poeta galante ch’egli era.

De Conti. Romano: scrisse un canzoniere col titolo La Bella Mano: e son tutte rime in lode della sua donna; ma per lo più imitazioni della poesia petrarchesca, la quale com’ebbe tocco il sommo, cominciò per destino di tutte le umane cose a declinare, appena morto chi l’aveva perfezionata. Però in questo sonetto vedesi un bel lavoro intarsiato di pensieri alti e finissimi; bel lavoro a dir vero; ma pur sempre a mosaico, senza creazione e senza unità di composizione. — L’entrata del sonetto è vivace, e ricorda la cantica di Salomone Cup. 3. Vs. 6. Chi è mai costei che viene dal deserto sì bella? — La voce chiostro del terzultimo verso è frequente in tutti i nostri poeti; e deriva dal latino claustrum, recinto; però s’usa metaforicamente per qualunque circonferenza chc paia chiusa: e qui gli [p. 130 modifica]stellati chiostri, significano il cielo; incircoscritto all’umano pensiero, ma che per l’orizzonte pare circoscritto d’ogni parte a’ nostri occhi.

Leonello. un de’ principi di Ferrara; morì giovine; scrisse assai poco, e con poca celebrità: colpo della fortuna alla quale non regge neppure l’ingegno nè il merito degli scrittori, nè l’autorità de’ principi. Certo che Anacreonte non ha invenzione nè più graziosa, nè più amabilmente espressa di questa:

L’Amor mi ha fatto cieco:

E la morale che racchiude sarebbe salutarissima, a chi potesse giovarsene: se non che è più facile a non incamminarsi verso le passioni, che a tornarsene indietro dal loro affannoso sentiero.

Lorenzo de’ Medici. Nel commento scritto da esso alle proprie rime, racconta come la sua bella Simonetta gli regalò tre viole vaghissime d’un vaso coltivato da lei; ed egli le mandò questo sonetto tutto fraganza, tutto grazia, ed amore. — Nella prima terzina quell’ov’eri invece di ov’eravate è uno de’ tanti fiorentinismi usati appunto da’ Toscani posteriori al Petrarca; e non istanno in grammatica; così, siate consorte, per consorti, cioè compagne al cuore. — Non so che l’inglese Roscoe, eloquente e diligentissimo storico di Lorenzo, abbia fatto memoria della risposta di questo grand’uomo a chi gli rinfacciava ch’ei s’innamorasse e facesse versi d’amore. La riferirò; e se non tutta, nè con le sue stesse parole, esattamente a ogni modo quanto alle idee: leggesi nel proemio alle sue rime; e non solamente contiene una splendida definizione dell’amore, ma ben anche un ingegnosissima combinazione della passione comune a tutti i mortali con la passione ideata da Socrate ed esposta da Senofonte nel Convito, e da Platone in alcuni suoi dialoghi. Or Lorenzo de’ Medici scrisse: — «Sarei con giustiza dannato, quando dalla natura io mi fossi di tanta eccel[p. 131 modifica]lenza dotato che potessi operate ogni cosa perfetta; ma questa altezza è stata concessa a molto pochi; e anche a questi non sempre e sol rarissime volte nella vita loro: onde considerata l’imperfezione umana, e dovendo per più sicurezza attenerci alla condizione universale di noi mortali, e alla perpetua consuetudine della terra, parmi quelle cose essere migliori dalle quali in tutto nascono mali minori. — Pure l’amore non solamente non è riprensibile, ma anzi è vero argomento di gentilezza e grandezza d’animo; e sopra tutto cagione d’invitare i mortali ed eccitarli a ridurre in atto pratico quelle virtu che stanno nelle facoltà dell’anima nostra. Chi cerca la vera definizione dell’Amore trova non essere altro che desiderio di bellezza: e se così è, tutte le cose deformi e Viziose rincrescono a chi degnamente ama. La bellezza del volto e dell’animo della donna amata è principio e guida a cercare la bellezza delle altre cose, e a salire alla virtù che è bellezza tra mortale e celeste, e giugnere ultimamente a riposarsi nella bellezza suprema, che è Iddio. — Le condizioni che necessariamente si convengono a un vero, alto, degno amore, parmi sieno due: la prima; Che si ami una persona sola; la seconda; Che si ami sempre. Questo condizioni non molti amanti hanno sì generoso animo da poterle serbare, e assai poche donne sortirono tante virtù da stringere gli uomini a non violare queste due circostanze senza le quali amore degno non è. Perchè oltre alle naturali bellezze, conviene che nella persona amata concorrano ingegno, modi ornati, costumi onesti, maniere eleganti, accoglienza graziosa, dolci parole, sensi assennati, amore, costanza, e fede. — Amore nasce a principio dagli occhi e dalla bellezza; ma a conservarlo sono necessarie altre doti; perchè se infermità, o altre cagioni scolorissero il viso; se per età venisse meno la prima bellezza, restano le doti che sono nell’anima, e però più amabili al cuore ed all’intelletto, che non la bellezza alla vista, e i piaceri a’ sensi; bensì [p. 132 modifica]i sensi aprono la porta all’amore; e tocca poi all’anima di tenerselo come sacro fuoco, e raffinarlo, e a poco a poco purificarlo, e nutrirsene. E nondimeno tanti pregi non sariano sufficienti, se l’uomo amante non ha gentilezza di mente e di cuore da distinguerli, e altezza e generosità da stimarli: ma se in due innamorati le condizioni sovra espresse concorrono, allora la donna diviene più bella d’animo, e più saggia, e contenta ne’ suoi affetti; e l’uomo per piacerle sempre più, bisogna di necessità che in tutte le sue azioni cerchi di farsi eccellente seguitando la virtù; ed abbellisca l’animo suo per rendersi pari alla bellezza corporea e spirituale della sua donna.» —

Bembo. Veneziano; fu rinomato in letteratura fra’ maggiori uomini del secolo di Leone X. Ad ogni modo è scrittore tepido; e ne’ suoi versi italiani non move passo se non con piede tremante dietro le orme del Petrarca. In fatti questo sonetto che ha il pregio d’una semplice, grave e religiosa compunzione, è pur imitato dalla divina canzone a Maria Vergine, l’ultima delle petrarchesche. Il Bembo supplica anch’egli la Vergine che lo sciolga dalla passione d’Amore, e principia un po’ cangiando, un po’ guastando le belle idee e parole del Petrarca; non però se ne scosta, stanza 6 in fine,

Prese Dio, per scamparne
Umana carne al tuo virginal chiostro.

disse il Petrarca. — Non mi piace il chiamar Dea la madre di Gesù; e sa di gentilesimo — per l’uno e l’altro inchiostro intende i suoi scritti Italiani e Latini. — Eppure il Bembo pianse d’amore anche dopo avere mandato al cielo questa preghiera! amò vecchio una Morosina gentil donna veneta, che morì giovanetta verso il 1535. Esso le sopravisse sino al 1547,

Vittoria Colonna. Romana; moglie innamoratissima di [p. 133 modifica]Alfonso d’Avalos morto illustre e giovine in guerra. Indirizzò questo sonetto al Bembo dolendosi ch’ei pure non piangesse in versi la morte del marito di lei, e non ne celebrasse la gloria. Ed è componimento lodatissimo nelle scuole; poiché espone con frasi eleganti una serie di argomenti concatenati; eccoli: — I pregi di mio marito vi furono ignoti, però non li avete celebrati; quindi voi avete perduto occasione di mostrare la vostra eloquenza; ed egli ha perduto la fama che gliene sarebbe ridondata; ma s’io avessi l’ingegno vostro, e voi sentiste la mia passione, non saremmo forse rei lutti e due; voi, per avere taciuto le imprese di un uomo grande; io, per essermi indegnamente accinta ad esaltarle. — Sì fatta guisa di sillogismi rimati erano e sono in gran voga; ma domandano piuttosto arte che genio; e dove non sono immagini, non è poesia: bensì questo sonetto regge alla lettura per il dolore che vi traspira. — Nel primo verso il dir Sole per significar un individuo soprannaturale perfetto, è metafora enfatica della quale il Petrarca abusò; e peggio i suoi miseri imitatori tanto che il pittore Salvator Rosa disse arguto in una delle sue satire:

Le metafore il Sole han consumato.

Del resto non fu illustre personaggio a que’ tempi, che non siasi innamorato della nostra poetessa. Pare ch’essa abbia serbato il cuore sempre vicino alle ceneri di suo marito; ma fra’ suoi adoratori Michelangelo fu, se non rimato, almen prediletto; ei stavale accanto mentr’essa moriva; e dopo molti anni e già vecchio dolevasi perchè non s’era attentato di darle un bacio santo in quel frangente dell’eterno congedo.

Veronica Gambara. Bresciana, accasatasi a Correggio col signore di quel paese; ma, come la Colonna, serbò anch’essa il nome della casa dov’era nata. — Questo sonetto è pur dissimile dal precedente. Ha un tenore spiritoso e soave; un entusiasmo graziosamente femminile; e arieggia l’arte e la fantasia de’Latini: infatti imita alcuni tratti dell’eglo[p. 134 modifica]gla di Virgilio su l’Apoteosi di Dafni nell’undecimo verso il suoi sta in luogo di loro, da che questo pronome in italiano grammaticalmente non s’accorda se non se colla terza persona del singolare; in latino è promiscuo anche al plurale; e i poeti alle volte non fanno male a giovarsi dell’esempio e dell’autorità della lingua latina. — il sonetto, se non isbaglio, fu scritto in morte del Bembo di cui questa poetessa professavasi spiritualmente innamorata, e n’è fede un sonetto ch’ella gli aveva inviato.

All’ardente desio che il cor m’accende:

al quale il Bembo rispose non molto ardentemente; bench’ella avesse nome di bella; ma assai letterati, in amore, seguono la natura; e in poesia, l’arte: però sentono caldamente e scrivono freddi.

Tarsia. Feudo d’una famiglia del regno di Napoli. Galeazzo fu guerriero, o militò per Francesco I di Francia. Ripatriatosi visse ritirato; scrisse poco e perse, e come uomo che non sa nè vuole imitare altri; e che insieme non affetta di battere nuove strade. Amò anch’egli Vittoria Colonna. — La voce siepe è un traslato in vece di riparo; o artificiale, che circonda una fortezza; o naturale, che difende un paese come le Alpi fronteggiano vanamente (pur troppo!) l’Italia. Se non che l’Italia è meretrice la quale per compiacere alle sue libidini ed alle altrui, rinega i benefici della natura e l’amore de’ suoi figliuoli — ferute per ferite non si direbbe oggi se non da chi non si vergognasse di servire alla rima — un volto cioè un solo sorriso di Fortuna, e frase che a me par nuova e felice.

Della Casa. Nacque, credo, in Mugello, contado fiorentino; e morì arcivescovo di Benevento: è fama che certi suoi versi alquanto lascivi gli abbiano tolto il cardinalato. Fu bello o forte ingegno. Uscì, se non il primo, certo il più ardito fuor della turba de’ tanti Petrarchisti d’allora, e si fece altro stile. Il merito della sua poesia consiste [p. 135 modifica]principalmente nel collocare le parole e spazzare la melodia de’ versi con tale ingegnosa spezzatura da far risultare l’effetto che i maestri di musica ottengono dalle dissonanze, e i pittori dalle ombre assai risentite. Nota come in questa invocazione al sonno lo stile sebbene rettoricamente amplificato, pur non pregiudica alla naturale espressione dell’uomo travagliato da’ pensieri e dalla veglia: appunto quel verseggiare sì rotto ti fa sentire l’angoscia, la prima terzina è bella d’immagini e di frasi degne di Virgilio. — Non ave per non ha, dal latino habet, oggi è fuor d’uso.

Costanzo. Napoletano: per esso l’arte de’ sillogismi in sonetti giunse alla perfezione: sciaguratissima perfezione! Pur questo componimento è il solo per avventura nel quale il Costanzo, tenendo altra via, sia riescito poeta. Pare uno dei belli epigrammi preci. È in lode di Virgilio, che nell’egloghe assunse il nome di Titiro. Vedi i quattordici versi concatenati spontaneamente in un solo periodo così che tu, leggendo, stai pur sempre attento sino alla fine a quella Cetra Appesa alla quercia. — Il Mincio è fiume del paese Mantovano patria di Virgilio. - Dafni e Melibeo sono pastori nelle egloghe di quel poeta. — Menalo e Liceo paesi greci celebri per la poesia pastorale. — Pale e Aristeo; la prima, è Dea de’ pastori; l’altro è semideo che insegnò la cultura delle api: alludesi alle Georgiche Virgiliane. • - Enea fu figliuolo d’Anchise e di Venere: però nel settimo e ottavo verso s’allude all’Eneide.

Tasso. Espone con lucida e sublime brevità il sistema Pitagorico illustrato poi da Platone: Essere l’universo in tutte le sue parti congiunto per forza d’Amore. E dove qui il poeta parla dell’uomo, mira alla teoria, ch’io stimo verissima di que’ filosofi i quali insegnano che tutte quante le nostre passioni le non siano se non Amore travestito di mille apparenze, e variato solamente di nomi. — Gli erranti Dei, sono i Pianeti-carole significa i giri delle stelle [p. 136 modifica]a modo di danze; che dagli antichi immaginarono che ogni cosa si muova regolatamente per leggi di musica e che il mondo sia tutto una cetra. — Questa del Tasso è davvero composizione magnifica; e forse unico quell’ingegno eminente poteva attentarsi di frammischiare il suo amore particolare, come e’ fa negli ultimi versi, senza nondimeno impiccolire il soggetto che abbraccia tutto il sistema dell’universo.

Ora nelle vicende della italiana poesia, e nella mia memoria trovo una grande lacuna. Per quasi cent’anni dopo la morte del Tasso, l’arte s’imbarbarì; sì perchè le armi, i costumi e la letteratura spagnuola inondarono tutta Italia; sì per l’ingegno prepotente del Marino il quale; cercandosi novella via, traviò; e tirò seco gli altri a smarrirsi. Tuttavia lasciò alcuni sonetti purgati; fra’ quali uno su la miseria dell’uomo; e comincia:

Apre l’uomo infelice allor che nasce:

e termina

Dalla culla alla tomba è un breve passo.

ma non l’ho tutto a mente. Due felici ingegni di quella età scansarono la universale barbarie: l’uno, è il Chiabrera che ritrasse le odi al genio antico du’ greci; e ne scrisse alcune insuperabili; ma ne’ sonetti fu maestro mezzano: l’altro, è il Tassoni; non però so che abbia lasciato sonetti fuorchè satirici.

Tassoni. Modanese: Acre e libero ingegno; illustre per la Secchia rapita, poema contro le ire municipali d’Italia, nel quale lo stile eroico ed il satirico fanno un terzo stile tutto nuovo; di che nondimeno abbiamo il primo esemplare nella Guerra delle Rane e de’ Topi, poemetto Omerico. Ma il Tassoni ampliò i confini di questa specie di poesia, e fu secondato nobilmente dal Boileau nel Lutrin, e graziosamente dal Pope nel Riccio rapito. — Qui il Tassoni dipinge in istile affatto comico un sudicio avaro. — Il Piovano Arlotto era un antico prete di contado in Tosca[p. 137 modifica]na, famoso per le sue arguzie morali e per la sua povertà, come Esopo.

Redi. D’Arezzo; i primi quattro versi sono traduzione del primo aforismo d’Ippocrate. Il Redi era sommo scienziato in fisica e Medico egregio; e insieme discepolo malarrivato, come noi tutti, d’Amore: però applica all’arte d’Amore la sentenza che Ippocrate dettava alle scuole di medicina. Vedi la postilla al sonetto di Cino.

Menzini. Fiorentino, parmi, ma Toscano di certo: ed è uno de’ begl’ingegni di seconda sfera nella storia dell’italiana letteratura. — Questo è un Idilio morale dettato con lo stile di mezzo conveniente a sì fatta poesia; e’ pare di leggere uno scrittore greco. La maestria consiste principalmente nella spontaneità del dialogo; nella proporzione e varietà delle tre parti del componimento; e nella unità in cui si concentra la verità morale che è l’anima di questo sonetto.

Guidi. Di Pavia; vissuto in Roma, dove, se non erro, morì; fu alto poeta lirico e non ebbe a suoi tempi altro competitore nelle canzoni di stile sublime fuorché il senatore Filicaja, Fiorentino: il Guidi è più immaginoso; e il Filicaja più profondo nell’arte: ma il loro stile si risente di certa gonfiezza. — Questo sonetto esprime poeticamente una splendida verità, alla quale per altro non può aprire gli occhi, se non chi non ha bisogno più di vederla. Vero è che l’Amore induce a creare idoli e ad adorarli miseramente, appunto quegli uomini che più ardentemente bramano la bellezza e la virtù su la terra: pure sì fatti animi conoscono meno difficilmente l’errore e si sdegnano d’essersi umiliati davanti alla creatura ch’essi avevano deificata. Però quel versetto di Davide, se non fosse divino, sarebbe tuttavia sapientissimo.

Sdegnatevi, e cesserete di peccare. [p. 138 modifica]

Zappi. Di Imola: scrittore gentile, ma che spesso, cercando vezzi, va nel lezioso: qui no; l’idea, e la esposizione sono affettuosamente e correttamente graziose. Oggi si canta questo sonetto in Italia mosso in musica dal maestro Asioli. Faustina Maratti moglie dello Zappi ottenne grido di poetessa e non senza merito; ma allora per miseria dell’Italia, il far versi e rime riputavasi gloriosissimo studio. Fiorì intorno al 1720 la scuola Bolognese; il Ghedini, i due Zanotti, ed Eustachio Manfredi egregio matematico e poeta più caldo degli altri. Non ho a mente veruno dei loro sonetti; ma in complesso furono scrittori più corretti che animati; e volendo purgare la poesia dalla gonfiezza del secolo addietro, caddero nel vizio contrario e la dissanguarono.

Bentivoglio. Casato d’illustre famiglia bolognese trapiantatasi a Ferrara. — Il sonetto, sì per la novità, l’ingenuità, l’invenzione, e il sentimento ilare insieme e patetico; sì per la disposizione, per la scena e freschezza campestre del quadro, e pel movimento degli attori, è vaghissimo. È vero; il sentire assai pietà degl’innamorati; l’ascoltare i loro secreti lamenti; e il volerli aiutare, induce spesso, e segnatamente le giovani donne ad ardere della febbre che tentano di guarire negli altri. — Avene vuol dire canne, e più cannucce diseguali commesse con della cera; formano anch’oggi la sampogna de’ pastorelli — al manto fuori — in vece di dal come s’usa; o di del come dovrebbesi usare: pure in questo luogo è licenza contro la grammatica, non contro la poesia; anzi ha garbo.

Qui pure m’è forza a lasciare un’altra lacuna, benché dal 1740 in poi fiorirono de’ sonettisti insigni, e non pochi; fra i quali il Frugoni, il Salandri e il Cassiani sono degni delle lodi maggiori. L’ultimo ne’ pochi sonetti da lui pubblicali ridusse questo componimento a quadro e forse con assai troppa cura; o per conseguire esatezza pittorica pre[p. 139 modifica]giudicò al genio poetico. Di nessuno di que’ sonetti io ricordomi esattamente. Chi, nel leggere questo volumetto, avesse desiderio e opportunità di ottenerli d’Italia, mi farà cosa grata, s’ei li aggiugnerà manoscritti a questa raccolta, e riempirà la lacuna. Uno de’ bei sonetti del Salandri, e sul passaggio del Console Flaminio per le onde del Trasimeno Uno del Frugoni è sull’esilio di Scipione e comincia:

Quando il gran Scipio dall’ingrata terra.

Uno del Cassiani dipinge mirabilmente il ratto di Proserpina:

Diè un alto strido, gittò i fiori; e volta
All’improvvisa mano che la cinse,
Tutta in se per la tema onde fu colta,
La Siciliana vergine si strinse, ec.

Aggiungansi i sonetti di Angelo Mazza per Santa Cecilia; e i quattro di Vincenzo Monti su tu Morte di Giuda. Questi due poeti vivono ancora1.

Q. Rossi. Gesuita; non so di che terra, perchè i frati non hanno patria. Il sonetto è davvero profetico e degno di qualunque poeta. Sino a tutto l’undecimo verso parla Simeone a Maria la quale presenta all’altare Gesù bambino. I tre ultimi versi hanno in se sì schietta e sì divina e passionata bellezza che avrebbero potuto guidare la mano di Raffaello a dipingere la Rassegnazione della Vergine.

Minzoni. Ferrarese: seguace (quanto allo stile) del suo [p. 140 modifica]concittadino Ariosto; però tratta i sonetti che pur sono lavoro finissimo, a poche e grandi pennellate. Questo su la morte del Redentore è stimato inarrivabile; ed e più agevole a vederne la bellezza apparente che distinguerne le macchie palliate. Rileggasi il sonetto, si giudichi, poi si raffronti il proprio giudizio con le seguenti osservazioni. I. Non so perchè Adamo, anzi che presentarsi in aspetto dignitoso, esca con le chiome bruttamente arruffate; il colorito del terrore ha certi confini oltre a’ quali va nell’orrore deforme. II. Non è atto di dolore virile, nè decente al padre del genere umano il battersi la guancia e lo scapigliarsi; aggiungi che questi tre versi sono tolti di peso dall’Ariosto, ma guasti nella circostanza e fin nella frase; Cant. xii. st. i.

Fatto ch’ebbe, alle guance, al petto, a’ crini,
E agli occhi danno

Vedi quanto più di sobrietà e di rapidità, o d’eleganza! inoltre l’Ariosto parla di Cerere disperata che aveva perduto la sua figliuola, III. Non è generoso nè degno d’Adamo, nè spira virtù quell’imputare alla moglie la colpa di cui esso pure fu complice e a cui esso, come naturalmente più forte, era più in debito di resistere.

Parini. Unico poeta eccellente che in tanti secoli abbiano avuto i Milanesi; benché ci sia nato verso Como in riva al bel lago di Pusiano: ed era figlio di poverissimi contadini. Scrisse una lunga satira di nuovo e splendido stile intitolata il Giorno; nella quale deride gli amori svogliati, e le altre scioperate passioni de’patrizi italiani. Questo sonetto è pittoresco a guisa di quei del Cassiani. Nel settimo verso sentesi per arte d’armonia imitativa lo stridore di un gran carro tardo a moversi.

Alfieri Da Asti. Parecchi de’ suoi molti sonetti, benchè abbiano poca musica, e certa trivialità di voci qua e là, possono ad ogni modo andare del pari co’ più lodati in Italia: così pure le sue prose: ma il mondo non vuol dare la [p. 141 modifica]palma ad uno scrittore se non se in un solo genere: però non si fa grande stima che delle tragedie di questo poeta. — Il sonetto parla della casa del Petrarca in Arquà presso Padova; e a me pare in ogni sua parte assai bello. Il primo verso allude al sonetto del Petrarca:

O cameretta che già fosti porto.

Ugo Foscolo2. I sonetti, come tutte le altre poesie di questo scrittore, tengono dall’ingegno di lui un cotal misto di severità e di malinconia che piace ad ogni lettore. In quanto al verso o allo stile vi si trova molta forza; e, se non sempre originalità, almeno una grande e spesso felice indipendenza dai consueti esemplari. Non v’ha dubbio, anche a lui furono esemplari i classici a cui attingono tutti i migliori; ma il modo d’imitarli fu in lui lontano da ogni servilità. Qualche volta per non essere collocato tra il servum pecus deriso da Orazio, per non esser creduto imitatore, cercò è vero la novità dove la bellezza e le grazie della nostra poesia negarono d’essergli compagne: ma colto com’era, ricco di affetti cresciuti fin dalla giovinezza con lui, con un animo sempre agitato da gagliarde passioni, con una conoscenza degli uomini e del mondo acquistata dai proprii casi, non potè a meno d’imprimere nelle sue poche poesie un carattere che le distingue da quelle di quasi tutti i suoi contemporanei. —

Note

  1. È noto che la vita preziosa di questi due illustri ingegni è ora spenta. L’Italia perdè il Mazza nel 1817 e il Monti nel 1828. Il primo nato in Parma nel 1741, e l’altro a Fusignano terra di Romagna nel 1754 — Non ci sarebbe poi stato per avventura malagevole il riempiere in qualche modo questa lacuna secondo il desiderio del ch. Foscolo; ma non avendo noi in animo di riprodurre che le cose di lui, stimiamo miglior partito il lasciare a’ lettori la cura di raccogliere gl’indicati sonetti e di postillarli, e di scieglierne ed aggiungerne anche altri nel leggere i poeti italiani.
  2. Questa postilla che noi ci permettiamo di apporre al sonetto di Foscolo è del ch. Fr. Ambrosoli e si legge nella sua bella e giudiziosa raccolta di Sonetti d’ogni secolo pubblicata con note in Milano nello scorso unno 1834.