Viaggio sentimentale di Yorick (Laterza, 1920)/Due scritti relativi al Viaggio sentimentale/I. Notizia intorno a Didimo Chierico

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Due scritti relativi al Viaggio sentimentale - I. Notizia intorno a Didimo Chierico

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Due scritti relativi al Viaggio sentimentale Due scritti relativi al Viaggio sentimentale - II. Confessioni di Didimo Chierico
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I

NOTIZIA INTORNO A DIDIMO CHIERICO

[1813]

1

Un nostro concittadino mi raccomandò, mentr’io militava fuori d’Italia, tre suoi manoscritti affinché, se agli uomini dotti parevano meritevoli della stampa, io ripatriando li pubblicassi. Egli andava pellegrinando per trovare un’università, dove s’imparasse a comporre libri utili per chi non è dotto, ed innocenti per chi non è peranche corrotto: da che tutte le scuole d’Italia gli parevano piene o di matematici, i quali, standosi muti, s’intendevano fra di loro; o di grammatici, che ad alte grida insegnavano il bel parlare e non si lasciavano intendere ad anima nata; o di poeti, che impazzavano a stordire chi non li udiva e a dire il benvenuto a ogni nuovo padrone de’ popoli, senza far né piangere né ridere il mondo; e però, come fatui noiosi, furono piú giustamente d’ogni altro esiliati da Socrate, il quale, secondo Didimo, era dotato di spirito profetico, specialmente per le cose che accadono all’età nostra.

ii

L’uno de’ manoscritti è forse di trenta fogli, col titolo: Didymi clerici, prophetae minimi, Hypercalipseos, liber unicus, e sa di satirico. I pochi, a’ quali lo lasciai leggere, alle [p. 164 modifica] volte ne risero; ma non s’assumevano d’interpretarmelo. E mi dispongo a lasciarlo inedito, per non essere liberale di noia a molti lettori, che forse non penetrerebbero nessuna delle trecentotrentatré allusioni, racchiuse in altrettanti versetti scritturali, di cui l’opuscoletto è composto. Taluni fors’anche, presumendo troppo del loro acume, starebbero a rischio di parere cementatori maligni. Però, s’altri n’avesse copia, la serbi. Il farsi ministri degli altrui risentimenti, benché giusti, è poca onestà; massime quando paiono misti al disprezzo, che la coscienza degli scrittori teme assai piú dell’odio.

iii

Bensí gli uomini letterati, che Didimo, scrivendo, nomina «maestri miei», lodarono lo spirito di veracità e d’indulgenza d’un altro suo manoscritto da me sottomesso al loro giudizio. E nondimeno quasi tutti mi vanno dissuadendo dal pubblicarlo, e a taluno piacerebbe ch’io lo abolissi. È un giusto volume, dettato in greco nello stile degli Atti degli apostoli, ed ha per titolo: Διδύμου κληρικοῦ Ὑπομνημάτών βιβλία πέντε, e suona Didymi clerici libri memoriales quinque. L’autore descrive schiettamente i casi per lui memorabili dell’età sua giovanile; parla di tre donne delle quali fu innamorato, e, accusando se solo delle loro colpe, ne piange; parla de’ molti paesi da lui veduti, e si pente d’averli veduti: ma, piú che d’altro, si pente della sua vita perduta educata dagli uomini letterati; e, mentre par ch’ei gli esalti, fa pur sentire ch’ei li disprezza. Malgrado la sua naturale avversione contro chi scrive per pochi, ei dettò questi Ricordi in lingua nota a rarissimi, affinché — com’ei dice — i soli colpevoli vi leggessero i propri peccati, senza scandalo delle persone dabbene; le quali, non sapendo leggere che nella propria lingua, sono men soggette all’invidia, alla boria, ed alla venalità: ho contrassegnato quest’ultima voce, perché è mezzo cassata nel manoscritto. L’autore inoltre mi diede arbitrio di far tradurre quest’operetta, purché trovassi scrittore italiano che avesse piú merito che celebrità di grecista. «E siccome — dicevami [p. 165 modifica] Didimo — uno scrittore di tal peso lavora prudentemente a bell’agio e con gravità, i maestri miei avranno frattanto tempo o di andarsene in pace, e non saranno piú nominati né in bene né in male; o di ravvedersi di quegli errori, attraverso de’ quali noi mortali giungiamo talvolta alla saviezza». Farò dunque che sia tradotto; e, quanto alla stampa, mi governerò secondo i tempi, i consigli e i portamenti degli uomini dotti,

iv

Tuttavia, affinché i lettori abbiano saggio dell’operetta greca, ne feci tradurre parecchi passi, e li ho, quanto piú opportunamente potevasi, aggiunti alle postille notate da Didimo nel suo terzo manoscritto, dove si contiene la versione dell’Itinerario sentimentale di Yorick. libro piú celebrato che inteso, perché fu da noi letto in francese o tradotto in italiano da chi non intendeva l’inglese: della versione uscita di poco in Milano, non so. Innanzi di dar alle stampe questa di Didimo, ricorsi nuovamente a’ letterati pel loro parere. Chi la lodò, chi la biasimò di troppa fedeltà; altri la lesse volentieri come liberissima; e taluno s’adirò de’ troppi arbitri del traduttore. Molti, e fu in Bologna, avrebbero desiderato lo stile condito di sapore piú antico; moltissimi, e fu in Pisa, mi confortavano a ridurla in istile moderno, depurandola sovra ogni cosa de’ modi troppo toscani: finalmente in Pavia nessuno si degnò di badare allo stile; notarono nondimeno con geometrica precisione alcuni passi bene o male intesi dal traduttore. Ma io, stampandola, sono stato accuratamente all’autografo: e solamente ho mutato verso la fine del capo trentesimoquinto un vocabolo, e un altro n’ho espunto dall’intitolazione del capo seguente, perché mi parve evidente che Didimo, contro all’intenzione dell’autore inglese, offendesse, nel primo passo, il principe della letteratura fiorentina moderna, e nell’altro i nani innocenti della città di Milano. [p. 166 modifica]

v

Di questo libro Didimo mi disse due cose (da lui taciute, né so perché, nell’epistola a’ suoi lettori), le quali pur giovano a intendere un autore oscurissimo anche a’ suoi concittadini1 e a giudicare con equità de’ difetti del traduttore. La prima si è: «che con nuova specie d’ironia, non epigrammatica né suasoria, ma candidamente ed affettuosamente storica, Yorick da’ fatti narrati in lode de’ mortali, deriva lo scherno contro a molti difetti, segnatamente contro alla fatuità del loro carattere.» L’altra: «che Didimo, benché scrivesse per ozio, rendeva conto a se stesso d’ogni vocabolo; ed aveva tanto ribrezzo a correggere le cose, una volta stampate (il che, secondo lui, era manifestissima irriverenza ai lettori), che viaggiò in Fiandra a convivere con gli inglesi, i quali vi si trovano anche al di d’oggi, onde farsi spianare molti sensi intricati; e lungo il viaggio si soffermava per l’appunto negli alberghi di cui Yorick parla nel suo Itinerario, e ne chiedeva notizie a’ vecchi che lo aveano conosciuto; poi si tornò a stare a dimora nel contado tra Firenze e Pistoia, a imparare migliore idioma di quello che s’insegna nelle città e nelle scuole.

vi

Ora per gli uomini dotti, i quali furono dalla lettura di que’ manoscritti e da questa versione dell’Itinerario sentimentale invogliati di sapere notizie del carattere e della vita di Didimo, e me ne richiedono istantemente, scriverò le scarse ma veracissime cose che io so come testimonio oculare. Giova ad ogni modo premettere tre avvertenze. Primamente: avendolo io veduto per pochi mesi e con freddissima famigliarità, non ho potuto notare (il che avviene a parecchi) se non le cose piú consonanti o dissonanti co’ sentimenti e le consuetudini della [p. 167 modifica] mia vita. Secondo: de’ vizi e delle virtú capitali che distinguono sostanzialmente uomo da uomo, se pure ei ne aveva, non potrei dir parola: avresti detto ch’egli, lasciandosi sfuggire tutte le sue opinioni, custodisse industriosamente nel proprio segreto tutte le passioni dell’animo. Finalmente: citerò sempre le parole di Didimo, poiché, essendo un po’ metafisiche, ciascheduno degli uomini dotti le interpreti meglio di me e le adatti alle proprie opinioni.

vii

Teneva irremovibilmente strani sistemi, e parevano nati con esso: non solo non li smentiva co’ fatti, ma, come fossero assiomi, proponevali senza prove: non però disputava a difenderli; e, per apologia a chi gli allegava evidenti ragioni, rispondeva in intercalare: — Opinioni! — Portava anche rispetto a’ sistemi altrui, o, fors’anche per noncuranza, non movevasi a confutarli; certo è ch’io, in sí fatte controversie, lo ho veduto sempre tacere, ma senza mai sogghignare; e l’unico vocabolo «opinioni» lo proferiva con serietà religiosa. A me disse una volta: «che la gran valle della vita è intersecata da molte viottole tortuosissime; e chi non si contenta di camminare sempre per una sola, vive e muore perplesso, né arriva mai a un luogo dove tutti quei sentieri conducono l’uomo a vivere in pace seco e con gli altri. Non trattasi di sapere quale sia la vera via; bensí di tenere per vera una sola, e andar sempre innanzi». Stimava fra le doti naturali ail’uomo primamente la bellezza, poi la forza dell’animo, ultimo l’ingegno. Delle acquisite, come a dire della dottrina, non faceva conto, se non erano congiunte alla rarissima arte d’usarne. Lodava la ricchezza piú di quelle cose ch’essa può dare; e la teneva vile, paragonandola alle cose che non può dare. Dell’Amore aveva in un quadretto un’immagine simbolica, diversa dalle solite de’ pittori e de’ poeti, su la quale egli aveva fatto dipingere l’allegoria di un nuovo sistema amoroso; ma teneva quel quadretto coperto sempre d’un velo nero. Uno de’ cinque libri, de’ quali è composto il manoscritto [p. 168 modifica] greco citato poc’anzi, ha per intitolazione: Tre amori. E i tre capitoli di esso libro incominciano: Rimorso primo; Rimorso secondo; Rimorso terzo: e conclude: «Non essere l’amore se non se inevitabili tenebre corporee, le quali si disperdono piú o men tardi da sé; ma, dove la religione, la filosofia o la virtú vogliono diradarle o abbellirle del loro lume, allora quelle tenebre ravviluppano l’anima e la conducono per la via della virtú a perdizione». Riferisco le parole; altri intenda.

viii

Da’ sistemi e dalla perseveranza con che li applicava al suo modo di vivere derivavano azioni e parole degne di riso. Riferisco le poche di cui mi ricordo. Celebrava don Chisciotte come beatissimo, perché s’illudeva di gloria scevra d’invidia e d’amore scevro di gelosia. Cacciava i gatti, perché gli parevano piú taciturni degli altri animali; li lodava nondimeno, perché profittavano della società come i cani e della libertà quanto i gufi. Teneva gli accattoni per piú eloquenti di Cicerone nella parte della perorazione, e periti fisionomi assai piú di Lavater. Non credeva che chi abita accanto a un macellaro o su le piazze de’ patiboli, fosse persona da fidarsene. Credeva nell’ispirazione profetica, anzi presumeva di saperne le fonti. Incolpava il berretto, la veste da camera e le pantofole de’ mariti, della prima infedeltà delle mogli. Ripeteva (e ciò piú che a riso moverà a sdegno) che la favola d’Apollo scorticatore atroce di Marsia era allegoria sapientissima non tanto della pena dovuta agl’ignoranti prosontuosi, quanto della vendicativa invidia de’ dotti. Su di che allegava Diodoro Siculo, libro III, n. 59, dove, oltre la crudeltà del vincitore, si narrano i bassi raggiri co’ quali si procacciò la vittoria. Ogni qual volta incontrava de’ vecchi, sospirava esclamando: — Il peggio è viver troppo! — e un giorno, dopo assai mie preghiere, me ne disse il perché: — La vecchiaia sente con atterrita coscienza i rimorsi, quando al mortale vigore non rimane tempo d’emendar la sua vita. — Nel proferire queste parole, le lagrime gli pioveano dagli occhi; e fu l’unica volta che lo [p. 169 modifica] vidi piangere. E seguitò a dire: — Ahi! la coscienza è codarda! e quando tu se’ forte da poterti correggere, la ti dice il vero sottovoce e palliandolo di recriminazioni contro la fortuna ed il prossimo; e quando poi tu se’ debole, la ti rinfaccia con disperata superstizione, e la ti atterra sotto il peccato, in guisa che tu non puoi risorgere alla virtú. O codarda! non ti pentire, o codarda! Bensi paga il debito, facendo del bene ove hai fatto del male. Ma tu sei codarda; e non sai che o sofisticare o angosciarti. — Quel giorno io credeva che volesse impazzare, e stette piú d’una settimana a lasciarsi vedere in piazza. Sí fatti erano i suoi paradossi morali.

ix

E quanto alle scienze ed alle arti, asseriva che le scienze erano una serie di proposizioni, le quali aveano bisogno di dimostrazioni apparentemente evidenti ma sostanzialmente incerte, perché le si fondavano spesso sopra un principio ideale; che la geometria, non applicabile alle arti, era una galleria di scarne definizioni e che, malgrado l’algebra, resterà scienza imperfetta e per lo piú inutile, finché non sia conosciuto il sistema incomprensibile dell’universo. — L’umana ragione — diceva Didimo — si travaglia su le mere astrazioni; piglia le mosse, e senza avvedersi, a principio, dal nulla; e, dopo lunghissimo viaggio, si torna a occhi aperti e atterriti nel nulla; e al nostro intelletto la sostanza della natura ed il nulla furono, sono e saranno sinonimi. Bensí le arti non solo imitano ed abbelliscono le apparenze della natura, ma possono insieme farle rivivere agli occhi di chi le vede o vanissime o fredde; e ne’ poeti, de’ quali mi vo ricordando a ogni tratto, porto meco una galleria di quadri, i quali mi fanno osservare le parti piú belle e piú animate degli originali che trovo su la mia strada; ed io spesso li trapasserei senza accorgermi ch’e’ mi stanno tra’ piedi per avvertirmi, con mille nuove sensazioni, ch’io vivo. — E però Didimo sosteneva che le arti possono piú che le scienze far men inutile e piú gradito il vero a’ mortali; e che la vera sapienza consiste nel [p. 170 modifica] giovarsi di quelle poche verità che sono certissime a’ sensi perché o sono dedotte da una serie lunga di fatti, o sono si pronte che non hanno bisogno di dimostrazioni scientifiche.

v?1

Leggeva quanti libri gli capitavano; non rileggeva da capo a fondo fuorché la Bibbia. Degli autori ch’ei credeva degni d’essere studiati, aveva tratte parecchie pagine, e ricucitele in un solo grosso volume. Sapeva a memoria molti versi di antichi poeti, e tutto il poema delle Georgiche. Era devoto di Virgilio; nondimeno diceva «che s’era fatto prestare ogni cosa da Omero, dagli occhi in fuori, negati dalia natura ad Omero, e conceduti bellissimi ed acuti a Virgilio». D’Omero aveva un busto, e se lo trasportava di paese in paese, e v’avea posto per iscrizione due versi greci che suonavano: «A costui fu assai di cogliere la verginità di tutte le muse: e lasciò per gli altri le altre bellezze di quelle deità». Cantava, e s’intendeva da per sé, quattro odi di Pindaro. Diceva che Eschilo era «un bel rovo infuocato sopra un monte deserto» e Shakespeare «una selva incendiata, che faceva bel vedere di notte e mandava fumo noioso di giorno». Paragonava Dante «a un gran lago circondato di burroni e di selve, sotto un cielo oscurissimo, sul quale si poteva andare a vela in burrasca»; e che il Petrarca «lo derivò in tanti canali tranquilli ed ombrosi, dove possano sollazzarsi le gondole degli innamorati co’ loro strumenti; e ve ne sono tante, che que’ canali — diceva Didimo — sono ormai torbidi o fatti gore stagnanti»: tuttavia, s’egli intendeva una sinfonia e nominava il Petrarca, era indizio che la musica gli era assai bella. Maggiore stranezza si era il panegirico ch’ei faceva di certo poemetto latino, da lui anteposto perfino alle Georgiche, «perché — diceva Didimo — mi par d’essere a nozze con tutta l’allegra comitiva di Bacco». Didimo, per altro, beveva sempre acqua pura. Aveva non so quali controversie con l’Ariosto, ma le ventilava da sé; e un giorno, mostrandomi dal molo di Dunkerque le lunghe onde con le quali l’Oceano rompea sulla [p. 171 modifica] spiaggia, esclamò: — Cosí vien poetando l’Ariosto! — Tornandosi meco verso le belle colonne che adornano la cattedrale di quella città, si fermò sotto il peristilio, e adorò. Poi, volgendosi a me, mi diede intenzione che sarebbe andato alla questua a pecuniare tanto da erigere una chiesa al Paracleto e riporvi la ossa di Torquato Tasso; purché nessun sacerdote che insegnasse grammatica potesse ufficiarvi, e nessun fiorentino accademico della Crusca appressatisi. Nel mese di giugno del 1804 pellegrinò da Ostenda sino a Montreuil per gli accampamenti italiani; ed a’ militari, che dilettavano di ascoltarlo, diceva certe sue omelie all’improvviso, pigliando sempre per testo de’ versi dell’Epistole d’Orazio. Richiesto da un ufficiale, perché non citasse mai le Odi di quel poeta, Didimo in risposta gli regalò la sua tabacchiera fregiata d’un mosaico d’egregio lavoro, dicendo: — Fu fatto a Roma d’alcuni frammenti di pietre preziose dissotterrate in Lesbo. —

xi

Ma, quantunque non parlasse che di poeti, Didimo scriveva in prosa perpetuamente, e se ne teneva. Scriveva anche arringhe, e faceva da difensore ufficioso a’ soldati colpevoli sottoposti a’ Consigli di guerra; e, se mai ne vedeva per le taverne, pagava loro da bere e spiegava ad essi il Codice militare, Oltre a’ tre manoscritti raccomandatimi, serbava parecchi suoi scartafacci: ma non mi lasciò leggere se non un solo capitolo di un suo Itinerario lungo la repubblica letteraria. In esso capitolo descriveva un’implacabile guerra tra le lettere dell’abbicci e le cifre arabiche, le quali finalmente trionfarono con accortissimi stratagemmi, tenendo ostaggi l’a, la b, la x che erano andate ambasciadori, e quindi furono tirannicamente angariate con inesprimibili e angosciose fatiche. Dopo il desinare, Didimo si riduceva in una stanza appartata a ripulire i suoi manoscritti, ricopiandoli per tre volte. Ma la prima composizione, com’ei diceva, la creava all’Opera seria o in mercato. Ed io in Calais lo vidi per piú ore della notte a un caffè, scrivendo in furia al lume delle lampade [p. 172 modifica] del bigliardo, mentr’io stava giocandovi, ed ei sedeva presso ad un tavolino, intorno al quale alcuni ufficiali quistionavano di tattica e fumavano mandandosi scambievolmente de’ brindisi. Gl’intesi dire: «che la vera tribolazione degli autori veniva, a chi dalla troppa economia della penuria e a chi dallo scialacquo dell’abbondanza; e ch’egli aveva la beatitudine di poter scrivere trenta fogli allegramente di pianta, e la maledizione di volerli poi ridurre in tre soli, come a ogni modo, e con infinito sudore, faceva sempre».

xii

Ora dirò de’ suoi costumi esteriori. Vestiva da prete; non però assunse gli ordini sacri: e si faceva chiamare Didimo di nome, e Chierico di cognome; ma gli rincresceva sentirsi dar dell’«abate». Richiestone, mi rispose: — La fortuna m’avviò da fanciullo al chiericato; poi la natura mi ha deviato al sacerdozio: mi sarebbe rimorso l’andare innanzi, e vergogna il tornarmene addietro: e perché io tanto quanto disprezzo chi muta istituto di vita, mi porto in pace la mia tonsura e questo mio abito nero: cosí posso o ammogliarmi o aspirare ad un vescovato. — Gli chiesi a quale de’ due partiti s’appiglierebbe. Rispose: — Non ci ho pensato: a chi non ha patria non istà bene l’essere sacerdote né padre. — Fuor dell’uso de’ preti, compiacevasi della compagnia degli uomini militari. Viaggiando perpetuamente, desinava a tavola rotonda con persone di varie nazioni; e se taluno (com’oggi s’usa) professavasi cosmopolita, egli si rizzava senz’altro. S’addomesticava alle prime, benché con gli uomini cerimoniosi parlasse asciutto, ed a’ ricchi pareva altèro: evitava le sètte e le confraternite; e seppi che rifiutò due patenti accademiche. Usava per lo piú ne’ crocchi delle donne, però ch’ei le reputava «piú liberalmente dotate dalla natura di compassione e di pudore; due forze pacifiche, le quali — diceva Didimo — temprano sole tutte le altre forze guerriere del genere umano». Era volentieri ascoltato; né so dove trovasse materie, perché alle volte chiacchierava per tutta una sera, senza dire parola [p. 173 modifica] di politica, di religione o di amori altrui. Non interrogava mai, «per non indurre — diceva Didimo — le persone a dir la bugia»; e alle interrogazioni rispondeva proverbi o guardava in viso chi gli parlava. Non partecipava né una dramma del suo secreto ad anima nata: — Perché — diceva Didimo — il mio secreto è la sola proprietà su la terra ch’io degni di chiamar mia e che, divisa, nuocerebbe agli altri ed a me. — Né pativa d’essere depositario degli altri secreti: — Non ch’io non mi fidi di serbarli inviolati; ma avviene che, a voler scampare dalla perdizione qualche persona, m’è pure necessità a rivelare alle volte il secreto che m’ha confidato: tacendolo, la mia fede riescirebbe sinistra; e, manifestandolo, m’avvilirei davanti a me stesso. — Accoglieva lietissimo nelle sue stanze: al passeggio voleva andar solo, o parlava a persone che non aveva veduto mai e che gli davano nell’idea; e, se alcuno de’ suoi conoscenti accostavasi a lui, si levava di tasca un libretto, e per primo saluto gli recitava alcuni squarci di traduzioni moderne de’ poeti greci, e rimanevasi solo. Usava anche sentenze enigmatiche. Nessun frizzo: se non una volta, e per non ricaderci, rilesse i quattro evangelisti. Ma di tutti questi capricci e costumi di Didimo s’avvedevano gli altri assai tardi, perch’ei non li mostrava, né li occultava; onde credo che venissero da disposizione naturale.

xiii

Dissi che teneva chiuse le sue passioni; e quel poco, che ne traspariva, pareva calore di fiamma lontana. A chi gli offeriva amicizia, lasciava intendere che «la colla cordiale, per cui l’uno s’attacca all’altro, l’avea già data a que’ pochi ch’erano giunti innanzi». Rammentava volentieri la sua vita passata, ma non m’accorsi mai ch’egli avesse fiducia nei giorni avvenire o che ne temesse. Chiamavasi molto obbligato a un don Iacopo Annoni, curato, a cui Didimo aveva altre volte servito da chierico nella parrocchia d’inverigo; e, stando fuori di patria, carteggiava unicamente con esso. Mostravasi gioviale e [p. 174 modifica] compassionevole, e, benché fosse alloramai intorno a’ trent’anni, aveva aspetto assai giovanile; e forse per queste ragioni Didimo, tuttoché forestiero, non era guardato dal popolo di mal occhio, e le donne passando gli sorridevano, e le vecchie si soffermavano accanto a una porticciola a discorrere seco, e tutti i bambini, de’ quali egli si compiaceva, gli correvano lietissimi attorno. Ammirava assai; ma «piú con gli occhiali — diceva egli — che col telescopio», e disprezzava con taciturnità sí sdegnosa, da far giusto e irreconciliabile il risentimento degli uomini dotti. Aveva, per altro, il compenso di non patire d’invidia, la quale, in chi ammira e disprezza, non trova mai luogo. E’ diceva: — La rabbia e il disprezzo sono due gradi estremi dell’ira: le anime deboli arrabbiano, le forti disprezzano; ma tristo e beato chi non s’adira! —

xiv

Insomma, pareva uomo che, essendosi in gioventú lasciato governare dall’indole sua naturale, s’accomodasse, ma senza fidarsene, alla prudenza mondana. E forse aveva piú amore che stima per gli uomini; però non era orgoglioso né umile. Parea verecondo, perché non era né ricco né povero. Forse non era avido né ambizioso: perciò parea libero. Quanto all’ingegno, non credo che la natura l’avesse moltissimo prediletto né poco. Ma l’aveva temprato in guisa da non potersi imbevere degli altrui insegnamenti; e quel tanto, che produceva da sé, aveva certa novità che allettava e la primitiva ruvidezza che offende. Quindi derivava in esso, per avventura, quell’esprimere in modo tutto suo le cose comuni, e la propensione di censurare i metodi delle nostre scuole. Inoltre, sembravami ch’egli sentisse non so qual dissonanza nell’armonia delle cose del mondo: non però lo diceva. Dalla sua operetta greca si desume quanto meritamente si vergognasse della sua giovanile intolleranza. Ma pareva, quando io lo vidi, piú disingannato che rinsavito; e che, senza dar noia agli altri, se ne andasse quietissimo e sicuro di se medesimo per la sua strada, e [p. 175 modifica] sostandosi spesso, quasi avesse piú a cuore di non deviare che di toccare la meta. Queste, a ogni modo, sono tutte mie congetture.

xv

Avendolo io nell’anno 1806 lasciato in Amersfort, e desiderando di dargli avviso del giudizio de’ maestri suoi intorno ai tre manoscritti da me recati in Italia, scrissi ad Inverigo a domandarne novelle al reverendo don Iacopo Annoni ; e perché questi s’era trasferito da molto tempo in una chiesa su’ colli del lago di Pusiano, presso la villa Marliani, lo visitai nell’estate dell’anno seguente; né ho potuto riportare dalla mia gita se non una notizia ch’io giá sapeva, e i lineamenti di Didimo giovinetto. Quel buon vecchio sacerdote, regalandomi il disegno che ho posto in fronte a questo opuscoletto, mi disse afflittissimo: — So che, in un paese lontano chiamato Bologna-a-mare, Didimo regalò tutti i suoi libri e scartafacci a un altro giovine militare che ne usasse a suo beneplacito; e fece proponimento di né piú leggere né piú scrivere: da indi in qua, e gli è pur molto tempo, non so piú dov’e’ sia né se viva.

xvi

Mi diede inoltre copia di un epitaffio che Didimo s’era apparecchiato molti anni innanzi; ed io lo pubblico, affinché, s’egli mai fosse morto ed avesse agli ospiti suoi lasciato tanto da porgli una lapide, lo facciano scolpire sovr’essa:

DIDYMI - CLERICI
VITIA • VIRTVS • OSSA
HIC • POST • ANNOS • †††
CONQVIEVERVNT

Note

  1. On the moral tendency of the writings of Sterne (Knox, Essays moral and literary, vol. iii, n. 145) [F ].