Zecche e monete degli Abruzzi/Aquila

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III.


AQUILA.




Federico II di Svevia, affin di guernire le frontiere settentrionali del regno, che avrebbero potuto offerire ai finitimi guelfi agevole accesso, statuì intorno gli anni 1248 di edificare una città forte nel territorio interposto tra Furcone ed Amiterno, la quale, dall’antico nome del sito ove dovea sorgere e dagli auspicii delle sue vittoriose bandiere, Aquila decretò intitolarsi. Providimus, così suona il diploma di quella fondazione, ut in loco qui dicitur Aquila, inter Furconem et Amiternum, de circum adjacentibus castris et etiam terris, quae veluti membra dispersa, quantacunque fidei claritate vigentia, nec nostrorum rebellium poterant repugnare conatibus, nec inter se sibi mutuis auxiliis subvenire, unius corporis civitas construatur, quam, ab ipsius loci vocabulo et a victricium signorum nostrorum auspiciis, Aquilae nomine decrevimus titulandam1. Nè si era tuttavia fornita di fabbricare, allorchè nel 1256 gli abitanti, suscitati da papa Alessandro IV, scossero il giogo di re Manfredi, che tre anni dopo ne fece lo scempio più segnalato, adeguandola al suolo. Riedificata da Carlo di Angiò nel 65, ribellò un’altra volta nel 1294; ma per intromessione di Pietro di Angelerio eremita, chiamato allora alla cattedra di san Pietro, venne da Carlo II perdonata; onde poscia per gratitudine assunse tra’ suoi patroni anche quel santo pontefice, e [p. 18 modifica]ne venerò la spoglia tradottavi da Firentino il 1327, e ne impresse sulle monete la imagine. Jacopo cardinale, nella vita dello stesso papa Celestino V, ci descrive all’anno 1294 l’Aquila

                                             non plenam civibus urbem,
     Sed spatiis certis signatam ob spemque futuram2,

dal che si argomenta che ben lungi fosse anco allora dal suo compimento.

Nel 1348 l’Aquila col suo territorio fu esposta alle incursioni degli ungheri, condotti dal loro re Lodovico a vendicare la morte del fratello Andrea, marito della regina di Napoli Giovanna I, che l’unghero teneva complice dell’assassinio di Andrea; ma conchiusa tre anni dopo la pace, e mentre nella nuova città si andavano svolgendo i germi di futura grandezza e prosperità, principiarono le discordie civili e le lotte dei partiti, dalle quali sorse poi la potenza della fazione dei Camponeschi.

Posti all’ultimo angolo del regno governato da una donna volubile e ne’ suoi divisamenti maisempre incerta o mal consigliata, popolati da gente bellicosissima e ad ogni novità inchinevole e pronta, lacerati dalle intestine dissensioni, sotto il sinistro influsso dello scisma religioso, gli Abruzzi parevano facile preda ad ogni invasore, preda peraltro la cui conservazione era più che male sicura. Delle terre, altre si reggeano a comune, altre tiranneggiavano i baroni, niuna conosceva che di nome la regia autorità; pontefici ed antipapi, monarchi legittimi e pretendenti al trono vi cercavano amici ed ausiliarii contro i competitori. Perciò, eletto nel 1378 Clemente VII a Fondi pei maneggi di Giovanna I, papa Urbano VI, chiamando Carlo di Durazzo ad occuparne il reame, e sciogliendo i popoli di Abruzzo dal giuramento di fedeltà alla regina, gli eccitava a riconoscere il nuovo signore, così scrivendo nel novembre dell’80 alle università di Sulmona e di Chieti: Veram prudentiam latere non debet, cum jam sit notorium et divulgatum [p. 19 modifica]ubique quod nos dudum contra iniquitatis alumnam Johannam olim reginam Sicilie, hereticam et scismaticam, propter gravia scelera et excessus per eam contra nos et Romanam Ecclesiam, cujus erat ligia et vassalla, commissa et perpetrata, que absque gravi offensa Dei et nostre conscientie remorsu nullatenus poterant amplius tollerari, legitime procedentes, de fratrum nostrorum Consilio sententialiter declaravimus eam fuisse et esse tamquam scismaticam et hereticam puniendam, eamque fuisse et esse privatam et ipsam privavimus Jerusalem et Sicilie regnis ac terris citra et ultra pharum, et quibuscunque dignitatibus et honoribus ae terris et omnibus feudis, que a dicta Romana et quibuscunque aliis Ecclesiis, et etiam a Romano Imperio vel quibuscunque aliis obtinebat; ac ipsius bona omnia fuisse et esse confiscata, et ea confiscavimus; omnesque et singulos qui eidem Johanne juramento fidelitatis aut alterius cujuscunque obsequii debito, submissione, obligatione vel pacto, quacunque firmitate vallato, prius tenebantur adstricti, absolvimus et decrevimus absolutos, ec.3.

Carlo di Durazzo annunziava egli pure ai chietini il 22 di quel mese da Roma: quod, divina gratia permittente, jocundi et incolumes hanc urbem almam intravimus die XI mensis hujus, ubi nobiles et populus romanorum nostre excellentie illa intulerant reverentie et honoris, que domino pape et imperatori exhibere sunt alius assueti... hortantes vos attentius, ut ex nunc disponere velitis ad domini nostri pape et nostra erigenda insignia, nomenque nostrum et non alterius invocando; quod nobis coronatis et regnum advenientibus cum grandi armigerorum exercitu4, ec. E il 19 luglio 81 da Napoli partecipava ai medesimi le sue vittorie e l’acquisto del regno5.

Clemente VII intanto, scomunicato Carlo di Durazzo, investì [p. 20 modifica]Ludovico I di Angiò figlio adottivo di Giovanna, e non del solo reame di Napoli, ma di uno stato vastissimo che, sotto il nome di regno d’Adria, doveva abbracciare gran parte d’Italia, e che non avrebbe forse mai avuti confini più ampii della pergamena del diploma se Carlo, per la vile uccisione della regina prigioniera e per la non attenuta fede ad Urbano VI, non avesse alienati gli animi dalla sua causa, e agevolata così a Lodovico la invasione del regno. Mentre dunque nel 1382 Sulmona parteggiava per Carlo, Aquila apriva il 17 di settembre le porte a Lodovico, e lo riconosceva legittimo re. Da quest’epoca fino alla morte dell’angioino, accaduta il 20 settembre dell’84, e la partenza pochi mesi appresso del durazzesco, che agognava la corona dell’Ungheria, gli Abruzzi furono il teatro della guerra civile, favorendo università e baroni, quale l’uno e quale l’altro dei due competitori; e gli è in quest’epoca stessa che ritengo aperte, a provedere al bisogno de’ traffichi e agli stipendii de’ soldati, con qualità opportuna e in quantità bastevole di denari, le due prime zecche abruzzesi, Aquila degli angioini, Sulmona dei durazzeschi.


Quali monete, effettive e di conto, abbiano avuto corso negli Abruzzi sotto i due rami della dinastia angioina, vengo brevemente ad esporre. In oro ci avea l’oncia di conto, che ragguagliavasi nel 1301 a 60 carlini d’argento nella compera del castello di Machilone6; nel 1347, anno di abbondanza, stando alla relazione del poeta e cronista aquilano contemporaneo Buccio Ranallo, vedeasi

Manteglio bello et ricco per meza oncia dunare7;

dall’altro poema di Antonio di Buccio sappiamo che in once computavasi lo stipendio dei fanti, nel 75:

Una onzia per uno lu mese li dagéo8; [p. 21 modifica]

e nel 95 re Ladislao donava alla università d’Aquila, che gli si era dedicata, annuam provisionem unciarum CC de carlenis argenti, ponderis generalis9. Era invece effettivo il fiorino o ducato d’oro delle repubbliche di Firenze e di Venezia, del cui primitivo valore abbiamo notizia in Buccio Ranallo:

Dudici boni carlini per uno fiorino contato10:

Vendeasi nella carestia del 1340 un fiorino la coppa di grano11, e nell’abbondanza del 47 poteasi avere un bove od un somarello allo stesso prezzo12. Nel 1375, equivalendo già da settant’anni, come nel primo capitolo ho avvertito, il fiorino o il ducato, non più a 12, ma a 10 carlini, stante il costoro aumento di peso, leggiamo nella cronaca di Nicolò di Borbona una oncia che so’ sei ducati d’oro13; e nel rescritto di Renato de’ 5 settembre 1438 agli aquilani: bonos ducatos auri vel carolenorum ad rationem de carolenis decem pro quolibet ducato14.

In argento, la maggior moneta era il carlino o gigliato, duodecima o decima parte del fiorino, secondo i tempi. Una coppa d’orzo nello stremo di vettovaglia del 1340 vendevasi sei carlini15; e nella pestilenza del 48

Chi comparava guardia per esser ajutati
Lu di et la notte la femina petea tre gillati.16

Vedremo nel 1433 ordinarsi da Giovanna II al comune d’Aquila lo stampo dei mezzi carlini, detti anche mezzanini, e dei quartaroli o quarti di carlino.

Nei cronisti aquilani è altresì menzione dei soldi. Nel 1340

Quinnici solli vedea che se vendea la brenda17; [p. 22 modifica]

nel 48

Piccola pollastregliu quatro solli valìa18;
le quali monete, che dividevansi in 12 denari ciascuna, venivano con ciò a corrispondere al grano; nè può essere che erronea la interpretazione data ad un passo di Francesco di Angeluccio19 che si riferisce all’anno 1479, secondo cui il soldo avrebbe allora constato di 15 denari.

I denari, o denarelli, sono pure ricordati da Buccio Ranallo, che ci racconta come nella peste del 48

lu ovo a due dinari et a tre se ne gia20,

e dal catalogo dei vescovi aquilani compilato intorno a quell’anno21. Denari semplici col nome di parvuli, e quadrupli detti quattrini, vedremo accordati battersi alla zecca d’Aquila, il 1417 ed il 53. I parvuli erano dunque centoventesimi del carlino, suddiviso perciò anche in 30 quattrini. Diversificarono poi da questi i nuovi denari, il cui stampo accordò Alfonso I di Aragona nel 1439 alla zecca di Sulmona, dodici de’ quali formavano il bolognino, e due il tornese.

Nel catalogo de’ vescovi occorre più di una fiata il nome dei denari professini o provisini, che in tanta copia battevansi a Roma dai senatori. Più addietro, nel 1255, un istromento aquilano menziona i denari di Perugia, dei quali il Vermiglioli assicura di aver trovato notizie fino dal 1210: libras perusinorum sex et mediam bene numeratas et electas22. Anche gli acontani cita ripetute volte Buccio Ranallo, parlandone come di moneta minuta:

Quello che ce remase non valse uno acontano23.

Ma le monete delle quali più particolarmente dobbiamo [p. 23 modifica]occuparci, siccome di quelle che dentro a’ confini del regno si coniarono esclusivamente in Abruzzo, salva l’unica eccezione di Sora, per assoldare le truppe e per agevolare i commercii coi vicini stati della Chiesa, sono i bolognini e le celle. La prima menzione di bolognini in Abruzzo l’abbiamo nella cronaca di Nicolò di Borbona, quando parla della copiosa raccolta d’uve del 1368, onde si vendette il vino bolongni cinque la soma de tre varili24. Queste monetine, che si principiarono battere col tipo del busto mitrato nelle zecche pontificie da papa Urbano V, tra il 1362 e il 70, ebbero sì gran voga in tutta l’Italia centrale nel secolo successivo, che mettea conto ai monetieri lo intralasciare lo stampo delle altre specie per dar mano a quello dei bolognini; ma, appunto perchè universalmente ricevuto, il bolognino fu in breve tempo, non solo tosato dai frodatori, ma e adulterato dagli zecchieri; e lo vedremo anche all’Aquila, non fosse altro, scemato di peso prima del 1404, onde accadde che quella officina per qualche tempo fosse chiusa. Secondo la tariffa romana degli 8 di luglio 1439, che regola il corso delle valute nel patrimonio di san Pietro25, il bolognino di Roma dovea correre 4 cinquini ossia 20 denari, e l’aquilano cogli altri forestieri solo cinquini 3 3/5 o denari 18; ma vuolsi ammettere che in quella tariffa, affine di accreditare la moneta dello stato, siasi ribassato il corso dell’estere, mercè la quale ragionevole supposizione sparirà la tenue differenza tra le due specie di bolognini. Il rapporto tra il bolognino nostro e il carlino, e per conseguenza la sua proporzione col ducato, risulta da ciò che, essendosi nel 1438 chiesto dagli aquilani di pagare le collette ad rationem de bolonenis LX pro quolibet ducato, il re Renato rispose: In bonos ducatos auri vel carolenorum ad rationem de carolenis X pro quolibet ducato26. Dunque il bolognino tornava [p. 24 modifica]un sesto di carlino ed un sessantesimo di ducato; e questo valore mantenne negli Abruzzi fino alla metà del secolo XV, abbenchè Alfonso I concedesse nel 1439 ai sulmonesi lo stampo di nuovi bolognini da 50 al ducato, suddivisi ciascuno in 6 tornesi, ovvero in 12 denari.

Cella è voce corrotta da uccello, nome a moneta derivato dall’aquila suvvi effigiata, per dinotare la zecca onde usciva, ed arme parlante dell’Aquila. Infatti Antonio di Buccio, che fiorì circa il 1382, così ci descrive il gonfalone di quella città rinnovato a’ suoi giorni:

Una baniera nova per comuno facta fone,
Cioè l’aquila bianca nello rossio pendone27.

Le celle si coniarono ad Aquila sotto Giovanna II e Renato, e il valore ne conosciamo dalla succitata tariffa pontificia del 1439: celle aquilane cinquini 6, cioè denari 30. Onde avviene che il bolognino equivalga a due terze parti della cella, e 40 celle pari a 60 bolognini formino il ducato. In un documento del 1433 vedremo le celle indicate col nome di quartaroli, o di quarte parti del carlino; nel 1442, di trentini, perchè divise in 30 denari. Vietatone però lo stampo da Ferdinando I di Aragona nel 1458, non ne cessò la circolazione anche negli anni successivi, perciocchè nel 1468 le troviamo così avvilite da computarsene 30 a 55 per ducato, e nel 1473 ancor più abbassate fino a volercene, per ogni ducato, 60. La cella ed il bolognino, soverchiati dalla nuova moneta degli aragonesi, scomparvero finalmente dal corso verso il 1480.

Le prime monete che si hanno dell’Aquila portano il nome di un Lodovico di Angiò. Niun documento esistendo della originaria concessione della zecca aquilana, discordano gli eruditi nell’attribuzione di tali pezzi, alcuni ascrivendoli al primo, altri il secondo Lodovico. Don Cesare Antonio Vergara, che nel 1715 pubblicò una riputata illustrazione delle monete del [p. 25 modifica]regno28, la quale è ancora il meno incompleto lavoro che si abbia in fatto di numismatica napoletana, diede inciso al n. 2 della tav. XVI il seguente bolognino, che più correttamente intagliato qui si ripubblica al n. 2 della prima tavola:

D. + lvdovicvs.rex Nell’area le sigle a.q.l.a., Aquila, disposte in croce, punto nel centro.

R. s.petrvs.pp. 9fes., papa confessor. Busto mitrato di papa Celestino V, o san Pier Celestino, veduto di prospetto, imitante il busto del pontefice, quale appare sui bolognini romani colla epigrafe v.r.b.i. degli ultimi anni del secolo XIV. Pesa acini 25.

Alle pagine 52 dell’opera stessa il Vergara, che nella descrizione e nel disegno della moneta scambiò le quattro sigle del diritto in i.i.q.l., che non danno alcun senso29, l’attribuisce a Lodovico I di Angiò, secondogenito del re di Francia, adottato da Giovanna I nel 1381, il quale, dopo la morte della regina, coronato e investito dall’antipapa Clemente VII, contese il trono a Carlo di Durazzo. Contro la opinione del Vergara sorse nel 1846 Giuseppe Maria Fusco, rivendicando la moneta stessa a Lodovico II, figlio del precedente e a lui succeduto ne’ diritti al reame il 1385; perciocchè il padre suo, mi valgo delle parole di quel valente nummografo, «inutilmente guerreggiando con Carlo di Durazzo, non ebbe in stabil modo alcuna parte del reame in suo dominio, ed in fine morì in Bisceglie di ferite e di dolore, dopo la memorabile giornata avvenuta vicino Bari30. In sì breve spazio di tempo, senza mai conquistare la capitale, e con un inimico tanto vigile d’appresso, non pare che questo Lodovico avesse potuto battere moneta, o a meglio dire, è assai più consentaneo alla ragione ed alla storia, il tenere improntate queste pervenuteci dall’altro Lodovico di Angiò di lui figliuolo, il quale di poi la morte di Carlo della Pace tenne per ben lunga stagione in sua [p. 26 modifica]balìa l’intero reame, ove se ne toglie la città di Gaeta devota ai durazzeschi ed altri pochi luoghi, com’è noto dalle storie contemporanee31». Fin qui il Fusco. Ora, la controversa moneta, fu coniata tra l’anno 1382 allorchè, morta Giovanna I, Aquila per eccitamento del conte Lalle dei Camponeschi inalberò le bandiere angioine, e il 20 settembre 1384 giorno della morte di Lodovico I; o fu invece da quest’epoca sino alla dedizione d’Aquila a re Ladislao, figlio di Carlo di Durazzo, avvenuta nel 1395. Alla mancanza di documenti, che ci assicurino in quale de’ due periodi fosse improntato, supplirà la ispezione del bolognino medesimo, il suo confronto con quello sulmonese di Carlo, a cui tanto si accosta nel peso e nel modulo, e coll’altro aquilano di Ladislao, dal quale molto diversifica negli accennati caratteri, nonchè il vedersi aperta una zecca in Sulmona da Carlo, mentre contendeva il possesso del regno a Lodovico; argomenti che m’inducono ad attenermi alla opinione del Vergara, che il Lodovico, il cui nome sta sulla moneta che osserviamo, sia veramente il figliuolo adottivo della regina Giovanna I, emulo e competitore del primo re durazzesco.

Allo stesso principe appartiene eziandio il quattrino di basso argento del peso di acini 20, delineato al n. 3, che da un lato ha la leggenda .lvdovicvs .rex. preceduta da una crocetta e terminata da segno ignoto, e nell’area una croce patente cantonata da un fiordaliso; mentre dall’opposto la epigrafe + de.aqvila:– gira intorno ad un leone incedente verso sinistra, insignificante simbolo in moneta abruzzese, ma posto solo perchè rassomigliasse i quattrini del senato di Roma. Il Bellini ed il Fusco ci danno la descrizione e la imagine di consimili quattrini, alquanto variati dal mio esemplare32. [p. 27 modifica]

Morto nel 1386 Carlo di Durazzo, vittima della sua smodata ambizione e della sua sete di conquiste, abbenchè le storie quasi per istrazio lo chiamino Carlo della Pace, il figliuol suo Ladislao fu acclamato re a Napoli, non più che decenne, tutrice la madre. Riaccesa tosto la guerra fra gli angioini e i durazzeschi, i primi, cui pareva arridere la sorte delle armi, toccarono gravi rovesci; e gli Abruzzi nel 1390 avean già abbracciata la causa di Ladislao, all’infuori dell’Aquila che teneva ancora da Lodovico secondo. Il 15 luglio del 92 mosse il giovinetto re con forte esercito a debellarla33, ma non l’ebbe che il 20 agosto 95 quando erano al colmo i disastri di Lodovico, che aveva anche perduta la capitale. Dopo la quale dedizione dovettero coniarsi i bolognini aquilani di Ladislao, il cui impronto, inesattamente datoci dal Vergara34, è qui riprodotto al n. 4. Porgono da una faccia le solite sigle a.q.l.a. ed all’ingiro + ladislavs.rex.; dall’altra il consueto busto di S. Pier Celestino e la scritta .s.petrvs.pp.9fe. Pesano acini 18. Raffrontati fra loro parecchi esemplari, offrono lievi diversità di conio, che non vale la pena d’annoverare.

La zecca dell’Aquila pare non si tenesse ligia alle regie prescrizioni sulla bontà e sul peso delle monete; ce lo attesta una provisione del 1404 diretta Nanno Massarello de Balneo de Aquila, pro solutione lib. C, pro damnis passis ob prohibitam siclam cudendi bolonginos in civitate Aquile, ob falsitatem monete35; dalla quale impariamo quanto grave motivo determinasse il re a chiuder la zecca. Che poco stante siasi riaperta, mi move a conghietturarlo una nuova foggia di bolognini che d’essa uscirono, non poco diversi dal tipo pontificio sino allora seguito, e discrescenti nel peso, che appena oltrepassa 17 acini. Variano essi da quelli testè descritti per ciò che, invece dal busto di san Pier Celestino, ne mostrano la mezza figura colla [p. 28 modifica]destra in atto di benedire, la sinistra di reggere una lunga croce; le leggende come ne’ precedenti. Se ne veda il disegno al numero 536.

Altra moneta aquilana di Ladislao è il quattrino, del quale due varietà conosco, l’una edita dal Bellini37, l’altra dal Fusco38, che si riproduce sotto il n. 6. Gira nel diritto la epigrafe + . ladislavs.rex intorno alla croce cantonata da un giglio, e dal rovescio + v.ierl.et.sici.aql. (Vngariae, Jerusalem et Siciliae; Aquilae) intorno al leone che abbiamo veduto anche sul quattrino di Lodovico. La precipua differenza dell’esemplare belliniano consiste nella mancanza della iniziale v. posta ad indicare il nome dell’Ungheria, di cui intitolavasi re Ladislao, quale erede delle paterne pretese.


La regina Giovanna II, sorella di Ladislao e a lui succeduta il 1414, malcontenta del marito Jacopo della Marca, invescata nell’amore dell’ambizioso Ser Gianni Caracciolo, intimorita dalla spedizione di Lodovico III di Angiò pretendente al reame dopo la morte del padre suo Lodovico II, aveva adottato nel 1420 per figliuolo e successore Alfonso V re di Aragona e Sardegna; ma poco stante, l’ambizione di Alfonso, la volubilità di Giovanna e gl’intrighi del Caracciolo cooperarono a partire dalla regina l’aragonese. Avendo essa pertanto con nuova adozione scelto a succederle Lodovico di Angiò nel 1423, la fortuna di Alfonso declinò sì fattamente, che gli rimase fedele il solo Braccio da Montone, uno dei più celebri condottieri italiani, che con forte mano di truppe teneva stretta da vigoroso assedio Aquila parteggiante per la regina. Sforza Attendolo, spedito da Giovanna a liberare quella città, affogò nel Pescara il 4 gennajo del 24, e poco appresso morì combattendo anche Braccio, ed Aquila sbloccata inalberò le bandiere angioine. A [p. 29 modifica]sollevare pertanto la fedele popolazione dai danni durati nel lungo e formidabile assedio, Giovanna II le accordava il 22 luglio dell’anno stesso ampie concessioni, fra le quali leggiamo la riconferma della zecca ove si battevano i bolognini. Giova riportare il frammento di quel diploma che concerne la moneta aquilana: Eisdem universitati et hominibus prefate civitatis Aquile siclam bolonenorum de argento, seu liberam licentiam et potestatem plenariam cudendi bolonenos de argento, modo et forma quibus olim per nos et dictam nostram curiam consuevit, libere tamen et franco et absque alia solutione extaleo seu recognitione curie nostre prestanda, quam eis propter ipsorum grandia merita remittimus, usque videlicet ad annos quinque complendos, a die datum presentium numerandos39: Anche sett’anni prima, nel 1417, trovo la stessa zecca appaltata a Nunzio della Fonte ed a Lodovico de’ Gaglioffi, ambidue aquilani, ad cudendum bologninos argenteos, et quatrinos, et parvulos ereos40.

Gli è fuor dubbio che i bolognini, del cui stampo Giovanna II nel 1424 rinnovava il permesso ad Aquila franco di balzelli per un quinquennio, sono, come gli altri del 1417, di quelli che il Vergara ha pubblicato41, e che io pure do intagliati nella prima tavola al n. 7, imitanti que’ bolognini di Ladislao che, per recare la mezza figura del santo pontefice Celestino in luogo del busto, scostandosi con ciò dall’anterior tipo pontificio, aggiudicai ad epoca posteriore.

D. + ivhanda:regina. (talora regin ed anche reg:). Nell’area a.q.l.a.

R. s:petrvs:pp:9fe. (o solo 9.). Mezza figura di pontefice, mitrata e nimbata, d. benedicente, s. asta sormontata da croce di trifogli.

Questi bolognini eransi prescritti al taglio di 34 1/2 per [p. 30 modifica]oncia, vale a dire del peso ciascuno di acini 17 9/23, peso a cui si avvicinano i meglio conservati esemplari, e che tanto si allontana da quello dei bolognini rivendicati a Lodovico I di Angiò; nuovo argomento, da aggiungere all’altro del più recente tipo, per tenerli indubitamente della seconda Giovanna.

Si battè anche il quattrino, tralasciando la novità della epigrafe introdotta da Ladislao, e richiamando, ma sopra metallo da maggior mondiglia invilito, il vecchio tipo di Lodovico. L’ho fatto incidere al n. 8, più fedelmente che non è nella seconda dissertazione del Bellini42.

D. + ivhanda: regina. Croce cantonata da un fiordaliso.

R. + de: aqvila. Leone gradiente verso la sinistra. Peso acini 16.

Una bella varietà di questa moneta ci diede il Bellini stesso, che intorno al leone ha il nome della regina, e quello della zecca intorno la croce43.

Ma venghiamo alle celle, dette anche quartaroli o trentini, la cui fabbrica non erasi attuata dagli antecessori di Giovanna II. Due tipi se ne conoscono, distinti notevolmente fra loro per ciò che, quello che reputo anteriore, reca il nome della regina Juhanda premesso al suo titolo e l’aquila senza corona, laddove l’altro ha il titolo preposto al nome Juhanna e l’aquila incoronata. Che il titolo preceda il nome o viceversa, che l’aquila porti o no la corona, parranno osservazioni minute ed oziose; ma quando riflettiamo che al nome dei principi anteriori a Giovanna e di Giovanna stessa, sui bolognini e sui quattrini coniati in Abruzzo, succede sempre il titolo regio, non si avendo che una sola eccezione in contrario nel bolognino sulmonese di Carlo di Durazzo, mentre le celle di Renato antepongono d’ordinario al nome di lui il titolo di re, e che l’arme parlante della città d’Aquila ci si mostra coronata nelle più [p. 31 modifica]frequenti celle di Renato, non saranno state inutili cotali osservazioni, avvalorate ancor più dalla variata ortografia del nome, dalla meno o più elegante forma dei caratteri, e dalla tarda comparsa dei segni degli zecchieri, a determinare a quale dei due tipi devasi attribuire la priorità. Li ho delineati ambidue, il primo al n. 9, il secondo al n. 10.

Primo tipo. D. + ivhanda:regina. Aquila ad ali aperte, con lunga coda ma chiusa, rivolta la testa alla sinistra.

R. s.petrvs.p. (od anche pp.). Santo pontefice assiso di prospetto, cinto il capo di aureola, d. benedicente, s. asta che termina in croce trifogliata, come sui bolognini. Varia da questa faccia la disposizione delle lettere a’ lati del santo ne’ diversi esemplari44.

Secondo tipo. D. * regina * ivhanna *. Aquila come sopra, ma aperte le penne della coda e più raccorciate, sormontata il capo da corona regale.

R. .s*petrvs. c. Il santo come nel primo tipo, ma dai cui lati sporge il cuscino sul quale è seduto. Il segno c è dello zecchiere45. Il peso sta fra 20 e 23 acini.

Notevole, sempre che sia esattamente riprodotta, mi pare la varietà del secondo tipo esibitaci dal Vergara46 colla scritta * regina * iov *, per tale ortografia singolare del nome, come pure per la diversa sigla dello zecchiere, l Ma ben più notevole parve l’altra descrittaci nel 1842 dal Fusco47, e pubblicata dal Bonucci nel 184648, la quale dal diritto coll’aquila incoronata ci porge, dopo il nome di Giovanna, la sigla s fra due rosette, e dal rovescio una rosa nel posto della marca dello zecchiere. Ravvisando in quella sigla la iniziale di secunda, non dubitarono i miei dotti amici di riconoscere nella cella in discorso una [p. 32 modifica]moneta spettante fuor d’ogni questione alla seconda Giovanna, nel che siamo pienamente d’accordo; non così però nella interpretazione di quella s, la quale dovrebbe, sembrami, indicare il nome dello zecchiere, tanto più che non ci ha la consueta c allato del san Pietro, e che una s ricorre pur frequentissima sulle monete di Alfonso I d’Aragona. Ma sia ch’essa vada intesa in un modo o nell’altro, non posso poi concedere al Fusco, ciò ch’egli assevera con tanto convincimento, che questa moneta, ed un’altra che fra poco vedremo, «tolgono via più ogni dubbio ad annoverare alla prima Giovanna tutte quelle date in luce dal Vergara e da altri, nelle quali non si vede aggiunto il secunda. Veramente io non so perdonare a quei che tolsero dopo dal Vergara a favellare del sistema monetario delle due Sicilie, di non accorgersi di siffatto errore49.» E qui spero che il mio Fusco mi vorrà perdonare se, non soscrivendo alla sua opinione, adduco argomenti che tendono ad infirmarla; appunto perchè uscita da sì rispettabile numismatico, merita se ne faccia caso, e la contraria sentenza sì appoggi su tali fatti, che almeno contrabbilancino l’autorità di un nome già illustre.

Quando guardiamo al tipo dei bolognini segnati col nome di Giovanna, li riscontreremo tutti, da qualsivoglia zecca usciti, corrispondere a quello dei due tipi di Ladislao che, per discostarsi dal pontificio e da quelli di Lodovico di Angiò e di Carlo di Durazzo, ho assegnato ad epoca posteriore all’altro. Il minor modulo e il peso diminuito sono prove, a mio credere, che tutt’i bolognini aquilani col nome di una Giovanna appartengono fuor dubbio alla sorella di Ladislao, e non alla figlia di Roberto. Ci occuperemo in appresso dei bolognini di una Giovanna coniati a Guardiagrele; e chi potrà mai attribuirli alla prima, se la zecca di Guardiagrele fu aperta da Ladislao? Quanto alle celle, il non trovarsene, ch’io mi sappia, notizia veruna in documenti anteriori al secolo XV, nè l’aversene con [p. 33 modifica]altri nomi da quelli in fuori di Giovanna e di Renato, non sono esse prove sufficienti, abbenchè negative, che la regina che le stampò era la seconda di tal nome che immediatamente precedette Renato, e non già l’altra, morta più che mezzo secolo prima che Renato fosse dal partito angioino acclamato re? Ma il Fusco medesimo, avvertendo due tipi di celle evidentemente diversi, sospettò poscia50 che quelle col nome Juhanda fossero da assegnarsi alla seconda, quelle coll’aquila incoronata alla prima; mentre invece la ortografia Juhanda appare sui bolognini e sui quattrini probabilmente anteriori allo stampo delle celle, e l’aquila incoronata sta in quelle di Renato; ondechè stimò antiche quelle di più recente conio, e viceversa. La discrepanza poi dei due tipi non può spiegarsi, che ammettendo una mutazione di stile nella zecca d’Aquila durante il lungo regno di Giovanna II, per la quale anche la strana ortografia del nome, che sopra niun’altra moneta ci appare dalle aquilane in fuori, si era intralasciata per uniformarsi all’uso delle altre zecche del regno. Al che oserei aggiungere, quello credetti risultasse dalle stesse monete che ci pervennero, che la origine della zecca aquilana e delle altre di Abruzzo sia posteriore all’epoca in cui Giovanna I cessò di vivere. Ora, rifacendomi alle tavole del Vergara, che ci danno le monete da quell’autore attribuite alla prima Giovanna, osserverò che della XIII i n. 1 e 4 non sono monete italiane, ma provenzali; il n. 2 una tessera di bronzo anonima, il 3 una cella; e della XIV il n. 1 un bolognino di Guardiagrele, il n. 2 un denaro aragonese, male letto e peggio interpretato, dell’isola di Sicilia; onde mi è forza conchiudere che il Vergara non ha pubblicato alcuna moneta di Giovanna I. Tali sono bensì que’ denari che il Fusco, dopo il Bellini, ci descrisse negli Annali di numismatica51, uniche monete forse della prima Giovanna uscite da zecca italiana.

A compimento delle memorie intorno le monete aquilane di [p. 34 modifica]Giovanna II, mi rimane ancora da riportare il diploma 6 gennajo 1433, con cui la regina reca alcune riforme nel personale addetto alta zecca dell’Aquila, prescrivendo la elezione di quattro probi cittadini che debbano provedere all’assaggio dei metalli, e in un medesimo determina le specie che doveano ivi coniarsi, vale a dire:

Mezzi carlini, da due celle o da tre bolognini.

Quartaroli, sotto il qual nome s’intendono le celle, quarte parti del carlino.

Bolognini, o sesti di carlino; tutt’e tre le specie alla bontà di once 10 per libbra.

Quattrini, alla bontà di once 1 ½, e al taglio di pezzi 32 per oncia, vale a dire del peso di acini 18 ¾ ciascuno.

Denari di tal mistura che avessero mezz’oncia di argento in 11 ½ di rame, e di tal peso che un’oncia ne desse 60, cioè di acini 10 l’uno.

Ecco il tenore della regia ordinanza: Universitati civitatis nostre Aquile exponenti, quod in moneta bolegninorum, que spenditur in partibus Aprutinis, multa eveniunt incommoda, ex quo moneta ipsa non est debita, et proportionalis ponderis et bonitatis, propterea supplicant eis concedi siclam pro annis tribus, in qua cudantur medii carleni, quartaroli, boligneni, quaterni et denarii minute monete, facultas prout petunt, dummodo sint ponderis et bonitatis, et in qualibet libra (mediorum carlenorum, quartarolorum et bolignenorum) sint de argento fino uncie decem et de ere uncie due; et moneta quaternorum de argento et ere, in quibus sint de argento fino in pondere uncia una et media, et de ere uncie decem et media, et per unciam ponderis sint triginta due; moneta parvulorum in quibus pro qualibet libra sit de argento fino dimidia uncia et de ere sint uncie undecim et media, et per unciam ponderis sint in minuto sexaginta. Volumus insuper quod per commune et universitatem dicte civitatis Aquile eligi debeant quatuor probi viri sufficientes et legales super assadio, et probandarum monetarum, sinc quibus magister sicle inibi per nos constitutus [p. 35 modifica]monetam ipsam non debeat extrahere nec licentiare de sicla predicta52. I quartaroli o celle, i bolognini e i quattrini di Giovanna II abbiamo già veduti: dei denari non conosco la esistenza effettiva; bensì di quella dei mezzi carlini ci rese edotti il Fusco53. Non potendo, per difetto dell’originale, dare intagliato il disegno della medaglia del carlino, mi accontenterò di riportare quanto ne scrive l’egregio autore: «Tiene esso nella parte diritta la regina sedente sopra un trono retto da due leoni, stringente colla destra uno scettro gigliato, colla sinistra il globo crocigero, ed in giro + iohanna.regina.sca.dei.gra. che agevolmente leggesi Iohanna regina secunda Dei gratia. Sul rovescio poi è nel campo una croce fiorita cantonata da quattro fiordalisi, non diversa da quella che appare nei gigliati e nei robertini, col rimanente della leggenda + hvgarie.ierl.e.sicilie ed in fine una piccola aquila indicante lo stemma della città che la improntò.» La quale moneta è doppiamente notevole, sì per essere l’unica che dopo il nome di Giovanna non trascura l’epiteto di secunda, come per essere la prima delle abruzzesi che si scosta dal sistema pontificio per collegarsi al napoletano, del che non si avea esempio nella numismatica angioina, salvo che nel posteriore carlino del re Renato.

A questo punto, prima che ci dipartiamo da Giovanna II, mi è mestieri accennare di volo quella tanto bizzarra idea dello Zerdetti il quale, scambiando nel nome Juhanda in una cella del primo tipo la second’asta ricurva della h nella coda di una l, credette leggere Julanda, e ascrisse la moneta a Violante vedova di Lodovico II di Angiò54. Non mi farò a combattere la troppo evidente insussistenza di siffatta attribuzione, che si appoggia sulla erronea lettura di un esemplare, che spero fosse non ben conservato; ma lo sbaglio dello Zerdetti sarà una [p. 36 modifica]lezione per chi, mal pratico degli antichi caratteri, e tratto dalla smania di scoprir cose nuove, frantende le scritte e svisa il chiaro senso dei monumenti; e se mai avvenga che questo mio libro cada fra le mani di qualcuno de’ più recenti illustratori di monete italiane, abbia egli presenti sempre le celle della regina Violante. Proseguiamo.


Chiamato Renato dalla fazione angioina a succedere a Giovanna II, qual fratello di Lodovico III di Angiò adottato dalla regina ed a lei premorto, non potè tosto adire il reame, trovandosi prigioniero del duca di Borgogna da tempo anteriore alla morte di Giovanna, che avea cessato di vivere il 2 febbrajo 1435. Intanto Isabella sua moglie prendeva possesso 26 gennajo 36 dell’Aquila in nome del marito, e concedeva a que’ cittadini gl’implorati capitoli. Ma riscattato Renato nel maggio del 38, e condottosi ad occupare il regno, lo trovò scompigliato dalle mene di Alfonso d’Aragona e lacerato dalle fazioni; trovò nulla ostante Aquila fedele ancora alle sue bandiere, avvegnachè travagliata dalle scorribande del Piccinino. E ciò tanto ebbe a grado, che il 5 settembre dell’anno stesso, stando in quella città, i privilegii accordatile da Isabella confermò, altri aggiungendone poi non meno onorifici nel 1440. Egli si fu nella prima di queste due epoche che, ricercandolo gli aquilani di poter pagare le collette dell’ultimo biennio, già ridotte nel 1420 da Giovanna II da 2700 a 2500 ducati, in ragione di 60 bolognini per ducato, decretò si pagassero in ducati d’oro effettitivi, in carlini da 10 al ducato; il che ci prova smessa ormai allora negli Abruzzi la grande e quasi esclusiva circolazione dei bolognini, e sottentrati ad essi i carlini napoletani. Ecco perchè, fra le monete aquilane di Renato, non incontriamo più bolognini, ma in loro vece carlini, continuando però lo stampa delle celle, simili alle ultime della seconda Giovanna, nonchè dei quattrini introdotti da Lodovico I.

Il carlino di Renato, detto anche gigliato e robertino, che perfettamente imita quelli coniati nella zecca di Napoli da Carlo [p. 37 modifica]II e da Roberto, ci mostra da un lato il principe in regale paludamento, coronato il capo, assiso su due leoncini, reggente nella manca un globo crocigero, nella destra uno scettro in cima a cui è il fiordaliso; a sinistra del riguardante, a fianco del re, un’aquiletta nel campo denota la officina ore fu improntato il pezzo, ed all’intorno leggesi + * renatvs * dei * gra * ierl * e * sic * r *; dalla opposta parte, intorno a croce potenziata, riccamente fiorita e cantonata di fiordalisi, gira il versetto del salmo 98 + honor.regis.ivdiciv.diligit, messo prima sulle monete da Carlo II di Angiò55. Ne offro l’intaglio al numero 11.

La cella, che tanto somiglia nel tipo a quella di Giovanna II coll’aquila coronata, ne varia nel diritto pel nome mutato in rex * renatvs. Il rovescio n’è identico, e la stessa pure è la sigla dello zecchiere, c. La diedero il Vergara ed il Muratori56, ma con qualche discrepanza dagli esemplari che se ne vedono, colpa forse la rozzezza abituale dei loro disegni. Quello di cui presento la imagine al n. 12 pesa acini 21.

Bella varietà della cella ci mostrò il Vergara57, sulla quale l’aquila non ha corona, e la leggenda, preceduta da una croce, suona renatvs * rex * dei * g; il rovescio n’è simile all’altro; aggiunto al nome del santo il titolo di papa, pp, e senza sigla di zecchiere. Ma che dirò di quella cella di smisurato diametro, che pur vediamo delineata nell’opera del Vergara58, che non s’avvide forse di non aver prodotto che un disegno stranamente ingrandito della descritta varietà? L’equivoco del Vergara fu ripetuto anche dal Muratori;59 così passano di libro in libro, e di età in età, e si perpetuano gli errori, e sanzionati da nomi illustri e autorevoli usurpano il campo alla verità.

Il quattrino di Renato è battuto ad imitazione di quelli di [p. 38 modifica]Lodovico I e di Giovanna II, recando dal diritto la croce cantonata da un fiordaliso e circondata dalla iscrizione + renatvs:dei:gr:rex (ovvero gra.r, ed anche rex * p *); dall’altro lato il consueto leone colla scritta + de:aqvila60. Vedasi il n. 13 della prima tavola. Pesa 12 acini.


Fino a che durò il travagliato governo di Renato, la zecca d’Aquila, salve le poche eccezioni avvertite, coniò monete di tipo peculiare agli Abruzzi, quantunque parti aliquote del carlino; ma dopo i rovesci dell’angioino che, soverchiato dalle armi aragonesi, sgombrò nella state del 1442 il regno, lasciandone unico ed assoluto signore Alfonso I, quella prerogativa cessò, e la zecca stessa dovette uniformarsi per sempre al sistema della napoletana. Infatti, ricuperata Aquila da re Alfonso, e segnati i relativi capitoli il 6 ottobre di quell’anno61, egli ne concedette lo stesso dì la zecca al conte di Montorio, acciò vi battesse carlenos argenti, medios carlenos, trentinos et bajochos62. Tornando il carlino 120 denari, la moneta che qui troviamo indicata col nome di trentino è il quarto del carlino, il pezzo cioè da 30 denari. Tale vedemmo essere stato il valore delle celle o quartaroli degli angioini, che forse allora si vollero surrogare da una moneta di pari valsente, ma di conio diverso. Il bajocco, nome romano del grano di Napoli, equivaleva alla decima parie del carlino, constava cioè di 12 di que’ denari, che nel 1472 re Ferdinando rese effettivi nel cavallo di puro rame. Sennonchè, sia che non mettesse conto dar mano a troppe qualità di monete per la massa tuttavia circolante di bolognini e di celle, sia che le nuove valute in tanto scarsa copia si emettessero da sfuggire dopo quattro secoli alle nostre indagini, non posso produrre di questo re i mezzi carlini, i trentini e i bajocchi segnati [p. 39 modifica]col distintivo particolare alla zecca dell’Aquila. Abbiamo bensì pubblicato dal Fusco 63, e qui per la seconda volta, al n. 14, il carlino.

D. + :alfonsv:d:g:r:ar:s:c:v:f:. Alfonsus Dei gratia rex Aragonum et Siciliae citra ultraque farum. Arme inquartate di Napoli e di Aragona.

R. + :dns:m:adivt:et:ego:d:i:m:, Dominus mihi adjutor et ego despiciam inimicos meos, versetto del salmo 117. Il re di faccia, assiso sopra due leoncini, d. scettro gigliato, s. globo crocigero; nell’area a manca, aquiletta.


Per la morte di Alfonso, avvenuta nel maggio degli anni 1458, fu assunto al trono di Napoli Ferdinando, figliuolo naturale di lui. Papa Calisto III, dichiarandolo per gl’illegittimi natali inetto a succedere, invocava con bolla 12 luglio di quell’anno i capitoli di pace già segnati a Terracina li 9 aprile 1443 da Alfonso col legato di Eugenio IV, e le successive loro conferme pontificie. Sennonchè, defunto Calisto nel vegnente agosto, il nuovo pontefice Pio II gli accordò la investitura del regno; e il 25 ottobre dell’anno stesso 1458, ricevuto l’omaggio di sudditanza e fedeltà dagli aquilani, Ferdinando riconfermò loro l’antico privilegio della moneta, a patto, peraltro che non coniassero mai più celle. Ecco il tenore del capitolo presentato al monarca: Item dignetur ipsa majestas concedere quod in civitate Aquilae fiat sicla ubi cudatur moneta, modo et forma, ponderis et ligae quibus cudetur Neapoli, et in eadem sicla eadem majestas praeponere et ordinare unum credenserium aquilanum; et camera aquilana teneatur et valeat ponere et ordinare unum qui habeat tenere rationes et calculos argenti, quod dabitur cudendum in ipsa sicla. Il re di questa guisa rispose: Placet regiae majestali quod fiat reintegratio de sicla ipsa dictae civitati, ad cudendum tantum monetae argenti [p. 40 modifica]ejusdem ligae et ponderis prout in sicla civitatis Neapolis cuduntur, dummodo non fiant aucellae64.

L’anno dopo, cioè il 1459, addì 4 febbrajo, Ferdinando I fu solennemente incoronato re a Barletta; ed a perpetuare il lieto avvenimento sulle monete, le zecche di Napoli e d’Aquila coniarono la nuova foggia di carlini, che dalla scritta che recano si dissero coronati. Hanno gli aquilani, uno de’ quali vedesi inciso nella seconda tavola al n. 15, da una banda la croce potenziata circuita dalla legenda + ferdinandvs *d*g*r*sici*ier; sull’altra è il busto del re adorno della regia corona, rivolto di profilo alla destra, e intorno ad esso la epigrafe + coronatvs.quia.legitime.certavi; l’aquiletta appare su questo lato ora frammezzo alla epigrafe, ora dietro il collo del re65.

Alla chiamata dei baroni, congiurati lo stesso anno contro l’aragonese, in livore di Giovanni di Renato di Angiò, che armata mano avea invaso il regno per sostenere i diritti paterni, Aquila eccitata dai Camponeschi non fu già sorda; e, quantunque il 21 agosto 1461 avesse conchiusa tregua con Ferdinando, cui parevano arridere le sorti della guerra contro il competitore, festeggiò nell’aprile del 63 la entrata dell’angioino, a cui si professava devota. Giovanni ebbe la peggio; ed Aquila, costretta a subire il giogo del vincitore, ne rialzò le bandiere l’agosto di quell’anno, ricevendo da lui, ch’era accampato appo la Torre degli Schiavi, il 9 maggio del 64, la concessione di nuovi capitoli e la conferma della moneta: Item dignetur ipsa majestas concedere quod in civitate Aquilae fiat sicla ubi cudatur moneta, modo et forma, ponderis et ligae quibus utitur Neapolls, et in eadem sicla dicta majestas praeponere et ordinare unum credenserium qui habeat tenere rationes et calculos argenti, quod dabitur cudendum in ipsa sicla; in qua etiam cudi possent monetae minutae tam argenteae quam aeneae justi [p. 41 modifica]ponderis et bonae ligae, secundum exigentiam ipsarum monetarum, prout ipsi universitati opus fuerit, et quod ipsa sicla sit universitatis praedictae; non obstantibus quibuscumque concessionibus factis, aut forte in futurum fiendis. Rescrisse il re: Placet regiae majestati juxta formam concessionis alias, ut asseritur, per suam majestatem factae66. Di tal guisa Ferdinando, riportandosi alla concessione del 1458 che area ristretta la battitura ai soli pezzi d’argento, veniva ad escludere tacitamente quelli di bassa lega.

È fama, che agli storici piacque di tramandarci, che Ferdinando, mentre in quella guerra occupava co’ suoi eserciti la provincia di Capitanata, salito il monte Gargano ed espugnatavi la rocca di Sant’Angelo, facesse fondere la grande statua in argento di san Michele che ivi si venerava, e stamparne monete che di coronati dell’angelo presero il nome, colla imagine dell’arcangelo e la impresa Justa tuenda, alludente alla necessità di lui che, per difendere i proprii diritti, avea dovuto valersi degli argenti delle chiese. Una di tali monete, uscita dalia zecca dell’Aquila, pubblicata dal Bellini e dal Fusco67, può vedersi al n. 16 della seconda tavola.

D. + :ferdinandvs:d:g:r:sicilie:hi. Busto cor. a d., dietro il collo t, più sotto aquiletta; ovvero ferrandvs:d:g:r:sicilie:hi: Busto coronato a destra.

R. ivsta.tvenda. L’arcangelo Michele, s. rotella, d. asta con banderuola, colla cui punta percuote il dragone, che atterrato gli giace a’ piedi; nel campo a s. t, a d. aquiletta.

La sigla t essendo la iniziale del cognome di Giancarlo Tramontano, mastro delle zecche di Napoli e d’Aquila dal 1476 in poi, il presente coronato non può spettare che a quest’anno od ai successivi; ma credetti opportuno descriverlo a questo luogo perciocchè, anche se alla riportata tradizione non vogliasi aggiustar fede, rimarrà sempre certo che il tipo del coronato [p. 42 modifica]dell’angelo risale al tempo immediatamente posteriore alla prima congiura che funestò il regno di Ferdinando. E valga il vero, propenderei piuttosto a riconoscere in quella effigie di san Michele, non già la statua del monte Gargano, ma sì il patrono sotto cui fu posto l’insigne sacro e militar ordine dell’armellino, fondato dal re stesso a ricompensare i baroni che se gli erano conservati fedeli; nel cui statuto de’ 29 settembre 1465 il re dichiara: Consecramo et dedicamo questo ordine al prefato sancto Michele Archangelo, lo quale pigliamo in protectore del ordine et de tutti li confrairi68; colle quali parole concorda il disposto dagli altri capitoli, concernenti il festeggiamento del giorno di san Michele, che dovevasi celebrare colla maggior pompa dai cavalieri nella chiesa ad esso intitolata. Così del pari nel motto Justa tuenda amo ravvisare meglio un’impresa cavalleresca del re, che non una scusa da lui mendicata a giustificare il suo operato, in tempi eccezionali e di guerre civili. E ciò tanto più mi trovo indotto a credere, leggendo la stessa impresa sopra un’armellina, moneta del valore di quattro grana69, certamente coniata anch’essa in memoria della fondazione dell’ordine.

Ma poichè le armelline si stamparono tanto nella zecca di Napoli come in quella dell’Aquila, così mi è qui d’uopo descriverne una aquilana, quantunque di conio posteriore, recando anch’essa, come il coronato, la iniziale del Tramontano.

D. ferrandvs:d:g:r:sic. Scudo sormontato dalla regia corona, e foggiato a frontale di cavallo, colle armi inquartate di Napoli e di Aragona.

R. serena.*.omnia. Armellino gradiente a s., sopra cui svolazza un cartello col motto decorvm; nel vano interposto fra il cartello e l’animale, tre rose; nell’esergo, aquiletta, la sigla t e tre rose, due a’ lati, una in mezzo. Vedi il n. 17 della [p. 43 modifica]seconda tavola70. La rappresentazione di questo rovescio è illustrata dal nono capitolo dell’ordine, che descrive il collare dei cavalieri, quale appare sul magnifico basto in bronzo di Ferdinando I di Aragona conservalo nel regio museo Borbonico: Dal collare penderà avanti el pecto una imagine di arminio bianco de oro smaltato in bianco, a li piedi del quale sia uno breve con questa parola decorvm, et intenda ciascuno qual mente sia la nostra che con la imagine del animale mundissimo significamo a li nostri confratri quello solo doverse fare lo quale sia decente justo et honesto71.

La mira di provedere il regno di minute frazioni della moneta, di cui avea forte difetto, e di ovviare in un medesimo le falsificazioni del biglione, determinò nel 1472 il re a decretare lo stampo del danaro, o dodicesima parte del grano, in puro rame, il quale dalla rappresentazione del suo rovescio suggerito dal conte di Maddaloni, cavallo si addimandò. Orso Orsini duca di Ascoli fu quegli che primo nel regno ideò di sostituire, alla lega di basso argento, il rame; ed ottenutone il regio assenso, Nicolò Spinelli mastro della zecca napoletana ne fece eseguire i punzoni a Girolamo Liparoto72. Quando parlai delle monete di Amatrice, ho provato che la repubblica di Venezia avea già di dieci anni preceduto Napoli nella introduzione del puro rame coniato. Anche all’Aquila si diede mano allo stampo dei cavalli, e se n’emise quantità non comune, come attestano il non tenue novero di tali monete ch’è a noi arrivato, e le varietà de’ conii loro, le quali ponno ridursi a due precipui tipi, delineati sotto i numeri 18 e 19.

Primo tipo. D. ferdinandvs.rex. Busto incoronato a d.

R. eqvitas.regni. Cavallo sciolto, gradiente a destra; nell’area davanti ad esso, aquiletta73. [p. 44 modifica]

Secondo tipo. D. ferrandvs....rex. Busto come sopra.

R. eqvitas regni. Cavallo come sopra; dinanzi, la iniziale del Tramontano o l’aquiletta, rosa nel vano superiore, nell’esergo aquiletta ovvero t fra due rose; tipo più elegante del precedente, e posteriore all’anno 147574.

Secondo il Vergara, il cavallo effigiato su questa moneta sarebbe quello colossale di bronzo, la cui stupenda testa tuttavia si ammira nel museo Borbonico; cavallo che è fama stesse eretto dinanzi l’antica cattedrale di Napoli ad insegna della città, ed al quale Corrado I di Svevia, ricuperato ch’ebbe il regno, fece porre il freno e scolpire sulla base il seguente distico, che riporto per l’analogia che ha colla impresa Aequitas regni della moneta:

Hactenus effrenis, domini nunc paret habenis,
Rex domat hunc aequus Parthenopensis equum75.

Ebbero le nuove monete gran voga per quanto durò il secolo XV, ma la eccedente quantità che ne fu coniata, e il maggior prezzo cui salì l’argento in forza di sì smodata emissione di rame, le fecero in breve discendere a tanto discredito che, da dodici cavalli, ce ne vollero quindici a rappresentare il grano; e ognor più scemando di valore per l’aumento recato dalla calata di Carlo VIII nel regno alla massa circolante del vile metallo, Federico di Aragona decretò il 31 gennaio 1498 che non meno di 24 di que’ cavalli facessero un grano, e 12 il tornese costituissero.

Francesco di Angeluccio di Bazzano, cronista delle cose dell’Aquila dal 1442 al 1489, ci conservò memoria dello stampo dei ducati d’oro aquilani, nel 75, coi passo che segue: 1475 a di 8 de lullio se vatteo la zecca nostra delli ducati d’oro della re nostro Ferdinanno in Aquila, e vottìla Nardo de Colantonio de Cagnano, e in quisto dì n’arecò circa a ducati cinquanta d’oro che lli avia vattuti allora, e mustrolli alli [p. 45 modifica]banchi de piacza che erano assai mercatanti, e forono multo belli ducati, tutti colla magine de lu viso e l’arme della sua maestate76. Gianvincenzo Fusco, ricavando consimil notizia da Salvatore Massonio, volle rivendicare alla presente zecca quel ducato, detto anche ferrantino, d’oro finissimo, del peso di uno zecchino veneto, che, dalla banda opposta al nome e all’arme di Ferdinando I, ne reca la effigie colla iscrizione Recordatus misericordie sue; alludendo, secondo il Vergara, alla prodigiosa preservazione dei giorni di quel monarca dal tentato regicidio che infamò il nome di Marino Marzano; sul quale ducato d’oro sta allato il busto del principe la sigla c, che il Fusco sospettò indicare il cognome del Cagnano, succeduto nella carica di mastro della zecca medesima a Giacomo Cotrullo77. Se così fosse, avremmo in questo ducato la prima moneta d’oro degli Abruzzi; ma grave dubbio m’induce la mancanza dell’aquiletta, che sopra tante monete di Ferdinando contraddistingue la officina di cui ci occupiamo, e la presenza della c in tante altre che parimente dovrebbonsi ad essa attribuire, e che meglio pertanto si ascrivono a quella di Napoli che, essendo la primaria del regno, notava sui coniì per iniziali i nomi dei monetieri e dei presidi, e non abbisognava di particolar distintivo. Per le quali considerazioni mi astenni dal riprodurre nelle tavole il controverso ducato.

Non ometterò di citare il nuovo privilegio che Ferdinando I accordava ad Aquila, gli scarsi redditi della cui zecca mal potevano sopperire alte spese ch’era obbligata di sostenere per procurarsi i punzoni o le matrici dal di fuori. Implorava dunque dal re, e in pari tempo otteneva, ai ministri di essa si aggiungesse un intagliatore de’ conii, così suonando il capitolo presentato li 21 marzo 1480: Item se supplica detta maestà che, si come si è degnata reconcedere la zeccha a detta comunità, secondo la forma e continentia delli capitoli [p. 46 modifica]a quella per vostra maestà, concessi, et in quella, secondo l’anticha essercitatione e possessione, se permetteva in essa potesse mettere e proponete ministri secondo l’ordine de detta zeccha; vogli adunque degnarsi vostra maestà concedere che fra essi ministri se intenda, si come è stato per li tempi passati, l’officio di far cugni e stampe, che quei si possano fare nella delta città dell’Aquila, che se farranno molto belli e politi, e questo per essere poche l’entrate di detta zeccha; bisognando dette stampe farse da altri et in altro luogo che nella città dell’Aquila, tutto quello poco emolumento ne seguesse se converteria in quello, adeo che la detta comunità ne segueria o poco o niente; et etiam l’officio del mastro de prova se ordina da detta comunità, cioè della persona, reservata tamen provisione domini Gilii. Il re rispose: Placet regiae majestati, servatis tamen modo, forma, ordine et figura cudendarum pecuniarum qui et quae servantur in regia sicla neapolitana78.

Abilitata in tal guisa a valersi di proprii artefici, e resa con ciò indipendente dalla officina di Napoli, per quello concerneva l’intaglio dei conii, sarebbonsi trovati pronti all’Aquila gli ordigni e gl’incisori, se un improvviso avvenimento in quella città avesse occasionata una riforma dei tipi; il quale fatto si verificò poco appresso, come succintamente mi faccio ad esporre.


Quanto alle casa di Aragona era stato favorevole il pontefice Pio II, altrettanto Paolo II le fu avverso; e composte pacificamente quelle differenze per opera di Sisto IV, più gravi si rinnovarono ai giorni d’Innocenzio VIII, inclinato meglio a favorire i disegni dei baroni che quelli del re. Scoppiò pertanto nel 1485 la famosa congiura, ordita specialmente dal principe di Salerno, dal conte di Sarno e da Antonello Petrucci, la quale con vivi colori e forbitissimo stile ci pennelleggiò Camillo Porzio; congiura che nel volgere di poche settimane, alimentata [p. 47 modifica]tata dell’ambizione e dalle illusioni di papa Innocenzio, fece divampare degl’incendii di guerra tuttoquanto il mezzogiorno d’Italia. Messer Antonio Cicinello napoletano, luogotenente del re negli Abruzzi, avuto appena sentore della imminente guerra civile, stimò opportuno consiglio rinforzare il presidio dell’Aquila i cui abitanti non erano mai stati gli ultimi ad insorgere nei passati sconvolgimenti; ma queglino, di ciò avvedutisi, diedero di piglio alle armi, e invasa e messa a sacco la casa del Cicinello, fecero a pezzi il misero governatore; e precipitato ogni indugio, proclamarono libera la patria, atterrando le bandiere aragonesi, le pontificie inalberando. Alfonso duca di Calabria, figliuolo del re e designato a succedergli, sostenne con inudito valore la periclitante fortuna del padre e della dinastia; mentre i baroni, discordi fra loro, indecisi così nei consigli come nell’operare, abbandonati alla vendetta del principe da chi li aveva ingannati ed illusi, videro nel giro di brevi mesi assottigliati e disciolti i loro eserciti, i loro castelli l’un dopo l’altro dalle regie truppe occupati, e dei loro precipui duci e suscitatori quale ramingo nell’esiglio, quale prigioniero riserbato alla lenta ma terribile vendetta di Ferdinando. Ultima a cedere nei ribellati Abruzzi, il 1486, fu l’Aquila che volle eternata nelle monete la memorabile autonomia ch’ebbe sì corta durata, facendo battere nuova maniera di cavalli, sui quali appariva l’arme del comune e il nome del pontefice sotto i cui auspicii era insorta.

D. .innocentivs.pp.viii. Triregno e chiavi decussate.

R. * aqvilana * libertas *. Aquila incoronata ad ale aperte79. Tavola II, numero 20.

Fu chi spacciò una varietà di questa moneta, la quale, invece di Libertas, recherebbe Civitas80. Mi si permetta dubitare o [p. 48 modifica]che la moneta sia riconiata sopr’altra e la parola Civitas spetti al conio sottoposto, o che male siasi letta ed interpretata.


Indarno papa Innocenzio aveva sollecitato il duca Renato di Lorena, figlio di una sorella di Giovanni di Angiò morto senza prole, a ricuperare la corona tolta da Ferdinando I all’avo di lui. Ma, istituito erede di que’ diritti al trono di Napoli da Carlo del Maine, altro de’ nipoti del re Renato, il re di Francia Lodovico XI, questi li trasmise al delfino Carlo il quale, giovane intraprendente e dato alla carriera delle anni, mal sapea tollerare che altri occupasse quella bella parte d’Italia, che a sè legittimamente riputava spettare. Al che volgendo egli le cure e l’animo, gli si aggiungevano gl’incitamenti del principe di Salerno che, ricoveratosi in Francia, nulla lasciava intentato per nuocere agli aragonesi, e vie più quelli che venivano da Lodovico Sforza, usurpatore del ducato di Milano in danno del nipote Giangaleazzo e quindi nemico acerrimo di Ferdinando, e che prometteva al re di Francia di aprirgli le porte d’Italia e coadjuvarlo ad affrettare la grande impresa; mentre d’altro canto le ambagi di una scaltra diplomazia e la perplessità di alcuni baroni francesi che ne lo sconsigliavano valeano, non fosse altro, a ritardarla. In questo mezzo, il 25 gennajo 1494, venne a morte più di cordoglio che di vecchiaja Ferdinando I, lasciando il minacciato trono di Napoli al figliuolo Alfonso, il cui valore lo aveva parecchi anni addietro salvato, ed era di bel nuovo deliberato a difenderlo fino agli estremi con quell’acuità d’ingegno e con quella prontezza, che talor parve audacia, nell’attuare ogni più ardimentoso divisamento, ond’era salito in altissimo grido tra’ più abili capitani dei tempi suoi.

Non omise Alfonso II di pensare anche alle zecche, nella breve e burrascosa epoca in cui tenne lo scettro; tanto più che, essendo esausto l’erario per le passate guerre sì civili come esterne, e prevedendosi che ingenti somme avrebbe costato quella che ormai si vedea inevitabile, era necessario rifornire [p. 49 modifica]le pubbliche casse. Prescrisse dunque la forma della nuova monetazione col dispaccio che segue, diretto a Giancarlo Tramontano mastro delle zecche di Napoli e d’Aquila81:

Rex Sicilie, etc.

Ioan Carlo: Noi havemo deliberato che in queste nostre cecche de Napoli et de l’Aquila de qua avante se battano le soptoscripte monete de oro et de argiento con lo lettere intorno designate: et che voi como mastro de dicte cecche possate fare la prima lottera del nome et cognome vostro, como e stato facto in lo monete de la felice memoria del serenissimo signor re, nostro patre colendissimo. Et ad quisto effecto havemo scripto ad Hieronimo Leparoto che debia fare tucti li cugni et stampe necessarie de dicte monete de argiento et de oro, con li mucti intorno et con li desegni notati como da sopra e dicto, et quelli ve debia consignare como e costumato. Voi però lo sollicitarete et, facti scranno, attenderete ad cognare et baptere le monete come havemo dicto, et non fate altremente per cosa alcuna. La presente retenerete per vostra cautela.

Datum in nostris felicibus castris prope Terracinam, die XXIII octobris MCCCCLXXXXIIII.

Rex Alfonsus. 

In primis la stampa del alfonsino de oro, da una banda lo re ad cavallo como lo alfonsino vecchio, da l’altra banda lo re in maiesta, con queste lottere da la banda del cavallo: In brachio tvo pax et ivstitia regni tvi domine.

Item a lo cugno del ducato, da una banda la testa del re de naturale, et da l’altra banda lo arme regale como quello del alfonsino vecchio, con queste lettere da la banda de la testa: In dextera tva salvs mea domine.

Item al cugno de lo coronato, da una banda la coronatione, da l’altra banda san Michelo, con queste lottere da la banda de la coronatione: Coronavit et vnxit me manvs tva domine. [p. 50 modifica]

Item lo armellino, da l’una banda la sedia del foco, et da l’altra banda l’arminio, con queste lettere da la banda de la sedia: In dextera tva salvs mea donine.

Jo. Pontanus.— Tramontano. 

Non mi consta che l’ordine del re sia stato eseguito all’Aquila; ma il non trovarsi monete di Alfonso II col contrassegno di quella zecca, mi fa pensare che ad eseguirlo mancasse il tempo o la volontà.


Ma, fattosi intanto dall’una banda e dall’altra grande apparecchio di eserciti, Carlo VIII si dipartì di Lione in sol cadere dell’agosto dello stesso anno 1494, intraprendendo quella rapida discesa in Italia, che meglio può ad una vittoriosa corsa, che ad una fuggevole conquista, rassomigliarsi. Ai 23 di agosto egli era a Vienna nel Delfinato, a’ 28 a Grenoble, l’11 ottobre a Vigevano, il 18 a Piacenza, il 31 a Sarzana, agli 8 di novembre a Lucca; e il dì seguente, Pisa emancipavasi dal giogo dei fiorentini, ed acclamandolo suo liberatore ne improntava il nome e gli stemmi sulle monete. Entrato il 17 a Firenze, nè vi curando le minacciose parole di Pier Capponi, pattuì accordi colla repubblica; il due dicembre fu a Siena, addì 10 a Viterbo, la sera del 31 entrò in Roma al chiaror delle faci, e vi piantò la sua residenza nel palazzo di san Marco. Papa Alessandro VI, rifugiatosi nel castello di sant’Angelo, era poco stante costretto a cedere ed a firmare, il 16 gennajo 1495, un trattato col re, che abbandonò Roma il 28, movendo verso i confini del regno.

Resi inutili, dal precipite corso di tali avvenimenti, tutt’i piani guerreschi di Alfonso, disertatigli i migliori capitani che passarono al campo dell’inimico, tanto sbigottimento incolse quel re, che si appigliò al disperato partito di abdicare la corona in favore del figliuol suo Ferdinando II, il 22 gennajo, non compiuto ancora un anno di regno; lusingandosi che i baroni e gli altri sudditi avrebbono mutato l’inveterato odio, che a lui portavano, in affetto e fede al giovinetto monarca. Vane lusinghe; [p. 51 modifica]perciocchè, memore dei danni inferitile dalla casa di Aragona, l’Aquila aveva già alzato lo stendardo di Francia, prima ancora che Carlo VIII mettesse piede nel regno e, seguendone l’esempio, tutto Abruzzo era insorto, ridottisi i pochi avanzi dell’esercito aragonese nella rocca di Celano. Questa rivolta sgomentò il nuovo re, di cui riuscirono a vuoto gli sforzi per chiudere il passo di San Germano a Carlo, che il 17 febbrajo pigliò Gaeta; onde Ferdinando mosse a difender Capua, ma la seppe in mano del nemico, il 19; e ricondottosi a Napoli, ove prosciolse i sudditi dal prestatogli giuramento, fuggì indi ad Ischia. Il giorno 20, un araldo francese si presentò alle porte di Napoli, e vi fu ricevuto fra le acclamazioni della moltitudine; e sul tramontare del dì vegnente, il re cristianissimo fece il trionfale suo ingresso nella capitale del regno. È noto come il 15 maggio dell’anno stesso, nel duomo di Napoli, Carlo fosse dal legato pontificio incoronato re di Sicilia e di Gerusalemme; e come, cinque giorni appresso, saputa l’alleanza conchiusa dai veneziani tra gli stati d’Italia per togliergli la nuova corona e intercettargli il ritorno, si dipartisse di Napoli, lasciandovi governatore il conte di Montpensier, mentre al D’Aubigny rimase affidata la tutela delle Calabrie.

La zecca dell’Aquila, che ne’ suoi monumenti ci serbò memoria di tanti sovrani, il cui dominio si andò alternando negli Abruzzi, non esitò ad improntare le proprie monete del nome e delle armi del francese conquistatore; ed era già operosa nello stampo loro nel maggio 95, allorchè i sulmonesi pari facoltà imploravano. Il che, anche nella mancanza dei relativi capitoli, chiaro ci si appalesa dall’esame dei conii, dei quali soggiungo la descrizione, e riproduco nelle tavole i tipi.

D. charles * roi * de * fre. Scudo coronato di Francia, alla cui punta la sigla k.

R. + cite * de * leigle. Aquila incoronata ad ale aperte, entr’ornato composto di quattro semicerchii82.

[p. 52 modifica]

Se ne veda l’intaglio al num. 21 della tavola terza, tratto dall’originale in argento dell’imp. gabinetto di Parigi. La singolarità della leggenda francese adoperata in una zecca italiana, mentre nella stessa Francia si faceano latine l’epigrafi delle monete di Carlo VIII, osservazione non isfuggita al Leblanc, il peso dell’esemplare che, essendo di circa acini 46, non si uniforma a quello di verun’altra valuta allora circolante nel regno, il titolo stesso che quasi parifica il fino al peso, sono prove che avvalorano la opinione del Fusco, essere piuttosto una tessera che una vera moneta; e il Cartier inclina a ravvisare in essa un simbolo di omaggio degli aquilani, distribuito alle truppe francesi quando entrarono la loro città. Alle ingegnose conghietture de’ due numismatici aggiungerò una mia osservazione, tendente a comprovare uscito dalla zecca d’Aquila questo bel monumento, ed è l’analogia dello stile che si ravvisa fra l’aquila sovr’esso effigiata e quella che già vedemmo sul rame di papa Innocenzio VIII, che ci accusano ambidue lo stesso artefice, se non anche lo stesso punzone; arrogi la presenza della sigla k, che vedremo anche su cavalli aquilani di Carlo, messa in tal sito che non può invero riputarsi la iniziale di Karolus, bensì la sigla dello zecchiere.

La seguente moneta di rame ci fece primo conoscere il Fusco; pesando essa acini 68 abbondanti, ed essendo di tipo diverso da quello dei cavalli, devesi ritenerla un doppio cavallo, detto anche sestino, pari ad un sesto di grano.

D. carolvs.rex.francorvm. Arme incoronata di Francia.

R. civitas.aqvilana. Nell’area il monogramma del nome Jhesus, quale l’ideò san Bernardino da Siena; sott’esso, aquila incoronata83. Vedi il n. 22 della tavola terza. [p. 53 modifica]

I cavalli semplici ci offrono quattro tipi distinti, che non ho mancato di far intagliare sotto i numeri 23, 24, 25 e 26 della stessa tavola.

Il primo ha da un lato lo scudo incoronato co’ tre fiordalisi, e la scritta in giro carolvs * rex * frr *; dall’altro, il campo circondato dalla epigrafe civitas + aqvilana è quasi ugualmente diviso fra una croce ancorata e l’aquila sottoposta84. Qualche esemplare reca nel diritto la iscrizione del tipo che segue85.

Il secondo tipo ha la leggenda krolvs.d.g.rex.frr intorno allo scudo di Francia, alla cui punta appare, non però in tutti gli esemplari, la lettera k, indizio dello zecchiere, già osservato sulla tessera con leggende francesi; tiene il campo nella opposta faccia una croce più grande della precedente, trifogliata e radiante, e sott’essa un’aquiletta accolta entro scudo, ed all’ingiro civitas * aqvilana86.

Il terzo tipo ha il diritto simile al precedente, senza la lettera k, e pari leggenda al rovescio, dove però la croce è gigliata, e l’aquiletta sciolta87.

Il quarto è notevolmente diverso dagli altri, e raffigura nel diritto un fiordaliso, in luogo di tre, dentro lo scudo incoronato, ch’è cinto dalla leggenda carolvs.d.g.rex. franco; e dal rovescio la croce cantonata da un’aquiletta, e la consueta, scritta civitas * aqvilana.

Il peso di queste monetucce varia irregolarissimamente fra gli acini 25 e 147; il che non deve recarci meraviglia, quando pensiamo che trattasi di monete aventi un mero valor nominale, e non già intrinseco, anche prescindendo dalle agitazioni [p. 54 modifica]dei tempi e dei paesi in cui furon coniate; perciocchè gli stessi cavalli di Ferdinando I ci offrono cotali anomalie da dover conchiudere, che non è da tenersi niun conto del peso di questi minuti spezzati dei conii nobili, fino a che peraltro le differenze non sieno eccessive, siccome interviene in alcuni multipli del cavallo aragonese, accennati già dal Fusco88. E vige la osservazione medesima sulla trascurata qualità del metallo, più avvertita nelle zecche minori, meno nell’aquilana; infatti, se molti cavalli di Carlo VIII rinvengonsi di schietto rame, altri se n’ha di biglione, e non tanto basso, raggiungendo perfino un cavallo sulmonese il titolo millesimale 0,475, onde il suo valore effettivo eccede ben di parecchie fiate il nominale. Tanto disordine devesi attribuire alle angustiose condizioni di quell’epoca, che non lasciarono alle zecche il tempo necessario alla partizione delle materie da monetare.

La mancanza dei titoli di re di Sicilia e di Gerusalemme sui nummi aquilani di Carlo VIII, e la loro presenza sovr’altri degli Abruzzi, fanno ritenere al Cartier89 quelli anteriori, questi posteriori all’allontanamento di Ferdinando II. Pure si hanno, parmi, argomenti che inducono a credere contemporanee le due varie epigrafi: 1.° perchè il re di Francia, movendo la guerra all’aragonese, non intendeva di spossessare un principe de’ suoi dominii, ma solo di ricuperare il proprio trono; 2.° perchè gli Abruzzi insorsero per Carlo VIII, riguardandolo legittimo re, quale discendente dagli angioini, e non vedevano in Ferdinando che il pronipote di Alfonso I usurpatore; 3.° perchè sulle monete di Ortona, ammesse per ossidionali anche dal Fusco e dal Cartier, e perciò probabilmente posteriori alla dipartita di Carlo, non incontriamo i titoli di Sicilia e di Gerusalemme, che pur dovremmo trovarvi.

Ritiratosi Carlo VIII dal regno per rientrare in Francia, [p. 55 modifica]invano contesogli a Fornovo il passo dalle anni italiane confederate, ed occupate dagli spagnuoli le Calabrie per bloccarvi e costringere alla resa i piccoli presidii francesi che tuttavia rimanevano, Ferdinando II il dì 7 luglio 1495 si ricondusse nella capitale a riordinare le scompigliale bisogne del manomesso suo stato; e siccome importantissima cosa era il regolare la moneta, sbandì tutt’i conii di Carlo VIII. Ma qualora la esuberante quantità che se n’era stampata si fosse tutto ad un tratto levata dalla circolazione, il popolo di Abruzzo ne avrebbe patito incalcolabile danno, non si avendo in pronto una corrispondente massa di minuti spezzati di tipo aragonese. Ebbe quindi il comune dell’Aquila ricorso al re, perchè le monete di Carlo VIII si tollerassero al loro originano valore, implorando dai regii luogotenenti il 13 settembre 1496: che le monete minute e grosse tanto de oro argento e rame dell’impronta francese attento sono moltiplicate per tutto Apruzzo, e molte persone et quam maxime poveri artesciani rimaneriano disfatti se occorresse dette monete sbandirsi e reprobarse, però se degnino che dette monete vagliano e valer debbiano siccome per il passato è stato solito e consueto a al presente vagliono. E nel medesimo tempo supplicava la riconcessione della zecca: Item perchè la zecca aquilana, della quale detta comunità ne have privilegio regio et n’è stata et è in possessione in cugnare monete in detta città, et al presente detta communità è in possessione di detta zecca; però si degnino, in nome della detta maestà, li privilegii hanno di detta zecca e possessione di essa confirmare a detta communità, et in quanto fosse bisogno di nuovo concedere con plenaria amministratione de poter cognare monete, della ligha qualità peso e bontà e cugno have la zecca napolitana, non ostante qualsivoglia concessione fosse fatta in contrario a qualunque, o si facesse per sua maestà sub quacunque verborum serie et tenore che refragesse e contrariasse a quanto de sopra, e qua fosse bisogno farne mentione de verbo ad verbum. A tale capitolo rescrivevano i regii luogotenenti, Guidubaldo da Montefeltro duca di Urbino, Fabrizio Colonna [p. 56 modifica]Annibale di Varano: Fiat secundum privilegia, non obstantibus aliis in contrarium impetratis90.

Morto però Ferdinando II il dì 7 del seguente ottobre, e succedutogli lo zio Federico, tra i capitoli che gli presentarono gli aquilani il 10 dicembre dell’anno stesso, nel suo campo in Traetto, uno ve n’ebbe pure concepito nei medesimi termini di quello accordato il 13 settembre, riguardante il riaprimento della zecca, al quale il re rescrisse: Placet regiae majestati91; ed insistevano in pari tempo sul non meno importante oggetto delle monete di conio francese.

Tanta era la massa circolante del rame di Carlo VIII che, unito a quello già emesso da Ferdinando I, si trovò per tal modo sufficiente ai bisogni, che Ferdinando II s’era astenuto dall’improntare verun pezzo di quel metallo colla propria effigie, se n’eccettui la moneta occasionale col motto Brundusina fidelitas, che in tenue quantità d’esemplari dev’essere uscita, se lice giudicarne dall’attuale loro scarsezza. Ma sotto il costui governo, come pure durante quello di Federico, che riprese l’abbandonato stampo del rame, si ripercosse non iscarso numero di cavalli di Carlo coi vecchi conii di Ferdinando I, altri col nuovo di Federico, operazione che riuscì a tal segno imperfetta, che le monete superstiti lasciano tuttavia l’una e l’altra impronta quasi alla stessa guisa confusamente discernere. Questa riconiazione reputo eseguita nella sola zecca di Napoli, perciocchè non mi sovviene di aver mai trovato cavalli di Carlo ristampati coi conii di Ferdinando I che portano il segno della aquiletta; e quindi mi giova ritenere chiusa la zecca d’Aquila dopo il ritorno degli aragonesi, ad onta delle regie concessioni ottenute, e rimasta inoperosa durante i regni del figliuolo e del fratello di Alfonso II.


Succeduto frattanto a Carlo VIII, il 1498, nel governo di Francia, e nelle pretensioni sopra il reame di Napoli, Lodovico [p. 57 modifica]XII d’Orleans, ben seppe egli farle valere ai danni di Federico, prima coi trattati conchiusi col re cattolico, e poscia colle armi. Costretto Federico a cedere al re francese, mutando il regno di Napoli, spartito tra Francia e Spagna, nel ducato di Angiò, Lodovico XII, che signoreggiava Terra di Lavoro ed Abruzzo, riapri le zecche di Napoli e d’Aquila; ma, se nella prima battè monete in ogni metallo, nella seconda ne fece solo di rame, non conoscendosi che il sestino aquilano, riportato al n. 27 della terza tavola:

D. lvdo.fran.regniq.neap.r. Croce ricrociata e gigliata, leggenda preceduta da un’aquiletta.

R. popvli.comoditas. Arme di Francia, epigrafe interrotta da un’aquiletta alla punta dello scudo.

Riuniti finalmente, dopo più anni di contese e di guerra, i regni di Napoli e di Sicilia sotto il potente scettro di Carlo V, che governava in nome proprio e della madre sua Giovanna, egli accordò agli aquilani il riaprimento della loro zecca, mediante diploma de’ 30 aprile 1520, nei termini che seguono: Habeatque dicta civitas facultatem cudendi monetas cum insigniis et imaginibus nostris, aereas argenteas et aureas, prout eidem placuerit, meliusque et commodius visum fuerit92. Sennonchè, di questo diritto Aquila non si valse; e perciò quella officina, ch’ebbe più lunga durata di ogni altra abruzzese, deve ritenersi cessata col duodecimo Lodovico di Francia.




Note

  1. Muratori, Antiquitates Italicae medii aevi, vol. VI, col. 512.
  2. Rerum Italicarum Scriptores, III, 633.
  3. Gennaro Ravizza, Collezioni di diplomi e di altri documenti de’ tempi di mezzo e recenti da servire alla storia della città di Chieti, Napoli 1832- 35, in 4. T. I, p. 99 e seg.
  4. Id. ibid. I, 72, 73.
  5. Id. ibid. I, 74, 75.
  6. Muratori, Ant. Ital. VI, 562.
  7. Boezio di Rainaldo di Poppleto, vulgo Buccio Ranallo, Delle cose dell’Aquila dal 1252 al 1362, poema, in Muratori, Ant. Ital. VI, 631, st. 696.
  8. Antonio di Buccio o di Boezio, Delle cose dell’Aquila dal 1363 al 1362, poema, in Muratori, Ant. Ital. VI, 765, st. 438. Dagéo, diede.
  9. Muratori, Ant. Ital. VI, 859.
  10. O. c. 542, st. 86.
  11. O. c. 603, st. 480.
  12. O. c. 631, st. 696.
  13. Nicolò di Borbona, Cronaca delle cose dell’Aquila, in Murat. Ant. Ital. VI, n. X.
  14. Muratori, Ant. Ital. VI, 559.
  15. Buccio Ranallo, o. c. 603 st. 480.
  16. Id. ibid. 643, st. 794.
  17. Id. ibid. 603, st. 481. Brenda, crusca.
  18. Buccio Ranallo, o. c. 640, st. 773.
  19. Francesco di Angeluccio di Bazzano, Cronaca delle cose dell’Aquila dal 1442 al 1485, in Murat. Ant. Ital. VI, ad an. 1479. Vedasi pure la nota dell’Antinori al passo stesso, c. 919 e seg.
  20. O. c. 640, st. 773.
  21. Muratori, Ant. Ital. VI, 950.
  22. Muratori, Ant. Ital. VI, 546.
  23. O. c, 561, st. 202.
  24. O. c. 854.
  25. Card. Garampi, Saggi di osservazioni sul valore delle antiche monete pontificie, s. l. e a., pag. 90 e seg. dell’App. doc. XXIV. Quest’opera non fu mai pubblicata, nè fornita di stampare. L’esemplare di cui mi prevalsi è quello della Vaticana, che contiene importanti aggiunte manoscritte.
  26. Muratori, Ant. Ital. VI, 559.
  27. O. c. 798, st. 727.
  28. Monete del regno di Napoli da Roggiero fino a Carlo VI, Roma 1715.
  29. Murat. in Argelati, De monetis Italiae, Mediolani 1750, T. I, tav. XXX, n. 4. Delle sigle i. i. q. l. disse il Muratori, p. 41: aliis explicandas relinquo.
  30. Mazzella, Vite dei re di Napoli, p. 167.
  31. G. M. Fusco, Di alcune monete spettanti ai re di Napoli e Sicilia, ins. negli Annali di numismatica pubblicati da Giuseppe Fiorelli, Roma 1846, T. I, pag. 94.
  32. Vinc. Bellini, De monetis Italiae hactenus non evulgatis postrema dissertatio, Ferrariae 1774, tav. II, n. 1.— G. M. Fusco, o. c. tav. IV, n. 11.
  33. Giornali napoletani dal 1266 al 1478 in Rer. Ital. Script. XXI, c. 1062.
  34. O. c. tav. XVII, n. 1. — Muratori in Argel. I, tav. XXX, n. 5.
  35. R. Archivio di Napoli. Registro 1404, fol. 169.
  36. Altro disegno in Bellini, Diss. postrema, tav. II, n. 2, molto inesatto.
  37. Bellini, De monetis Italiae novissima dissertatio. Ferrariae 1779, tav. II, n. 1.
  38. G. M. Fusco in Ann. di Num. p. 95, tav. IV, n. 12.
  39. Muratori, Ant. Ital. VI, 874.
  40. R. Archivio di Napoli. Registro 1417, fol. 150.
  41. O. c. tav. XVIII, n. 3. — Muratori in Argel. tav. XXXI, n. 3.
  42. Bellini, De monetis Italiae altera dissertatio, Ferrariae 1767. p 10, n. 1.
  43. Id. ibid. p. 10; n. 2.
  44. Vergara, o. c. tav. XIII, n. 3.
  45. Vergara, o. c. tav. XVIII, n. 2. — Mur. in Argel. tav. XXXI, n. 2.
  46. O. c. tav. XVIII n. 1. — Muratori in Argel. tav. XXXI n. 1.
  47. G. M. Fusco, Intorno ad alcune monete aragonesi ec. p. 38.
  48. Carlo Bonucci, Alcune monete del museo Santangelo, ins. negli Annali di Numismatica, T. I, p. 20, tav. II, n. 10.
  49. G. M. Fusco, Intorno ad alcune monete ec. p. 38.
  50. G. M. Fusco, Di alcune monete ec. dagli Ann. di Numism., p. 93.
  51. Bellini, Diss. altera, p. 104, n. 7. G. M. Fusco, l. c. p. 93.
  52. R. Archivio di Napoli. Registro 1423, fol. 368 a tergo.
  53. G. M. Fusco, Intorno ad alcune monete aragonesi ec. p. 37.
  54. C. Zerdetti, Sopra due monete del museo Mainoni osservazioni, ins. nella Biblioteca Italiana, T. XXVIII, Milano 1822, p. 181 e seg.
  55. Vergara, o. c. tav. XIX, n. 1. Muratori in Argel. tav. XXXI, n. 4.
  56. Vergara, o. c. tav. XIX, n. 3. Muratori in Argel. tav. XXXI, n. 6.
  57. O. c. tav. XIX, n. 4.
  58. O. c. tav. XX, n. 1.
  59. Muratori in Argelati, tav. XXXI, n. 7.
  60. Bellini, Novissima diss., tav. II, n. 2. — G. M. Fusco, in Ann. di Num. I, 95, tav. IV, n. 13. — Die Reichel’sche Münzsammlung in St. Petersburg, T. IX, n. 233.
  61. Muratori, Ant. Ital. VI, 894.
  62. Capialbi, Moneta di Catanzaro, p. 10.
  63. G. M. Fusco, Intorno ad alcune monete aragonesi, tav. I, n. 1.
  64. Regia munificentia erga Aquilanam urbem variis privilegiis exornatam, Aquilae 1639, pag. 210 e 211.
  65. Vergara, o. c. tav. XXIII, n. 1. — Muratori in Argel. I, 42, tav. XXXII, n. 7.
  66. Regia munificentia ec., p. 234.
  67. Bellini, Novissima dissertatio, p. 60, tav. IX, n. 5. — G. M. Fusco, Intorno ad alcune monete aragonesi, tav. I, n. 3.
  68. G. M. Fusco, I capitoli dell’ordine dell’Armellino, Napoli 1845, p, 12.
  69. G. V. Fusco, Dichiarazione di alcune monete battute nel reame di Napoli, negli Annali di Numismatica del Fiorelli, T. I, pag. 179. tav. V, n. 6.
  70. G. V. Fusco, Dichiarazione ec., p. 178, tav. V, n. 4.
  71. G. M. Fusco, I capitoli dell’ordine dell’Armellino, p. 16 e 17.
  72. Atti della settima adunanza degli scienziati italiani, I, 971. — Onori funebri renduti alla memoria di Salvatore e Gio. Vinc. Fusco, Napoli 1850, p. 255.
  73. Vergara, o. c. tav. XXIV, n. 5.
  74. Vergara, o. c. tav. XXIV, n. 2. — Muratori in Argelati, I, tavola XXXII, num. 12.
  75. Vergara, o. c. p. 10, 20, 85.
  76. Muratori, Ant. Ital. VI, 916.
  77. G. V. Fusco, Dichiarazione ec., in Ann. di Num. I, p. 176.
  78. Regia munificentia ec., p. 245.
  79. Vergara, o. c. tav. XXVI, n. 1.― Mur. in Argel. I, 43, tav. XXXIII n. 20 — Scilla, Breve notizia delle monete pontificie. Roma, 1715, p. 158. Floravantes, Antiqui roman. pontificum denarii, Romae 1738, p. 130. — Cinagli, Le Monete dei papi, Fermo 1848, p. 65, n. 21, 22.
  80. Mur. in Argel. I, 51, tav. XXXIX. — Cinagli l. c. n. 25.
  81. Salv. Fusco, Dissertazione su di una moneta del re Ruggieri detta ducato, p. 83, doc XII.
  82. Leblanc, Traité historique des monnoies de France, Paris, p. 316. — Vergara, o. c., tav. XXX, n. 1. — Muratori in Argel. I, 44, tav. XXXIV, n. 4. — G. V. Fusco, Intorno alle secche ed alle monete battute nel reame di Napoli da re Carlo VIII, Napoli 1846, tav. I, n. 1. — Cartier, Notice sur les monuments numismatiques de l’expédition de Charles VIII en Italie, ins. nella Revue numismatique del 1848, tav. IV, n. 1.
  83. G. M. Fusco, Intorno ad alcune monete aragonesi, tav. I, n. 10. — G. V. Fusco, Monete di Carlo VIII, tav. I, n. 2. — Cartier, ivi, tav. IV, n. 2.
  84. Leblanc, o. c., p. 316. — Vergara, o. c., tav. XXX, n. 2. — Muratori in Arg. tav. XXXIV, n. 5 — G. V. Fusco, o. c., tav. I, n. 3, 4, 5. – Cartier, ivi, tav. IV, n. 5.
  85. G. V. Fusco, o. c., tav. I, n. 6. – Cartier, ivi, tav. IV, n. 4.
  86. Leblanc, o. c., p. 316. — Vergara, o. c., tav. XXX n. 3. — Mur. in Arg. tav. XXXIV, n. 5. — G. V. Fusco, o. c., tav. I, n. 7, 8, 9. — Cartier, ivi, tav. IV. n. 5.
  87. G. V. Fusco, o. c., tav. I, n. 10. — Cartier, ivi. tav. IV, n. 5.
  88. G. V. Fusco, Monete di Carlo VIII, pag. 32.
  89. L. c., pag. 47.
  90. Regia munificentia, p. 264 e 265.
  91. Ivi, p. 277 e 278.
  92. Regia munificentia, p. 290.