Cosima/IV
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IV
a cara bellu ja ses, |
«bello di viso, traditore come Giuda»; chi invitava un altro a succhiarle il sangue vivo dal cuore; qualche volta la voce di una donna disillusa si alzava però ad ammonire le appassionate, e allora il coro femminile taceva, con una pausa quasi spaventata. L’ammonimento diceva:
Su sordadu in sa gherra, |
Il soldato, nella guerra, – dicono che si è dimenticato, – non si ricorda di Dio. – Ritorna il corpo mio, – dopo che è seppellito, – a sette oncie di terra.
Verso sera, andate via le donne, raccolte entro sacchi puliti le mandorle sgusciate, la serva, le ragazze, qualche volta la madre, sedevano al fresco del cortile, sotto le grandi stelle dell’Orsa le cui ruote viaggiavano verso un paese di sogno. Il servo malarico, riavutosi alquanto, si sollevava e prendeva parte alle chiacchiere famigliari. Era un bel giovine, lontano parente del signor Antonio, olivastro e coi denti bianchissimi: pareva un etiope, ed anche il suo modo di pensare aveva un colore barbarico. Parlava sempre di banditi e delle loro imprese brigantesche. Bisogna dire che, in quel tempo, il banditismo locale aveva ancora un carattere quasi epico.
Odî di famiglia, sete di vendetta, pregiudizî di onore erano per lo più l’origine di questi episodî di sangue che funestavano la vita del paese e di intere contrade. Il giovane servo, poi, abbelliva le avventure dei banditi con la sua fantasia, e lui stesso si lasciava travolgere da una suggestione malefica che lo spingeva a farneticare sogni di libertà, di imprese ove, più che altro, il ribelle alle leggi sociali, ha modo di spiegare il suo coraggio, la sua abilità, la sua forza d’animo, il disprezzo per il pericolo e la morte. Era, infine, una specie di anarchico, che non potendo eguagliare la sorte degli uomini liberi e svincolarsi dal suo destino di servo, intendeva distruggere il bene degli altri e crearsi una potenza, una regola di vita diversa da quella usuale.
In quel tempo, specialmente una banda di uomini armati di tutto punto, decisi a tutto, protetti anche, o per amicizia, o per complicità, o per paura, da una vasta rete di favoreggiatori, infieriva nel Circondario. I capi erano due fratelli, giovanissimi, terribili, si diceva anche feroci: la radice del loro odio contro la società era una ingiustizia da loro subìta, una condanna per un reato del quale erano innocenti: condanna alla quale d’altronde sfuggivano con la loro latitanza. Bisogna dire però che, o per istinto, o esasperati dalla loro mala sorte, non rispettavano la roba altrui; così che in pochi anni s’erano fatti un patrimonio: possedevano terre, case, bestiame, servi e pastori.
Un giorno, durante quell’ultima estate, una giovane donna, quasi fanciulla, si presentò di mattina nella casa del signor Antonio e chiese di parlargli. Egli la ricevette nella stanza dove sbrigava i suoi affari, e le domandò benevolmente che cosa desiderava. Ella era vestita in costume: aveva un viso pallido e fine, con due grandi; occhi neri sormontati da sopracciglia foltissime, rivelatrici di un carattere forte. Disse, con una certa umiltà:
— Lei possiede, sul Monte Orthobene, un bosco di lecci, che tutti gli anni affitta per il pascolo delle ghiande ai porci. Si vorrebbe averlo noi in affitto, questa prossima stagione.
— È già affittato — dice il signor Antonio; — per tre anni lo ha esclusivamente il proprietario di bestiame Elias Porcu.
— Elias lo cederà volentieri, se vossignoria lo permette.
— Non credo possa cederlo volentieri: ne ha bisogno assoluto.
— Se vossignoria glielo impone, Elias lo cederà immediatamente.
Calmo e fermo, col piccolo pugno bianco sul tavolo, l’uomo replica:
— Io non ho mai imposto a nessuno cosa che non fosse giusta.
— Ma anche adesso sarebbe una cosa giusta. Poiché i miei fratelli hanno bisogno, per il loro branco di suini, di un pascolo di ghiande; e tutti i proprietari dicono di averli già affittati, mentre non è vero.
— Io non so quello che possono dire gli altri proprietari; ciò che so è che il mio bosco è già affittato: e basta! — concluse, sollevando il pugno; ma subito lo riposò sul tavolo senza picchiarvi sopra: i suoi occhi però avevano preso la luce argentea e lucente dell’acciaio affilato.
— Vossignoria sa chi sono i miei fratelli? — E poiché l’altro non dimostrava curiosità, aggiunse con fierezza, quasi vantasse una parentela di eroi: — Sono i fratelli... — e pronunziò un nome. — I banditi.
Allora il signor Antonio sorrise.
— Fossero pure i sette fratelli della favola, i banditi che diedero il loro nome ai monti sui quali si nascondevano, io non manco di impegno con Elias Porcu. E basta! — ripeté; e questa volta batté il pugno, come quando sigillava una lettera con le ostie colorate.
La ragazza si alzò: non proferì una minaccia, ma se ne andò senza salutare. Il signor Antonio non disse nulla in famiglia, sebbene tutti si fossero accorti della visita e ne provassero inquietudine. E un fatto strano accadde la sera stessa, a ora tarda, quando tutti erano già a letto, e solo il padrone vegliava ancora nella stanza da pranzo, leggendo un numero arretrato della sua prediletta nerolistata Unità cattolica. D’un tratto qualcuno bussò lievemente alla porta. Il signor Antonio aprì, e neppure per un attimo si illuse sullo scopo di quella visita insolita. La strada era buia, ma al chiarore che, per il corridoio d’ingresso, arrivava alla porta, egli vide, nel vano di questa, come in un quadro a fondo scuro, una figura gigantesca, con un ruvido costume nero dalle brache giallastre, che aveva qualche cosa di demoniaco. Il viso color bronzo era circondato da una barba a collare, di un nero corvino, che lasciava scoperte le grosse labbra sanguigne: gli occhi, con le sopracciglia come quelle della sorella dei banditi, ma esageratamente più abbondanti, avevano la pupilla grande e la sclerotica azzurra.
«Sono perduto», pensò il signor Antonio, ma non finse neppure di sorridere per nascondere la sua forza. Fece entrare l’uomo, e notò che costui, nonostante la mole massiccia della sua persona, camminava silenzioso e leggero come un daino: aveva ai grandi piedi calzari di pelle grezza, allacciati sotto le uose di orbace: calzari da uomo che usa correre furtivo e allontanarsi in poche ore dal luogo del suo misfatto, in modo da procurarsi un infallibile alibi.
«Questo, stanotte mi strozza», pensa il signor Antonio; tuttavia lo fa entrare nella stanza ospitale, gli assegna il posto d’onore davanti alla tavola, ma non si affretta a offrirgli da bere per dimostrargli la sua sicurezza.
Anche prima di essere interrogato, l’uomo comincia a parlare: la sua voce e bassa e quieta; la parola lenta, prudente. E subito il signor Antonio respira: poiché tutto nell’uomo, anche l’occhio, può mentire: mai la voce, anche se egli cerchi di mascherarla. E la voce di quell’uomo che pareva un ciclope venuto giù dai monti pietrosi per abbattere qualche cosa che non gli andava a genio, era quella di un saggio. L’argomento era quello: l’affitto del bosco ghiandifero ai banditi. Egli non disse che era un loro favoreggiatore, anzi un loro complice, ancora a piede libero perché troppo furbo e prudente per lasciarsi scoprire; narrò che era un loro amico, perché i disgraziati erano pur degni di avere amici, fra tanti nemici che li perseguitavano come i cacciatori i cinghiali, colpevoli solo della loro fiera indipendenza: questi nemici arrivavano al punto di impedire ai due fratelli di far pascolare le loro greggie e i loro branchi di porci in terre di cristiani: onde il signor Antonio era pregato di aver compassione delle bestie e dei loro padroni.
— Questo è il denaro: due, trecento scudi; quello che vuole, signor Antonio.
Trasse dal petto un portafogli legato con una correggia, e fece atto di toglierne il denaro: la mano bianca dell’altro fermò la sua, e non se ne staccò, mentre gli occhi chiari del galantuomo cercavano di penetrare in quelli scuri del colosso come un fanciullo fiducioso che si avanza in un bosco spinoso certo di trovarci un sentiero. Disse:
— Amico, voi sapete che la cosa è impossibile.
Quel contatto, quello sguardo, sopra tutto la parola «amico» pronunziata in quel modo e in quel momento, operarono, come l’uomo ebbe a dire più tardi, un vero miracolo. Egli rimise il portafogli, ma insisté nella sua richiesta, calcando, forse con sincerità da parte sua, sul bisogno assoluto che i fratelli S. avevano di protezione e di soccorso da parte delle buone persone che conoscevano le loro disavventure.
— L’unico soccorso che io posso suggerire ai due sviati, è che si costituiscano subito alle autorità, — disse il signor Antonio; — prima che sia tardi per loro, ed anche per i loro amici.
L’uomo ha un sogghigno: il suo viso rassomiglia proprio, in quel momento, a quello del diavolo. Ma l’altro continua:
— Noi un giorno ci rivedremo; e allora mi darete ragione. Quei due giovani sono come due pietruzze staccatesi dalla cima di una roccia: cadono, ne travolgono altre, precipitano sulla china, diventano una valanga, finiscono nell’abisso.
— Certo, se nessuno li aiuta, — brontola il gigante. — È facile parlare così, seduti davanti a una tavola tranquilla, col foglio in mano. Bisogna però trovarsi nel loro covo, nelle loro difficoltà, per pensare in altro modo. E bisognerebbe parlare con loro, non coi loro ambasciatori.
— Io sono disposto a parlare con loro, e convincerli a cambiare strada. Procuratemi un abboccamento, dove e quando essi vogliono; parlerò ai due disgraziati ragazzi come fossi il padre loro.
Pensando forse che essi invece, noti anche per la loro loquela impetuosa e appassionata, avrebbero convinto lui, procurandosi in tal modo un nuovo amico e «protettore» potente per la sua sola bontà e la fama della sua rettitudine, l’uomo della montagna si animò insolitamente. Accettò il bicchiere di vino che l’ospite gli offriva, e se ne andò silenzioso, dopo aver promesso di tornare. Tornò, infatti, ma per il colloquio coi S. non si poté concludere nulla. I banditi erano diffidenti, e i discorsi romantici del signor Antonio li facevano ridere. Costituirsi? Può un guerriero barbaro, che difende la sua libertà e la sua sanguigna fame di vivere, darsi prigioniero al nemico?
Eppure la profezia del signor Antonio si avverò. Di delitto in delitto, di rapina in rapina, essi e la loro banda precipitarono in un abisso. Fra gli illusi da loro travolti, vi fu anche, con dolore del signor Antonio, e di tutta la famiglia, anche il giovane servo, malarico e visionario, Juanniccu, che, senza aver commesso la più lieve colpa, solo per spirito di avventura, si unì negli ultimi tempi alla banda e fu con loro preso. In compenso l’uomo della montagna tornò spesso dal signor Antonio, e diventò il suo «pastore porcaro». Per lunghi anni fu uno dei dipendenti più fedeli e affezionati al signor Antonio. E confessò che quella notte era venuto con la sinistra intenzione di sopprimerlo, se non si piegava ai voleri dei malvagi.
Giusto e buono era il signor Antonio, e tutti lo amavano. Esercitava, senza volerlo, senza accorgersene, un fascino benefico su tutti quelli che lo avvicinavano. Eppure la sua parola era semplice, disadorna; ma il suono della sua voce che saliva profondo dall’anima tutta fatta di verità e d’indulgenza, era come una musica che esprimeva l’inesprimibile. Del resto egli aveva una certa cultura, ed era, in fondo, un poeta. Aveva studiato a Cagliari, quando ancora si viaggiava da una città all’altra a cavallo, e aveva portato i suoi libri e le sue provviste entro le bisaccie, come un pastore o un contadino che va a seminare il grano in luoghi lontani. Aveva studiato ciò che in quel tempo si chiamava Rettorica, e preso il diploma di procuratore. A dire il vero non esercitava questa nobile professione, ma molti ricorrevano a lui per consigli e consultazioni legali, profondamente persuasi della sua saggezza e sopra tutto della sua rettitudine.
Il commercio lo aveva quasi arricchito. Ma, come un umanista primitivo, egli coltivava anche gli studi poetici: le sue poesie erano dialettali, tuttavia in una forma che si avvicinava alla lingua italiana. Bravo anche come poeta estemporaneo, raccoglieva a volte intorno a sé altri campioni famosi in quelle gare, e competeva coi più bravi e inspirati. E aveva iniziative geniali, anche come proprietario e come agricoltore. Tentò piantagioni di agrumi, di sommaco, di barbabietole: l’aridità della terra rocciosa, bruciata da lunghe siccità, frustrò i suoi tentativi. Impiantò anche una piccola tipografia e stampò a sue spese un giornaletto, e le poesie sue e dei suoi amici: fallimento completo anche questo.
Nelle ore di riposo, alla bella stagione, sedeva all’ombra della casa, davanti alla porta, leggendo i giornali. Tutti quelli che passavano lo salutavano o si fermavano addirittura a conversare con lui. E se passava una donna bisognosa, egli traeva in silenzio dal taschino una moneta e gliela porgeva, accennandole, col dito sulla bocca, di non fiatare. Così, tutti si allontanavano consolati.
Oltre ad Antonino, frequentava la casa un altro giovanissimo studente, già compagno di scuola di Andrea. Era un ragazzo smilzo, dal profilo rapace, gli occhi inquieti e diffidenti, orgoglioso e ambizioso, e di una serietà insolita alla sua età. Ma anche lui apparteneva ad una famiglia mista, che non era borghese ma neppure esclusivamente paesana, che anzi vantava essere di pura e antica razza locale: abitavano in una casa buia, in fondo a un cortile chiuso, quasi murato come una prigione; e tutti della famiglia, il padre alto e già quasi vecchio, i fratelli, le sorelle, delle quali una bellissima e con rari occhi celesti, erano di una rigidità quasi tragica. Scarso il patrimonio, tanto che quando si trattò di mandare il ragazzo a studiare a Cagliari, si dovette fare sacrifici. Ma Gioanmario, lo studente, dava buone promesse. Durante quelle ultime vacanze, mentre si preparava a partire, le sue visite diventarono più frequenti. Tutte le sere cercava di Andrea, pur sapendo che l’amico non era in casa, e coglieva tutte le scuse per attardarsi con le ragazze. I suoi discorsi le interessavano: per lo più egli riportava le notizie del paese, i pettegolezzi, le storielle di innocenti amori fra studenti e fanciulle del luogo: Cosima e sopra tutto Enza lo ascoltavano incantate. Enza era già quasi una signorina, un po’ strana, a volte taciturna a volte di una allegria insolente e isterica. Non si tardò ad accorgersi che lei e Gioanmario si erano stretti con un legame d’amore; trovarono il modo di vedersi in segreto e l’opposizione della famiglia di lei, che sperava in un matrimonio più sollecito e solido, aumentò la loro passione. Fu una vera passione, alimentata dal carattere quasi violento dei due ragazzi. Gioanmario si mise a studiare con dura tenacia, e in soli due anni superò gli esami del liceo, inscrivendosi poi alla facoltà di legge. Ma lo studio, le privazioni, l’orgoglio punto dalla persistente ostilità della famiglia di Enza, lo rendevano cupo e nervoso. A volte i suoi occhi erano venati di rosso, e la voce aspra, le parole amare.
Vennero però tristi giorni anche per la famiglia di Cosima: Andrea non andava bene: si diceva che già avesse un figlio, da una bella ragazza del popolo, e che giocasse coi suoi amici scapestrati. Invano il signor Antonio cercava di richiamarlo sulla buona strada: lo mandava a sorvegliare i lavori delle carbonaie, a vigilare i poderi. Andrea obbediva; era, come si disse, buono e molto generoso, ma anche lui trascinato da istinti di razza, sensuale e impulsivo. E anche l’altro, il maggiore, si era, dopo la disgrazia dei fuochi artificiali, come incrinato. Incrinato: come s’incrina ad un urto una tazza di cristallo, un vaso di porcellana. Continuava i suoi studi, all’Università di Cagliari, mentre Antonino aveva ottenuto, poiché la sua famiglia ne aveva a sufficienza i mezzi, di andare a Roma.
Forse anche la lontananza dell’amico fu per Santus dannosa: egli cominciò a frequentare compagni meno intelligenti e fini, e a domandare denari più del necessario. Anche di lui si seppe che studiava sempre meno, e che beveva. Questo fu un grave dispiacere per tutti.
Il signor Antonio divenne pensieroso; la madre sempre più taciturna e melanconica. Che fare? La vita segue il suo corso fluviale, inesorabile: vi sono tempi di calma e tempi torbidi, a cui nulla può mettere riparo: e invano si tenta di arginarla, di opporsi anche di traverso nella corrente per impedire che altri venga travolto. Forze occulte, fatali, spingono l’uomo al bene o al male; la natura stessa, che sembra perfetta, è sconvolta dalle violenze di una sorte ineluttabile. Il signor Antonio, e più di lui la signora Francesca, si piegavano sulla china che pareva franasse sotto i piedi dei loro figliuoli: si rimproveravano, ciascuno però per conto proprio, di non aver saputo creare, con l’educazione, l’energia, la costanza, il sacrificio di tutte le ore, un terreno più solido e sicuro per il cammino dei loro figli: il signor Antonio aveva loro comprato terreni e greggi, la signora Francesca aveva per loro risparmiato anche il centesimo: che valeva? Anzi valeva forse dannosamente, perché, senza il benessere e l’avvenire assicurato, i ragazzi sarebbero stati costretti a lavorare e crearsi da loro una posizione. Fantasie, forse, anche queste: poiché c’erano intorno esempi di gente povera, o mediocre, che tuttavia era spinta da un destino di dolore e di colpa, molto più triste di quello dei fratelli di Cosima. Se n’era avuto un caso nel disgraziato Juanniccu. E un altro caso anche più doloroso colpì un cugino, figlio di una sorella del signor Antonio, severa e intelligentissima donna, rimasta vedova in giovine età con parecchi figli da allevare: possedeva, è vero, una certa sostanza, e non le mancava l’aiuto dell’altro fratello sacerdote che conviveva con lei; ma era una donna litigiosa, che per motivi da nulla intentava causa ai suoi vicini e confinanti di terra e di domicilio, e si faceva mangiare buona parte delle sue entrate dagli avvocati e dalle spese di giustizia. Da piccoli proprietarî che erano, i figli custodivano personalmente il loro patrimonio; ma il cugino era sanguigno, ambizioso e violento, e cominciò con l’appropriarsi di qualche capo di bestiame per aumentare il suo gregge. Scoperto, fu punito. Aveva venticinque anni: era bello, alto, robusto; in guerra sarebbe stato un ottimo condottiero.
Ma la vita, l’ambiente, il destino, erano così. E anche nella casa di Cosima s’era introdotto il male, subdolo, velenoso, forse inevitabile, come tutti i mali del mondo. Anche Andrea fu trascinato, una notte, ad una impresa di quelle che certi giovani facevano più per spacconeria che per malvagità. Rubarono galline: ma furono anch’essi presi. Un lutto più che mortale ottenebrò la famiglia del signor Antonio: egli si accorò talmente che, fatto ogni più grave sforzo per salvare il figliuolo, si accasciò e si ammalò. Furono mesi e mesi di dolore rodente, quasi di disperazione. Finché l’uomo buono, l’uomo saggio e giusto, cadde, e la famiglia rimase come l’umile erba tremante all’ombra della quercia fulminata.
E poiché la famiglia era in questo cerchio d’ombra, restava rassegnata, in attesa di vederla un giorno diradare. Con la morte del padre, Andrea parve metter giudizio; prese lui ad amministrare il patrimonio rimasto ancora in comune; ma ne profittava largamente, in modo che rimaneva appena il tanto per aiutare negli studi l’altro fratello, e per pagare le tasse. La madre si lamentava sempre, per queste tasse, e se ne preoccupava tanto da non dormire la notte. Per fortuna nella casa c’era ogni provvista, e le ragazze si contentavano di nulla. Il lutto per il padre fu lungo: per mesi interi le finestre rimasero chiuse e nessuna delle donne, tranne la serva, metteva il piede fuori della porta: ma Enza si consolava scrivendo lettere interminabili al suo Gioanmario e le tre piccole, intelligentissime, leggevano sempre, chiacchierando e anche discutendo fra di loro, in perfetto accordo. Chi non andava bene era Santus. La morte del padre, invece di richiamarlo in sé, parve sprofondarlo di più nella china abissale dove di giorno in giorno precipitava. Studiò fino ad arrivare al quarto anno di medicina: ma beveva. Durante le ultime vacanze fu trascurato anche da Antonino, che non andò più a cercarlo: né lui parve preoccuparsene, chiuso sempre in una sua GRAZIA, PRIMA DELLE NOZZE indifferenza da animale malato. Se ne stava nella sua camera, chiuso a chiave, – poiché Andrea s’era stabilito in quella che doveva funzionare da salotto, – e non usciva se non per andare a cercare da bere. Del resto era innocuo; non molestava nessuno; nelle ore buone scendeva in cortile e fabbricava giocattoli con la ferula2, per i bambini del vicinato; tutti gli volevano bene, ma la sua ombra gravava intorno e accresceva il lutto della madre e delle sorelle. Dopo quelle ultime vacanze, verso ottobre, parve svegliarsi dal suo malefico incantesimo; preparò i suoi libri, disse che avrebbe fatto ogni sforzo per compiere entro l’anno scolastico il resto degli studi e laurearsi. L’arcobaleno della speranza illuminò il grigio orizzonte della famiglia: fu raccolto il gruzzolo necessario per fa sua partenza, e la madre, anzi, gli diede i pochi risparmi che teneva nascosti per riserva, in caso di bisogni impreveduti. Fu una festa, la partenza di lui, e anche un senso di liberazione per la casa; alla sua camera fu data aria, come a quella di uno che è morto o guarito dopo lunga malattia, e finalmente fu vista la madre sorridere e prender parte alle conversazioni animate delle ragazze.
Sei notti dopo la partenza di Santus, fu sentito, sul tardi, qualcuno bussare replicatamente alla porta. Dopo mezzo secolo di vita, Cosima ricorda ancora quel picchiare come di tamburo che annunzia una disgrazia: lo sente ancora rimbombare dentro il suo cuore; è il suono più terribile che abbia mai udito, più funebre di quello che annunzia la morte, più del suono della campana che chiama a spegnere un incendio. La buona serva si alza; ma prima di aprire ascolta, con ansia paurosa. Chi può essere? Un bandito, un ladro, un uomo della giustizia? Anche un fantasma può essere, un morto che passa nella strada e bussa alle porte per avvertire i viventi che l’inferno li aspetta.
Era qualche cosa di peggio ancora: un morto vivente, che annunziava l’inferno, sì, ma prima della morte, nella vita stessa.
Era Santus, con gli occhi azzurri velati, la lingua legata.
Per misurare la gravità di queste disgrazie bisogna considerare anche l’intransigenza malevola dell’ambiente dove si svolgevano. Tutti si conoscevano, nella piccola città, tutti si giudicavano severamente, e quelli che meno avrebbero dovuto scagliare la prima pietra erano i più inesorabili. Quando si seppe del ritorno e della perdizione di Santus, fu un lungo compiacersi e sogghignare, fra i conoscenti della famiglia; e i più cattivi erano i parenti. C’erano due cugine della signora Francesca, due vecchie zitelle che facevano pensione a un canonico, – questo veramente santo, – e stavano sempre in chiesa. Ogni tanto si presentavano nella casa di Cosima, rigide e composte, dure come due mummie; non parlavano molto, ma ogni loro parola era una frecciata: e di tutto, anche quando le cose andavano egregiamente, trovavano da ridire, persino se le ragazze avevano un abituccio nuovo, o si ornavano di un nastro economico ritagliato magari da un fazzoletto di seta logoro. Piombarono in casa il giorno dopo del ritorno di Santus, e fecero piangere la signora Francesca, addossandole tutta la colpa del disordine famigliare. Tutto, intorno, per loro, era una tragedia; e lo era, sì, ma forse, almeno per le ragazze, non irreparabile. Irreparabile lo era per le due vecchie zitelle, che, istintivamente, senza precisa cattiveria, riversavano sul destino degli altri il proprio squilibrio. Una carica particolare, quasi non bastasse la prima, fu fatta contro Enza, della quale si conoscevano gli amori segreti e palesi con Gioanmario: per le due acri e sterili zie, che mai avevano conosciuto l’amore, il romanzo innocente e in fondo melanconico dei due giovani innamorati era tragico e terribile quasi come quello di Isotta la bionda e Tristano, o di Paolo e Francesca.
Predissero le cose più sinistre per l’immorale e sfrontata ragazza, mormorarono che per causa di lei la famiglia e l’intero parentado erano scherniti e disprezzati da tutta la gente benpensante, e che il disonore ricadeva anche sulle sorelle che mai avrebbero trovato marito.
La madre piangeva: che altro poteva fare? E, certo, neppure lei era contenta per la storia di Enza, sebbene, dopo le ultime disgrazie famigliari, la sua ostilità verso Gioanmario fosse diminuita, e pensasse che un uomo ordinato ed energico, in casa, sarebbe stato di grande aiuto: ma non rispondeva alle insinuazioni vituperose delle cugine, e tale sua quasi accondiscendenza fu quella che più esasperò Enza, la quale naturalmente origliava all’uscio. D’un tratto si sentirono alte grida ululanti, e il tonfo d’un corpo che cade. Era lei, l’infelice ragazza, presa da un attacco isterico, quasi epilettico. Allora la madre si sollevò, come la cerbiatta alla quale vien ferito il figlio, e trovò l’energia di cacciar via le donne e di sollevare e confortare la sua bambina.
Poiché tutti i figli, per lei, compreso il più traviato, anzi lui forse più degli altri, erano ancora deboli creature che il Signore avrebbe fatto crescere e rinsavire.
Il risultato fu che Gioanmario fu riconosciuto come fidanzato di Enza, e si fissarono le nozze per l’estate seguente, appena egli si fosse laureato. Nozze umili e quasi tristi; non quali il padre aveva sognate e preparate per le sue figliuole.
Ai due giovani sposi fu assegnata una modesta rendita, e concessa per abitazione una vecchia casa che la famiglia possedeva in un quartiere eccentrico della cittadina. Ma era una casa troppo grande, con una scala erta, le camere vaste dai pavimenti di legno, le finestre piccole, le pareti imbiancate con la calce; Enza ci si immelanconì e si strapazzò a pulirla e renderla abitabile, aiutata solo da una donna a mezzo servizio. Presto cominciarono i guai. Gioanmario, entrato nello studio di un avvocato, vi rimaneva tutto il giorno, e ancora senza compenso. Il dover vivere con la piccola rendita della moglie lo umiliava e lo esasperava. Provocato dal malumore di lei cominciò a rinfacciarle la fretta di essersi voluta sposare: ella rispondeva aspra: litigi violenti scoppiavano fra di loro, seguiti da riconciliazioni che duravano poco, da fughe di lui che rimaneva assente il più possibile. Una triste mattina, la donna che andava da loro per i servizi, corse spaventata a casa dei parenti, dicendo che aveva trovato la piccola padrona stesa a letto senza sensi, fredda come una morta. L’aveva fatta rinvenire; ma temeva che la cosa fosse grave. La signora Francesca era sofferente anch’essa, per un male alle reni, e le ragazze giudicarono di non spaventarla con le notizie di Enza. Cosima, che spesso andava dai giovani sposi ed era al corrente della loro disordinata e dolorosa vita, corse lei con la speranza che si trattasse di uno dei soliti disturbi nervosi della sorella. La trovò insolitamente calma, troppo calma, abbandonata sul letto pallidissima, coi grandi occhi spauriti. Non parlava, non si moveva; ma un odore sgradevole e caldo esalava dal letto, e quando Cosima, con un coraggio superiore alla sua età, cercò di scoprire il mistero si accorse che l’infelice Enza giaceva in una pozza di sangue nero.
Arrivò il medico e disse che si trattava di un aborto. Alla meglio tentarono di riparare: ma era tardi: prima che il marito tornasse da una seduta al Tribunale, Enza era morta. Morta, senza dolore, senza coscienza, vuota di tutto il suo sangue malato e turbolento: adesso era bianca, bella, purificata, come una statua di marmo scolpita sul suo modello. Prima di avvertire la madre e le sorelle, prima ancora che Gioanmario rientrasse, Cosima, da sola, chiuse i grandi occhi vitrei di Enza, ne lavò il corpo, trasportato in un lettuccio della camera attigua a quella matrimoniale; lo profumò; compose i bei capelli castani intorno al viso diafano, e infine la rivestì del modesto abito bianco di sposa e le calzò anche le scarpette di raso. Agiva sotto l’impulso di una forza quasi sovrannaturale, come in uno stato di ebbrezza. Ebbrezza di dolore, di disinganno, di spavento della vita, che, come tutte le ubriachezze violente, le lasciò un fondo di amarezza, anzi di terrore; un terrore che non l’abbandonò mai più, sebbene accuratamente sepolto da lei in fondo al cuore come il segreto di una colpa misteriosa e involontaria: l’antica colpa dei primi padri, quella che attirò sul mondo il dolore e ricade indistintamente su tutti gli uomini.
- ↑ [p. 225 modifica]Lo stesso stornello (mutos) cantano, sulla fine della prima parte di Cenere (1903), la prostituta cagliaritana Marta Rosa, e la giovine Gavina di Sino al confine (1909), «col solo motivo [p. 226 modifica]malinconico e primitivo ch’ella sapesse ripetere». In quest’ultimo romanzo il lettore troverà frequentemente personaggi, ambienti e situazioni simili a quelli di Cosima: il canonico Sulis, il padre, la cameretta di Gavina, e il fratello Luca, manesco come Andrea in Cosima a pag. 114.
- ↑ Una sorta di canna con un midollo dolciastro che i ragazzi sardi succhiano molto volentieri.