Il libro della bella donna/Libro primo
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LIBRO PRIMO
A Monsignor Giovanni Manini
Sovenendomi, magnanimo e generoso monsignore, quasi di continuo l’alte cortesie e le dolcissime accoglienze, che, per bontá vostra infinita, usate di fare a ciascheduno communemente, e massime a coloro che mostrano d’amarvi e tenervi caro ogni giorno piú, come sono io, astretto dai lacci della gratitudine, non ho potuto non ricordarmi i meriti grandi ancora, che voi cercate pure di conferirmi sempre; poco ai passati, de’ quali posso dire con veritá d’avere ricevuto un monte, l’animo vostro splendido e reale rivolgendo: per la qual cosa n’è nato in me un disio sí fatto, giá son piú mesi, di riconoscere almeno in qualche particella, se non in tutto, que’ benefici che mi avete con larga mano distribuiti, che, non potendo in alcun modo piú celarlo, m’è stato forza aprirvelo qui, e qui farvelo, quasi in purissimo specchio, remirare. Percioché, sapendo io voi, poco men sin da le fasce quasi, aver avuto in sommo piacere la contemplazione di qualche bella e leggiadra donna, cosa veramente degna de’ vostri pari, cioè di spiriti ben creati e gentili, insomma ho deliberato di farvi qui vedere una bellissima (e quale so ben io che mai non vedeste adietro cogli occhi vostri) donna, dipinta e perfetta da cinque pennelli di cinque perfetti ed accorti signori, che per voi, ove fusse bisogno, isporrebbono la vita ad ogni pericoloso rischio e ad ogni pruova. Ben si converebbe, monsignore, che voi pagaste per guatar cosí bel ritratto, il che fece a molti fare Zeusi, pittore sí famoso, se vollono rimirar la vaga Elena, ch’esso sí leggiadramente dipinse. Ma io per due rispetti non voglio che voi paghiate. L’uno è che questa donna, per sí fatto mezo veduta, potrebbe chiamarsi, come l’antedetta Elena, «femina di mondo»: cosa che a me per ogni rispetto non dee piacere. L’altro è che cosí io non verrei a sodisfare al desiderio mio, di sopra accennato, del debito che ho con la molta cortesia vostra. Non pagherete adunque, no; ma io sí bene, facendolavi vedere, scemerò con la prontezza dell’animo, in qualche parte, il gran numero di tanti e tanti oblighi, ch’io vi tengo. Avete adunque da saper (per introduzzione di poter mirare questa di perfetta beltá dotata ed adorna donna) che, tornato io i mesi adietro dalla villa, ove con tanti solazzi, tutti dilettevoli, voi ed altri gentiluomini assai ed io avevamo quindici giorni continui spesi senza punto aver da lagnarci della fortuna, e, standomi una notte in letto, mi parve in sonno di vedere al vostro camino il signor Giacomo Codroipo, di quella stirpe cosí bello e felice ramo (e il qual tutto voi somiglia in ogni sorta di virtú vera, onde se ne fa ogni di piú chiaro); e seco era il cognato messer Pietro Arigone, gentilissimo signore, in cui rilucono quasi tutti quei lampi, che ponno luminoso rendere un gentiluomo; ed eravi altresí l’eccellente dottore Della Fornace, che, per esser il nido della bontá, della gentilezza e della mansuetudine, vi s’accompagna volentieri con essi. E cosí ancora vi erano altri due splendidissimi ed onoratissimi signori: l’uno il signor Vinciguerra, e l’altro il signor Ladislao; de’ quali il primo è piú vostro che suo, ed il secondo ama, per bontá sua, me tanto, che a me solo (nè so io onde ciò n’avenisse) voleva egli allora volontariamente cedere.
Ora, ritrovatisi costoro al luogo detto, dove ancora voi ed io eravamo, e ragionandosi di non so che dolcemente, il signor Giacomo, interrompendo il parlare, ch’era per andare in lungo, e tagliando il ragionamento, disse queste parole: — Signori, se a voi piacesse quel che a me non dispiace, io direi qui che rea cosa non sarebbe in altro tempo differire i ragionamenti, e voi tutti venirne meco a falcone a San Martino, ove avendo io un luogo, il quale alcuni di voi hanno potuto piú volte vedere, mi sforzarei per tre giorni (ché tanti son per trattenermi ivi) di farvi conoscere ch’io ho un falcone de’ buoni ch’oggidí vivano, e che a lato a lui quel di Federigo degli Alberighi sarebbe riuscito un cappone. I giorni si spenderanno in cacciar gli aironi e l’anitrelle e qualche altro spasso; le notti poi in dolci parlari, come piú a voi vedrò aggradare e dillettare. Deh! venitene dunque con esso meco, e, venendo, venite allegri. — Piacquero molto a tutti le parole del vostro parente, e, dove innanzi avevamo poco in grado d’uscire alla campagna e della terra fuori, ora quasi ardevamo tutti di ritrovarci insieme a San Martino. Ma voi, monsignore, solo ricusavate tale andata, incolpando i molti affari vostri, ne’ quali eravate tutto involto, e biasimando l’empio destino, a cui non era piaciuto di far sí che, con noi venendo ancora voi, non fosse alquanto rimaso tronco ed imperfetto il bene ch’avevamo d’avere egualmente tutti. Alla fine, veduto voi stare duro, e ragionevolmente non vi poter venire dove avevamo dissegnato, convenimmo in questo: di partire noi altri. E cosí, lasciato voi, doppo il congedo, n’andammo a casa del signor Giacomo, dove trovati in bell’ordine ed in punto i cavalli (ché buona pezza di tempo innanzi erano a ciò fare stati mandati da lui i paggi) su vi salimmo; chi involto in pelle di cinghiale, e chi di lupo, e chi di volpe, per la fiera stagione, nella quale si sentiva un gran freddo. Inviati poi con ciò che faceva di bisogno al cacciare, speronammo i destrieri, sí che v’arrivammo innanzi notte. Laonde, smontati e fatti presso a un buon foco, il quale ardeva in una camera del palagio (quello che mi avete voi tanto commendato e che a me parve il piú bello del mondo), tutti ci recreammo, e poi cenammo in mezo dell’allegrezza. Ed in fine, per ritrovarci anzi stanchi che no, e per levarci per tempo, ci riducemmo al riposo, lieti, e cantando chi madriale, chi qualche canzonetta, e chi qualche sonettino, ciascuno però in loda di colei che piú ammirava e piú li piacea. Ma guardate bel caso, monsignore! Ciascheduno nel suo cantare voleva e faceva piú bella la sua di tutte l’altre donne. Il perché ne nacque questo: che, non potendo noi convenire con noi e comporci in modo alcuno, fu (ché cosí piacque loro) dato il carico a me di terminare questi litigi: ed udite come. Il signor Pietro Arigone, veggendo crescere e farsi maggiore il bisbiglio fra noi, incominciò a dire cosí: — A me parrebbe, signori e fratelli, che, avendo a trapassare noi le future tre notti, che qui siamo per fare, in dolci e soavi ragionamenti, come ci cennò nell’invitarci a questo luogo il mio caro e buon cognato, noi fussimo contenti di formare una donna tale, quale forse non si vide giamai, cioè bella a perfezzione, e che manchi d’ogni opposizione che le si potrebbe fare; cosa nel vero pur da parlarne tra noi e degna di nostri ragionamenti. E chi alla fine verrá a dimostrare piú alla costei beltá le ricchezze e le bellezze della sua diva avvicinarsi che di qualunque altra, questi aggia vinto e tengasi per fermo lui aver la piú bella delle nostre donne, che a gara lodiamo e ci sforziamo ciascuno per sè di farnele rimanere le piú belle e le piú vaghe. — Surse a queste parole il signor dottore, e disse: — Bella immaginazione è suta questa del signor Pietro, ma cosí ancora io le nostre liti chetate non veggio; percioché, se non vi si fa un giudice, il quale abbia a giudicare chi piú di bellezza avvicinantesi a questa donna, ch’abbiamo a formare, scopra ritrovarsi nella sua, io veggio nel pensiero indeterminata sentenza, e potremmo centomil’anni contendere cosí, che mai non ne verremmo a capo. Perché chi non sa ch’io non cederei che voi e voi, e questi e questi (non vi sendo chi giudichi) avesse mostro starsi nell’idolo suo piú di bello e vago, simile a quello di questa madonna, che io nel mio veramente divino? Sí che sarebbe ben fatto che tra noi vi si elegesse uno il quale pigliasse questo peso, e, invece di ragionare, avesse a giudicare. — Ciò detto, tacque l’eccellente dottore. Allora io fui (la loro buona mercè) eletto giudice, ma non mica senza questa condizione, che, non potendo io in mia persona celebrare la mia novella signora, la signora Lucrezia Toronda, e da lei tôrre quel bello, che mille, non che una donna, potrebbe perfettamente far belle, altri in mio luogo avesse ad essercitare questo ufficio e questa impresa. Mentre adunque ch’io mirassi in faccia di loro ognuno, per vedere qual si levasse per me e si volesse affaticare per far chiaro che la mia gentilissima Lucrezia, stupor della natura ed onor del secol nostro, fusse la piú bella e che piú si assomiglierebbe alla donna che si dovea bellissima e senza macchia formare, ecco i signori Vinciguerra e Ladislao allontanarsi alquanto da noi, e poco doppo appresentarsi sorridendo. Al sorriso dei quali non tacque il signor Giacomo, ma disse con alta voce, udendolo tutti : — lo so che questi gentiluomini mi ridono, percioché sanno di ottenere indubitata vittoria; ma pazienza! — A queste parole tutti quasi dissolutamente ridemmo, sapendo che essi vagheggiavano ed amavano due che invero men belle delle nostre erano assai, e piú si vedea in loro della bruttezza di Gabrina che della bellezza di Angelica. Finito il riso: — Da che — soggiunsero i beffatti — pur voi ci date la burla, noi, non potendo rimanere vittoriosi, faremo altrui rimanere. — E cui? — rispose il signor Giacomo. — Monsignore e Luigino — replicarono gli due. — Allora io non mi puotei contenere di non baciare e l’uno e l’altro e ringraziameli, da parte vostra e dalla mia, ben mille volte caldissimamente. Volle il signor Vinciguerra in vostra vece prender l’assunto, ed in mia il signor Ladislao. Or pacificati cosí un poco, quasi che non so chi di noi vòlse da nuovo porre intrico, dicendo ch’egli non parea a lui che la bella innamorata di voi dovesse di bellezza contendere con le nostre, perché voi non v’eravate con noi (onde n’era uscita e venuta la gara) trovato in modo alcuno. Costui non fu udito, laonde ancora voi aveste loco e poteste, mercé delle belle parole del difensore della vostra degnissima donna, la signora Ottavia Picezza, ch’è la gloria d’Amore, impetrare somma grazia e sommo favore. Cosi adunque trovatisi d’accordo, incominciammo a lasciarci vincere da quietissimo e dolcissimo sonno, avendo primieramente dissegnato, al comparire dell’alba, di levarci e trovarci ognuno col suo falcone in pugno; e poi, trapassato in sì fatto piacere il giorno, ridurci al luogo ove eravamo allora, per dare felice principio all’antedetta donna.
Giá l’alba aveva data volta a noi e ’l sole era vicino al nostro emisfero, quando, lasciate l’oziose piume, e levati e posti in ordine, uscimmo fuori alla caccia. Ma io non son per dir altro quanto spetta a quella, perché la intenzione, che mi fe’ prender la penna, me lo vieta e non vuole. Insomma tenete certo che, quinci e quindi passando, correndo, fuggendo e dall’uno all’altro lato attraversando, avemmo solazzo e diporto assai; e, calando alla marina il gran pianeta, con grassa e molta preda se ne ritornammo al nostro alloggiamento. Dove, poiché e noi e i cavalli e i falconi furono con buon governo riposti, l’apprestata cena si scoperse di subito; e, cenato che noi tutti avemmo, s’accostammo al fuoco, e, recate da’ famigliari le sedie, a sedere vi si ponemmo al dintorno, dove, ragionate venticinque parole in materia della caccia e de’ falconi, il signor dottore levossi in piedi e disse cosí: — Conciosiaché ’l giorno sia da noi, signori, stato, come deliberammo, ispeso, e, egli passato, abbia dato ritorno la notte, io direi che la nostra bella donna non si lasciasse, ma che incominciassemo oggimai a prendere i pennelli nostri ed i nostri colori, accioché ispendessimo anco, se non tutta, almeno parte della presente notte, secondo l’ordine dato e la commune nostra deliberazione. — Al parlar del signor dottore vi si cominciò intorno ad udire un concento ed un plauso di tutti, mostrantisi vaghi e desiosi di tal cosa, quanto era possibile di mostrarsi il piú. Per la qual cosa, sendo ogni cosa piena di silenzio, ed io posto in disparte alquanto per udire e giudicare in fine chi piú belle parti, somigliantisi a questa donna, nella sua donna essere facesse vedere, e piú; ecco risorgere, con licenza di tutti, l’antedetto signor dottore, il quale, dopo un brieve riso, cosí ruppe il silenzio e riparlò: — Poiché piace alle Vostre Signorie ch’io colui sia che dia principio a questa donna, io colui sarò, senza ritrarre il piede e senza qui far divieto alcuno al cospetto onorato di voi, e cosí incominciarò. Egli è vero che ufficio a me piú dicevole e conveniente assai sarebbe stato se io di quello, che Bartolo, Baldo, Ulpiano, Paolo, Papiniano e gli altri degnissimi leggisti hanno scritto, m’avesse posto a favellare; ma nondimeno, quando ch’io mi penso d’essere con le Vostre Signorie qui ridutto per mezo di consolazione e di trastullo, io scorgo bene che ’l ragionare anco di quelle cose, che mie non sono come quelle di che parlano gli antedetti dottori, non mi si disdirá nè mi si disconverrá pur un punto. Dico adunque che noi siamo a tal partito, volendo dipingere una bellissima donna senza opposizione alcuna e senza pur un nevo, a quale si trovò il dipintore di cui sopra n’è stata fatta menzione; peroché, dissegnando egli di volere in Crotone od in Agrigento, che si fusse, fare una imagine perfetta, la qual dovea collocare nel tempio di Giunone, elesse da tutto ’l drappello delle crotoniate o pur agrigentine vergini ignude, al conspetto di lui accolte, cinque donzelle sole, di bellezza vie piú dell’altre tutte dalla natura dotate, delle quali egli se ne avesse a servire in quel perfettissimo e singolarissimo ritratto; a questa questa parte, a quella quella parte togliendo, ed al simulacro suo meravigliosamente adattandola. Ma voglia Iddio che noi abbiamo in questa impresa, come egli, felicissimo fine, fortunata uscita e favorevole il cielo! Di che io non ho paura e dubbio niuno, qualora solamente volgo gli occhi miei a mirare la mia, che tanto mi piace, donna bella, gentile, onesta e santa; anzi mi cresce la speme piú e piú ognora di farnelo rimanere scornato ed inferiore, e vincernelo d’assai anzi che no. — Qui, fatta un poco di pausa, soggiunse l’eccellente dottore: — Due sono le bellezze delle quali si vede qualch’uomo andare adorno: l’una è dell’animo, l’altra è del corpo. Quale sia quella dell’animo voi lo sapete, quale parimenti quella del corpo egli vi è pur troppo chiaro. Adunque imitiamo qui l’arte, scimia della natura, la quale s’attacca per lo piú, in sul principio, alle cose men perfette e men difficili, e cosí, pian piano, trapassa alle piú perfette e piú difficili. Voler ritrarre una beltá esteriore, pare a me che vi sia un peso molto piú lieve assai che non è quello di voler ritrarre una interiore. E però, se piace a voi, piacerá a me dal bello di fuori incominciare a formar questa donna prima che da quello di dentro; il quale alla perfezzione, che le cerchiamo e procuriamo di darvi, è necessarissimo. — Cosí detto, ebbe risposta il signor dottore quale aspettava, cioè di cominciare la donna esteriormente. Il perché egli cosí riprese il parlar suo: — Principiando io questa donna esteriormente, dico che il principio può essere difforme, altri da questa, altri da quella parte incominciando; ma io in ciò poco mi curo e vo’ incominciare dai capelli primieramente. E, sí come in prima tolgo questi, così io giudico essi in una donna la piú importante parte essere di qualunque altra: ché, per dire ’l vero, senz’ella sarebbe tale, quale senza fior prato o senza gemma anello. Ella sarebbe tale, quale una selva spogliata del suo onore, o un rivo senza il suo corso; ella sarebbe finalmente tale, quale alcune volte si vede essere la notte senza le stelle, e ’l giorno senza il sole, che lo suole cosí vago e cosí riguardevole far divenire a noi che lo rimiriamo. Per questi massimamente le donne s’insuperbiscono, e vi si veggono andare pettorute e gonfie, e di qui nasce la tanta cura che di continuo hanno di loro senza stancarsi mai; ch’esse ancora sanno quanto loro ornamento e quanto abbellimento questi sien loro, delle quali qual che si voglia una, e sia quanto vuol bella, di questi priva, dispiacerá affatto. Se fusse ben la dea Venere scesa dal cielo, nata nel mare, allevata nell’onde, cinta ed accompagnata dalle Grazie e dalla pargoletta turba de’ faretrati Amori insieme, circondata del suo cinto, spirando amorno e spargendo intorno gocce di balsamo, la quale senza crini se n’andasse or qua or lá, ella non potrebbe pure al suo Vulcano piacere. E, per dire brievemente quel ch’io sento, io dico che alle donne tanta dignitá e tanta bellezza arrecano i capelli, che, benché d’oro, di veste, di gemme e del resto, che le abbelisce, si mostrino adorne, nondimeno, se non averanno quelli con bell’arte distinti e sotto legge ridotti, io ardisco dire ch’elleno non potranno parere ornate e belle in modo niuno. Questi crini adunque, di che noi abbiamo da ornare la donna nostra, saranno di colore che s’assomigli al forbito, puro e ben fino oro, perché invero le saranno dicevoli vie piú che se di altro colore essi fussero. Onde in ogni luogo per gli scrittori potete aver letto «auree chiome», «crini d’oro», e sì fatte voci. Il Petrarca nei sonetti «Onde tolse Amor l’oro», e in quello «Se la mia vita», e in quell’altro «Amor ed io si pien», e «Laura, che ’l verde lauro» e nella canzonetta «Perché quel che mi trasse», e in quella sestina «Giovine donna», e in quella «Verdi panni» e «Chiare, fresche e dolci acque», e in mille altri luoghi chiaramente per mezo di Laura, che tali gli avea, ce l’ha dimostro che aurati debbono essere in ogni modo. Ce l’ha dimostro il Bembo nel sonetto «Crin d’oro crespo», e in quello «Da que’ bei crin», e in quell’altro «O superba e crudele», e in ogni luogo quasi. E, se non fusse ch’io cosí apporterei tedio a Vostre Signorie, io anderei citando, oltre all’Ariosto, il Sannazaro e gli altri divinissimi spirti, tanti poeti latini, che, veggendo fra loro tanta concordia, direste ben che la chioma donnesca dee essere quale io la vi ho dipinta. Ad alcuni non è dispiaciuta quella che del colore dello elettro o ambra si dimostra. Il perché il Petrarca non tacque in quel sonetto «L’aura celeste», ove dice che l’ambra perde sua prova, paragonata con le bionde chiome di Laura. Non ne tacque il Bembo nel su allegato suo sonetto. Onde si legge che Nerone chiamava «ambro» i capelli della sua Poppea dal colore; «ambro» dico, il cui colore si scorge quasi simile a dialano, o trasparente oro puro, misto però con qualche parte di bianco argento. Ma, perché meno lodevoli e meno cantati sono si fatti crini, io vo’ che quelli che stampano meglio il1 piú bello e lucido metallo, che l’auro è, que’ siano, come di sopra è stato detto, che hanno da adornare la testa di sí bella e compita donna; e che poi sieno crespi, come il Petrarca, il Bembo in alcuni luoghi de’ componimenti loro sopra citati c’insegnano, e nel suo poema l’Ariosto. Ultimamente sieno lunghi, ché, sí come il capel brieve all’uomo è alquanto piú dicevole, cosí alla donna viene il lungo a conferire grazia maggiore. Queste tre qualitá, ch’io ho posto ne’ capelli di questa donna, sono state non senza giudicio tutte in quelli d’Alcina dall’Ariosto descritte. Ora, lasciando da canto che la chioma dee essere ancora folta e spessa, ché, sí come la spessezza e foltezza di lei accresce grazia, cosí la raritá la toglie, io vengo a considerare con voi, signori, se male sarebbe questo (benché piú su parmi d’avervi fatto vedere il contrario): darle capelli fuori di legge, e farla andare con essi sopra il collo sciolti e ricadenti or su l’omero destro ed or sul manco. Vergilio a Venere, fattasi allo incontro al suo pietoso figlio Enea, che non sapeva dove si fusse, gli dá sciolti e diffusi al vento. Ma il medesimo poi a Camilla gli dá annodati, ed a Didone insieme. Laonde si cava che in amendue le fogge può parer bella una donna. Al tempo del Petrarca, che fu in quegli anni che in Avignone facea residenza la Chiesa, si costumava in quelle parti della Francia, ove nacque la sua famosa Laura, di portare, sendo donzella, le chiome sciolte, e, sendo maritata, avolte in perle, in gemme od in altro, secondo la condizione d’ognuna. Il che, non senza qualche fondamento, pare che uno aveduto interprete di lui in quel sonetto «L’aura serena» voglia mostrare, e perciò maritata essere stata la Laura, perché allora, che fu composto il sonetto, dice il poeta ch’ella avea legate le chiome, le quali al tempo che di lei s’innamorò, che fu, secondo alcuni, l’anno duodecimo, il decimo mese ed il secondo giorno dell’etá sua, erano sparte e sciolte. Ma questo se è vero o no, altri piú curiosi cerchino; ed io, tornando al lavoro e seguendo, dico che Ovidio induce Atalanta, la figlia di Scheneo, comparire alla caccia d’un terribile cinghiale col crine semplice ed in un nodo avilupato. Ma non piú di questo. E la conclusione in ciò sia: che questa donna tenga e porti i capelli suoi dorati, crespi, lunghi e folti, in bionde trecce avolti, e non giá celati in rete niuna d’oro o di seta, ma scoperti sí, che ciascheduno li vegga, senza maledire cosa alcuna che li contenda agli occhi suoi. — Era, parlando, trascorso infino a qui l’eccellente dottore, e giá tacevasi, quando il signor Pietro disse: — Deh! signor dottore, non vi rincresca palesarci qual sia stata colei, la cui bellissima chioma riducendovi a mente, voi l’avete data a questa donna, che procuriamo di formare or ora caldi, come si vede, e anzi intenti che no. — A tal dimanda il signor dottore, e per non mostrarsi discortese e duro, e per scoprire che non in vile e sozzo, ma in gentile e bel luogo aveva santissimamente collocato il cuor suo, lietamente cosí rispose: — Fu la gentilissima ed onestissima sorella vostra, la signora Ortensia Arigona, quella, signore, i cui folgoranti e biondissimi capelli veggendo io col pensiero (non li potendo con questi occhi scorgere), mi misi a porre l’idea di loro, e a donargli a questa donna nostra, per tale dover essere, quando fie fornita, quale ella è, cioè da tutte le parti bella e perfetta a maraviglia. — Risero qui i compagni, e poi soggiunse, dolce ridendo, il signor Pietro: — Adunque voi, come chiar qui veggio, siete il vago della sorella mia, ch’io non so come o quando d’averlo mai piú compreso da voi e meno d’altrui; ma ben caro e dolce vi può essere l’averlomi scoperto qui alla presenza di questi signori, ch’io vi giuro di far sí con esso lei, che crudele, fera ed empia non vi sará giamai, ma in tutti quei modi, che una gentildonna, pari a lei, (scarsa del suo onore piú che di cosa alcuna) può essere larga e cortese, per lo innanzi ella vi si dimostrerá. — A questo: — Oh me beato! — gridò l’eccellente dottore; e rendè per allegrezza lagrimando mille grazie al signor Pietro, il quale, come l’amante sua n’avesse l’onore in avere i capelli della donna, avendoli pur troppo simili la sorella che le li aveva dati, non ne fe’ piú conto. Ma gli altri tre furono di parer contrario, e l’uno doppo l’altro pianamente si sforzò di far chiaro apparere che, se le condizioni de’ capelli concessi alla donna, piú minutamente si considerassero, altra donna non doveva riportare il vanto della vittoria, salvo che la sua; e questo, soggiunsero poi, con pace di qualunque si trova offeso. — Non ha la mia — diceva il signor Vinciguerra — (sostentando l’onore della vostra, che sua chiamava, onorata signora Ottavia Picezza) tutte le date qualitá? Io non credo che Venere co’ suoi bellissimi crini, possenti a smarrir l’oro, l’ambra ed il sole, potesse in modo alcuno contrastar co’ suoi bellissimi crini; non anderebbe di pari il biondo Apollo! E con quelli della mia, quasi purissimo specchio, lucenti e tersi, quali si potrebbono agguagliare? — disse poi il signor Giacomo, — Io non mi fo a credere che mai ninfa niuna o Grazia, al tempo dolce dell’anno, quando per le verdi e fiorite campagne accolte van danzando e scherzando insieme, spiegasse all’aura soave i piú vaghi, i piú netti ed i piú amorosi capelli. — Ed io, soggiunse il signor Ladislao, che dirò della mia? — Anzi pur mia — diss’io allora. E tacqui, poi seguendo lui cosí: — Abbia ognuno di voi la chioma della sua donna per la piú bella e per la piú riguardevole, pure ch’io non vaneggi come voi per amore, e non giudichi torto, che torto giudicare non mi credo, non sendo l’amante di colei, che qui onoro e difendo; ma sendo sí messer lo giudice. Il perché dico, non ingannato da Amore (che ha in voi, come mi sono accorto, diritto giudicio spento) che la signora Lucrezia Toronda, dove ha il rispetto con la castitá suo nido, di tai capelli nativi è stata dalla natura donata, di quali fu, giá mille e mill’anni, donato il biondissimo Absalone. E veramente potrebbe essere che, di loro innamorato, il cielo sú gli traesse, e concedesse a quegli parte vie piú degna assai di quella, dove si stanno que’ di Berenice, or ora in sommo favore di lui. — Avrebbe piú detto, secondo l’alto mio desio, il signor Ladislao, ma non fu lasciato, peroché volle ’l signor Pietro con belle ragioni, il che è proprio di lui, che si valicasse ad altro, e qui tempo piú non si consumasse.
Compito adunque il ragionare della chioma, conveniente alla bella donna, e non aspettandosi altro, salvo che si levasse l’eccellente dottore per darle qualche altra parte perfettissima, eccolo in piedi di nuovo risorto e dire: — A me piú non spetta egli, signori, di cosí tosto ragionare intorno al resto di questa donna, e può essere assai questo, presso alle Signorie Vostre, l’averle dato io un buon principio. — A queste parole disse il signor Giacomo: — Voi mi parete assai debole barbaro a tal corso, eccellente dottore, poiché giá vi dimostrate stanco, non avendo appena principiato l’arringo; e, per dirvi ’l vero, quello è avenuto a noi, che io giá intesi dal mio maestro di scuola essere avenuto al cavallo d’un Sulpizio Galba, il quale, avendo fuori a cavalcare e fare gran viaggio, come fu giunto alla porta per uscire, ecco cadergli sotto e tutto stenderglisi in terra, come s’egli fusse stato piú stracco del mondo ed avesse caminato dalla Tana al Nilo. — Bella comparazione è questa vostra per la prima, che in mezo ci avete arrecata — gli rispose il signor dottore; — e, cosa ch’io non avrei di leggieri creduto, a tempo sereno ho sentito cadermi la gragnuola in su la testa. — Signor dottore, voi siete troppo sottile ad intendere le mie parole cosí sconciamente, le mie parole semplicemente mandate fuori e senza malizia niuna... — gli ridisse il signor Giacomo. Quando infine l’eccellente dottore replicolli: — Volete ch’io vi dica ’l Vangelo? Voi siete malizioso piú che il fistolo che vi venga, ch’io non dissi quasi «la fistola». — Ridemmo qui tutti. Alla fine chetati, facemmo tanto, che non fu discaro al signor Vinciguerra di prendere lo incarco su le spalle sue, e di cominciare, poiché si vide dare grata udienza, in queste parole: — Sarebbe stato mio sommo piacere, e forse piú bella ventura di questa donna, se o tutte le parti, che le si debbono, l’eccellente dottore, o di voi altri, piú saputi di me (a’ quali io non sono nè di etá, nè d’ingegno, nè d’autoritá da essere paragonato), fusse stato alcuno che, non ricusando questa impresa, si fusse levato a concedere un’altra o due parti, in mia vece, all’antedetta donna. Ma, avenga ciò che si vuole, ch’io non mi curo di nulla, purché si sodisfaccia a voi, che mi potete mandare e per fuoco e per armi, qualora ve ne venga talento. — Rendute a lui perciò grazie infinite, prese il camino dal signor dottore lasciato, e seguitò cosí: — Questa donna infin ora ha solamente i capelli avuti, a’ quali io aggiungerò gli occhi e la fronte. E sappian le Signorie Vostre che, quantunque una bella chioma molti cuori allacci, come nel lamento d’Isabella e nelle bellezze d’Olimpia l’Ariosto, e il Petrarca nel sonetto «L’aura celeste», ed il Bembo in quello «Son questi quei begli occhi», e ’n quello «Da que’ bei crin», e di nuovo il Petrarca nella canzone «Quando ’l soave mio fido conforto», ci hanno mostrato e fatto chiaro, nondimeno gli occhi di una donna sono quei, che piú attirano ed allettano l’uomo ad amare ed a farsi servo d’amore, per giudicio mio, che ciascheduna altra parte bella e riguardevole. Laonde il Petrarca nel suo primo sonetto ci scopre che gli occhi bei di Laura, tutta vaga, furono quelli che lo legarono ed involsero nell’amorosa rete. Il medesimo afferma Properzio. E ditemi. per cortesia, quando Cimone vide gli occhi della bellissima Ifigenia, non restò egli del tutto preso e senza verun sentimento? Dimandate la figlia del Sole, Circe, a che partito fu ella, quando scorse la luce degli occhi del re Pico! Dimandate quella innamorata matrigna presso ad Apuleio, nell’Asino, quando le venner veduti gli occhi del figliastro, e vederete come Amore piú s’asconde negli occhi che in qualunque altra parte che vi sia. Questi, per essere fra gli altri sensi nobilissimi, ha voluto l’alma natura porre in su la cima di tutti ed a tutti sovrastare; questi, secondo alcuni, distinguono la vita dalla morte; mancar di questi egli è una sorte piú crudele di qualunque crudel morte. Il perché non mi sazio mai dal maravigliarmi d’alcuni e di alcune, che se gli cavarono e poterono vivere piú oltre. Io non leggo mai di Tiresia, di Antipatro, di Didimo, di Omero, di Diodoro stoico, di Caio Druso, di Appio Claudio, di Sansone, di Asclepiade, di Lippo. di Annibale, di Tobia e finalmente del re di Boemia Giovanni (che fu al tempo del Petrarca), che non mi venga una pietá di loro piú che mezana. Non bisogna andare con ragioni false sofisticando che alcuni fecero bene a privarsene: egli si vede chiaramente che fu una pazzia la loro. Oh! come diversamente da questi caminava Stesicoro, il quale, avendo inteso che la luce degli occhi suoi gli era stata tolta non per altro che per aver biasimata la bella Elena, subito, per riaverla, mutò canto; e, dove di lei aveva detto male per lo adietro, incominciò per lo innanzi a dirne altrettanto bene, e cosí riebbe la cara cosa perduta. Ma io torno agli occhi della donna. Questi io vo’ che negri sieno, come una matura uliva, come una pece, come un velluto, e tali che si assomiglino a due carboni negrissimi. Questo ha piaciuto sempre ai romani ed a’ greci nelle loro donne, ed ora pare che communemente in Italia piaccia. Il Petrarca nella seconda canzone delle tre sorelle loda in Laura l’occhio nero, e in quella «Verdi panni». L’Ariosto parimenti in Alcina ed in Angelica. Il Pontano in Fannia nel primo libro de’ suoi Amori; Properzio in Cinzia nel secondo de’ suoi; ed Orazio in Lico nell’Ode, il quale anco nella Poetica ne parla di sì fatti occhi. Il Boccaccio, se la memoria non m’inganna, della Fiammetta parlando, dice ch’avea a quei d’un falcone simili gli occhi suoi, i quali occhi sono anzi vivi che no, come noi abbiamo piú volte potuto vedere. Ma qui mi soviene quello ch’io ho letto presso un buono scrittore francese. Questi, avendo detto quel che di sopra io ho riferito, cioè che a’ romani ed ai greci altresi piacque l’occhio nero, soggiunge poi che egli non può non maravigliarsi come stia questo: che francesi e germani amino di vedere nelle loro donzelle l’occhio sereno, e, come io mi credo, di zaffiro, poiché tutti i ritratti, che mi sono venuti agli occhi, dalle parti della Magna recati, hanno sí fatti lumi in sè dipinti. Di questi occhi ne veggio fatta menzione dal Petrarca in quella canzone «Tacer non posso». Ma stia ognuno nel suo parere; a me piacciono gli occhi neri. — Ahi! — diss’io allora rivolto al signor Ladislao — come potrá mai la mia dolcissima Toronda, perfettissima opera di natura, in questi occhi neri, avendogli ella zaffirini, assomigliarsi alla donna? Ma, consolato per essere ancora questi begli occhi e famosi assai, come pur conferma nella sua Lettura il Ruscelli, terrò che dalla bellezza e perfezzione di lei prendano denominazione di bellissimi e perfettissimi non men questi che gli altri da voi descritti. — E cosí il signor Vinciguerra riprese il parlar suo. — Vorrei poscia — soggiunse — che fossero non vaghi, no, ma parchi a muovere e pietosi a riguardare. Il che in quei d’Alcina ci dipinge l’Ariosto, ed in vero pur troppo bene, perché un occhio (nel quale suole abitar l’animo e vedersi chiaro), s’egli è incostante e mobile, scuopre poco cervello, come allo ’ncontro molto, quando però alle volte si gira e ruota dolcemente intorno, e con quella pietá che si conviene alle belle vergini, alle quali, se bella faccia ed il tutto bello ha conceduto la natura, non però vuole ch’elleno abbiano petto ferrigno e cuore di diamante verso coloro, i quali l’hanno, invece di sole, alla lor vita dolcissimo e chiarissimo. — Queste ultime parole del signor Vinciguerra giudicammo noi tutti essere state da lui dette in dimostrazione della fierezza, che a voi, monsignore, avesse usato o usasse la vostra bella ed amorosa Picezza. E tanto piú venimmo in questa opinione prestamente, che sapevamo lui essere vostro difensore in tener ch’ella fosse la piú bella donna delle nostre, e non avere poi il medesimo bella innamorata. Ma egli negò questo, con dire che, dove procurava di mostrare prima e maggiore bellezza, che non è nelle nostre, esser e ritrovarsi nella vostra diva, e che in bella donna non dee crudeltá annidarsi, egli farebbe contro sè accennando questo, e torrebbe alla donna vostra alquanto del suo bello. Infine poi disse che ciò ch’egli avea detto allora che fu interrotto, aveva detto per tassare il vizio delle belle donne, cioè la crudeltá, e non attribuirlo a quella donna, da cui esso ogni imperfezzione voleva essere lontanissima. Cosí detto, si mise a seguire, soggiungendo: — Poiché ho dimostrato gli occhi di questa donna dovere essere neri, non erranti e pietosi al guardo, io voglio anco che sieno luminosi e sfavillanti in guisa, che contendere con le chiarissime stelle, nel limpidissimo e serenissimo cielo scintillanti, possano senza vergogna niuna. Tali erano quelli di Dafne fuggitiva; tali quelli di Narciso, come ci scopre Ovidio; tali quelli di Laura, come ci mostra ’l Petrarca nel sonetto «Amor ed io sí pien di meraviglia»; e in quello «Quel sempre acerbo» e in altri luoghi assai; tali quelli di Amaranta presso al Sannazaro; tali quelli di Anzia, bella innamorata di messer Tito Strozza, il padre, presso al primo libro de’ suoi Amori, tali quei di Sulpizia presso a Tibullo al quarto libro; tali quei di Cinzia presso a Properzio al secondo. L’Ariosto in Alcina paragona gli occhi di lei iperbolicamente al sole; il che veggio aver fatto il Petrarca ne’ sonetti «Qual ventura mi fu» e «I’ vidi in terra». Ma in questo vien piú tosto a preferirgli al sole, che altrimenti, dicendo: «C’han fatto mille volte invidia al Sole». Le palpebre fieno degna casa di loro, cioè belle a meraviglia. Le ciglia nere come indiano ébeno, e tranquille anzi che no; cosa che mostra il Petrarca aver avuto Laura ne’ sopra allegati suoi due sonetti. Le sovraciglie poi, chiamate «archi» dall’Ariosto, saranno negrissime, sottilissime e minutissime. Ma tempo è ch’io venga alla fronte della donna, la quale, senza ch’io mi stia troppo ad intricare in parole, sia larga, alta, lucida e piena di divine bellezze e, brievemente, tale, quale il Petrarca vuole essere stata quella di Laura nel sonetto «Onde tolse Amor l’oro», e quella della sua amorosa nel secondo libro de’ suoi Amori lo Strozzi, il figlio. — Giá pagato il debito e sodisfatto alla promessa, aggiunse poi al suo ragionare queste quattro parolette il signor Vinciguerra: — Onestissima cosa pare a me, e tanto giusta del mondo, ch’abbia ad essere questa, onoratissimi signori, che, avendo io mostro quali occhi e qual fronte si richiegga a questa donna, voi non vi lagniate in guisa niuna se io le agguaglierò gli occhi neri, ed ampi, e pieni di bella gravitá, con naturale dolcezza mescolata, lampeggianti come due fuochi del cielo, minori nei lor vaghi e vezzosi giri, della bella Picezza (vita del nostro monsignor Manino, fondamento singolarissimo del regno d’Amore ed unica stanza delle tre Grazie); s’io le agguaglierò, dico, gli occhi con le vaghe palpebre, nere ciglia e sovraciglia di lei, lasciando la fronte (nel che io so ben ch’io potrei ancor contendere e riportarne anzi onore che no) ad alcuna delle vostre, onde poi ella si pareggi all’antedetta donna. — Non riuscì l’aviso del signor Vinciguerra, peroché tutti, baldanzosi ed istantemente, negavano ciò doversi con ragione ammettere, e tanto piú che ne caderebbe vergogna nelle donne loro, succedendo il suo proponimento. Il signor Ladislao, che poco in questi occhi s’aviluppava, attendeva ad accordare le parti, perché si seguisse, dicendo: — Se gli occhi della riguardevole Picezza sono sembianti a que’ di questa donna, gli occhi, come il sole, proprio lucenti, e quello che per appresso dimandate voi, signor Vinciguerra, della non mai a bastanza lodata donna dell’eccellente dottore, l’Arigona altiera, dico, non vi si disconvengono. Non vi si disconvengono gli occhi della candida Rosa del qui gentilissimo signor Giacomo, i quali soavi, anzi l’istessa soavitá e dolcezza, e chiari piú di ogni chiarezza, hanno forza di far giorno sereno l’oscura notte. Non vi si disconvengono gli occhi della signora Ginevra da Coloreto, co’ quali potè far sí che ’l cuore del giocondissimo signor Pietro lasciò l’antico albergo e ricovrossi in loro, onde continuo n’escono saette, fuori, d’invisibile fuoco, che arde e strugge cosí, come il sol neve. Perché, signor Vinciguerra, considerate bene il caso, e troverete che mal fa colui, il quale, vago di uno onorare, a grandissimo torto cerca di tre infamare; e tanto piú fa egli male se quelli, cui procura disonore, vengono ad essere cosí degni di onore, come colui, cui egli vuole essaltare ed a tutto suo potere innalzare. Deh! piú tosto, a quella guisa che veggiamo le alcioni racchetar le marine tempeste, le alterazioni di questi signori, gelosi della fama delle donne loro, e conseguentemente veri amanti, pacificate e quietate, esponendovi nelle mani di colui, che perciò è stato fatto giudice, e non per altro, da noi tutti che qui siamo. — Piacquero sommamente a tutti le parole del signor Ladislao, e cosí nel giudicio mio fu rimesso qual donna delle loro doveva con giustizia e ragione a quella, che si formava, cogli occhi, quale colle palpebre, quale con le ciglia, quale con le sovraciglia, e quale con la serena fronte d’allegro spazio, dante segno di sicura puritá, andar di pari, o pur quale con l’antedette cose tutte. Io non negherò qui, monsignore, ch’io mi ritrovai allora avolto in grande impaccio, e volentieri la soma averei in su gli omeri altrui scaricata, ma pure, avendo io loro giá fatto vedere come ’l giudicio non doveva essere precipitoso, ma riposato e maturo, a persuasione mia, contentaronsi ch’egli si differisse infino che fusse data intera perfezzione alla donna; che allora, non solamente si giudicherebbe di ciò, ma ancora delle altre tutte parti: e cosí agevolmente n’apparirebbe quale fusse delle loro donne la piú bella e la piú vaga. Cosí ridutte le cose, e prolungato e tramutato il giudicio, che si doveva fare di particolare, in universale: — Ch’egli adunque si segua l’impresa — disse il signor Giacomo, — e non si stia a perdere piú tempo. — Oh! lieve perdita è questa — soggiunse il signor Vinciguerra. — Non mica — rispose l’eccellente dottore — peroché non si può ristorare. Ma ben piú grave sarebbe stata la nostra con voi, e delle nostre con la donna che difendete, se perdevamo. — E che? Credete di guadagnar con meco? — replicògli il signor Vinciguerra. — Non sapete voi qual sia il mio nome? — Si, il so — ridisse a lui il signor dottore; — e proprio per questo io e gli altri speriamo di vincere con voi; perché tuttodí udiamo un nano chiamarsi «Atlante», un moro «cigno», una picciola e storpiata donzella «Europa», i cani pigri e per l’antica scabbia pelati e leccalucerne, «tigri», «pardi», «leoni», e se qualche cosa è che piú terribile sia. A queste parole stette mutolo, ma sorridendo, il signor Vinciguerra, e venne presso al signor dottore per vedere, da che egli era stato pungente come il tribolo nel parlare, s’aveva lo scilinguagnolo in bocca. Il che avendo noi preveduto, credemmo di smascellar per le risa, e facemmo sí che non ne fu altramente accorto il signor dottore. Compite le risa, e non facendo motto nè cenno alcun della compagnia, il signor Giacomo e gli altri vollono che per cortesia fusse contento il signor Pietro di seguitare, ed egli, poiché alquanto ebbe tenuto a terra chinato il viso, tutto festevole incominciò: — I crini il signor dottore; gli occhi, con non so che aggiunta, e la fronte il signor Vinciguerra; ed io vi darò perfetta la testa di questa donna, se le Signorie Vostre non si graveranno d’udire e di prestarmi per poco spazio, ché poco spazio chieggo, le purgatissime orecchie loro. — Tacendo tutti e tutti mostrandosi intenti: — Dal naso — soggiunse il signor Pietro — prenderò del ragionamento mio principio. Questi, se io non erro, riguardevole è tanto in noi, animali razionali, che per aventura non si estimerebbe giamai; e, sí come finte trecce le donne, e gli uomini capelli trovano alle volte per servirsene, ed altresí gli occhi, cosí n’ebbe di quelle giá e di quelli (e forse n’ha in qualche luogo ora) che, senza vero naso veggendosi, appararono un modo di cosí ben attaccarne un falso in quella vece, che vero e naturale egli potè a quale uomo, che vi riguardò e pose cura intorno, apparire anzi che no. Gli egizi, per pena del commesso adulterio, volevano (e chi sa ch’oggi parimenti non vogliano) che l’adúltero fusse stranamente flagellato, e l’adultera senza naso ne rimanesse, nè per altro se non perché la faccia sua in quella parte venisse a farsi deforme e sozza, nella quale massime suol bella e vaga a’ riguardanti mostrarsi. Questo adunque, che si dee dare alla donna, fie, per la mia estima, picciolo, ché invero un grande deforma assai una donna, come mi soviene d’aver giá letto, al tempo ch’io era scolare, in Orazio alla seconda satira, in Mario Equicola in quell’opera ch’ei fece Della natura dell’amore, e, s’io ben mi ricordo, poco fa nell’Ariosto, dove parla delle bellezze d’Alcina; fie, dico, picciolo e graziosamente locato in tanto, che Momo ne lo possa lodare e la invidia non emendare. Ora, spedito cosí brievemente dal naso, scendo a farvi vedere quali deono essere le guance di questa donna. Le guance di questa donna saranno tenere e morbide, assomigliando la loro tenerezza e bianchezza con quella del latte, se non in quanto alle volte contendono con la colorita freschezza delle matutine rose. Empiranno di vaghezza gli occhi, che le mireranno, se, vermiglie e bianche insieme, verranno a figurare quelle della vergine e cacciatrice dea de’ boschi, qualora ella si giace e si riposa doppo l’aver perseguito e cacciato i fuggitivi, vivaci e ramoruti cervi, le damme imbelli, i cavrioli leggeri ed i timidetti lepri. Piaceranno sommamente, se si scoprirá in loro il bianco giglio e la vermiglia rosa, il purpureo iacinto e ’l candido ligustro, e finalmente se fieno tali quale n’è data a vedere talora l’aria, ove, gelata, al suo antico soggiorno incomincia prima a correre l’aurora, e, indi a poco levato il sole, oggimai imbiancarsi e divenire candida e tutta neve. Tali non spiacquero all’Ariosto, ove scopre le bellezze d’Alcina. Non spiacquero al Petrarca nel sonetto «Io canterei d’amor» e alla canzone, il cui principio è a In quella parte». Non spiacquero al Bembo al secondo de’ suoi Asolani. Non spiacquero al Sannazaro nelle bellezze d’Amaranta. Non spiacquero a messer Ercole Strozza nel secondo de’ suoi Amori. Non spiacquero a messer Fausto Andrelino nel terzo de’ suoi, e finalmente a niuno, ch’io mi sappia, giamai. — Cosi detto, e, pensato un poco: — Alla bocca, con vostra licenza, trapasserò — soggiunse il signor Pietro. — Questa, di picciolo spazio contenta, viene non poco di grazia ad una vergine a porgere, e però in Dafne, fugace, picciola la pone Ovidio, nel primo delle sue Tramutazioni; picciola in Polissena nel terzodecimo delle medesime. Virgilio altresi, nel primo della sua Eneide, picciola la dá alla dea degli amori, Venere bella; picciola alla Fiammetta la dá il Boccaccio; picciola il Bembo nel sudetto luogo ad ogni damigella, che vaga vuol apparire. Ma le labra ove lascio io? Queste piacque al Boccaccio, pur parlando della Fiammetta, di rassimigliare a due vivi e dolci rubinetti; ed al Bembo, all’antedetto luogo, ai medesimi, ma aventi forza di raccendere disio di baciargli in qualunque fosse piú freddo e svogliato. Piacque al Sannazaro di agguagliarle alle matutine rose, nell’allegato sonetto di sopra, anzi di preporle. Agli Strozzi, padre e figlio, delle sue belle donne parlando, non spiacque ’l medesimo. Il Petrarca contentossi nel secondo capitolo Della morte farnele simili, parlando della sua Laura, cosí:
... poi mise in silenzio
quelle labia rosate, insin ch’io dissi...
Altri, come Ovidio, le istesse labbra, o pur le gote, hanno paragonate al porfido; ma insomma non vi è differenza nel colore, ch’egli è tale nel porfido quale ne’ rubini e nelle rose. Ora è da vedere quali deono essere i denti di questa bellissima donna, della quale se nel parlar mio vi pare ch’io troppo m’affretti stasera per ispedirmene, iscusimi appo voi il non essere naturalmente io lungo e tedioso nel mio ragionare: iscusimi il signor dottore, che n’ha favellato lungamente, ed il signor Vinciguerra, benché l’uno e l’altro divinamente: iscusimi l’ora tarda e vicina oggimai di posarsi. — Queste quattro parole traposte nel suo ragionamento, segui poi il signor Pietro: — Il Petrarca nel sonetto «Onde tolse Amor l’oro» e in quello «Non pur quell’una bella», e in quell’altro «Quel sempre acerbo»; l’Ariosto nelle bellezze d’Alcina, il Sannazaro in quelle di Amaranta, e parecchi altri scrittori, che, per esser brieve, qui non allego, vogliono e sommamente lodano in una donna denti simili a perle. Denti simili a perle essere suti que’ della sua ci mostra il Bembo nel sonetto «Crin d’oro crespo»; denti d’avorio commenda l’antedetto Petrarca nel Dialogo, ch’ei fa, della rara bellezza del corpo; gli commenda nella sua diva messer Ercole Strozza nel secondo de’suoi Amori, gli commenda messer Ortensio Lando nella gentilissima boccuccia del morto pidocchio di frate Puccio. — Queste parole, mandate fuori cosí ridendo alquanto e sogghignando dal signor Pietro, fecero sí, che di noi non fu pur uno che non ridesse e sogghignasse insieme con esso lui, il quale poi cosí riprese a dire: — Della chiarissima signora ed animosa Zenobia io mi credo ben che le Signorie Vostre molte e molte cose abbiano per infin ora letto; ma io non so, e forse che sí, se questa giamai. — E quale è questa cosa di questa reina d’Oriente? — disse qui il signor Ladislao. — Questa — gli rispose il signor Pietro — che molto è al proposito nostro: che ella, come ùscrive il Petrarca nel Dialogo de’ dolori de’ denti, fra le altre sue bellezze ebbe cosí bei e cosí candidi denti, ch’a’ riguardanti, qualora aveniva ch’ella parlasse o ridesse, pareva che la sua bocca fosse ripiena non di denti, no, ma di bianchissime margarite. E che dirò della figlia del re di Ponto, Mitridate, la quale si legge aver avuto le filze e gli ordini di denti gemini e doppi? Che di Prusia, re della Bitinia, o, per dir meglio, di suo figliuolo, a cui la natura, (cosa che d’alcun altro non mi ricorda mai d’aver letto) concesse, invece de’ denti di sopra, un sol dente uguale a tutti quei di sotto, cioè un osso steso dall’una all’altra mascella, e non giá senza vaghezza? Resterebbemi a dire, volendo del tutto attendere alla promessa, del mento di questa donna e delle orecchie. Il che fatto, fornita si troverebbe la testa di lei; ma, non veggendo io farsi menzione da scrittore niuno di queste due parti, isforzerommi di pagare il debito con dire che elle deono esser simili a quelle delle quali infin ora se n’ha ragionato assai, cioè riguardevolissime e vaghissime in ogni modo. — Qui pose fine al suo ragionare il signor Pietro, e volle, non ricusando ciò il piacevolissimo e veramente gentile suo cognato, e meno noi altri, per esser l’ora assai tarda, che fosse in piacere di tutti l’andarsi ognuno oggimai a posare, ché la sera poi seguente si tornerebbe alla intralasciata donna ed agli altri intralasciati ragionamenti di lei.
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