Il miracolo/Parte seconda/I
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CAPITOLO I.
Madamigella Serena portava con allegra spensieratezza il peso lieve de' suoi quindici anni compiuti, ed era istruita, avendo da tutti e da tutto imparato qualche cosa: da Bindo Ranieri a disporre con eleganza le figurine di alabastro sopra le tavolette degli scaffali; da Villa a cucirsi originalissimi vestiti; da zia Domitilla Rosa a ricamare sul velluto ed a riconoscere i vari personaggi biblici nelle figure dei libri sacri; dal vecchio Titta a odiare con l'anima la brutta faccia di don Vitale ed a venerare con molto ossequio la bella mente di monsignore; da Ermanno a piangere disperatamente in secreto ed a ridere poi di sè stessa allorchè, dopo aver pianto, voleva ricercare la ragione delle sue lacrime; dal sole a ripararsi di estate il capo sotto un ampio cappellone di paglia; dal freddo a ripararsi le spalle d'inverno sotto una mantellina di taglio fantastico; dalle rondini la irrequietezza ed il canto; dalle figure della facciata del Duomo la varietà degli atteggiamenti e dei colori; dalle estasi ininterrotte di zia Domirò la necessità di tenere in assetto la casa e provvedere con ardite invenzioni all'allestimento dei pasti quotidiani.
Ma le più sagge e pertinaci maestre di Serena erano state le cose, ora amiche, ora nemiche, ora disposte a secondarla quando ella sapeva prenderle per il loro verso, ora di una implacabile ostilità quando ella si ostinava ad opporre la sua logica ragionatrice alla loro logica muta.
In tali casi madamigella Serena non cedeva facilmente, e diventava violenta; batteva sul tavolo con ira una vecchissima tazzina, la quale non voleva tenersi in piedi, e la tazzina malvagia andava in frantumi, ferendole una mano; dava calci al gomitolo di fil di seta, rotolante dal panierino, ed il gomitolo invece di ubbidire correva a rimpiattarsi sotto i mobili e il filo si aggrovigliava intorno alle gambe delle seggiole; sbatteva forte in terra, nei giorni di cattivo tempo, l'ombrello che non si voleva aprire, e l'ombrello dispettoso si apriva di scatto e poi di scatto si richiudeva per il gusto d'impigliarsele intorno al cappello, ond'essa, piangendo di rabbia, doveva camminare così per le vie di Orvieto, dove anche i muri la conoscevano e dove anche i muri dicevano, parlando di lei con ironica affettuosità: «Che originale ragazzina!»
A poco a poco peraltro, Serena, ammaestrata dalle proprie sventure, ad essere più giudiziosa e paziente delle cose irragionevoli e colleriche, imparò a cedere e tutto le cedette, imparò a dominarsi e riuscì a dominare gli oggetti, che le divennero amici e che solo, scherzosamente, si divertivano talora a farle qualche innocuo dispettuccio, come quando ella, avendo l'abitudine di collocare alla rinfusa i vasetti delle sue conserve ed i vasetti de' suoi colori, condì di vernice rossa la minestra, e ciò fu di gravi conseguenze per Domitilla Rosa, che ne ebbe violenti conati, o come quando, per la stessa abitudine, spennellò di concentrato al pomodoro il cartone di un suo acquerello, e ciò fu poco male, perchè gli acquerelli di Serena non erano capolavori, quantunque avessero un loro sapore di originalità, per cui le rose andavano ornate di petali occhiuti, simili a visi di piccoli mostri, e le figure, riprodotte di fronte o di profilo, avevano il naso a uncino e le orecchie aperte a ventola.
Quella mattina, era una domenica di mezzo novembre e faceva caldo come se l'estate imperasse ancora, madamigella Serena marciava impettita vicino alla torre del Moro, e nessuno si stupiva ch'ella andasse sola, contrariamente al costume del paese. Non era ella forse arrivata sola dall'America dodici anni prima, a guisa di un uccellino migratore? Non aveva ella forse, durante l'infanzia, percorso instancabile al galoppo, con la sua andatura di cavallino imbizzito, le strade e le piazze sotto l'unica egida di un cuffiotto bianco o di un cappuccio rosso, a seconda delle stagioni?
E poi, in quella mattina domenicale, madamigella appariva singolarmente seria, e faceva anzi un bel contrasto il vederla con le sopracciglia inarcate e il nasino pronto al fiuto, all'ombra di un allegro cappelletto di sua invenzione, breve di falda, ornato in giro di un nastro azzurro, che svolazzava a una sola coda e che si divertiva a stuzzicarle il roseo padiglione dell'orecchia.
Pericle Ardenzi la fece avvertita di ciò, senza, riguardi, incontrandola per via del Duomo:
— Stia attenta, signorina Domirò, il cappelletto le è andato di traverso.
Serena aveva ben altro pel capo.
— Ha sentito? tutti dieci.
— Sì, sì, un vero sistema decimale - Pericle Ardenzi esclamò, fregandosi le mani; ma tornò subito all'idea del cappello comèta.
— Stia attenta, signorina. La coda del cappello le svolazza sul naso. È forse presagio di sventura?
Serena, spazientita, dette col pugno un urto all'indietro al cappello e molti riccioli bruni sbucarono furbescamente.
— Ha letto il telegramma? È di trenta parole.
— Vuole che glielo declami? - chiese Pericle Ardenzi, e s'inchinò. - L'ho imparato a memoria per farle piacere. Vuole che glielo reciti?
Madamigella rispose con sussiego che non ce n'era bisogno: lo sapeva a memoria anche lei.
— Va alla stazione?
— Naturalmente; vado a rappresentare il popolo e il comune. Andiamo, signorina, facciamo corteo.
Serena, pronta, stava per voltare strada, ma ci ripensò. Ermanno si sarebbe irritato senza dubbio, vedendola alla funicolare; Ermanno non annetteva gran pregio alle affettuosità di madamigella; valeva dunque meglio andare in Duomo a prendere zia Domirò e recarsi poscia con lei in casa della signora Vanna, dove c'era pranzo. Si rimise frettolosa in via, mentre il giovane Pericle, fregandosi più forte le mani, la guardava e rideva con indicibile irriverenza.
— Oh! che strana ragazzina — anch'egli disse, crollando il capo, e si fece largo a gomitate fra una schiera di villani per non trovarsi in ritardo alla funicolare. Vi giunse che Ermanno aveva già consegnato a un servo la valigia.
— Volevamo innalzarti un arco di trionfo — Pericle gridò di lontano, agitando il cappello. — Ma il Sangallo è morto e non ha voluto uscire dalla sua tomba.
— Ah! — rispose Ermanno, stringendo la mano dell'amico. — Potevate rivolgervi a Ippolito Scalza. Per me sarebbe stato ugualmente un bell'onore.
— È morto anche lui da qualche secolo.
— Ma siete morti tutti in questo paese?
— Già, già, morti tutti; ma, in compenso, tu sei diventato immortale.
La diligenza si era frattanto empita di viaggiatori e di bagaglio; due automobili prendevano ansando il volo per opposte direzioni.
— Ecco, la signora Vanna ti ha mandato incontro la tua biga. Io avrei voluto un carro con quattro cavalli bianchi; ma i cavalli orvietani sono tutti neri e devi contentarti della biga.
— Anche gli eroi di Omero si contentavano delle bighe; ma io preferisco andare a piedi.
E si avviarono, camminando, verso l'interno della città.
— Dunque una licenza liceale da fare epoca negli annali dei Monaldeschi? - Pericle domandò, squadrando l'amico col rispetto canzonatorio dei vispi occhi grigi.
Dal giorno oramai lontano in cui, durante la cerimonia della vestizione, Ermanno aveva ricevuto da Pericle Ardenzi il gradito preavviso di un dolce per il pranzo, i due giovanetti erano diventati amici, e durante i cinque anni trascorsi insieme nel seminario, l'amicizia non aveva subìto alterazioni, nemmeno durante il fosco periodo del fanatismo di Ermanno adolescente, e nemmeno quando Pericle, di un anno più avanti del compagno nell'età e negli studi, era uscito dal seminario per iscriversi come studente di lettere all'Università di Roma.
— Che si dice in paese dell'avvenimento? - Ermanno interrogò, schiudendo al riso la bella bocca giovanile, di solito atteggiata in austerità.
— I pareri sono discordi - asserì Pericle con gioiosa preoccupazione. - La maggioranza biasima il viaggio a Roma. È savia cosa avere lanciato un chierico innocente fra i pericoli di una moderna Babilonia? Questo dice la maggioranza, e don Vitale scaglia anatemi sopra il tuo capo; ma a sostegno di monsignore sta una minoranza compatta, la quale approva che tu sia uscito dal guscio per tre settimane e conta sopra le unghie della signorina Serena, disposta, per quanto mi sembra, a graffiare gli occhi di chiunque non ti esalti e non ti magnifichi.
Ermanno sorrideva distrattamente.
Egli provava gioia nel camminare al sole, nell'ascoltare le volubili parole dell'amico, e frattanto una tristezza inesplicabile gli si ammassava intorno al pensiero; gli pareva che il sole, pure così fulgente, gli si oscurasse. Quanta ampiezza nelle vie di Roma! Quanta vastità nelle piazze, quanta storia di morte vicende fra i ruderi dei fôri e quanta storia viva nella gente che corre e si affanna, che s'incrocia e dilegua, nei ponti balzanti dall'una all'altra riva, nel tumulto delle voci, nel gesticolare di braccia che si tendono per allacciare o che si agitano per respingere! Quanta luce di cielo al disopra dei giardini durante gli affaccendati pomeriggi e quanta luce di lampade elettriche lungo i marciapiedi durante le sere affollate! E come il treno volava, poc'anzi, attraverso pianure senza confini.
— Chi rimane impassibile, nell'austerità delle bende vedovili, è Palmina - disse Pericle, non sospettando i pensieri confusi dell'amico.
Ermanno si arrestò con dolente stupore.
— Dunque il mio buon Titta è morto?
— Sì, quasi all'improvviso, per colpa della sua fede di nascita. La signora Vanna mi ha detto che Palmina, dando allo sposo morente i medicinali ordinati dal medico, era agitata dalla doppia preoccupazione che i medicinali gli facessero bene e che costassero troppo. Pare che il vecchio Sem, in un momento di lucidità, abbia maledetta la sposa dal suo letto di morte; comunque l'ha diseredata in favore di certi pronipoti abitanti in Sicilia.
Ermanno rise. Il matrimonio di Palmina col decrepito Titta era stato un piccolo dramma misterioso ed atroce, ordito da Palmina con profonda sapienza di femminile scelleratezza, e tutti ne ridevano, ignorando le trame intessute pazientemente dalla donna intorno alla volontà del vecchio accanito nella difesa, sino a che ombra di ragione lo aveva sorretto, poi debole e irretito quando la decrepitezza era discesa ad annebbiargli lo spirito; ma il vecchio Sem fratello di Cam prendeva, dopo la sua morte, vendetta allegra, e forse esultava nel grembo della madre terra, udendo i gemiti e le imprecazioni scagliate dalla vedova contro il suo testamento.
— Oh! il bravo Titta! - esclamò Ermanno. La storia del testamento mi consola quasi della sua morte.
Parlarono d'altro, e sul punto di arrivare in piazza Corsica, dov'era adesso l'abitazione di Vanna, il discorso cadde sulle ricerche archeologiche di Pericle Ardenzi, il quale con ogni sasso della sua città avrebbe voluto ricostruire una pagina di storia etrusca.
— Sai? - egli disse, stropicciandosi le mani in modo affrettato e lieve, giacchè possedeva per ogni sfumatura del sentimento una particolar maniera di stropicciarsi le mani. - Sai? Mi convinco sempre più che avevo ragione io. Orvieto sorge sopra le rovine di una città sacra, destinata dagli etruschi alle grandi cerimonie religiose. Qui convenivano le genti, in epoche fisse, per celebrare sacrifizi in onore degli dei. Tutto me lo conferma. La grande strada che si scopre dalle nostre alture, e ch'era indubbiamente una strada sacra, molti altri indizi ancora vaghi e che diventeranno certezza. Vedrai, vedrai! Forse un brano di storia sepolta potrà risorgere - e il giovane studente non celiava più, diventava serio e si tirava con nervosità la punta della barbetta, esponendo con parole di entusiasmo il suo progetto di uno studio comparativo dei miti, da cui risultasse che lo spirito umano è legato, attraverso il tempo da fili indistruttibili, e che le religioni, sotto varie forme e con diversi riti, rispondono tutte a un sentimento stesso di terrore e speranza insito nel cuore dell'uomo.
Ermanno taceva accigliato. Quando in sua presenza sorgevano tali problemi egli diventava ostile, circondandosi di circospezione. Contro sè o contro gli altri? Ermanno non avrebbe saputo dire. Egli non era più il bimbo ingenuo, che alle tombe di Settecamini si domandava come mai, prima di Cristo, la gente mangiasse e si scuoiassero buoi. Ermanno sapeva misurare, adesso, la vastità del tempo; sapeva di civiltà fiorenti e scomparse, di rovine ciclopiche sepolte sotto la terra, di vecchi papiri tornati in luce, e la storia anche per lui aveva echi di suoni spenti, pallidi riflessi di soli già tramontati. Ma era avvenuto questo caso strano: il suo professore di storia antica, un dottissimo orientalista, esponeva in classe i fatti con rigidità di metodi, dietro la scorta di minuziose ricerche e coscienziose ricostruzioni. I fatti si aggruppavano per virtù propria, si cementavano tra loro in grazia della loro logica e si foggiavano in piramide salda; poi, dopo avere così lasciato che si edificassero, il medesimo professore riprendeva i medesimi fatti, e con parole prolissamente oscure voleva piegarli alle esigenze della sua filosofia di sacerdote cristiano. In genere i chierici studenti prendevano appunti e mischiavano il tutto senza discutere; ma Ermanno soffriva, non riuscendo a mettere d'accordo la prima e la seconda parte della lezione, onde sovente, con orrore, sorprendeva sè stesso a ricercare nei fatti una logica assai diversa da quella che il professore inculcava con tanto zelo faticoso. Ermanno diventava agitato allora, turbato da un dissidio spirituale che lo rendeva iracondo e, per la pace del suo spirito, s'imponeva di non discutere, di non vedere. «Io credo, io credo», mormorava prosternato davanti all'altare della cappella, e stringeva con rabbia le dita intrecciate e supplicava Gesù di spegnergli ogni luce di pensiero. Oh! essere umile, essere come il cieco guidato da altri per mano, essere come quei santi monaci del deserto, che si menomavano, si deturpavano con gioia per deludere le insidie del demonio. Ma la ragione di Ermanno era viva e vigile, talvolta anche più forte della volontà ch'egli ostinatamente opponeva all'idea come barriera.
Pericle Ardenzi seguitava a parlare de' suoi studi con fervore e facondia; ma Ermanno lo interruppe bruscamente e gli disse:
— Voglio riprendere il mio abito di seminarista prima di farmi vedere da mia madre. Tu puoi tornare più tardi per l'ora del pranzo - ed entrato nel portoncino della nuova dimora, salì cauto per recarsi inosservato nella sua stanza. In cima della scala, a sinistra, sorrideva dentro la sua nicchia una statua di Psiche giovanetta, la quale si protendeva leggiadramente in avanti, sostenendo con gesto lieve il globo elegante di una lampada; a destra, dal vano d'una finestrella fiorita, Serena sporgeva il visetto arguto, e ogni ricciolo della sua fronte, ogni fossetta delle gote dicevano la consolazione festosa del suo cuore! In fondo, per un'ampia vetrata, il giardino mandava sul pianerottolo il grato odore degli ultimi fiori autunnali e, sotto il bacio carezzoso del sole di novembre, parevano d'oro le foglie morte tappezzanti il suolo dei corti viali; dentro una piccola fontana di marmo bianco l'acqua cadeva senza troppo rumore con voce amica e dolce di persona benevola in confidenziali colloqui.
Ermanno non osservò l'accoglienza amabile di Psiche e di Serena; non riconobbe la bontà discreta degli ultimi fiori, nè il mormorio soave dell'acqua zampillante. Di nuovo egli, come lungo la strada, ebbe l'impressione che il sole, pur così fulgente, si oscurasse per lui, e di nuovo sentì in petto qualche cosa di vivo che si snodava lentamente, cautamente, senza fargli troppo male, dandogli appena un senso di bruciore e di fastidio. Egli conosceva questo; da circa due anni, all'improvviso, le cose belle e dolci gli si mostravano nemiche, assumevano per lui aspetto di periglio, e dentro il cuore gli si accendeva allora una piccola fiamma, gli si snodava, timido, un piccolo serpe, e il cuore, che egli avrebbe voluto impietrito, gli saliva alla gola, gli bruciava le vene, mentre un'ansietà paurosa gli velava lo sguardo e l'anima gli si accasciava sotto il peso dello sconforto. A tale sconforto il giovane ventenne opponeva la violenza, sforzandosi all'odio contro le cose belle e dolci. Entrò nella propria stanza e si spogliò furiosamente dell'abito secolare. Ah! come si stava bene dentro le pieghe della sottana violacea! Come, i movimenti erano liberi! Come l'animo tornava giocondo! E fu giocondamente, nella sveltezza agile della sua snella andatura, ch'egli attraversò il salotto per recarsi nella veranda a cristalli, di dove giungeva un mormorio di voci.
— Eccomi, mamma - egli disse, avanzandosi verso di lei, che gli si affrettava incontro col viso ridente e le mani protese.
— Ben tornato, Ermanno! Bravo! Bravo! Tutti sono orgogliosi di te. Io non so che dirti! Io sono felice.
Ermanno le prese con gesto affettuoso la mano bianca e se la portò alle labbra.
— Come stai, mamma? - e nella voce una tenerezza protettrice palpitava lievemente, la tenerezza protettrice del figlio che, fatto uomo, vuol difendere colei da cui, bambino, è stato difeso.
— Bene, Ermanno, sto bene e sono contenta di vederti.
E una contentezza limpida le brillava per tutta la persona, vezzosissima ancora; la contentezza di vedersi accanto il figliuolo più alto di lei, simile al caro Gentile mai obliato, nell'alterezza nobile dello sguardo, nell'ampiezza libera della fronte; la contentezza di vederselo nuovamente fiducioso e tenero come quando, bambino, egli non aveva un moto dell'animo, che non volasse a lei con sicuro abbandono. Ella aveva molto sofferto durante gli anni torbidi, allorchè il figliuolo si mostrava ribelle alle sollecitazioni quasi umili della sua tenerezza, e ne aveva pianto con monsignore, il quale si era mostrato, anche in quell'occasione, pieno di saggia bontà e previdenza. - È il lavoro faticoso dell'adolescenza, che distrugge per riedificare. Lasciamo in pace il nostro fanciullo. Il suo nobile temperamento non può tradirci. Noi lo ritroveremo il nostro caro Ermanno - così aveva detto monsignore e, presso i diciotto anni, il caro giovane aveva ripreso nel viso e nell'anima la fisonomia schietta della sua infanzia; una fisonomia più sicura, di più ferme linee; ma in cui era facile riconoscere la saldezza orgogliosa e semplice del bimbo che, in altri tempi, offriva nelle sue parole la pura essenza di ogni suo pensiero. Vanna era contenta, oh! molto contenta, e se non abbracciava il figliuolo già ventenne, già presso alla soglia augusta del sacerdozio, in ogni inflessione della voce di lei c'era il fremito di una carezza e in ogni sorriso il desiderio tenero di posargli la bocca sopra la fronte.
Gl'invitati, in piedi, facevano rispettosamente cerchio guardando, ammirando, e Bindo Ranieri manifestò la generale impressione.
— Guardi, signor professore, non le sembrano fratello e sorella nel vederli tutti e due così giovani e somiglianti?
Una voce dal timbro infantile confermò:
— Questo veramente pensavo anch'io. La signora pare sorella di suo figlio.
Vanna arrossì un poco e, tutta grazia nel trionfo del suo orgoglio materno, si appoggiò al braccio di Ermanno, e incedettero uniti dentro un solco ampio di sole, fino alla estremità della veranda, simili anche nel colore delle vesti, perchè la gonna di velluto che Vanna indossava era violacea come la sottana di Ermanno.
— Ecco, signor professore, io le presento il mio unico figliuolo - Vanna disse con signorile affabilità, mentre il signor professore chinava in fretta, con ossequio, la persona mingherlina e illuminava di un sorriso la rosea faccia imberbe.
Vanna si rivolse al figlio e spiegò:
— Il signor Corrado Gigli, nominato da pochi giorni professore al nostro ginnasio. Viene da Bologna e si allontana per la prima volta dalla famiglia. Credo che sia nostro lontano parente e sua madre, mia antica compagna di educandato, me lo raccomanda, me lo affida. Nella lunga lettera di sua madre il professore qui presente è chiamato sempre bébé.
Ermanno salutò con cordialità semplice.
— Mia madre sarà lieta, professore, di farle accoglienza nella nostra casa - ma le parole cortesi furono interrotte da una risata impertinente.
— Scusi, non rido per offenderla, signor professore - disse «madamigela grano di pepe» agitando nella sua irrefrenata ilarità la testa riccioluta e capricciosa. - No, no, davvero non rido per offenderla. Ma un professore che si chiama bébé, mi pare lo scolaro di se stesso e non riesco a restare seria, pensandoci - e poichè Bindo Ranieri gonfiava le gote e le faceva due occhiacci spiritati, madamigella si arrabbiò:
— Perchè vorresti divorarmi cogli occhi, Bindo? Se non si deve più nemmeno ridere, allora... - e s'interruppe a metà della sua frase ardita e si cosparse in volto di rossore nel vedere che Ermanno la guardava, aggrottando le ciglia.
Domitilla Rosa, quasi diafana nella veste tradizionale di seta nera, onusti il petto e le orecchie di gioielli secolari, di cui le ave degli avi si erano ornate, parlò dolcemente con la sua voce lontana in favore della nepote.
— È una piccola farfallina del buon Dio! Vola per volare! Dove si posa non sa - e guardava teneramente in giro, come destata da un sogno, come remota dalla terra, dove passava, sfiorando appena il suolo, tanto ella appariva incorporea nella sua magrezza, tanto il suo ardore inestinguibile verso Gesù dolce, Gesù amore, la teneva sollevata in alto a guisa di quelle sante che, pregando nell'estasi, furon viste dai devoti attoniti, ascendere e rimanere lungamente in orazioni, sospese fra il cielo e la terra. Ma Serena si sentiva umiliata di non essere a quindici anni e otto mesi che una piccola farfallina del buon Dio, e pretendeva agli onori dovuti a una signorina grande e seria; anzi, per questo aveva allungato di propria iniziativa la balza della gonna turchina, alquanto sbiadituccia, che appariva abbellita così di una striscia a zig-zag di colore più acceso.
Fu Pericle Ardenzi, entrato in quel punto, che mise in rilievo tale inosservata particolarità nell'abbigliamento di madamigella Domirò:
— Signorina - egli le disse, stropicciandosi le mani con allegra violenza - lei deve avere complottato per ottenere di nascosto una laurea in astronomia. Poco fa inalberava un cappello comèta; adesso sfoggia una gonnellina arcobaleno. Troppa scienza, troppa boria, signorina.
— Lei è stupido - Serena gli rispose a bruciapelo, ma l'idea di portare in testa una comèta e nell'estremità della gonna l'arcobaleno, le parve geniale e la fece ridere com'ella rideva, agitando il capo, scrollando i riccioli.
Don Vitale si presentò e, da vero corvo, fu messaggero di sventura: una improvvisa chiamata al palazzo vescovile impediva a monsignore di trovarsi cogli altri invitati in casa Monaldeschi; presentava a tutti vive scuse, e aspettava il giovane licenziato dopo il pranzo, in seminario, dove Ermanno doveva compiere ancora l'intero corso di teologia.
L'inaspettata assenza di monsignore provocò rimpianti unanimi, poichè in quella domenica Vanna, per eccezione, aveva ammesso alla sua tavola gli sposi Ranieri con Domitilla Rosa. Bindo Ranieri, diventato più rubicondo e tondo, di cui la faccia sfavillava di gioia placida, simile in tutto alla luna estiva nel suo pieno splendore, ingoiava la minestra bruciante con beatitudine espansiva, accarezzandosi il palato col cucchiaio di argento, forbendosi ossequioso le labbra ad ogni breve istante, avanzando la mano verso la fila dei bicchieri, poi ritraendola in fretta, incerto se durante la minestra fosse lecito sorseggiare. Egli vide bensì che Serena beveva tranquilla, ma questo non poteva valergli di norma, giacchè Serena, sventuratamente, seguìva più volentieri il suo buon piacere che le regole della creanza.
Il signor professore mangiava poco, impacciato, timido, volgendosi con sorrisi fugaci e improvvisi rossori a mirare la bella persona di Vanna, che gli sedeva accanto, tra lui ed Ermanno, e che gli dimostrava amabilmente una materna sollecitudine.
In principio i discorsi furono generici: Pericle Ardenzi scherzava; Bindo Ranieri perorava enfatico; Villa, bruna al pari di Sulamite fra l'aureola dei capelli bianchissimi, sorvegliava lo sposo, e con movimenti impercettibili delle labbra, lo faceva avvertito quando egli stava per commettere infrazioni all'etichetta; Domitilla Rosa assaporava i cibi con voluttuosa religiosità, accettando il male o il bene, le cose cattive o buone, a seconda che a Gesù piacesse di mandare. In placida e dolce testardaggine opponeva la sua passiva fiducia nel Signore allo svolgersi delle circostanze, e ingoiava con sorridente rassegnazione le orribili vivande preparate dalla nepote, poichè, certo, era stato Gesù ad ottenebrare davanti ai fornelli il volubile intelletto di Serena; si deliziava nelle vivande squisite, odoranti, intorno alla tavola della signora Vanna, poichè Gesù aveva, certo, illuminato il cuoco del suo spirito divino, mentre il cuoco dispensava con sagacia i tartufi ed arrostiva con sapienza le pernici.
Il professore Corrado Gigli, il quale, forse per prepararsi alle esigenze del suo magistero, preferiva interrogare molto e rispondere poco, domandò a Ermanno se Roma gli fosse piaciuta.
— Infinitamente: - Ermanno disse - e anche più nella sua parte viva. Le piazze, dove la gente brulica, mi hanno impressionato più dei fôri, dove le colonne giacciono mezzo sepolte.
— Rinnegheresti forse il Colosseo? - Pericle gli gridò, con esasperazione giocosa.
— No, non rinnego il Colosseo e nemmeno le Terme di Caracalla, ma il presente mi ha indotto a riflettere più del passato. Quello che gli antichi hanno fatto lo so; quello che faranno i futuri io debbo presupporlo.
— Più o meno facciamo sempre le stesse cose - Pericle disse, ridendo; ma Bindo Ranieri si scandolezzò, con molte scuse e gentilezze, di tale asserzione esposta dal colto giovane signor Pericle; si scandolezzò, perchè gli antichi hanno creato la storia e di essi va parlato con riverenza. Ecco, Bindo Ranieri lo confessava in vanitosa umiltà, succhiando un'ala di pernice, egli nutriva in sè il culto della storia, e non poteva capacitarsi, ad esempio, che l'incognito, bravo uomo qualsiasi, il quale aveva dimorato nella sua casetta cinquecento anni avanti, non fosse superiore a lui di tutta l'altezza di cinque secoli.
— Loro signori mi devono capire - egli diceva - io non posso paragonare a me un uomo vissuto nel milletrecento; peccherei di sconvenienza, mancherei di riguardo a un uomo dei tempi andati. Lor signori mi devono capire.
— Molto probabilmente il suo qualsiasi bravo uomo dei tempi andati era un facinoroso beone; molto probabilmente rubava galline negli orti delle comari e spaccava il cranio del suo prossimo a colpi di ascia.
Bindo Ranieri non contrastò; i tempi andati erano feroci; ma chi uccideva allora entrava nella storia, chi uccidesse oggi entrerebbe in galera, e la differenza, loro signori dovevano convenirne, era sufficientemente rilevante.
Pericle Ardenzi si strinse nelle spalle, egli la storia la trattava con disinvoltura, poichè la studiava nelle pietre, e le pietre non si adornano di menzogna, non si ammantano d'illusioni.
Vanna desiderò che anche il professore Corrado Gigli interloquisse.
— E lei, signor professore, è stato a Roma? - ella chiese, volgendosi a lui.
Certo, il signor professore era stato una volta a Roma, con mammà, non vedendo molte cose peraltro. Era di estate, il sole bruciava e mammà temeva per lui le brutte sorprese d'una meningite.
— Povero bébé - Vanna gli disse affettuosamente scherzosa, ed egli la guardò felice, le rivolse cogli occhi un ringraziamento di sommessione.
Ermanno frattanto esponeva un suo concetto. A lui, fin dai primissimi studi, piaceva immaginare la storia attraverso l'opera della cazzuola che edifica e del piccone che abbatte. Un popolo antichissimo fabbricò una tomba; sopra le rovine della tomba un altro popolo antico edificò più tardi un tempio grandioso; più tardi ancora un altro popolo antico vi costruì sopra un palazzo e al disopra delle vôlte di tale palazzo sorsero umili casette abitate nelle tristissime epoche delle decadenze, da umili creature; poi si comincia il cammino inverso: il piccone abbatte le casupole, una torre del palazzo s'indovina, e allora si scava, finchè appaiono le colonne del tempio; si scava ancora e la tomba viene al sole coi mucchietti delle bianche ossa, coi rozzi utensili arrugginiti. Questo dava a Ermanno il senso della continuità della razza, gli trasfondeva in cuore consapevolezza di non sentirsi transitorio e isolato. A distanza d'infinite generazioni, gli umani potevano ritrovarsi e riconoscersi.
Serena ascoltava attonita, intenta.
— Come le formiche nelle loro buche - ella disse con peritanza insolita e arrossì di piacere quando Ermanno, che non badava a lei, confermò:
— Precisamente come le formiche; una fila monta, una fila scende.
Pericle Ardenzi fece osservare che a Roma questo doppio lavoro appariva evidente, non solo in senso materiale per monumenti e scavi, ma anche in senso morale per il sovrapporsi dei riti cristiani nei luoghi stessi, nei medesimi recinti dove i riti pagani si erano svolti. Spesso il sacerdote di oggi compie il sacrificio incruento della messa sopra un altare, che si eleva dove in antico stava un'ara pagana, su cui il sacerdote dei sacrifizi aveva immerso il coltello dentro le gole delle vittime belanti o muggenti.
Don Vitale non seguìva bene il nesso di tali discorsi, ma fiutava l'eresia e stava in guardia, pronto ad abbaiare e mordere.
Quando sentì parlare della Santa Messa, alzò il viso dal piatto e fissò torvo il giovane Pericle, poi, quando il giovane ebbe l'audacia di asserire che un altare cristiano sorge sopra una immonda ara pagana, don Vitale ruppe il silenzio e parlò rabbiosamente.
— Il sacrificio santo della messa è verità; i sozzi sacrifizî dei pagani erano menzogna. Per questo il Signore ha maledetto quelle genti, facendole scomparire dalla faccia della terra - e don Vitale, nella foga del suo zelo, inveì contro le brutte divinità pagane, false e bugiarde, scagliò parole di oscura minaccia contro Giove e Giunone, Marte e Venere, di cui il nome dovrebbe essere bruciato nelle carte dei poeti pagani, mandato in frantumi nelle statue, che ancora deturpano i musei.
Pericle, che beveva assai volentieri discutendo, non misurò più le sue parole:
— Ah! sì? Abbruciare i poemi di Omero e di Virgilio? Distruggere le statue di Fidia e Prassitele? Starebbe fresco lei, don Vitale! Giunone scomparirebbe abbracciata a Sant'Anna, Marte trascinerebbe nella sua rovina San Giorgio, e il Paradiso si spopolerebbe, perchè ogni Santo è sorto dal piedestallo di una sopraffatta divinità dell'Olimpo.
Non tutti i commensali dettero uguale peso alle parole demolitrici del giovane Pericle. Domitilla Rosa levò gli occhi al cielo e sorrise, alzando in cuor suo inni a Gesù che aveva fatto fiorire di santità empie colonne e profani obelischi; Vanna sorrise anche ella, crollando il capo indulgente, e limitandosi a moderare con gesto garbato la foga soverchia di Pericle; don Vitale ammutolì e scorse nei sacrileghi paradossi di Pericle la conferma delle proprie opinioni: bisognava adoperare ferro e fuoco nei seminari, e la tolleranza, la così detta superiorità di monsignore portavano i loro frutti: il venerabile Seminario di Orvieto si riscaldava le biscie in seno, ed i chierici, spogliata la sottana, entrati appena nel secolo, si facevano banditori di eresie; era doveroso informare di ciò il capo della diocesi.
Ma Ermanno, pallido, rifletteva con vivo sgomento: non era dunque lecito iniziare la più innocua discussione? Egli aveva enunciato una umile idea, ed ecco l'idea diventare orgogliosa, tortuosa, svolgersi in meandri, giungere a conclusioni inaspettate e malvagie.
— Tu asserisci l'assurdo - egli disse, rivolgendosi a Pericle, ma parlando per rassicurarsi e convincersi. - Tu consideri la religione come un fenomeno puramente storico e questo è assurdo.
— Perchè dici la religione e non dici le religioni? - gli domandò Pericle, e lo fissava negli occhi acutamente.
Ermanno distolse lo sguardo e rispose:
— Perchè di religione non ne conosco che una, non ne ammetto che una.
— Tu non pensi quello che dici - Pericle esclamò. -Tu hai la mente troppo alacre, troppo abituata a scrutare per limitar la storia dello spirito umano a due millenni. No tu non pensi a quello che dici!
Ermanno, che portava nelle vene il buon sangue della sua razza dominatrice, fu sul punto di balzare in piedi e ricacciare in gola all'amico le parole di smentita; ma dal recesso più oscuro della coscienza un lampo fugacissimo sorse, ed egli intravide confusamente che l'amico aveva ragione; intravide un baratro da cui bagliori luminosi sprizzavano, ne ebbe sdegno, ne ebbe paura, e divagò simile ai bimbi quando si bendano per giuocare a mosca cieca e brancolano volontariamente nel buio, pure sapendo che la luce esiste e li circonda.
— Io divido il mondo e la storia in due parti nettissime, egli disse con iracondia. - Prima di Cristo l'errore e la dannazione; dopo Cristo la verità e la salvezza; prima anche i buoni si perdevano irrimediabilmente, dopo anche i malvagi possono riscattarsi e beatificarsi in virtù della grazia e del pentimento.
Allora parlò «madamigella grano di pepe»:
— Senti, Ermanno, questa mi pare una ingiustizia. Sarebbe come se, allorchè io ero tanto piccolina e stupida, zia Domirò avesse rivestito delle sue vesti un brutto fantoccio e, nascosta dietro una cortina, mi avesse lasciato credere che quel fantoccio era lei. Che colpa avrei avuto io se, nell'errore, avessi onorato ed amato il fantoccio, immaginando che fosse zia Domitilla Rosa? Perchè ella non mi si rivelava? Perchè mi lasciava nell'errore e perchè mi avrebbe buttata poi dentro un braciere allo scopo di punirmi di un inganno ordito da lei stessa contro di me?
Bindo, Villa, Vanna, il professore, zia Domirò, perfino don Vitale, si dettero di gusto a ridere, essendo cosa stabilita che ciascuna parola di Serena doveva provocare l'allegria; ma Perile contemplava la signorina con muta ammirazione.
Anche Ermanno la guardava irritato, e ricordava la storia della loro infanzia, quando passeggiavano col vecchio Titta e il sole fuggiva e l'ombra si avanzava.
Serena, allora come oggi, s'impadroniva spensieratamente delle idee, volgeva loro un'occhiata alla sfuggita, le porgeva scherzosa al compagno, ed egli non sapeva come fare per polverizzarle. S'irritava, giudicava privo di senso il cicaleccio di Serena; ma non sapeva cosa rispondere.
— E lei, professore? Esprima anche lei i suoi concetti - Vanna sollecitò, dopo avere sufficientemente riso delle amenità di Serena, ch'ella si era abituata a considerare come una bestiola assai utile nei momenti di noia. - Questi miei ragazzi si divertono in chiacchiere; parli anche lei professore.
Ecco, il professore, durante i quattro anni di facoltà, aveva concentrata la sua attenzione esclusivamente sopra lo studio dei poemi cavallereschi, prediligendo fin dall'età più tenera, le avventure di Guerrin Meschino, dimodochè la sua tesi di laurea si era naturalmente aggirata su Orlando, paladino di Francia, nella letteratura drammatica per marionette. Egli dunque, rispondendo all'invito di Vanna, non volle uscire dall'ambito delle sue competenze:
— I paladini erano, per principio e dovere, difensori della fede, e Orlando fece della sua croce una spada a Roncisvalle. Anche l'imperatore Carlomagno combattè le sue più grandi battaglie contro i Saraceni - e, non avendo altro da aggiungere, tornò a sorridere, felice di sentirsi vivere in quell'ambiente signorile, felice che Vanna, tenendo fra le dita gemmate un coltellino dal manico d'oro, togliesse per lui dal trionfo centrale una bella pesca candita.
Prima di rientrare in seminario, Ermanno doveva intrattenersi con Bindo Ranieri, giacchè monsignore desiderava che il giovane si addestrasse negli affari e si rendesse conto esatto della sua posizione finanziaria. Molte cose monsignore desiderava di cui Ermanno non riusciva ancora a misurare la portata: desiderava che l'allievo Monaldeschi si recasse in famiglia ogniqualvolta i regolamenti non si opponevano, raccomandando a Vanna di adunare in quelle circostanze degni invitati per far corona e tener desto lo spirito del bravo Ermanno; aveva desiderato, quasi imposto, che il giovane si recasse a Roma per licenziarsi, quantunque ciò non fosse strettamente necessario. Pareva che monsignore, senza pronunciare sillaba, senza fare il menomo gesto, s'industriasse di avviar pian piano il chierico Monaldeschi verso il portone di uscita del seminario; ma nessuno avrebbe potuto dire se questo era veramente nelle secrete intenzioni di monsignore, ed Ermanno di nulla sospettava, preferendo anzi, nei momenti di dubbio, chiudersi in sè o confidare in vaghi accenni e sconfortati monosillabi, le sue ansie penose alla dolce madre che lo adorava.
Ella si copriva in volto di pallore a tali incertezze del figliuolo, e, giungendo le mani, gli rivolgeva suppliche ardenti di non lasciarsi traviare dal demonio sempre in agguato, di non renderle amara la vita disertando ignominiosamente; e, con tutta la forza del suo mite cuore, spingeva l'unico figlio, l'erede unico del nome, l'unico sostegno della sua casa, l'unico fiore della sua anima, a rinnegare la vita, a cingersi di tristezza e solitudine.
Questo voleva il signore Iddio nella sua giustizia implacabile, perchè i peccati le fossero rimessi, perchè la redenzione finale non le venisse negata; ma questo dispiaceva enormemente a «madamigella grano di pepe», la quale, nella sua inconcepibile ignoranza profana dei supremi decreti, si ostinava a riguardare il seminario come una prigione e il brutto don Vitale come un animalaccio grottesco dalle orecchie di asino e il cervello di pulcino.
Essa odiava don Vitale appassionatamente e coltivava in sè il malefico vizio di prendersi dal capo i suoi inconsistenti pensieri e di esporli al biasimo altrui senza veli, senza ordine; così fu che, mentre Ermanno scendeva la scaletta del giardino per recarsi nella sala a pianterreno, in cui aveva convegno d'affari con Bindo, madamigella gli si parò contro e gli disse, continuando un discorso iniziato già tra sè, in forma di soliliquio:
— Mi pareva una bestiaccia nel mangiare e un bestione nel discorrere.
— Di chi parli? - Ermanno domandò, ridendo schiettamente nel vederla, giacchè ella si era già immerso il cappello comèta nel viluppo dei riccioli e il cappello comèta le era già andato di traverso.
Madamigella non rispose alla interrogazione di Ermanno e seguendo il corso celere de' suoi pensieri, gli chiese invece:
— Perchè non sei venuto a tavola vestito da uomo?
— Si dice vestito da secolare - egli corresse e, nella giocondità impulsiva de' suoi vent'anni, provava una grande tentazione di tirarle la coda del cappellino comèta.
— Allora perchè non sei venuto a tavola vestito da secolare? Ti ho visto lì, da quella finestra, vestito da secolare, quando sei arrivato, mi piacevi di più, eri più bello.
— Che bisogno c'è di essere belli? Non basta essere buoni? - Ermanno disse, ridendo sempre e ipnotizzato dalla coda mobile del cappellino.
— Sì, c'è bisogno di essere belli per essere buoni. La gente brutta è maligna.
— E tu? Cosa sei tu?
Ella agitò il capo e si mise a ridere.
Mio Dio! quale domanda! Serena era Serena «madamigella grano di pepe», la signorina Domirò, la farfallina del buon Dio, era tante persone in una persona sola; ma non era don Vitale e lo proclamò con orgoglio.
— Lascialo in pace - Ermanno esclamò, e poichè l'azzurro del cielo sorrideva tra i veli rosei del tramonto e la statua bianca di Psiche faceva capolino dalla nicchia, amorosamente, e le foglie morte, ammassate ne' viali, bisbigliavan tra loro, forse scherzando, poichè le cose intorno si mostravano tutte semplici e gaie, i vent'anni del chierico presero ardire, insorsero, si sparpagliarono e lo indussero ad allungar la mano, ad afferrare la coda della comèta ed a fuggire pel giardino, agitando nell'aria il trofeo.
Serena lo rincorreva con alti gridi, e il tripudio le dava ali. Che bellezza, Ermanno giuocava, Ermanno correva!
— Stupido, stupidone! - essa gli gridava - fermati, ridammi il mio cappello.
Ermanno glielo buttò in faccia allo svolto di un viale.
Sull'ingresso della saletta a pianterreno, Vanna guardava il giuoco, commossa per l'allegrezza del caro figliuolo, che le si abbattè sul cuore, e che ella baciò in fronte al cospetto delle rosee nubi e degli alberi.
Che bellezza, Ermanno le tornava piccolo, Ermanno era proprio il suo figliuolo e l'abbracciava e si lasciava baciare!
Bindo Ranieri, più indietro, batteva le mani, ed era così felice che la sua larga faccia appariva più larga, più lustra; ma la felicità è imprudente.
Egli disse:
— Senza la sottana il signor Ermanno potrebbe correre meglio!
Furono parole di gelo: Vanna si rivolse per istinto al figlio con terrore ed il chierico assunse una fisonomia chiusa e rigida, per dire a Bindo Ranieri:
— Andiamo; è tardi - ed entrarono nella saletta, chiudendo senza riguardi la porta sul nasino ardito e scontento di madamigella, che, a passi tardi, si recò a prendere zia Domirò.
Nell'interno della saletta, Bindo Ranieri in piedi e a capo scoperto di fronte a Ermanno, che stava seduto vicino al tavolo, rendeva conto trionfante della sua gestione.
Vanna, con la fronte appoggiata ai cristalli della finestra, non ascoltava nemmeno, lieta che il figliuolo dirigesse i comuni interessi, e, ripensando con ironia benevola alla boccuccia infantile del professore bébé, una tumida boccuccia di bimbo ghiotto, ma insinuante, suadente nel sorriso e nella parola.
Bindo Ranieri esponeva con ampiezza la situazione, in bene costrutte frasi e meditati gesti.
— Ecco, signorino Ermanno, noi nel bilancio della nostra azienda abbiamo avuto l'attivo invariabilmente superiore al passivo e, per conseguenza, il capitale si è impinguato.
Dentro la saletta non faceva caldo, nè Bindo Ranieri soffriva di corizza; ma egli sentì nonpertanto il bisogno di soffiarsi il naso, quantunque secco e di asciugarsi il volto, quantunque asciutto. Compiva tali atti di disinvoltura per senso di modestia, per non darsi l'aria di mendicare elogi dal nobile Ermanno Monaldeschi, il quale non pensava a largirgliene, trovando naturalissimo che, quando le spese rimangono inferiori all'entrata, il capitale s'impingui.
Bindo Ranieri proseguì:
— Io, e ambirei che in questo lei fosse del mio parere, non ho tenute inoperose le eccedenze; ma le ho investite e rese fruttifere. Spero che di questo lei non mi disapproverà.
Il nobile signorino infatti annuì con moto del capo e, francamente, nessuno al suo posto avrebbe potuto esprimere segni di malcontento o disapprovazione.
— Ma, per queste eccedenze e relativi frutti, ho tenuto a parte una contabilità, nella previsione di circostanze straordinarie, quali sarebbero ingrandimento o cambiamento di abitazione, rinnovamento di arredi, viaggi, festeggiamenti, battesimi o altre consimili circostanze - e si raschiò la voce e rise un poco, senza volerlo, giacchè matrimonii, battesimi o altre consimili bazzecole gli prudevan la gola di continuo e, se talora riuscivano ad aprirsi il varco con la parola, Bindo Ranieri ne provava incomparabile sollievo; ma viceversa Ermanno si alzò, chiuse i registri, disse che tutto andava bene e mandò a cercare di don Vitale, che doveva ricondurlo in seminario, essendo, per regolamento, vietato ai chierici di uscir soli in abito di seminaristi.
Una collera sorda si era ammassata improvvisamente nel cuore di Ermanno, ed egli sentiva i discorsi di Pericle Ardenzi le risate di Serena, le sciocchezze di Bindo Ranieri pesargli addosso e schiacciarlo; onde gustò il benessere di una liberazione, gettando via queste frivolità, inutile fardello, presso la soglia pia del seminario.
Le camerate si trovavano ancora a passeggio; le scale ed i corridoi giacevano deserti, muti, nel mistero del crepuscolo; il balconcino, in fondo, sembrava affacciarsi sopra i confini dell'universo, la campana del Duomo mandava la eco de' suoi gravi rintocchi, ed Ermanno ritrovava se stesso nei placidi pensieri e la fede limpida.
— È permesso, signor rettore? - egli chiese, spingendo appena il battente di una porticina a destra.
— Avanti, avanti, figliuolo mio - la porta fu spalancata; e monsignore si presentò, aprendo le braccia per un amplesso paterno.