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In morte di Lorenzo Mascheroni (1831)/Canto IV

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Canto Quarto

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Canto III Canto V
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Canto Quarto


Sacro di patria amor che forza acquista,
Ed eterno rivive oltre l’avello
3(Cominciò l’alto insubre economista);

Desío che pure ne’ sepolti è bello
Di visitar talvolta, ombra romita,
6Le care mura del paterno ostello;

E con gli affetti della prima vita
Le vicende veder di quel pianeta
9Che l’alme al fango per patir marita;

Mi fean pocanzi abbandonar la lieta
Regïon delle stelle: e il patrio nido
12Fu dolce e prima del mio vol la meta.

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Per tutto armi e guerrier, tripudio e grido
Di libertà; per tutto e danze e canti,
15Ed altari alle Grazie ed a Cupido,

E operose officine, e di volanti
Splendidi cocchi fervida la via,
18E care donne e giovinetti amanti,

Sclamar mi fenno a prima giunta: Oh mia
Gentil Milano, tu sei bella ancora!
21Ancor bella e beata è Lombardia!

Poi nell’ascoso penetrai (che fuora
Sta le più volte il riso e dentro il pianto),
24E venir mi credei nell’Antenora,

Nella Caìna, o s’altro luogo è tanto
Maladetto in inferno, ove raccoglia
27Tutte insieme le colpe Radamanto.

Dell’albergo fatal guardan la soglia
Le cabale pensose e l’Impostura
30Che per vestirsi la Virtù dispoglia,

La fraude che si tocca il petto e giura,
La fallace amistà che sul tuo danno
33Piange e poi t’abbandona alla ventura.

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Carezzanti negli atti in volta vanno
Le bugiarde promesse, accompagnate
36Dalle garrule ciance e dall’inganno.

Sta fra le valve, a piè profan vietate
Il Favor che bifronte or apre, or chiude,
39E dice all’un: Non puossi; e all’altro: Entrate.

Su e giù sospinte le speranze nude
Van zoppicando, e inseguele per tutto
42Colei che tutte le speranze esclude.

Con umil carta in man, lurido e brutto,
Grida il Bisogno, e sua ragione apporta;
45Ma duro niego de’ suoi gridi è il frutto:

Chè voce di ragion là dentro è morta,
E de’ pieni scaffali tra le borre
48Dorme giustizia in gran letargo assorta;

Nè dall’alto suo sonno la può sciorre
Che il sonante cader di quella piova
51Che fe’ lo stupro dell’acrisia torre.

Quest’io vidi nell’antro in cui si cova
Della patria il dolor, che con grand’arte
54Tutto giorno si affina e si rinnova

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Tal che, guasta il bel corpo d’ogni parte,
Trae già l’ultimo fiato, e muore in culla
57La figlia del valor di Buonaparte.

Circuisce la misera fanciulla
Multiforme di mostri una congréga
60Che la sugge, la spolpa e la maciulla:

Il Furto, ch’al Poter fatto è collega;
Tirannia, che col dito entro gli orecchi,
63Scostati, grida alla Pietà che prega;

Ignoranza, che losca fra gli specchi
Banchetta, e l’osso che non unge, arcigna
66Getta al merto giacente in su gli stecchi:

E la patria frattanto, empia matrigna,
Nega il pane a’ suoi figli, e a tal lo dona
69Stranier, cui meglio si daría gramigna.

Mossi più addentro il piede; e in logra zona
Vidi l’inferma che Finanza ha nome,
72Che scheletro pareva e non persona.

Colle man disperate entro le chiome
Guarda i vuoti suoi scrigni, e stupefatta
75Cerca e non trova dell’empirli il come.

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Or la Forza le invia fusa e disfatta
La pubblica sostanza, or la meschina
78Perdendo merca e supplicando accatta.

Scorre a fiumi il danaro, e la rapina,
Di color mille a cento man, l’ingozza
81E giù nell’ampio ventre lo ruina

Con sì gran fretta, che talor la strozza
Tutto nol cape, e il vome, e vomitato
84Lo ricaccia nell’epa e lo rimpozza:

Nè del pubblico sazia, anco il privato
Aver divora; e il vede e lo consente
87Suprema e muta Autorità di Stato.

Chiusa e stretta da Forza prepotente
(Dolce interruppe allor Lorenzo), e in forse
90Di maggior danno, e inerme e dependente,

Che far poteva Autorità? Deporse,
Gridò fiero Parini:1 e, steso il dito,
93Gli occhi e la spalla brontolando torse.

Strinse allora le labbia in sè romito
Dei delitti il sottil ponderatore;
96E, - Fu giusto, poi disse, il tuo garrito.

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Forza li vinse: e che può forza in core
Che verace virtute in sè raduna?
99Cede il giusto la vita e non l’onore;

L’onor su cui nè strale di fortuna,
Nè brando nè tiranno nè lo stesso
102Onnipossente non ha possa alcuna.

Qual madre che del figlio intende espresso
Grave fallo, si tace e non fa scusa,
105Ma china il guardo per dolor dimesso,

E tutta volta col tacer l’escusa;
Tal si fece Lorenzo, mansueta
108Alma cortese a perdonar sol usa.

Ma col cenno del capo il fier poeta
Plause a quel dir, che il generoso fiele
111De’ bollenti precordii in parte acqueta.

Aprì di nuovo al ragionar le vele
Verri frattanto, e non ancor, soggiunse,
114Tutto scorremmo questo mar crudele.

Poichè protetta la Rapina emunse
Del popolo le vene, e di ben doma
117Putta sfacciata il portamento assunse:

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La meretrice che laggiù si noma
Libertà depurata iva in bordello
120Coi vizj tutti che dier morte a Roma.

Alla fronte lasciva era cappello
Il berretto di Bruto, ma di serva
123Avea gli atti, il parlare ed il mantello.

E la seguĺa di drudi una caterva,
Che da questa d’Italia a quella fogna
126A fornicar correa colla proterva.

Altri perduta nel peccar vergogna,
Fuggì la patria no ma il manigoldo;
129Altri è resto di scopa, altri di gogna:

Qual repe e busca ruffianando il soldo;
Qual è spia; qual il falso testimonio
132Vende pel quarto e men d’un Leopoldo.

Quei chiede un Robespier che il sangue ausonio
Sparga, e le funi e la Senavra impetra
135Con questi che biscazza il patrimonio.

V’ha, ventoso raschiator di cetra,2
Il pudor caccia e sè medesmo in brago,
138E segnato da Dio corre alla Vetra.

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V’ha chi salta in bigoncia dallo spago;
V’ha chi versuto ciurmador le quadre
141Muta in tonde figure, e non è mago.

Disse rea d’adulterio altri la madre,
E di vile semenza di convento
144Sparso il solco accusò del proprio padre.

Altri è schiuma di prete, e, fraudolento3
De’ galeotti aringator, per fame
147Va trafficando Cristo in sacramento.

Tutto è strame letame e putridame
D’intollerando puzzo, e lo fermenta
150Tutto quanto de’ vizi il bulicame.

E questa ciurma ell’è colei che addenta
I migliori, colei che tuona e getta
153D’Itala libertà le fondamenta?

Oh inopia di capestri! oh maladetta
Lue cisalpina! oh patria! oh giusto Iddio!
156Perchè pigra in tua mano è la saetta?

Terror mi prese a tanto; e nell’obblìo
Del mio stato immortale, al patrio tetto
159Per celarmi, tremante il piè fuggío.

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Oh mia dolce consorte! oh mio diletto
Fratello! Oh quanto nell’udir mi piacqui
162Da voi nomarmi coll’antico affetto!

E ricordar siccome amai, nè tacqui
La pubblica ragion, sin che già franta
165De’ buon la speme, addio vi dissi, e giacqui!

Piansi di gioia nel veder cotanta
Carità della patria, e come intera
168De’ miei figli nel cor la si trapianta.

Ed io vana allor corsi ombra leggera,
E gli strinsi, e sentii tutta in quel punto
171La dolcezza di padre, e più sincera:

Ma il tenero lor petto al mio congiunto
Ahi! quell’amplesso non intese, e invano
174Vivi corpi abbracciai, spirto defunto.

Mi staccai da’ miei cari; e di Milano
Ratto fuggendo, a quel sordo mi tolsi
177Delle lagrime altrui gonfio oceáno.

Città discorsi e campi; e pria mi volsi
Al longobardo piano, ove superbe
180Strinser catene al re de’ franchi i polsi,4

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E il villan coll’aratro ancor tra l’erbe
Urta le gallic’ossa, e quell’aspetto
183Par che ’l natío rancor gli disacerbe.

Vidi ’l campo ove Scipio giovinetto5
Contro i punici dardi allo spirante
186Padre fe’ scudo del roman suo petto:

Vidi l’umil Agogna intollerante
Del suo fato novel: vidi la valle
189Cui nome ed ubertà fa la sonante

Sesia. Di là varcai per arduo calle
L’Alpe che il nutritor di molte genti
192Verbano adombra colle verdi spalle.

Quindi del Lario attinsi le ridenti
Rive e la terra ove alla luce aprìrsi
195I solerti di Plinio occhi veggenti,

Ed or l’odi di Volta insuperbirsi,
Che vita infonde pe’ contatti estremi
198Di due metalli6 (maraviglia a dirsi!)

Nei membri già di pelle e capo scemi
Delle rauche di stagno abitatrici,
201E di Galvan ricrea gli alti sistemi.

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I placidi cercai poggi felici
Che con dolce pendío cingon le liete
204Dell’Eupili lagune irrigatrici;

E nel vederli mi sclamai: salvete,
Piagge dilette al Ciel, che al mio Parini
207Foste cortesi di vostr’ombre quete,

Quando ei fabbro di numeri divini,
L’acre bile fe’ dolce, e la vestía
210Di tebani concenti e venosini.7

Parea de’ carmi tuoi la melodìa
Per quell’aure ancor viva, e l’aure e l’onde
213E le selve eran tutte un’armonìa.

Parean d’intorno i fior, l’erbe, le fronde
Animarsi e iterarmi in suon pietoso:
216Il cantor nostro ov’è? chi lo nasconde?

Ed ecco in mezzo di ricinto ombroso
Sculto un sasso funébre8 che dicea:
219AI SACRI MANI DI PARIN RIPOSO.

Ed una, non so se donna o dea,
(Tese l’orecchio, e fiammeggiando il Vate
222Alzò l’arco del ciglio, e sorridea)

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Colle dita venìa bianco-rosate
Spargendolo di fiori e di mortella,
225Di rispetto atteggiata e di pietate.

Bella la guancia in suo pudor; più bella
Su la fronte splendea l’alma serena,
228Come in limpido rio raggio di stella.

Poscia che dati i mirti ebbe a man piena,
Di lauro, che parea lieto fiorisse
231Tra le sue man, fe’ al sasso una catena;

E un sospir trasse affettuoso, e disse:
Pace eterna all’Amico: e te chiamando
234I lumi al cielo sì pietosi affisse,

Che gli occhi anch’io levai, certa aspettando
La tua discesa. Ah qual mai cura, o quale
237Parte d’Olimpo ratteneati, quando

Di que’ bei labbri il prego erse a te l’ale?
Se questa indarno l’udir tuo percuote,
240Qual altra ascolterai voce mortale?

Riverente in disparte alle devote
Ceremonie assistea colle tranquille
243Luci nel volto della donna immote,

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Uom d’alta cortesia, che il ciel sortille,
Più che consorte, amico. Ed ei che vuole
246Il voler delle care alme pupille,

Ergea d’attico gusto eccelsa mole,
Sovra cui d’ogni nube immacolato
249Raggiava immemor del suo corso il sole.

E AMALIA la dicea dal nome amato
Di costei che del loco era la Diva,
252E più del cor che al suo congiunse il fato.

Al pio rito funébre, a quella viva
Gara d’amor mirando, già di mente
255Del mio gir oltre la cagion m’usciva.

Mossi al fine; e quei colli ove si sente
Tutto il bel di natura, abbandonai,
258L’orme segnando al cor contrarie e lente.

Vagai per tutto: nel tugurio entrai
Dell’infelice, e il ricco vidi in grembo
261Dell’auree case più infelice assai.

Salii, discesi, e risalii lo sghembo
Sentier di balze e fiumi: e il mio cammino
264Oltre l’Adda affrettando ed oltre il Brembo,

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Alla tua patria giunsi, o pellegrino
Di Bergamo splendor, che qui m’ascolti;
267E mesta la trovai del repentino

Tuo dipartire, e lagrimosi i volti
Su la morte di Lesbia illustre salma,
270Che al cielo i vanni per seguirti ha sciolti.

(Brillò di gaudio a quell’annunzio l’alma
Dell’amoroso geométra, e uscire
273Parve alcun poco dell’usata calma;

E già surto partìa, per lo desire
Di riveder quel volto che le penne
276Di Pindo ai voli gli solea vestire;

Ma dignitosa coscienza il tenne,
E il narrar grave di quell’altro saggio,
279Che precorso un sorriso, così venne

Seguitando il suo dir) Dritto il viaggio
Di là volsi al terren che il Mela irriga,
282Ricco d’onor, di ferro e di coraggio.

Quindi al Benaco che dal vento ha briga
Pari al liquido grembo d’Amfitrite
285Quando irato Aquilon l’onde castiga.

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Quindi al fiume, ove tardi diffinite
Fur l’italiche sorti,9 e non del duce,
288Ma de’ condotti il cor vinse la lite.

E l’Adige seguii fino alla truce
Adria, ove stanchi già del lungo corso
291Trenta seguaci il re de’ fiumi adduce.

Tutto in somma il paese ebbi trascorso
Che alla manca del Po tra ’l mare e ’l monte
294Sente de’ freni cisalpini il morso.

E di dolore, di bestemmie e d’onte
Per tutto intesi orribili favelle,
297Che le chiome arricciar mi feano in fronte:

Pianto di scarna plebe a cui la pelle
Si figura dall’ossa, e per le vie
300Famelica suonar fa le mascelle;

Pianto d’orbi fanciulli e madri pie,
D’erba e d’acqua cibate, onde di mulse
303E d’orzo sagginar lupi ed arpie;

Pianto d’attrite meschinelle, avulse
Ai sacri asili, e con tremanti petti
306Di porta in porta ad accattar compulse;

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Pianto di padri, ahi lassi! a dar costretti
L’aver la dote e tutto, anche le poche
309Care memorie de’ più sacri affetti:

Cupi sospiri e voci or alte or fioche
Di tutte genti, per gridar pietade
312E per continuo maledir già roche.

D’orror fremetti; e venni alla cittade
Che dal ferro si noma. O dalle Muse
315Abitate mai sempre alme contrade,

Onde tanta pel mondo si diffuse
Itala gloria, e tal di carmi vena
318Che non Ascra, non Chio la maggior schiuse!10

D’onor di cortesia nutrice arena
Come giaci deserta! e dal primiero
321Splendor caduta, e di squallor sol piena!

Questi sensi io volgea nel mio pensiero,
Quando un’ombra m’occorse alla veduta
324Mesta sì, ma sdegnosa e in atto altero.

Sovresso un marmo sepolcral seduta
Stava l’afflitta, e della manca il dosso
327Era letto alla guancia irta e sparuta.

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Ombrosa avea di lauro non mai scosso
La spaziosa fronte, e sui ginocchi
330Epico plettro, che dall’aura mosso

Dir fremendo parea: nessun mi tocchi.
Ver lei mi spinsi, e dissi: O tu che spiri
333Dolor cotanto e maestà dagli occhi,

Sodisfammi d’un detto a’ miei desiri;
Parlami ’l nome tuo, spirto gentile,
336Parlami la cagion de’ tuoi sospiri,

Se nulla puote onesto prego umile.



Note

  1. [p. 118 modifica]Narrasi a questo proposito un molto curioso aneddoto. Il consiglio legislativo della Cisalpina, di cui Parini era membro, teneva la sua adunanza nello stesso luogo dove siedeva l’antica Cameretta e dov’eravi un gran crocifisso, che un giorno alcuno di quegli esaltati repubblicani fece levar via. Giunto Parini e non vedendo più il crocifisso, chiese fieramente ai colleghi; Dov’è il cittadino Cristo? Al che eglino, ridendo e motteggiando, risposero averlo fatto riporre altrove perchè non aveva più nulla a fare colla nuova repubblica. Ma l’austero poeta soggiunse: ebbene, quando non c’entra più il cittadino Cristo, non c’entro più nemmen’io. E si dimise immediatamente dal suo ufficio.
  2. [p. 118 modifica]L’accocca di nuovo al Gianni cui dice: segnato da Dio perchè era gobbo. Vetra, piazza in Milano dove si faceva giustizia de’ malfattori.
  3. [p. 119 modifica]Fu in que’ tempi di depravata libertà in cui si videro preti e frati apostatare tra le oscene danze intorno all’albero della libertà; o predicare intolleranti e feroci principj d’irreligione e di scostumatezza.
  4. [p. 119 modifica]Nelle campagne di Pavia accadde la famosa battaglia in cui Francesco I, re di Francia, fu fatto prigioniero dall’esercito di Carlo V.
  5. [p. 119 modifica]Accenna la battaglia del Ticino, trionfata da Annibale, in cui restò ucciso Paolo Emilio, del quale Scipione affricano era figliuolo adottivo.
  6. [p. 119 modifica]La teoria del magnetismo animale e dell’elettricità del Galvani, perfezionata dal Volta colla sua prodigiosa invenzione della pila, a cui applicata una rana scorticata e senza capo, fa a un di presso gli stessi salti come se fosse viva.
  7. [p. 120 modifica]Dicesi che Amfione edificasse le mura di Tebe col suono della sua cetra. Allude fors’anco a Pindaro, ei pure tebano. Orazio al quale il Parini, più che ad ogni altro, somiglia nelle sue odi, era di Venosa.
  8. [p. 120 modifica]Da’ cultori di tanto poeta singolare gratitudine merita l’avvocato Rocco Marliani, che a Erba, nello splendido ed elegante edifizio della sua villa Amalia, consacrò un monumento allo spirito dell’amico suo. La tomba è protetta da una macchia di lauri, e il sole cadente manda cogli ultimi suoi raggi sovr’essa la lung’ombra di un antico cipresso. Esce da un organo sotterraneo un suono melanconico, inaspettato dal passaggiere. Nel monumento v’è ’l busto in marmo del poeta, e nella lapide leggonsi scolpiti que’ suoi versi:

    Qui ferma il passo, e attonito
    Udrai del tuo Cantore
    Le commosse reliquie
    Sotto la terra argute sibilar.

    E chi da quella collina volge l’occhio al lago di Pusiano, vede la terra (di Bosisio) ove nacque il Parini, e il vago Eupili (il lago anzidetto) ch’egli cantò, e dov’ei cercava conforto alle sue membra afflitte dalla infermità, e riposo all’animo suo, stanco della fortuna e del mondo.

    Prefazione dell’Editore dei Sepolcri di Ugo Foscolo, ec. Brescia, 1808.

  9. [p. 121 modifica]All’Adige dove Scherer fu vinto dagli austriaci.
  10. [p. 121 modifica]Ascra, villaggio della Beozia sacro alle Muse e patria di Esiodo. Chio una tra le sette contendenti per la patria di Omero.