Istoria del Concilio tridentino/Libro primo/Capitolo V
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CAPITOLO V
(ottobre 1534-1538).
[Elezione di Paolo III. — Suoi propositi circa il concilio. — Critiche destate dalla nomina di due nipoti a cardinali. — Invio di nunzi ai principi. — Il Vergerio in Germania: inutili trattative coi protestanti e con Lutero. — Insistenza della dieta di Smalcalda per un concilio in Germania. — Di ritorno a Roma il Vergerio persuade il papa che solo una guerra può debellare l’eresia. — Carlo V a Roma; il papa insiste per la guerra, egli pel concilio. — Bolla di convocazione del concilio a Mantova. — Propositi di riforme nella curia romana. — Inutili tentativi di Carlo V perché i protestanti partecipino all’indetto concilio. — Difficoltá messe innanzi dal duca di Mantova: bolla di dilazione del concilio. — Protesta di Enrico VIII contro la convocazione. — Le riforme della curia discusse in concistoro e differite. — Nuova convocazione del concilio a Vicenza e nuova protesta di Enrico VIII. — Infruttuoso convegno a Nizza del papa con Carlo V e col re di Francia. — Bolla di scomunica contro Enrico VIII.]
Nelle vacanze della Sede è costume delli cardinali comporre una modula de capitoli per reforma del governo pontificio, la quale tutti giurano servare se saranno assonti al pontificato, quantunque per tutti li esempi passati si è veduto che ciascuno giura con animo di non servarli, se sará papa; e subito creato, dice di non aver potuto obbligarsi, e coll’acquisto del pontificato esserne sciolto. Morto Clemente, secondo il costume furono ordinati li capitoli, fra’ quali uno fu che il futuro papa fosse tenuto in termine d’un anno convocar il concilio. Ma li capitoli non poteron essere stabiliti e giurati, perché quel medesimo giorno dei 12 ottobre, nel quale fu serrato il conclave, sprovvistamente fu creato pontefice il Cardinal Farnese, chiamato prima nella creazione Onorio V, e poi nella coronazione Paulo III; prelato ornato di buone qualitá, e che fra tutte le sue virtú, di nessuna faceva maggior stima che della dissimulazione. Egli, cardinale esercitato in sei pontificati, decano del collegio e molto versato nelle negoziazioni, non mostrava di temer il concilio come Clemente, anzi era d’opinione che fosse utile per le cose del pontificato mostrare di desiderarlo e volerlo onninamente, essendo certo che non poteva essere sforzato di farlo con modo ed in luoco dove non vi fosse suo avvantaggio, e che quando avesse bisognato impedirlo, era assai bastante la contradizione che li averebbe fatto la corte e tutto l’ordine ecclesiastico. Giudicava che questo li avesse anco dovuto servire per tener la pace in Italia, la quale li pareva molto necessaria per poter governare con quiete. Vedeva benissimo che questo colore di concilio li poteva servir a coprire molte cose, e al scusarsi dal far quelle che non fossero state di sua volontá. Per il che, subito creato, si lasciò intendere che, quantunque li capitoli non fossero giurati, egli nondimeno era risoluto di voler osservare quello della convocazione del concilio, conoscendola necessaria per la gloria di Dio e beneficio della Chiesa: e a’ 16 dello stesso mese fece congregazione universale del li cardinali (che non si chiama consistoro, non essendo ancora il papa coronato), dove propose questa materia. Mostrò con efficaci ragioni che la intimazione non si poteva differire, essendo altrimente impossibile che fra principi cristiani potesse seguire buona amicizia e che le eresie potessero essere estirpate, e però che li cardinali tutti dovessero pensare maturamente sopra il modo di celebrarlo. Deputò anche tre cardinali che considerassero sopra il tempo e il luoco e altri particolari, con ordine che, fatta la coronazione, nel primo consistoro dovessero andare col loro parere. E per incominciar a far nascere le contradizioni, delle quali potesse servirsi alle occasioni, soggionse che sí come nel concilio s’averebbe riformato l’ordine ecclesiastico, cosí non era conveniente che vi fosse bisogno di reformar li cardinali; anzi era necessario che essi cominciassero allora a riformarsi, per essere sua deliberata volontá di cavare frutto dal concilio, li precetti del quale sarebbono di poco vigore, se nelli cardinali non si vedessero prima gli effetti.
Secondo il costume che nei primi giorni li cardinali, massime grandi, ottengono dal nuovo pontefice facilmente grazie, il Cardinal di Lorena ed altri francesi, per nome ancora del re, gli dimandarono che concedesse al duca di Lorena la nominazione delli vescovati ed abbazie del suo dominio: la qual cosa s’intendeva anco che era per dimandar la repubblica di Venezia delli suoi. Rispose il pontefice che nel concilio, qual in breve doveva celebrare, era necessario levare tal facoltá di nominazione a quei prencipi che l’avevano, non senza nota delli pontefici predecessori suoi che le hanno concesse: per il che non era cosa ragionevole accrescer il cumulo delli errori e conceder allora cosa, che era certo dover essere rivocata fra poco tempo con poco onore.
Nel primo consistorio, che fu alli 13 novembre, tornò a ragionare del concilio, e disse esser necessario inanzi ad ogni altra cosa ottener un’unione dei principi cristiani, o veramente una sicurezza che per il tempo che durerá il concilio non si moveranno le arme: e però voleva mandar nonci a tutti li prencipi per negoziare questo capo, e altri particolari che li cardinali avessero raccordato. Chiamò anco il Vergerio di Germania, per intendere bene lo stato delle cose in quelle provincie: e deputò tre cardinali, uno per ciascun ordine, a consultare le cose della reforma. Li quali furono il cardinale di Siena, di San Severino e Cesis. Né mai celebrava consistoro che non intrasse e parlasse longamente di questa materia; e spesso replicava essere necessario però che prima si reformasse la corte e massime i cardinali: il che da alcuni veniva interpetrato essere detto con buon zelo e desiderio dell’effetto, da altri acciò la corte e li cardinali trovassero modi, per non venir alla riforma, di metter impedimenti al concilio: e ne prendevano argomento perché, avendo deputato li tre cardinali, non aveva eletto né li piú zelanti né li piú esecutivi, ma li piú tardi e quieti che fossero nel collegio.
Ma il seguente mese di decembre diede piú ampia materia alli discorsi, perché creò cardinali Alessandro Farnese, nepote suo, di Pietro Aloisio figlio suo naturale, e Guido Ascanio Sforza, nepote per Costanza sua figliuola, quello di quattordici e questo di sedici anni, rispondendo a chi considerava la loro tenera etá che egli suppliva con la sua decrepitá. L’opinione concepita che si dovesse vedere riforma de cardinali, e il timore di alcuni di essi, svaní immediate, non parendo che d’altrove potesse esser incominciata che dall’etá e nascimento di quelli che si dovevano creare. Cessò anco il pontefice di piú parlarne, avendo fatto un’opera che l’impediva il mascherare la mente propria: restava però in piedi la proposizione di far il concilio.
E nel consistoro dei 15 gennaro 1535 fece una longhissima ed efficacissima orazione, eccitando li cardinali a venir a resoluzione di quella materia, perché, procedendosi cosí lentamente, si dava ad intender al mondo che in veritá il concilio non si volesse, ma fossero parole e pasto dato: e parlò con cosí gravi sentenzie, che commosse tutti. Fu deliberato in quel consistoro di spedire nonzi a Cesare, al Cristianissimo e ad altri principi cristiani, con commissione di esporre che il pontefice ed il collegio avevano determinato assolutamente, per beneficio della cristianitá, di celebrarlo, con esortargli a favorirlo ed anco ad assicurare la quiete e tranquillitá mentre si celebrará; ma quanto al tempo e luoco, di dire che Sua Santitá non era ancora risoluta. E portava anco la instruzione loro piú secreta che vedessero destramente di sottrar qual fosse la mente delli principi quanto al luoco, a fine di potere, saputi li interessi e fini di tutti, opporre l’uno all’altro per impedirli, e metter ad effetto il suo. Commise anco alli nonci di querelarsi delle azioni del re d’Inghilterra, e quando vedessero apertura, incitarli contra lui ed offrirli anco quel regno in preda.
Tra questi nonci fu uno il Vergerio, rimandato con piú speciali commissioni in Germania per penetrare la mente delli protestanti circa la forma del trattare nel concilio, per poterli fare sopra li reflessi necessari. Li commise anco specialmente di trattare con Lutero e con li altri principali predicatori della rinnovata dottrina, usando ogni sorte di promesse e partiti di ridurli a qualche composizione. Riprendeva il pontefice in ogni occasione la durezza del Cardinal Gaetano, che nella dieta di Augusta del 1518 rifiutasse il partito proposto da Lutero, che, imposto silenzio agli avversari suoi, si contentava esso ancora di tacere; e dannava l’acerbitá di quel cardinale che, con voler ostinatamente la retrattazione, avesse precipitato quell’uomo in disperazione, la qual diceva essere costata e dover costar cosí cara alla chiesa romana, quanto la metá dell’autoritá sua. Che egli non voleva imitare Leone in questo, che credette li frati esser buoni instrumenti di opprimer li predicatori di Germania: il che la ragione e l’evento aveva mostrato quanto fosse vano pensiero. Non esservi se non due mezzi, la forza e le pratiche: quali egli era per adoperare, essendo pronto a concordare con ogni condizione, la quale riservi intiera l’autoritá pontificia. Per il che anco, dicendo di aver bisogno d’uomini di valore e negozio, creò il 21 maggio sei cardinali, e pochi giorni dopo il settimo, tutti persone di molta stima nella corte: fra’ quali fu Giovanni Fischerio, vescovo roflense, che allora si trovava in prigione in Inghilterra per avere ricusato di aderir al decreto del re nel levar l’autoritá pontificia. Il papa nell’eleggere la sua persona ebbe considerazione che onorava la promozione sua, mettendo in quel numero un uomo litterato e benemerito per la persecuzione che sosteneva, e che avendolo accresciuto di dignitá, si sarebbe il re indotto a portargli respetto, e appresso il popolo sarebbe entrato in credito maggiore. Ma quel cardinalato non giovò in altro a quel prelato, se non ad accelerarli la morte, che li fu data quarantatré giorni dopo, con la troncazione del capo in pubblico.
Ma con tutto che il pontefice facesse cosí aperte dimostrazioni di voler il concilio, in maniera che dovesse dare sodisfazione e ridurre la Germania, nondimeno la corte tutta, e li medesimi intimi del pontefice, e che trattavano queste cose intrinsecamente con lui, dicevano che non poteva essere celebrato altrove che in Italia, perché altrove non sarebbe stato libero, e che in Italia non si poteva elegger altro luoco che Mantova.
Il Vergerlo, ritornato in Germania, fece l’ambasciata del pontefice a Ferdinando prima, e poi a qualunque delli protestanti che andava a trovare quel re per li occorrenti negozi; e finalmente fece un viaggio per trattar anco con gli altri. Da nessuno d’essi ebbe altra risposta, salvo che averebbono consultato insieme nel convento che dovevano ridurre in fine dell’anno, e di comun consenso deliberata la risposta. La proposizione del noncio conteneva che quell’era il tempo del concilio tanto desiderato, avendo il pontefice trattato con Cesare e con tutti i re per ridurlo seriamente, e non come altre volte in apparenzia; e acciò che non si differisca piú, aveva risoluto d’eleggere per luoco Mantova, conforme a quello che giá due anni era stato risoluto con l’imperatore. La qual cittá essendo d’un feudatario imperiale e vicina alli confini di Cesare e de’ veneziani, potevano tenirla per sicura, senzaché il pontefice e Cesare averebbono data ogni maggior cauzione. Non essere bisogno risolvere né parlare del modo e forma di trattrare nel concilio, perché molto meglio ciò si fará in esso quando sará congregato. Non potersi celebrar in Germania, abbondando quella di anabattisti, sacramentari ed altre sette, per la maggior parte pazzi e furiosi; per il che alle altre nazioni non sarebbe sicuro andare dove quella moltitudine è potente, e condannare la sua dottrina. Che al pontefice non sarebbe differenzia di farlo in qualunque altra regione, ma non vuol apparire che sia sforzato e li sia levata quell’autoritá, che ha avuto per tanti secoli, di prescriver il luoco de’ concili generali.
In questo viaggio il Vergerio trovò Lutero a Vittemberg, e trattò con lui molto umanamente con questi concetti, estendendoli e amplificandoli assai. E prima accertandolo che era in grandissima estimazione appresso il pontefice e tutto il collegio de’ cardinali, quali sentivano dispiacere estremo che fosse perduto un soggetto che, implicatosi nelli servizi di Dio e della sede apostolica che sono congionti, averebbe potuto portare frutto inestimabile, che farebbono ogni possibile per racquistarlo, li testificò che il pontefice biasmava la durezza del Gaetano, la quale non era ripresa meno dalli cardinali; che da quella santa sede poteva aspettar ogni favore; che a tutti dispiaceva il rigore col quale Leone procedette per instigazione d’altri e non per propria disposizione. Li soggionse anco che egli non era per disputare con esso lui delle cose controverse, non professando teologia, ma poteva ben con ragioni comuni mostrarli quanto sarebbe bene riunirsi col capo della Chiesa. Perché, considerando che solo giá diciotto anni la dottrina sua era venuta in luce e, pubblicandosi, aveva eccitato innumerevoli sette che l’una detesta l’altra, e tante sedizioni populari con morte ed esterminio d’innumerabili persone, non si poteva concludere che venisse da Dio: ben si poteva tenire per certo che era perniciosa al mondo, riuscendo da quella tanto male. Diceva il Vergerio: è un grande amore di se stesso e una stima molto grande dell’opinione propria, quando un uomo vogli turbare tutto il mondo per seminarla. «Se avete (diceva il Vergerio) innovato nella fede, in quale eravate nato ed educato trentacinque anni, per vostra conscienza e salute, bastava che la tenesti in voi. Se la carità del prossimo vi moveva, a che turbare tutto il mondo per cosa di che non vi era bisogno, poiché senza quella si viveva e serviva Dio in tranquillitá?» La confusione (soggiongeva) è passata tant’oltre che non si può differir piú il rimedio. Il pontefice è risoluto applicarlo con celebrar il concilio, dove convenendo tutti gli uomini dotti di Europa, la veritá sará messa in chiaro a confusione delli spiriti inqueti: e ha destinato perciò la cittá di Mantova. E se bene nella divina bontá conviene avere la principale speranza, mettendo anco in conto le opere umane, in potestá di Lutero è fare che il rimedio riesca facile, se vorrá ritrovarsi presente, trattare con caritá e obbligarsi anco il pontefice, principe munificentissimo e che riconosce le persone meritevoli. Raccordò l’esempio di Enea Silvio che, seguendo le proprie opinioni con molta servitú e fatica, non si portò piú oltre che ad un canonicato di Trento; ma mutato in meglio, fu vescovo, cardinale e finalmente papa Pio II. Li raccordò Bessarione niceno, che d’un misero Caloiero da Trabisonda diventò cosí grande e riputato cardinale, e non molto lontano dal succeder papa.
Le risposte di Lutero furono, secondo il naturale costume suo, veementi e concitate, con dire che non faceva nissuna stima del conto in che fosse appresso la corte romana, de quale non temeva l’odio né curava la benevolenzia; che nelli servizi divini s’implicava quanto poteva, se bene con riuscita di servo inutile; che non vedeva come fossero congionti a quei del pontificato, se non come le tenebre alla luce; nessuna cosa nella vita sua essergli stata piú utile che il rigore di Leone e la durezza del Gaetano, quali non può imputare a loro, ma gli ascrive alla divina provvidenza: perché in quei tempi, non essendo ancora illuminato di tutte le veritá della fede cristiana, ma avendo solo scoperto li abusi nella materia delle indulgenze, era pronto di tenere silenzio quando dalli suoi avversari fosse stato servato l’istesso. Ma le scritture del maestro del sacro palazzo, la superchiaria del Gaetano e la rigidezza di Leone l’avevano costretto a studiare e scoprire molti altri abusi ed errori del papato meno tollerabili, li quali non poteva con buona conscienzia dissimulare e restar di mostrare al mondo. Aver il noncio per sua ingenuitá confessato di non intendere teologia, il che appariva anco chiaro per le ragioni proposte da lui; poiché non si poteva chiamare la dottrina sua nova, se non da chi credesse che Cristo, gli apostoli e li santi padri avessero vivuto come nel presente secolo il papa, li cardinali e li vescovi; né si può fare argomento contra la dottrina medesima delle sedizioni occorse in Germania, se non da chi non ha letto le Scritture e non sa questa essere la proprietá della parola di Dio e dell’Evangelio, che dove è predicato eccita turbe e tumulti, sino al separare padre da figlio. Questa essere la sua virtú: che a chi l’ascolta dona la vita, a chi lo ripudia è causa di maggiore dannazione. Aggionse che questo era il piú universale difetto de’ romani: voler stabilire la Chiesa con governi tratti da ragioni umane, come se fosse uno stato temporale. Che questa era quella sorte di sapienzia che san Paulo dice essere riputata pazzia appresso Dio; sí come il non stimare quelle ragioni politiche con che Roma governa, ma fidarsi nelle promesse divine e rimettere alla Maestá sua la condutta degli affari della Chiesa, è quella pazzia umana che è sapienzia divina. Il far riuscir in bene e profitto della Chiesa il concilio non essere in potestá di Martino, ma di chi lo può lasciare libero, acciò che lo spirito di Dio vi preseda e lo guidi, e la Scrittura divina sia regola delle deliberazioni, cessando di portarvi interessi, usurpazioni e artifici umani: il che quando avvenisse, egli ancora vi apporterebbe ogni sinceritá e caritá cristiana, non per obbligarsi né il pontefice né altri, ma per servizio di Cristo, pace e libertá della Chiesa. Non poter però aver speranza di veder un tanto bene, mentre non apparisce che lo sdegno di Dio sia pacificato per una seria conversione e deposizione dell’ipocrisia; né potersi fare fondamento sopra la radunanza di uomini dotti e litterati, poiché, essendo accesa l’ira di Dio, non vi è errore cosí assurdo ed irragionevole che Satan non persuada, e piú a questi gran savi che si tengono sapere, li quali la Maestá divina vuole confondere. Che da Roma non può ricevere cosa alcuna compatibile col ministerio dell’Evangelio; né moverlo li esempi di Enea Silvio o di Bessarione, perché non stima quei splendori tenebrosi; e quando volesse anco esaltare se stesso, potrebbe con veritá replicare quello che da Erasmo fu detto facetamente, che Lutero povero ed abietto arricchisce e inalza molti. Esser molto ben noto ad esso noncio, per non andare lontano, che al maggio prossimo egli ha avuto gran parte nella creazione di Roffense ed è stato causa totale di quella di Scomberg. Che se poi al primo è stata levata la vita cosí tosto, questo è d’ascrivere alla divina provvidenza.
Non potè il Vergerio indurre Lutero a rimetter niente della sua fermezza, il quale con tanta constanza teneva la sua dottrina, come se fosse veduta con gli occhi: e diceva che piú facilmente il noncio, e anco il papa, averebbe abbracciata la fede sua, che egli abbandonatala.
Tentò ancora il Vergerlo altri predicatori in Vittemberga, secondo la commissione del pontefice, e altrove nel viaggio; né trovò inclinazione, come averebbe pensato, ma rigiditá in tutti quelli che erano di conto, e quelli che si sarebbono resi li trovò di poco valore e di molta pretensione, sí che non facevano al caso suo.
Ma li protestanti, intesa la proposizione di Vergerio, essendo congregati in Smalcalda quindici prencipi e trenta cittá, risposero aver dechiarato quale fosse la loro volontá e intenzione circa il concilio in molte diete, e ultimamente, giá due anni, al noncio di papa Clemente e all’ambasciator dell’imperatore; e che tuttavia desideravano un legittimo concilio, come erano certi che era desiderato da tutti gli uomini pii, e al quale erano anco per andare, sí come piú volte era stato determinato nelle diete imperiali. Ma quanto a quello che il pontefice aveva destinato in Mantova, speravano che Cesare non fosse per dipartirsi dalli decreti delle diete e dalle promesse tante volte fattegli che il concilio si dovesse celebrar in Germania; dove che vi possi esser pericolo non saperlo vedere, poiché tutti li principi e cittá obediscono a Cesare, e sono cosí ben ordinate che li forestieri vi sono ricevuti e trattati con ogni umanitá. Ma che il pontefice sia per provveder alla sicurezza di quelli che anderanno al concilio non sapevano intender come, massime risguardando le cose occorse nell’etá precedente. Che la repubblica cristiana ha bisogno d’un pio e libero concilio, e che ad un tale essi hanno appellato. Che poi non si debbi trattare prima del modo e forma, altro non significa se non che non vi debbia essere libertá, e che tutto si debbi riferir alla potestá del pontefice; il qual avendo giá dannata la loro religione tante volte, se egli doverá essere giudice, il concilio non sará libero. Che il concilio non è un tribunale del solo pontefice né delli soli preti, ma di tutti gli ordini della Chiesa, eziandio dei secolari. Che il voler preponer la potestá del pontefice all’autoritá di tutta la Chiesa, è opinione iniqua e piena di tirannide. Che defendendo il pontefice l’opinione de’ suoi, anche con editti crudeli, sostenendo egli una parte della lite, il giusto vuole che dalli principi sia determinato il modo e forma dell’azione.
Al medesimo convento di Smalcalda mandarono ambasciatori li re di Francia e d’Inghilterra. Quel di Francia che, essendo morto Francesco Sforza duca di Milano, disegnava fare la guerra in Italia, li ricercò di non accettare luoco per la celebrazione del concilio, se non con conseglio suo e del re d’Inghilterra, promettendo che essi ancora non ne accetterebbono nessuno senza di loro. Il re d’Inghilterra, oltre di ciò, gli fece intendere che stessero ben avvertiti che non si facesse un concilio dove, in luoco di moderare gli abusi, si stabilisse tanto piú la dominazione del pontefice, e li ricercò che approvassero il suo divorzio. Dall’altro canto essi proposero che il re ricevesse la confessione augustana: le quali cose, trattate in diversi conventi, non ebbero conclusione alcuna.
Ma il Vergerio nel principio dell’anno 1536 tornò al pontefice per riferire la sua legazione. Riportò in somma che li protestanti non erano per ricever alcun concilio, se non libero, in luoco opportuno, tra i confini dell’Imperio, fondandosi sopra la promessa di Cesare; e che di Lutero e degli altri suoi complici non vi era speranza alcuna, né si poteva pensar ad altro che opprimerli con la guerra. Ebbe il Vergerio per suo premio il vescovado di Capo d’Istria sua patria; e dal pontefice fu mandato a Napoli per fare la medesima relazione all’imperatore, il quale, ottenuta la vittoria in Africa, era passato in quel Regno per ordinare le cose di quello.
Ed udita la relazione del noncio, passò Cesare a Roma. Fu a stretti colloqui col pontefice sopra le cose d’Italia e del modo di pacificare la Germania; il qual modo persuadendo il pontefice, secondo il conseglio anco del Vergerio, che non poteva essere altro, salvo che la guerra, Cesare, che non vedeva il tempo maturo per cavare da quella il buon frutto che altri persuadeva, e vedendosi anco implicato in Italia, da che non poteva svilupparsi se non cedendo lo stato di Milano, quale aveva deliberato onninamente di appropriarsi (e qua tendeva lo scopo principale d’ogni sua azione), allegava per ragione di differire esser piú necessario in quel tempo difendere Milano da’ francesi. Dall’altro canto il papa, il pensiero del quale tutto era volto a far cadere quello stato in un italiano, (e perciò proponeva la guerra di Germania non tanto per oppressione de’ luterani, come pubblicamente diceva, ma anco per divertire Cesare dall’occupare Milano, che era il fine suo principale, se bene segreto), replicava che piú facilmente egli co’ veneziani, usando le armi e le pratiche insieme, averebbe fatto desistere il re, quando Sua Maestá cesarea non si fosse intromessa.
Ma l’imperatore, penetrato l’interno del papa, con altrettanta dissimulazione si mostrò persuaso e inclinato alla guerra di Germania; dicendo però che, per non aver tutto il mondo contra, conveniva giustificare bene la causa, e coll’intimar il concilio mostrar che avesse tentato prima ogn’altro mezzo. Il pontefice non aveva discaro che, dovendo finalmente intimarlo, ciò si facesse nel tempo quando, per aver il re di Francia occupata giá la Savoia e il Piemonte, l’Italia tutta era per ardere di guerra, onde se gli dava apparentissimo pretesto per circondar il concilio di arme, sotto il colore di custodia e protezione. Si mostrò contento, purché fossero statuite condizioni che non derogassero l’autoritá e la riputazione della sede apostolica. L’imperatore, che per la vittoria ottenuta in Africa aveva l’animo molto elevato e pieno di vasti pensieri, riputava di dover in due anni almeno vincere la guerra di Lombardia e, serrato il re di Francia di lá da’ monti, attendere alle cose di Germania senza altro impedimento. Voleva che il concilio li servisse a due cose: prima, durante la guerra d’Italia, per raffrenare il papa se, secondo il costume de’ pontefici, avesse pensato mettersi dalla parte di Francia, quando quella fosse restata inferiore, per contrappesar il vincitore; poi, per ridurre la Germania all’obedienza sua; a che egli mirava, perché quanto alla pontificia l’aveva per cosa accidentale. Li piaceva il luoco di Mantova; quanto al rimanente, non curava qual condizione il papa vi apponesse, poiché quando fusse stato ridotto, egli averebbe potuto mutar quello che non li fosse piaciuto. Pertanto concluse che, mentre si facesse il concilio, si contentava d’ogni condizione, allegando che sperava di persuader, se non tutta la Germania, poco meno, a consentirvi finalmente. Fu adunque stabilita la deliberazione dal pontefice, con tutto il collegio de’ cardinali.
Per il che l’imperatore, intervenendo nel consistoro pubblico alli 28 d’aprile, ringraziò il pontefice e il collegio che avessero prontamente ed espeditamente deliberata la convocazione del concilio generale, e li ricercò appresso che la bolla fosse spedita inanzi la sua partita da Roma, acciò egli potesse dar ordine al rimanente. Non si potè ordinarla cosí presto, essendo pur necessaria qualche considerazione per mettervi parole apposite, che dessero quanto piú buona speranza di libertá era possibile e insieme non portassero alcun pregiudizio all’autoritá pontificia. Furono deputati a questo sei cardinali e tre vescovi; e finalmente la bolla fu spedita sotto i 2 di giugno, pubblicata in consistoro e sottoscritta da tutti li cardinali.
Il tenor di quella era: che dal principio del suo pontificato nessuna cosa aveva piú desiderato che purgare dalle eresie ed errori la Chiesa, raccomandata da Dio alla cura sua, e di restituire nel pristino stato la disciplina. Al che non avendo trovato via piú comoda che la sempre mai usata in simili occorrenzie, cioè il concilio generale, di questo aver scritto piú volte a Cesare e agli altri re, con speranza non solamente di ottenere questo fine, ma ancora che, sedate le discordie tra i principi cristiani, si movesse la guerra alli infedeli, per liberare li cristiani da quella misera servitú e redur anco gl’infedeli alla fede. Per il che, per la pienezza di potestá che egli ha da Dio, col consenso de’ suoi fratelli cardinali, intima un concilio generale di tutta la cristianitá per il 23 maggio dell’anno seguente 1537 in Mantova, luoco abbondante e opportuno per la celebrazione di un concilio; e pertanto comanda alli vescovi e altri prelati di qualunque luoco si siano, per l’obbligo del giuramento prestato da loro e sotto le pene statuite dai santi canoni e decreti, che vi si debbino trovare al giorno prefisso. Prega Cesare e il re di Francia e tutti li altri re e principi, per amor di Cristo e per salute della repubblica cristiana, che voglino trovarvisi in persona, e, non potendo, mandino onorevoli ed ampie ambasciarie, sí come esso Cesare e il medesimo re di Francia e li altri principi cristiani hanno promesso piú volte e a Clemente e a lui; e facciano anco che li prelati dei suoi regni debbino andarvi e starvi sino al fine, per determinare quello che sará opportuno per riforma della Chiesa, estirpazione dell’eresie e per mover la guerra agl’infedeli.
Pubblicò anco il papa un’altra bolla per emendare (come diceva) la cittá di Roma, capo di tutta la cristianitá, maestra della dottrina, dei costumi e della disciplina, da tutti li vizi e mancamenti, acciocché purgata la casa propria, potesse piú facilmente purgare le altre. Al che non potendo attendere solo pienamente, deputò sopra ciò li cardinali ostiense, San Severino, Ginuzio e Simonetta, comandando sotto gravissime pene a tutti di prestare intiera obedienza. Questi cardinali insieme con alcuni prelati, pur dal papa deputati, si diedero immediate a trattare la reformazione della penitenziaria, della dataria e delli costumi de’ cortegiani: però non fu posta cosa alcuna in effetto. Ma l’intimazione del concilio parve ad ogni mediocre ingegno molto poco opportuna, in tempo quando tra l’imperadore e’l re di Francia erano in piedi le guerre in Piccardia, in Provenza e in Piemonte.
Li protestanti, veduta la bolla, scrissero a Cesare che, non vedendosi qual dovesse esser la forma ed il modo del concilio che da loro era stato sempre dimandato pio, libero ed in Germania, e tale sempre promesso, si confidavano che Cesare averebbe provveduto sí che le loro dimande fossero sodisfatte e la sua promessa adempita.
Ma nel principio dell’altro anno 1537 mandò Cesare Mattia Eldo, suo vicecancellario, alli protestanti ad esortarli a ricever il concilio, il quale con tanta sua fatica era stato convocato, e al quale egli disegnava trovarsi in persona, se non intervenisse qualche grand’impedimento di guerra che lo constringesse esser altrove. Ricordò loro di aver appellato al concilio, e però non esser conveniente che ora, mutato proposito, non volessero convenire con tutte le altre nazioni che hanno posto in quello tutta la speranza della riforma della Chiesa. Quanto al pontefice, disse Cesare non dubitare che non si governi come si conviene al principal capo dell’ordine ecclesiastico; che se averanno qualche querela contra di lui, la potranno proseguire nel concilio modestamente. Quanto al modo e forma, non essere conveniente che essi voglino prescriverla a tutte le nazioni: pensassero che non i soli teologi loro siano inspirati da Dio e intendenti delle cose sacre, ma che anco altrove ve ne siano a chi non manchi e dottrina e santitá di vita. Quanto al luoco, se ben essi hanno dimandato uno in Germania, però debbono anco pensare quello che sia comodo all’altre nazioni. Mantova è vicina alla Germania, abbondante e salubre e suddita dell’Imperio, e il duca di quella feudatario cesareo, in maniera che il pontefice non vi ha alcuna potestá; e se vorranno maggiore cauzione, Cesare esser preparato dargliela. Parlò anche con l’elettore di Sassonia a parte, esortandolo a mandar li suoi ambasciatori al concilio, senza usar eccezioni o scuse, le quali non possono parturire se non inconvenienti.
Li protestanti risposero a questa parte del concilio che, avendo letto le lettere del papa, vedevano non esser l’istessa mente di quel pontefice e della Maestá sua cesarea; e repetite le cose trattate con Adriano, Clemente e Paolo, conclusero che si vedeva essere l’istesso fine de tutti. Passarono ad allegare le cose per le quali non conveniva che il pontefice fosse giudice nel concilio, né meno quelli che gli sono obbligati con giuramento. E quanto al luoco destinato, oltra che è contra li decreti delle diete imperiali, con nessuna sicurezza potrebbono andarci senza pericolo, imperocché avendo il pontefice aderenti per tutta Italia, che portano acerbo odio alla dottrina de’ protestanti, gran pericolo vi è d’insidie e occulti consegli; oltra che, dovendo andar in persona molti dottori e ministri (non essendo conveniente trattar cosa di tanta importanza per procuratori), sarebbe un lasciare le chiese desolate. E come possono consentire nel giudicio del papa, che non ha altro fine se non di estirpare la dottrina loro, che egli chiama eresia, e non si può contenere di dirlo in tutte le bolle sue, eziandio in quella dove intima il concilio; e nella bolla, che fece simulando di voler riformare la corte romana, espressamente ha detto di aver convocato il concilio per estirpare l’eresia luterana; e ne fa dimostrazione con effetti, incrudelendo con tormenti e supplicii contra li miseri innocenti che per loro conscienza seguono quella religione? E come potranno accusare il pontefice e li suoi aderenti, quando egli vogli essere giudice? E l’approvar il suo breve non esser altro che consentire nel suo giudicio. E però aver dimandato sempre un concilio libero e cristiano, non tanto perché ognuno possi parlare liberamente e vi siano esclusi li turchi e infedeli, ma perché quelli che sono collegati insieme con giuramenti e altri patti non siano giudici, e perché la parola di Dio sia presidente e difinisca tutte le controversie. Che sanno benissimo esser degli uomini dotti e pii nelle altre nazioni; ma sono anco certi insieme che, se la immoderata potenzia del pontefice sará regolata, non solo li loro teologi, ma molti altri che al presente, essendo oppressi, stanno nascosti, s’affaticheranno per la riforma della Chiesa. Che non vogliono disputare del sito e opportunitá della cittá di Mantova, ma ben dire che, essendo la guerra in Italia, non possono esser senza sospetto. Del duca di quella cittá basta dire che egli ha un fratello cardinale, dei primi della corte. Che in Germania sono molte cittá non meno comode che Mantova, dove fiorisce l’equitá e la giustizia; e in Germania non sono noti e inusitati quei occulti consegli e clandestini modi di levare gli uomini di vita, come in alcuni altri luochi. Nelli antichi concili essere stata sempre cercata principalmente la sicurtá del luoco; la qual però, quantunque Cesare fosse in persona al concilio, non sará sufficiente, sapendosi che li pontefici li concedono ben luoco nelle consultazioni, ma la potestá del determinare la reservano a sé soli. Esser noto quel che avvenne a Sigismondo Cesare nel concilio di Costanza, il salvacondotto del quale fu violato dal concilio ed egli costretto a ricever un tanto affronto. Per il che pregavano Cesare a considerare quanto queste ragioni importassero.
Era comparso nella medesima dieta il vescovo d’Acqui, mandato dal pontefice per invitarli al concilio; ma non fece frutto, e alcuni anco dei prencipi ricusarono di ascoltarlo. E per far note al mondo le loro ragioni, pubblicarono e mandarono una scrittura in stampa, dove principalmente si sforzavano di responder a quella obiezione che essi non volessero sottomettersi a nissun giudicio, che sprezzassero le altre nazioni, che fuggissero il supremo tribunal della chiesa, che avessero renovato l’eresie altre volte condennate, che abbiano caro le discordie civili, che le cose da loro represe delli costumi della corte romana siano leggeri e tollerabili. Allegarono le cause perché non conveniva che il pontefice solo, né meno insieme con li suoi, fosse giudice; portarono esempi de molti concili recusati da diversi delli santi padri; implorarono infine a loro difesa tutti li principi, offerendosi che se in alcun tempo si congregherá un concilio legittimo, defenderanno in quello la sua causa e daranno conto delle proprie azioni. Mandarono anche un ambasciador espresso al re di Francia, per darli conto particolare delle medesime cose. Il quale anco rispose che, quanto al concilio, era del medesimo parere di loro, di non approvarlo se non legittimo e in luoco sicuro, offerendo anco in questo l’istessa volontá del re di Scozia suo genero.
Il duca di Mantova concesse la sua cittá per far il concilio in gratificazione del pontefice, senza pensar piú oltre, giudicando conforme all’opinione comune che non si potrebbe effettuare, essendo la guerra in piedi fra Cesare e il re di Francia, e repugnando la Germania, per la quale il concilio si faceva. Ma veduta l’intimazione, incominciò a pensare come assicurarebbe la cittá, e mandò a proponer al papa che, dovendosi introdur un sí gran numero di persone, quali sarebbono convenute al concilio, era necessaria una grossa guarnigion de soldati, la qual egli non la voleva dependente da altri e non aveva da mantenerla del suo; per il che era necessario che, volendo Sua Santitá celebrar il concilio in quella cittá, li somministrasse danari per il pagamento de’ soldati. Al che rispose il pontefice che la moltitudine doveva esser non di persone armate né professori di milizia, ma de ecclesiastici e litterati, quali con un solo magistrato, che egli averebbe deputato per render giustizia, con una picciola corte e guardia, sarebbe stato bastante per contenerli in ufficio; che una guarnigione de soldati armati sarebbe stata di sospetto a tutti e poco condecente al luoco d’un concilio, che debbe esser tutto in apparenza ed effetti di pace; e che, pure quando vi fosse stato bisogno di arme per guardia, non essere di ragione che fossero in mano d’altri che del concilio medesimo, cioè del papa che n’è il capo. Il duca, considerando che la giurisdizione si tira sempre dietro l’imperio, replicò non voler in modo alcuno che nella sua cittá sia amministrata la giustizia da altri che dalli ufficiali suoi. Il papa, prudentissima persona, a cui poche volte occorreva di udir risposta non preveduta, restò pieno di stupore, e rispose all’uomo del duca che non si averebbe creduto dal suo patrone, principe italiano, la casa del quale aveva ricevuti tanti benefici dalla sede apostolica, che aveva un fratello cardinale, doverli esser negato quello che mai piú da nessuno li fu messo in controversia, quello che ogni legge divina ed umana li dona, che né anco li luterani li sanno negare, cioè l’esser giudice supremo degli ecclesiastici, e quello che il duca non contrasta al suo vescovo, che giudica le cause de’ preti in Mantova. Nel concilio non dover intervenire se non persone ecclesiastiche, le quali sono esenti dal secolare, cosí esse come le sue famiglie; il che è cosí chiaro, che concordemente dalli dottori è affermato eziandio le concubine de preti esser del foro ecclesiastico. Ed egli vuol negarli d’aver un magistrato che rendi giustizia a quelli durante il concilio? Non ostante questo, il duca stette fermo cosí in recusar di concedere al papa giusdicenti in Mantova, come anco in domandar soldi per pagar soldati; le qual condizioni parendo al pontefice dure e (come diceva) contrarie alli antichi costumi, ed aliene dalla dignitá della Sede e dalla libertá ecclesiastica, recusò di condescendervi, e deliberò di non voler piú concilio a Mantova. Raccordandosi molto bene di quello che avvenne a Giovanni XXIII, avendo celebrato concilio dove altri era piú potente, deliberò di sospender il concilio; si scusò con una sua bolla pubblica, dicendo in sostanza che, se ben con suo dolore era sforzato deputar altro luoco per il concilio, nondimeno lo sopportava, perché era per colpa d’altri e non sua propria; e che non potendo cosí sprovvistamente resolversi d’un altro luoco opportuno, suspendeva la celebrazione del concilio sino al primo di novembre del medesimo anno.
Pubblicò in questo tempo il re d’Inghilterra un manifesto per nome suo e della nobiltá contro la convocazione fatta dal pontefice, come da persona che non abbia potestá, e in tempo di guerra ardente in Italia, e in luoco non sicuro; soggiongendo che ben desidera un concilio cristiano, ma al pontificio non è per andare né per mandarvi ambasciata, non avendo che fare col vescovo romano né con li suoi editti piú che con quelli di qualunque altro vescovo; che giá li concili solevano essere congregati per autoritá de re, e questo costume maggiormente debbe esser renovato adesso, quando che si tratta d’accusare li difetti di quella corte; non esser cosa insolita alli pontefici di mancar di fede; il che dover considerare piú lui, che è acerbissimamente odiato per aver dal suo regno levata quella dominazione e il censo che li era pagato; che il dar la colpa al principe di Mantova perché non voglia senza presidio ammetter tanta gente nella sua cittá, è un burlarsi del mondo, sí come anco il prorogar il concilio sino a novembre e non dire in che luoco si abbia da celebrare; poiché, se il papa alcun luoco eleggerá, senza dubbio o piglierá uno di quelli dello stato proprio, o vero di qualche principe obbligatogli. Per il che, non potendo alcun uomo di giudicio sperar di aver un vero concilio, il meglio di tutto è che ciascun principe emendi la religione a casa sua: concludendo in fine che, se da alcuno li fosse mostrata meglior via, egli non la ricusarebbe.
In Italia anco vi era una gran disposizione ad interpretar in sinistro le azioni del pontefice, e si parlava liberamente che, quantonque versasse la colpa sopra il duca di Mantova, da lui però nasceva che il concilio non si facesse; ed esserne manifesto indicio, perché nel medesimo tempo aveva pubblicata la bolla della riforma della corte e dato il carico alli quattro cardinali; né a ciò esservi opposizione del duca né di altri che non fosse in sua potestá: e pur di quella piú non si parlava, sí come anco era stato in silenzio tre anni dopo che la propose, immediate assonto al pontificato. Per ovviare a queste diffamazioni, deliberò il papa di nuovo ripigliare quel negozio, riformando prima sé, li cardinali e la corte, per poter levar ad ognuno la obiezione e la sinistra interpretazione di tutte le azioni sue; ed elesse quattro cardinali e cinque altri prelati tanto da lui stimati, che quattro di essi nelli anni seguenti creò poi cardinali, imponendo a tutti nove di raccogliere gli abusi che meritavano riforma, e insieme aggiongervi li rimedi co’ quali si potesse prestamente e facilmente levarli e ridur il tutto ad una buona riformazione. Fecero quei prelati la raccolta, secondo il comandamento del pontefice, e la redussero in scritto.
Proposero nel principio, per fonte e origine di tutti li abusi, la prontezza delli pontefici a dar orecchie alli adulatori e la facilitá in derogare le leggi, con la inosservanza del comandamento di Cristo di non cavar guadagno delle cose spirituali. E descendendo alli particolari, notarono ventiquattro abusi nell’amministrazione delle cose ecclesiastiche, e quattro nel governo speciale di Roma. Toccarono l’ordinazione de’ clerici, la collazione de’ benefici, le pensioni, le permutazioni, li regressi, le reservazioni, la pluralitá di benefici, le commende, la residenzia, le esenzioni, la deformazione dell’ordine regulare, la ignoranzia nelli predicatori e confessori, la libertá di stampare libri perniciosi, le lezioni, la tolleranzia dei apostati, li questuari. E passando alle dispensazioni, toccarono prima quella di maritare li ordinati, la facilitá di dispensare matrimoni nei gradi proibiti, la dispensa ai simoniaci, la facilitá nel concedere confessionali e indulgenze, la dispensazione de’ voti, la licenza di testare de’ beni della Chiesa, la commutazione delle ultime volontá, la tolleranzia delle meretrici, la negligenza del governo delli ospitali, e altre cose di questo genere, trattate minutamente, con esporre la natura degli abusi, le cause e origini loro, le conseguenze de’ mali che portano seco, li modi di rimediarvi e conservare il corpo della corte per l’avvenire in vita cristiana: opera degna d’esser letta, che, se la sua longhezza non avesse impedito, meritava esser registrata qui di parola in parola.
Il pontefice, ricevuta la relazione da questi prelati, la fece considerar a molti cardinali, e propose poi in consistono la materia per prenderne deliberazione. Frate Nicolò Scomberg dell’ordine dominicano, cardinale di San Sisto, con altro nome chiamato di Capua, con longhissimo discorso mostrò che quel tempo allora presente non comportava che si riformasse alcuna cosa. Primieramente considerò la malizia umana, che sempre, quando gli è impedito un corso al male, ne ritrova un peggiore; e che è manco mal tollerar il disordine conosciuto e che per esser in uso non dá tanta maraviglia, che, per rimediar a quello, dar in uno che, come novo, resterá piú apparente e sará anco piú ripreso. Aggionse che sarebbe dar occasione alli luterani di vantarsi che avessero sforzato il pontefice a far quella riforma. E sopra tutte le cose considerava che sarebbe stato principio non di levar li abusi soli, ma ancora insieme li buoni usi, e metter in maggior pericolo tutte le cose della religione, perché con la riforma si confesserebbe che le cose provvedute meritatamente erano riprese dalli luterani, onde nascerebbe credito a loro e opinione nel mondo che anco le altre cose fossero con ragione da loro riprese; che non sarebbe altro se non un dar fomento a tutta la loro dottrina. In contrario, Giovan Pietro Caraffa, cardinale teatino, mostrò che la riforma era necessaria, e grand’offesa de Dio essere il tralasciarla: e rispose esser regola delle azioni cristiane che sí come non s’ha da far alcun male acciò ne succeda bene, cosí non si debbe tralasciare alcun bene di ubbligazione per timore che ne succedi il male. Varie furono le opinioni; e finalmente, dopo detti diversi pareri, fu concluso che si differisse ad altro tempo di parlarne, e comandò il pontefice che fosse tenuta segreta la remostranza fattagli dalli prelati. Ma il Cardinal Scomberg ne mandò una copia in Germania; il che da alcuni fu creduto non essere fatto senza saputa del pontefice, acciò che fusse veduto che in Roma vi era qualche disegno e qualche opera ancora di reformazione. La copia mandata fu subito stampata e pubblicata per tutta Germania, e fu anco scritto contra di quella da diversi in lingua tedesca e latina. E pur tuttavia nella medesima regione cresceva il numero de’ protestanti, essendo entrati nella loro lega il re di Dania e alcuni principi della casa di Brandeburg.
Avvicinandosi il mese di novembre, il pontefice pubblicò una bolla di convocazione di concilio a Vicenza; e causando che per la vicinitá dell’inverno vi era bisogno di prorogar il tempo, l’intimò per il primo di maggio dell’anno seguente 1538, e destinò legati a quel luogo tre cardinali: Lorenzo Campegio, giá legato da Clemente VII in Germania, Giacomo Simonetta e Gerolamo Aleandro, da lui creati cardinali.
Uscita la bolla in luce, in Inghilterra fu pubblicato un altro manifesto del re contra questa nova convocazione, inviato a Cesare e alli re e popolo cristiano, dato sotto li 8 aprile dell’istesso anno 1538. In quello diceva che, avendo giá manifestato al mondo le molte e abbondanti cause per quali aveva recusato il concilio che il papa fingeva voler celebrar in Mantova, prolongato poi senza assignazione di certo luoco, non li pareva conveniente, ogni volta che il pontefice avesse escogitato qualche nova via, dover esso pigliar fatica di protestare o ricusare quel concilio che egli mostrasse di voler celebrare: poi, che quel libello defende la causa sua e del suo regno da tutti li tentativi che si potessero fare o da Paulo o vero da qualunque altro pontefice romano; e però l’ha voluto confermare con quella epistola, che facilmente lo doverá escusare perché non sia piú per andar a Vicenza di quello che non era per andar a Mantova; quantunque non vi sia chi piú desideri una pubblica convocazione de’ cristiani, purché sia concilio generale, libero e pio, quale ha figurato nella protesta contro il concilio di Mantova. E sí come nessuna cosa è piú santa che una convocazione de cristiani, cosí nissuna può apportare maggior pregiudicio e pernicie alla religione che un concilio abusato per guadagni, per utilitá o per confermar errori. Concilio generale chiamarsi, perché tutti i cristiani possino dir il suo parere; né potersi dir generale dove siano uditi solamente quelli che averanno determinato di tenir sempre in tutte le cose le parti del pontefice, e dove li istessi siano attori, rei, avvocati e giudici. Potersi replicare sopra Vicenza tutte le medesime cose che si sono dette nell’altro suo libello di Mantoa. E replicato con brevitá un succinto contenuto di quello, seguí dicendo: «Se Federico duca di Mantoa non ha deferito all’autoritá del pontefice, in concedergli la sua cittá, in quel modo che egli la voleva, che ragione vi è che noi dobbiamo tanto stimarla in andare dove a lui piace? Se ha il pontefice potestá da Dio di chiamar li prencipi dove vuole, perché non l’ha di eleggere qual luoco li piace e farsi obedire? Se il duca di Mantoa può con ragione negar il luoco eletto dal pontefice, perché non potranno anco li altri re e principi non andar a quello? E se tutti li prencipi li negassero le loro cittá, dove sarebbe la sua potestá? Che sarebbe avvenuto se tutti si fossero messi in viaggio, e gionti lá, s’avessero trovati esclusi dal duca di Mantova? Quello che di Mantova è accaduto, può accadere di Vicenza».
Andarono li legati a Vicenza al tempo determinato; e in questo medesimo il pontefice andò a Nizza di Provenza per intervenir al colloquio dell’imperatore e del re di Francia, procurato da lui, dando fama che fosse solamente per mettere quei due prencipi in pace, se ben il fine piú principale era di tirar in casa sua il ducato di Milano. In quel luoco il pontefice, tra le altre cose, fece ufficio con tutti doi che mandassero ambasciatori loro al concilio e che vi facessero anco andare li prelati che erano nelle loro compagnie, e dessero ordine a quelli che si ritrovavano nelli loro regni di mettersi in viaggio. Quanto al dar l’ordine, l’uno e l’altro si scusò che era necessario prima informarsi con li prelati dei bisogni delle loro chiese; e quanto al mandare quelli che erano quivi presenti, che sarebbe stato difficile persuaderli ad andare soli, senza avere comunicato conseglio con altri. Restò tanto facilmente il papa sodisfatto della risposta, che lasciò dubbio se piú desiderasse l’affermativa che la negativa. Riuscito adonque infruttuoso quest’ufficio, come gli altri trattati dal papa in quel convento, egli se ne partí; ed essendo di ritorno in Genoa, ebbe lettere da Vicenza dalli legati che si ritrovavano ancora lá soli, senza prelato alcuno; per il che li richiamò, e sotto il 28 giugno per una sua bolla allongò il termine del concilio sino al giorno della prossima Pasca.
In quest’anno il pontefice ruppe la prudente pazienza o vero dissimulazione usata per quattro anni continui verso Inghilterra, e fulminò contra quel re una terribile bolla, con modo non piú usato da’ suoi precessori, né da’ successori imitato. Della quale fulminazione, per essere originata dalli manifesti pubblicati contro il concilio intimato in Mantoa e in Vicenza, ricerca il mio proposito che ne faccia menzione; oltre che, per intelligenza di molti accidenti che di sotto si narreranno, è necessario recitare questo successo con li suoi particolari.
Avendo il re d’Inghilterra levata l’obedienza alla chiesa romana e dechiaratosi capo dell’anglicana l’anno 1534, come al suo luoco s’è detto, papa Paulo, immediate dopo la sua assonzione, dall’imperatore per li propri interessi e dalle istanze della corte (la quale con quel mezzo credeva di racquistare o vero abbruggiare l’Inghilterra) fu continuatamente stimolato a fulminare contra quel re. Il che egli, come uomo versato nella cognizione delle cose, giudicava poco a proposito, considerando, se li fulmini de’ suoi precessori non avevano sortito mai buon effetto in quei tempi quando erano creduti e riveriti da tutti, minore speranza esserci che, dopo pubblicata e ricevuta da molti una dottrina che li sprezzava, potessero farlo. Teneva per opera di prudenza il contenere nel fodro un’arma che non ha altro taglio se non nell’opinione di coloro contra chi si combatte. Ma del 1535 succeduta decapitazione del cardinale roffense, li altri cardinali li furono intorno a rimostrarli quanta fosse l’ignominia, quanto grande il pericolo di quell’ordine che era stimato sacrosanto e inviolabile, se fosse lasciato prendere piede a quell’esempio; imperocché li cardinali defendono il pontificato con ardire appresso tutti li principi per la sicurezza della propria vita, la quale quando fosse levata, e mostrato alli secolari che li cardinali possono esser giustiziati, sarebbono costretti operare con troppo timore. Il pontefice però non partí dalla risoluzione sua, ma trovò un temperamento non piú usato da papa alcuno, di alzare la mano col fulmine e minacciare di tirarlo, ritenendolo però, senza lanciarlo, e con questo modo sodisfare alli cardinali e alla corte e altri, e non metter in prova la potestá pontificale. Formò per tanto il papa un processo e sentenzia severissima contra quel re sotto il di 30 agosto 1535, e tutt’insieme suspese la pubblicazione a suo beneplacito, lasciata però andare la copia occultamente in mano di chi sapeva gliel’averebbe fatta capitare, e facendo camminar il rumore della bolla formata e della suspensione di essa, con fama che presto presto, levata la suspensione, si venirebbe alla pubblicazione, e con disegno di non venirci mai.
E se bene non era senza speranza che il re, o per timore del fulmine fabbricato, o per l’inclinazione del suo popolo, o per sazietá delli supplicii contra gli inobedienti al suo decreto, s’inducesse, o per interposizione dell’imperatore o del re di Francia (quando per le occorrenze del mondo fosse costretto unirsi con alcuno di loro) fosse indotto a cedere, principalmente però si mosse per la causa su detta, acciò egli medesmo non mostrasse la debolezza delle armi sue e fermasse il re maggiormente nella separazione. Nondimeno in capo di tre anni si mosse a mutare proposito, per li irritamenti che gli pareva esser usati da quel re verso lui senza occasione, in mandare sempre manifesti contra le sue convocazioni del concilio ed oppugnare le sue azioni, se bene non indirizzate ad offesa particolare di lui; e novamente con aver processato, citato e condannato per rebelle del regno con confiscazione de’ beni san Tomaso cantuariense (prima canonizzato da Alessandro III per essere stato ucciso in defesa della libertá e potestá ecclesiastica sino del 1171, del quale si fa annualmente solenne festa nella chiesa romana), con esecuzione della condanna, levando dalla sepoltura le ossa, che furono abbruggiate in pubblico per mano del ministro di giustizia e sparse le ceneri nel fiume, posta la mano nelli tesori, ornamenti ed entrate delle chiese dedicate a lui; il che era l’aver toccato un arcano del pontificato molto piú importante che la materia del concilio. Alle qual cose gionta qualche speranza, conceputa nel colloquio col re di Francia, che fosse per somministrar aiuti alli malcontenti d’Inghilterra come fosse libero dalle guerre con l’imperatore, sotto il di 17 decembre vibrò il fulmine, lavorato giá tre anni, aperta la mano che per tanto tempo era stata in atto di fulminare. Le cause allegate furono in sostanza quella del divorzio, e per l’obedienzia levata, per l’uccisione di Roffense, per la dechiarazione contra san Tomaso. Le pene furono privazione del regno, e alli aderenti suoi di tutto quello che possedevano; comandando alli sudditi di levarli l’obedienza, e alli forestieri di non aver commercio in quel regno; e a tutti, che si dovessero levare con armi contra di lui e li suoi fedeli, e perseguitarli, concedendo in preda li stati e le robe, e in servitú le persone di tutti loro.
Ma in quanto conto fosse tenuto il breve del papa e quanto fossero osservati li comandamenti suoi, lo dimostrano le leghe, confederazioni, paci, trattazioni, che dopo furono fatte con quel re dall’imperatore, re di Francia e altri principi cattolici.