La cieca di Sorrento/Parte sesta/IV

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IV. La festa di ballo in Napoli

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IV.


la festa di ballo in napoli.


Molti giorni passarono dal dì che Beatrice visitò la stanza della madre.

Nessun notevole avvenimento era accaduto nel casino; la calma parea rinascere, tranne che la fanciulla dava giù di salute l’un giorno più dell’altro, senza che nessun sintoma di fisica infermità si fosse in lei mostrato. Gaetano seguiva con la più perplessa ansietà lo stato dell’anima di Beatrice; si sforzava di richiamar sulle labbra di lei il sorriso e la letizia, [p. 128 modifica]ma indarno, perocchè morta sembrava ogni vivacità nella fanciulla.

Il marchese Rionero pensò di sviare la tristezza della figliuola, menandola un giorno nella capitale.

Benchè Gaetano non avesse in suo cuore acconsentito a questa risoluzione del Marchese, non ne fece motto, imperocchè la costui volontà gli era ormai legge. D’altra parte, il medico vedeva in questa distrazione un mezzo sicuro di far svanire la malinconia della giovinetta, la quale, concentrata nel più cupo silenzio, passava i dì accanto a Carolina, che inutilmente si studiava di ricondurre la diletta amica a quella cara confidenza, onde le loro anime per lo addietro reciprocamente si espandeano.

Beatrice amava sempre la figlia del Conte, ma una pena segreta le stava nel cuore ella dissimulava, studiandosi di non lasciarla iscorgere.

La gita alla capitale fu fissata e mandata ad effetto.

Un bel mattino il marchese Rionero, Gaetano, il conte Franconi, Beatrice e Carolina traevano in elegante carrozza alla volta di Castellammare, dove, smontati, presero posto nella strada di ferro.

Beatrice si trovava io un mondo novello... Mille impressioni l’assalivano, mille svariati sentimenti le facevano palpitare il cuore, e, durante tutto quel cammino, i suoi occhi si erano animati, e la sua anima sembrava assorta e rapita da quell’avvicendarsi di grate sensazioni. [p. 129 modifica]

Si giunse in Napoli. Era la prima volta che la fanciulla udiva il rumore della capitale e vedea tanta gente per le strade, tanti bei palagi, tante sontuose botteghe, tanti cocchi di leggiadre donne, tanto affaccendarsi di pedoni. Le piazze ricche d’ogni maniera di cibi, i caffè ricolmi di gente, i magazzini popolati da tutto ciò che il lusso sa inventare di più ricercato, immergeano l’anima della giovinetta in tal sorpresa che stupida e silenziosa ella guardava da per ogni dove. La strada di Toledo, la riviera di Chiaia le arrecavano maraviglia e piacere. Carolina le spiegava tutto ciò che ella sembrava non capire, le nominava le strade più notevoli, i palagi più rinomati, le chiese ove maggiormente si ammirano i capilavori delle arti belle.

Il marchese Rionero e il conte Franconi discorreano tra loro nella carrozza. Il primo si applaudiva di aver avuto il pensiero di aver fatto visitar la capitale dalla figliuola, imperocchè sul volto di lei spuntava il colore della salute e negli occhi la gioia.

Ma Gaetano avea fissato il suo sguardo sulla giovine donna ed era tutto inteso a spiarne i pensieri. Egli non si era lasciato facilmente illudere dal fuggevol sorriso che era spuntato sulle labbra di lei; quella specie di momentanea vivacità che animava gli occhi di lei non ingannava l’amore di Gaetano, il quale vedea nel fondo dell’anima della fanciulla un’ambascia che gli squarciava l’anima per non poter indagarne la cagione. Egli era però distratto e silenzioso; poco interloquiva a’ ragionamenti [p. 130 modifica]del Marchese e del Conte; rispondeva con monosillabi alle dimande che gli faceano.

Quando i suoi occhi s’imbattevano in quelli della fanciulla, questa subitamente li ritraeva da lui ed abbassava, leggermente arrossendo. Un affannoso sospiro si sprigionava allora dal petto di lei, che piombava come stilla di fuoco sul cuore dell’amante giovine.

La carrozza sì fermò in un vasto cortile di un portone verso l’estremità della Riviera di Chiaia.

Era l’abitazione del conte Franconi.

Tutt’i preparativi per ben ricevere i ragguardevoli ospiti furon fatti fin dal giorno precedente. Un lauto pranzo fu servito. La più cordiale allegria regnò tra i commensali. Tutte le più dilicate cortesie furono prodigalizzate agli sposi, e si volgean loro i più affettuosi augurii. Gaetano si mostrava riconoscente agli attestati di affetto e a’ voti di felicità che i commensali gli manifestavano, ma un attento osservatore avrebbe notata tutta l’angoscia che stringeva il cuore del medico, e si sarebbe addato che il tapino avea la morte nell’anima.

Il titolo di sposo sembrava a Gaetano una crudele ironia, ma pur rassegnato attendeva ad espiare colla più esemplare condotta la macchia che l’avea disonorato agli occhi del marchese.

Mentre la giocondità spensierata infiorava di scelte frasi e di gai brindisi il banchetto, e mentre tutti si abbandonavano all’esultanza ispirata dalle ricolme tazze, Gaetano sprofondava un pensiero di fuoco ne’ penetrali dell’anima di [p. 131 modifica]Beatrice e cercava di colpire un’orma, un indizio di quella tristezza che si leggea sulla fronte dell’amata donna, e che era assai più potente di tutte quelle nuove e deliziose distrazioni che la circondavano.

Per fare una dolce sorpresa a Beatrice e agli altri ospiti, il Conte Franconi aveva segretamente disposto una festa di ballo per la sera.

Quanto l’amicizia sa trovare di più dilicato fu messo in opera dal Conte per attestare al marchese Rionero tutto il piacere che gli avea procurato la sua visita in compagnia della figliuola e del costei sposo.

La casa del Conte era in fama pe’ suoi ricevimenti e pei suoi veglioni, ma in quella sera egli avea superato sè medesimo, come suol dirsi in istile di buona società.

I saloni del nobile napolitano erano colmi di quanto la raffinatezza ha di più seducente, le arti di più maestrevolmente lavorato, il gusto di più squisito, il lusso di più costoso.

L’aristocrazia dava in quella sera un braccio alle scienze e alle lettere; tutt’i più ragguardevoli uomini del paese e i più distinti stranieri dimoranti nella capitale, erano accorsi all’invito della splendida festa di ballo, data in uno dei più magnifici palazzi della Riviera di Chiaia, su quella spiaggia incantata, dove le tante armonie della natura si sposano mirabilmente alle fittizie gioie dell’uomo, e v’imprimono un carattere che ha qualche cosa di malinconico nella sua festosa splendidezza.

Le sale da ballo erano gremite di dame [p. 132 modifica]ghirlandate, sfolgoranti di vezzi e di diamanti, che gittavano lampi di elettrica luce. Una moltitudine di personaggi della più scelta società vi si vedeano, parecchi uffiziali della marina francese, dalle graziose divise leggerissime per ballo, non meno che un gran numero di uffiziali del Real Esercito napolitano dalle pettiglie lucidissime, nelle quali venivano a rifragnersi in ogni verso le onde di luce che scappavano da cento candelabri in forma di obelischi e da mille torchetti di enormi lumiere di bronzo dorato.

Quella folla così elegante, così composta, così felice, così estranea in apparenza al retaggio di dolore legato all’umanità; quella famiglia di esseri sì lucidi sì belli, sì scintillanti, pe’ quali il piacere parea dovesse essere l’unico scopo della vita, quella folla si agitava come sotto la verga d’una fata, e moltiplicavasi ne’ dorati larghissimi specchi in altrettante centinaia di esseri fantastici intangibili, e sorridenti come in un sogno.

Una luce vivissima e bianca refratta da mille diamanti, da mille fregi dorati, da paramenti di finissima seta e da un pavimento terso come cristallo rosso; un’armonia di mille istrumenti che gittavano a torrenti ne’ cuori l’ebbrezza e il fascino del piacere, erano questi i due elementi onde componeasi quel mondo di eleganza, di raffinata sensualità, di allettamenti; quivi le fisonomie erano tutte liete, tutte animate di gioia, gli sguardi eran tutti spiranti amicizia ed amore.

In quell’anno Napoli era, più del consueto, [p. 133 modifica]zeppo di forestieri; parea che le nazioni europee si fossero dato ritrovo in quella città regina del Mediterraneo. L’affluenza però de’ forestieri nelle sale del conte Franconi era grandissima; gran parte del corpo diplomatico, i ministri esteri, i segretari di ambasciate vi erano intervenuti: la diplomazia, la scienza e la ricchezza si davano la mano, si mischiavano ne’ concerti della contradanza francese e ne’ giri cadenti del valser.

Il ballo era brillantissimo e animato; la polka, di recente arrivata dalla capitale della Francia, signoreggiava per novità, per grazia, per vivacità: cento coppie si slanciavano briose nei capricciosi movimenti del valser polacco. Era un turbine abbagliante di donne leggiadrissime e di svelti cavalieri.

Nelle altre sale dove non sì ballava, si erano formati svariati gruppi. I balconi che mettevano in sulla Riviera erano coperti di guardie marine, che non avean preso parte al ballo, e di altre persone, cui l’età non permetteva di mischiarsi a’ piaceri della giovinezza.

Beatrice era seduta in un angolo del salone. Carolina, che per qualche tempo le avea tenuto compagnia, si era slanciata con trasporto alla danza, che formava uno dei suoi gusti più favoriti. Ed in vero, la figliuola del Conte stava nel ballo come nel proprio suo elemento: quivi ella spiegava tutti gl’incanti delle sue fattezze corporali, siccome nelle solenni congiunture si scopriano i tesori della sua bell’anima. Per una giovinetta di diciassette anni, il ballo è gran [p. 134 modifica]parte della vita; tutta la poesia della sua immaginazione regna in que’ momenti affascinanti. L’impero delle donne, che il secolo decimonono ha distrutto, non si ritrova che nelle sale da ballo.

Carolina ballava con grazia indicibile; la sua persona parea si rialzasse: assumeva un aspetto così nobile e distinto che impossibile egli era di non guardarla con estatica ammirazione. Le tablettes di lei eran però coperte d’inviti.

Rinunziamo a dipingere i sentimenti che provava Beatrice. Era la prima volta che assisteva ad una festa di ballo; era la prima volta che tanti esseri felici, giovani, belli, sorridenti passavano sulle sue pupille come fantasmi di un caro sogno. Ella sola, tra le giovinette non ballava; la poveretta non sapea ballare. Con estrema dilicatezza il conte Franconi e la costui figliuola avean fatto correr nel salone la voce che una lontana parente era morta alla Rionero per dare un pretesto ed un colore alla astinenza del ballo. Per felice combinazione Beatrice vestiva di nero. La fanciulla avea fatto il solenne voto di vestir di nero la prima volta che sarebbesi recata in Napoli, dopo ricuperata la vista.

Moltissimi amici ritrovò il Marchese, i quali da lunga pezza egli non vedeva. Costoro, che conoscevano aver egli una figlia cieca, saputo che costei più non era in tale funesta condizione, ne dimandavano al genitore e si faceano quindi a circondare la giovinetta e la guardavano con curiosità e ne ammiravano la [p. 135 modifica]speciosità dilicata le grazie ingenue, il mesto sorriso: alcuni di loro vicino a lei conversavano di Albina di Santanges, la cui breve comparsa nella società napoletana avea lasciato indelebili rimembranze e rammarichi.

Molte distinte signore si erano accostate alla figliuola del marchese Rionero e le volgeano con amorevolezza la parola. Beatrice era nel più crudele imbarazzo, perciocchè dovea sorridere, dovea conversare, dovea simular calma e indifferenza, mentre avea sul cuore una ambascia mortale, una voglia grandissima di pianto.

I lunghi anni di solitudine in cui era vivuta per effetto della sua cecità, l’attitudine naturale del suo spirito malinconico, la recente malattia di cui ella non ancora era libera del tutto e che lasciato le aveva un abbattimento, un languore invincibile, quel panorama di felicità che si svolgeva ai soci occhi e che tacitamente l'umiliava o faceva almeno così strano contrasto con lo stato della sua anima e da ultimo un vago sentimento di ripulsione che elle sentiva da al«quanti giorni per l’uomo che le era consorte; tutte queste cagioni non potevano ispirare a Beatrice quella letizia che sfolgorava sulla fronte delle altre donne.

Ella era pallida e dimessa: cercava di ecclissarsi sotto le pieghe de’ coltrinaggi; avrebbe data la sua vita per non istare in quel luogo, per ritrovarsi nella sua cameretta a Sorrento.

Gaetano non si vedeva nel salone; egli aveva addotto, per non ballare, la scusa della poca ricercatezza della sua acconciatura, che infatti [p. 136 modifica]egli era vestito con eleganza ma non per figurare nel ballo.

Il nome di Oliviero Blackman era corso intanto tra i diversi gruppi degli uomini che più erano al corrente delle celebrità del giorno; sicchè quando quegli comparì all’uscio del salone, un mormorio passò tra le coppie della contradanza e tra i crocchi che stavansi all’impiedi presso delle dame.

Molti sguardi si portarono a vicenda su Gaetano e sulla figlia del Marchese. Beatrice sentì profferire dietro a lei il nome di Oliviero, alzò gli occhi, incontrò molti sguardi ironici nei quali ella credette di scorgere alcun che di beffardo, vide il consorte sul quale benanche era rivolta l’attenzione universale e la miserella arrossò tutta come una vampa di fuoco, sudò a goccioloni.

Era la prima volta che Beatrice arrossava di suo marito.

Gaetano vide quel rossore e comprese tutto; la sua anima ne fu squarciata; questa volta pertanto egli non maledisse gli uomini e la natura, non imprecò contro il suo fato, ma accettò con rassegnazione il suo dolore! Questo nobile giovane avea con una decisa volontà trasformato l’esser suo; la sua vita non avea più per iscopo la propria felicità, ma una intera abnegazione per procacciar quella del Marchese e di Beatrice. Poco egli curava ormai i pregiudizii del mondo e della società; tolto egli avrebbe sacrificato per isparmiare un solo istante di dolore a questi due esseri, che eran tutto [p. 137 modifica]per lui. Il sentimento religioso aveva nobilitato il suo cuore e l’anima sua; qualunque umiliazione, qualunque sofferenza il ritrovava freddo e rassegnato a’ voleri della Provvidenza, cui altamente egli riconosceva e adorava.

Al momentaneo dolore che il cuor di Gaetano evea provato nel vedersi fatto segno a’ beffardi sorrisi di quella folla elegante, e nello scorgere il rossore di Beatrice, era succeduta una mortale inquietudine per lo stato in cui egli vedea la diletta fanciulla. Una pallidezza estrema era succeduta a quella vampa che aveva arroventato le gote di lei: ella soffriva assai: l’occhio profondo del medico non s’ingannava.

Era finito un giro di valser. Gaetano profittò di quella confusione che tien dietro al cessar d’una danza, e si accostò a Beatrice.

— Beatrice, le disse sotto voce, voi soffrite?

— Sì, Oliviero, io soffro!... E voi pure mi avete abbandonato!

Abbandonarvi! I miei sguardi non vi han lasciata un solo istante, ma capite... le convenienze della società... sappiate che agli occhi del mondo è un delitto che un marito e una moglie stieno vicini l’uno all’altra in una festa di ballo...

Nel profferir queste parole Gaetano avea fissato uno sguardo indagatore sul volto della giovinetta, la quale abbassò gli occhi con visibile inquietezza, e non rispose che traendo dal seno un profondo sospiro.

— Andiamo in qualche altra stanza, disse indi a poco, qui mi sento soffocare. [p. 138 modifica]

Ella si alzò, Gaetano le disse di seguirla; attraversarono parecchie sale e si cacciarono io una cameretta poco illuminata.

Beatrice si abbandonò sovra un divano.

Nella sala da ballo era corsa voce che alla moglie di Blackman era sopraggiunto un leggiero mal di capo. Il marchese Rionero era occupato ad un tavolino di whist; Carolina, sbalordita dal ballo, circondata dagli omaggi de’ più allegri giovani, avea per un momento dimenticato la sua amica. D’altra parte, la fanciulla, avendo veduto Beatrice allontanarsi col suo consorte, stimò indiscrezione il seguitarla.

Gaetano e Beatrice rimasero soli.

La polka era ricominciata. I fragorosi motivi della musica colpivano appena le loro orecchie, e lo strofinio dei passi sullo sdrucciolevole pavimento si sentiva appena come il mormorio di quelle onde addormentate che si rompeano sulla spiaggia di Mergellina.

Gaetano era rimasto all’impiedi sotto la volta del balcone e si taceva in un silenzio tamultuante di affetti; ma lo stato in cui egli vedea la donna del suo cuore lo spaventò così che, appressatosi a lei:

— Beatrice, le disse, io sono il più disgraziato degli esseri umani: è qualche tempo che voi soffrite e mi celate la cagione delle vostre lagrime e delle vostre sofferenze. Non al medico, non al marito, ma all’amico aprite l’animo vostro. Abbiate pietà di me, non isquarciate questo cuore che tanto vi ama; abbiate in me confidenza, perocchè spero provarvi che non [p. 139 modifica]la riponeste male... Iddio ci accorda questo momento di solitudine in queste sale dove tutto è sorriso all’apparenza, e dove nissuno può sospettare che vi sieno due cuori che tanto soffrono... Dite, Beatrice, dite quello che vi ange; non temete, io sono pronto a sacrificar tutto alla vostra felicità... Se il titolo di mia moglie fa montare il rossore sulle vostre guance, se esso è la cagione della tristezza che vi opprime, ditemelo Beatrice, ditemelo chi sa! Io forse avrei la forza di rinunziarvi! Io ho giurato nel mio cuore di rendervi felice a qualunque costo, anche col sacrificio della mia vita! Dimmelo, Beatrice, parlami nella candidezza dell’anima tua; se la mia deformità t’ispira un sentimento di avversione che il tuo cuore non sa vincere, dimmelo, perchè io potrei...

— Che! signore! esclamò Beatrice, voi...

— Tutto potrei, Beatrice, per istrappare la tristezza dall’anima vostra. Se la mia mano ha oprato un prodigio nel ridonarvi la vista, un prodigio oprerei per dichiarar nullo il nostro matrimonio e restituirvi la felicità...

— Oh la felicità!... Essa mi sfugge con la vita, mormorò Beatrice; uomo generoso, io non arrossisco del titolo di tua moglie, anzi ne superbisco, la cagione della mia tristezza è ignota a me medesima... Io non so quello che provo nell’anima mia, ma sento che nulla potreste fare per dissipare il presentimento che ho di una prossima fine.

In sul terminar di questa frase che giunse a stento all’orecchio di Gaetano, tanto era fioca [p. 140 modifica]la voce della giovinetta, un uscio si aprì che simulava esattamente il muro.

Un uomo si era fermato sotto quell’uscio.

Gaetano gettò un grido dì sorpresa.

— Amedeo Santoni! esclamò, voi qui, signore! Dio, in quale stato lo ridussi!

— Beatrice, le nostre parti sono cambiate; voi godete la vista degli occhi ed io ne sono privo per sempre! disse il cav. Amedeo senz’ira, senza commozione.

Egli non era più che una larva di sè medesimo. Trent’anni di più non lo avrebbero totalmente invecchiato siccome compariva. Folta e scomposta gli cadea dal mento la barba nera che dava maggior risalto all’estremo biancore del suo volto. Il dolore avea lasciato un’orma possente del suo passaggio su quelle sembianze, le quali ciò nella di meno eran cosparse di tanta serenità che Gaetano ne rimase stupefatto.

Beatrice era come trasognata. Con lo sguardo fisso sull’individuo che si mostrava come un’apparizione prestigiosa, con le labbra socchiuse, ella parea che aspettasse la parola dell’enigma.

— Indovino la vostra sorpresa, Beatrice; voi non vi aspettavate di trovarmi qui e in questo stato nel quale mi ha messo il vostro sposo Oliviero Blackman.

— Che! sclamò la fanciulla e guardò il medico, voi signore!

Gaetano si covrì il volto con ambo le mani.

— Non egli si affrettò di soggiungere [p. 141 modifica]Amedeo, ma Colui che dispensa le pene adeguate ai falli. Ascoltami, Oliviero, ascoltami attentamente. Ne’ primi momenti che io mi accorsi di essere diventato cieco, quando questa orrenda convinzione s’impadronì di me, non so dirti a quali eccessi di rabbia e di disperazione mi detti in preda; io ruggiva come leone, bestemmiava contro tutti gli uomini e passava le intere giornate a esecrar l’universo. Io ben conosceva l’autore della orribil disgrazia che mi era sopraggiunta; conscio de’ miei imperdonabili torti, io sapeva che non altri che il Blackman poteva essere stato quegli che inventava un genere di vendetta così atroce contro di me, suo nemico, tanto più che ancora mi risuonavano all’orecchio le tue beffarde parole, allorchè ti presentasti a casa mia nel momento che io era divenuto cieco per opera delle tue mani. Ed io non riposava pensando al come annientarti, al come disfogare la rabbia dì vendetta che mi dilacerava l’anima. Accasarti alla giustizia? ma come avrei potuto farlo? Su quali indizi stabilir l’accusa? Ed ancorchè mi fosse riuscito il provare che tu mi avevi strappate le pupille, non avresti tu allora disvelato a’ tribunali il tentativo di assassinio ond’io voleva lordar la mia vita?

«Ne’ momenti di rabbia feroce che mi assalivano, avrei voluto da me medesimo satollarmi del tuo sangue, avrei voluto sbranarti colle mie unghie, avrei voluto saziar lentamente la sete di vendetta che mi divorava, veggendoti a morir straziato. Poscia, quando io considerava che non avrei potuto vederti, quando [p. 142 modifica]pensava che lo stato in cui mi trovava era tale che non mi permetteva neanche di vendicarmi io mi arraffava i capelli, mi mordeva le braccia e spasseggiava demente di furore, nelle stanze del mio appartamento, urtando contro le suppellettili e contro le pareti.

«Oh tremenda lezione! Tutti quegli amici che pocanzi eran seduti meco a lieto banchetto, che si estasiavano su i sentimenti di amicizia, che mi stringevano la mano protestandomi la loro eterna devozione, scomparvero non sì tosto io fui colpito dalla disgrazia: i pochi che ancora io mi veggeva d’attorno e che tuttora sembravano esser tocchi dal mio stato avevano uno scopo molto più ignobile e scellerato, quello di profittare della mia cecità per carpirmi danaro, che ei dicevano spendere per medici e per rimedi.

Medici e rimedi! A che mi giovavano? Non si era dichiarato non poter io mai più riacquistar la vista?

Io era rubato da’ miei servi, da’ miei amici; lo scherno e il motteggio non mancavano alle volte; e nessun’amica parola confortava i miei giorni di orrenda solitudine! Le lagrime mi rifluivano tutte sul cuore... Io non era più riconoscibile, per quanto io stesso mi accorgeva, perocchè, toccandomi il volto, il trovava considerabilmente assottigliato, e tutti i miei vestiti mi sembravano più larghi, lo mangiava pochissimo, più non fumava: tutto ciò che mi aveva altre volte allettato ora io detestava, malediceva.

Oh quanto era misero nel mezzo delle mie [p. 143 modifica]ricchezze! Io faceva paura a me medesimo camminando nel mio vasto appartamento. Il sospetto, la pusillanimità, la codardia mi accompagnavan sempre!

Oh come orrenda si fu la prima volta che io mi svegliai cieco! Credevo che il sonno non ancora mi avesse abbandonato, credevo che la notte durasse tuttavia, che non ancora fosse spuntato il giorno! E prestai l’orecchio all’orologio a pendolo; e quando quello battè le otto del mattino, gettai un urlo disperato, chiesi un’arma per troncarmi l’aborrita esistenza.

Un giorno un amico officioso mi disse che Beatrice Rionero più non era cieca, che Oliviero Blackman le avea dato la vista: questa notizia mi dette in sul principio un accesso di furore; col bastone che mi serviva di guida nelle mie stanze ruppi in frantumi un magnifico vaso di fiori.

Ma da questo momento cominciò per me quel salutare ritorno su me medesimo che tanto ha poscia trasformato il mio essere! Mi sorse in mente il dubbio che tutto quello che mi era accaduto fosse l’opera di una mano superiore, che a tal modo aveva in me castigato le nefandezze della mia vita passata. Oh quante volte avea io riso sulla tua cecità, Beatrice! Quante volte seduto a mensa inebbriante avevam folleggiato sulla tua disgrazia! Ed eccomi piombato in questa medesima orrenda condizione in cui tu ti trovavi. Ecco la mia stolta superbia ridotta alla più compiuta impotenza! Eccomi il più infelice, il più debole di tutti gli [p. 144 modifica]esseri! Eccomi caduto al di sotto di tutte le gradazioni della specie umana!

Cominciai a considerare freddamente la mia trista posizione. Un giorno, un raggio divino rischiarò la mia mente, che mi sembrò che tutto non era finito ancora per me; mi parve che io avrei potuto eziandio crearmi usa larva di felicità nello stato in cui mi trovava; il pentimento, la rassegnazione, il perdono. La divina massima: Perdona ed ama i nemici, invece di esasperarmi, mi consolava!

Pensai che, s’io mi fossi riconciliato con l’Ente Supremo non sarei stato più solo, che nella notte della mia vita, stretto a Lui, io sarei stato meno infelice. Questo pensiero che mi veniva dal cielo, mi fece tanto bene che io ne piansi lunghe ore, e quel pianto era rugiada freschissima alla mia anima lacerata.

Pregai Dio dal fondo del cuore che non mi avesse abbandonato; il pregai di perdonare a’ falli della trascorsa mia vita.

Oh come tutto cangiò nella mia posizione! accettai la mia disgrazia con rassegnazione; mi posi tranquillamente a meditare sulle follie e sulle vanità della vita, e non mi estimai tanto infelice quanto in sul principio mi era tenuto.

La mia cecità mi poneva nello stato di eterna costernazione; io risolvetti farmene uno stato di eterna preghiera.

Tante volte io pensava con immensa soddisfazione che se io non avessi subita la disgrazia in cui mi trovava, forse sarei morto nella impenitenza e nel peccato; e allora io [p. 145 modifica]benediceva il Creatore di avermi dato un mezzo onde ricredermi.

La cecità, io diceva in me medesimo, è una morte nella vita, facciamocene dunque una preparazione salutare per una buona morte. Ho vivuto abbastanza pe’ piaceri a per le dissolutezze, viviamo ormai per l’eterna salute; abbastanza vissi per me viviamo un poco per gli altri.

La preghiera e la beneficenza occuparono i miei giorni. Io vendetti il mio appartamento alla strada Nardones non meno che tutte le mie suppellettili: congedai i miei servi, e fermai di vivere il più modestamente che mi fosse possibile. Il fasto più non si addiceva al mio stato. Mi restava un amico, il conte Franconi; lo pregai di darmi una stanza della sua casa; egli vi acconsentì, ed io venni a vivere in questo palazzo.

Non so dirvi quello che provò il mio cuore allorchè seppi che tutti e due, in compagnia del marchese Rionero, sareste venuti a passar qui una giornata. Io avea pregato il conte Franconi di non rivelarvi giammai esser io suo ospite, perocchè desiderava esser da tutti obbliato, siccome tutti mi avevano col fatto obbliato nella mia disgrazia. Il Conte mi tenne la parola e nulla vi disse.

Allorchè voi giungeste in questa casa, nel passar che faceste presso la mia stanza, udii la voce del Marchese e la tua, Oliviero. Non volli prender parte al pranzo, imperciocchè non volli turbare colla mia presenza la festevole [p. 146 modifica]compagnia. Ho pranzato solo, nella mia cameretta, facendo voti per la vostra felicità.

Mille volte ho ringraziato il cielo per non aver permesso che io vi avessi sposata, Beatrice. Oh! voi sareste stata sventurata assai! Il mio carattere era sì cattivo, sì pessime le mie assuefazioni!

Io voleva incontrarmi con voi due, ma non osava farvi pregare di recarvi nella mia stanza; avea rossore di me medesimo. Me ne stava adunque là dentro abbandonato ai miei pensieri. Mentre la casa rimbombava di festosi accordi musicali, mentre poco da me discosto tutto era sorriso, vita, piacere, nessuno poteva sospettare che in un angolo del medesimo appartamento, sotto il medesimo tetto, stesse il cavalier Amedeo Santoni, ridotto alla più deplorabile condizione.

Pocanzi di là entro udii la vostra voce, Blackman, e la vostra, Beatrice; supposi che foste soli e mi feci animo a presentarmi a voi. — Avea bisogno di chiedere il vostro perdono, Oliviero, e quello di Beatrice... Sì il mio cuore sarà più tranquillo allora che udrò dalle vostre labbra quel perdono che non lascio di chiedere ogni giorno all’Ente Supremo. Oh! accordate al povero cieco, tanto conforto; fate che io senta la vostra mano nella mia».

Gaetano si precipitò sulla destra che il cieco gli porgeva, la baciò con tenerezza e vi depose una lagrima.

— Son io, Amedeo, son io che debbo dimandarvi perdono; la mia vendetta fu vile, [p. 147 modifica]esecrabile e tanto più infame quanto più irreparabile.... Perdonami, Amedeo, e abbracciami.

Que’ due si abbracciarono!... Nobil trionfo della Religione!

Beatrice era rimasta così sbalordita, così stupefatta da quanto avea udito e da quanto vedeva, che non ebbe la forza di profferire una sola parola.

Gaetano menò dolcemente per mano Amedeo verso la giovinetta... Costei si alzò, strinse la destra del cieco e con debil voce gli disse:

— Sig. Amedeo, adoriamo i decreti della Provvidenza... se la nostra amicizia può confortarvi nella vostra solitudine, abbiatevela affettuosa e sincera. Tiriamo un velo sul tristo passato.

Molte voci si fecero udire nelle stanze contigue; si dimendava di Beatrice e di Blackman.

Amedeo si ritirò nella sua stanza, dopo avere abbracciato Gaetano e impresso un bacio sulla fredda mano della giovinetta.

Gaetano e Beatrice ritornarono nella sala da ballo. Carolina riabbracciò l’amica e fu spaventata dell’estrema pallidezza che si scorgeva sul volto di lei.

Tutt’i convitati passarono nella sala, dov’era preparata una splendida imbandigione.

L’allegria più spensierata regnò durante quell’ora di piaceri. La stitica cerimonia cedè il posto alla giovialità franca e disinvolta.

Dopo la cena, si ritornò al ballo con [p. 148 modifica]ardore, con frenesia. Il galop, scervellato e furibondo, succedè a’ passi misurati delle contradanze, alle brusche movenze della polka, ai giri vorticosi del valser francese.

La festa di ballo terminò allo spuntar dell’alba.

Allorchè il giorno venne a rischiarare in quella casa gli avanzi della festa, un sentimento penoso colpì tutti nel ravvisar sulle fattezze di Beatrice un lividore di morte.

E quando Carolina, accompagnatala nella stanza che agli sposi venne destinata, si congedava da lei, augurandole buon riposo, la fanciulla non potè rispondere, giacchè un urto di tose secca e cavernosa le troncò la parola.

Gaetano e il Marchese si trattennero alcun poco presso la fanciulla, che cadde in una specie di sopore affannoso. E quando fu tempo di ritirarsi, Gaetano guardò supplichevole il Marchese implorando tacitamente da lui la grazia di rimanersi accanto all’adorata fanciulla. Il marchese Rionero capì quello che Gaetano volea dirgli, lo abbracciò, e traendolo seco da quella stanza, sottovoce gli disse; A Sorrento.