La donna fiorentina/Nei primi secoli del Comune

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La donna fiorentina Da Dante a Boccaccio
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NEI PRIMI SECOLI DEL COMUNE

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Alla Società per l’istruzione della donna, in Roma il 13 marzo, e al Circolo Filologico di Firenze il 25 aprile, del 1887.

Conservo a questo e ad altri degli scritti che compongono il presente volume la forma con la quale mi nacquero, di pubblica lettura. Bensì la materia, che qui si distende quant’occorreva alla trattazione dell’argomento, fu in quelle letture contenuta entro limiti di tempo e di discrezione

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Signore e Signori,

Più volte mi è occorso pensare, che si potrebbe ritrarre, così in punta di penna, la vita antica fiorentina, delineandola per figure femminili: dalle donne casalinghe de’ tempi di Cacciaguida alle madrifamiglia dei primi tempi medicei; poi da queste alle popolane e gentildonne animose e gagliarde degli ultimi anni repubblicani. Io mi son provato ad abbozzare il ritratto della donna nel primo di que’ due periodi, cioè dai principi del Comune sino ai tempi dell’oligarchia prevalente nella seconda metà del secolo XIV. La donna fiorentina di questo periodo può considerarsi nella realtà storica, nelle leggende, nella idealità poetica. Mi fermo ai due primi capi; realtà storica, leggende; e sotto di essi raccolgo (né altro prometto al mio cortese uditorio) alcune imagini e figure dal vero.

Ma una cosa, innanzi di procedere, giova che sia avvertita. Alla libertà fiorentina, da’ primordi del Comune sino alla distruzione degli ordini repubblicani nel 1530, la donna non recò il tributo di atti virili ed eroici come fu in altre città d’Italia. Non ha Firenze, né dalla storia né dalla leggenda, la Cinzica de’Sismondi, che salva Pisa dalla notturna aggressione dei Saraceni; non ha Stamura, che col ferro e col fuoco affronta impavida l’esercito imperiale assediante. la sua Ancona; né Caterina [p. 4 modifica]Segurana, a cui Nizza pose una statua sulla porta Peiroliera da lei difesa contro Turchi e Francesi; nè madonna Cia degli Ubaldini, la forte donna romagnola, «guidatore della guerra e capitana de’ soldati»,1 che sostiene Cesena contro le masnade sanguinarie del cardinale d’Albornoz, resistendo con pari fermezza e alle armi nemiche e ai consigli di resa che le vengono da valorosi uomini di guerra; nè, se vogliamo aggiungerla, Caterina Sforza Riario, che, nella ròcca di Forlì, calpesta la fede data e la vita stessa de’ figliuoli, per assicurare la vendetta dell’ucciso marito; madre poi, e non fa maraviglia, di Giovanni delle Bande Nere. Nè sono fiorentine, ma della terra e del tempo dei Vespri, le donne che aiutavano la difesa della patria contro l’angioino oppressore; e il popolo ne faceva la canzonetta, che Giovanni Villani2 avrebbe dovuto conservarci intera:

Deh com’egli è gran pietate
delle donne di Messina:
veggendole scapigliate
portare pietre e calcina!

Eroismo rinnovato, bensì con tutta la pompa del sec. XVI, dalle gentildonne e popolane senesi, che distribuite in squadre con divise a tre colori, violetto rosa e bianco, lavorarono alle fortificazioni di quell’ultimo baluardo della democrazia toscana; e meritarono che un gentiluomo francese, il Montluc,3, rendesse loro l’omaggio dei prodi. Non ebbe eroine Firenze, o le ha dimenticate. Ma che perciò? La donna non ismentisce nella storia la propria natura e l’ufficio commessole dalla Provvidenza: la istoria sua è (salvo eccezioni, così nell’ordine de’ fatti come del pensiero) storia senza nomi, ma di tutti i giorni e di tutte [p. 5 modifica]le ore, perchè nessun giorno e nessuna ora passano senza lacrime umane, ed è lei che le raccoglie o le dona; nè senza bisogno di conforti alle battaglie della vita, e dal sorriso di lei ci vengono i più efficaci. Rintracciare tale storia è invero malagevole; ma non più di altre ricerche morali e psicologiche intorno alle umane vicende. E se non le mancano pagine nel mondo antico, dove l’individuo era sì gagliardamente assorbito nella pubblica cosa; se in ciò che di benefico ebbe, contro quella tirannide dello Stato, la violenza barbarica, uno dei simboli della individuale libertà e della umana coscienza rivendicata è appunto la donna; sarebbe illogico, che la storia di lei, nel senso e contenuto suoi veri, scarseggiasse in secoli di civiltà e libertà cristiane, e a noi tanto più vicini e di tanto più agevole investigamento; per modo che dovessimo limitarla alla genealogia delle case feudali o principesche o magnatizie, che sarebbe quasi un abolirla del tutto dai gloriosi annali delle nostre repubbliche. Ben altramente hanno pensato della storia femminile menti elette o sovrane. Il Tommaseo4 scrisse, che «se prendessimo a considerare la donna quale ce la dipingono via via tutti i poeti gli storici i moralisti, de’ varii luoghi e de’ tempi, troveremmo in lei quasi l’ideale del secolo»: nè egli era facile adulatore di nessuna potenza. Il Guasti5, raccogliendo le lettere d’una madre fiorentina del Quattrocento, spera aver provato con quelle, che nelle lettere delle donne sia riposta la storia più intima di un popolo». E il più grande Poeta dell’evo moderno questa idealità della donna, immanente nella storia, raccolse in una vigorosa astrazione chiamandola «l’eterno Femmineo»; i cui splendori un Poeta nostro6 ha salutati sopr’una fronte regale, che ha corona invidiabile nell’amore unanime del popolo suo. [p. 6 modifica]le ore, perchè nessun giorno e nessuna ora passano senza lacrime umane, ed è lei che le raccoglie o le dona; nè senza bisogno di conforti alle battaglie della vita, e dal sorriso di lei ci vengono i più efficaci. Rintracciare tale storia è invero malagevole; ma non più di altre ricerche morali e psicologiche intorno alle umane vicende. E se non le mancano pagine nel mondo antico, dove l’individuo era sì gagliardamente assorbito nella pubblica cosa; se in ciò che di benefico ebbe, contro quella tirannide dello Stato, la violenza barbarica, uno dei simboli della individuale libertà e della umana coscienza rivendicata è appunto la donna; sarebbe illogico, che la storia di lei, nel senso e contenuto suoi veri, scarseggiasse in secoli di civiltà e libertà cristiane, e a noi tanto più vicini e di tanto più agevole investigamento; per modo che dovessimo limitarla alla genealogia delle case feudali o principesche o magnatizie, che sarebbe quasi un abolirla del tutto dai gloriosi annali delle nostre repubbliche. Ben altramente hanno pensato della storia femminile menti elette o sovrane. Il Tommaseo7 scrisse, che «se prendessimo a considerare la donna quale ce la dipingono via via tutti i poeti gli storici i moralisti, de’ varii luoghi e de’ tempi, troveremmo in lei quasi l’ideale del secolo»: nè egli era facile adulatore di nessuna potenza. Il Guasti8, raccogliendo le lettere d’una madre fiorentina del Quattrocento, spera aver provato con quelle, che nelle lettere delle donne sia riposta la storia più intima di un popolo». E il più grande Poeta dell’evo moderno questa idealità della donna, immanente nella storia, raccolse in una vigorosa astrazione chiamandola «l’eterno Femmineo»; i cui splendori un Poeta nostro9 ha salutati sopr’una fronte regale, che ha corona invidiabile nell’amore unanime del popolo suo. [p. 7 modifica]È allegrezza e consolazione della casa dov’ella è nata, e che non muterà con quella dello sposo, se non a tempo debito, e contentandosi, essa e l’uomo che riamato ama lei, di dote ragionevole; cosicché «né il tempo né la dote faranno al padre paura». L’austerità del costume le risparmia le frivole cure e gli artifizi procacciativi di bugiarda bellezza: ella «vien dallo specchio senza il viso dipinto»; e «contenta al fuso e al pennecchio», prepara di propria mano le semplici vestimenta al marito. Un solo amore comprende nell’anima sua la convivenza non interrotta con esso, e il luogo del comune estremo riposo nella dolce terra nativa: sentimento che il Poeta chiama «la certezza della sepoltura», e «Oh fortunate!» esclama con una di quelle note che insegna l’esilio. La giovine sposa «veglia a studio della culla», e acqueta e sollazza la sua creatura; mentre la nonna, filando, racconta ai grandicelli le luminose leggende delle origini italiche e della potenza latina,


                              favoleggiando con la sua famiglia,
                              de’ Troiani, di Fiesole e di Roma:


però che essa, la donna del Comune italiano, indovina e sente che questo è l’erede e il rinnovatore legittimo di quel glorioso passato; e nel nome augusto di Roma, che i fanciulli imparano dalle labbra materne a chiamar madre della loro città, sublima il concetto della patria in quelle tenere menti, e ve lo impronta non cancellabile.

Dico, la donna del Comune italiano: e quel che dalla storia di Firenze verrò, di figure femminili, delineando e colorendo, s’intenda che sia in gran parte com’un ritratto della donna italiana nella vita de’ nostri liberi Comuni. 10 Però che anche rispetto a questa gentile imagine del nostro passato, le diversità e le contingenze regionali [p. 8 modifica]sottostanno alle ragioni di somiglianza, anzi alla identità di certe generali condizioni storiche, entro le quali si rimase involuto fino ai giorni presenti il benaugurato germe della unità nazionale. Se non che la storia di Firenze è forse la più ricca di qualsiasi altra delle città nostre, rispetto a notizie e documenti di carattere particolare e domestico; è altresì quella, dove, per le ragioni della lingua, anche tale ordine di fatti e di cose sia stato rappresentato con maggior larghezza, e sia più universalmente noto, per opera di storici, di novellatori, di trattatisti, di poeti, di comici, che la città non tanto ha avuti quanto dati alla nazione.

II.

Quella donna fiorentina de’ secoli XI e XII, nella cui soave ricordanza Cacciaguida si esalta, e le congiunge la memoria della madre sua «ch’è or santa», e i travagli di lei partoriente con la invocazione di Maria; non ha un nome, perchè essa era nella mente di Dante un universale, comprensivo e cumulativo delle figure individue concorse a formarlo. Quella gentile, non d’altri splendori luminosa che della fioca e carezzevole luce delle pareti domestiche, invecchiò presto: poiché poco più d’un secolo separa la realtà storica di lei dal rimpianto che ne suona, come di cosa ormai remota, nei versi del fiorentino proscritto. Ma già ell'era vecchia, e di secoli pur quando generava

a così riposato, a così bello,
viver di cittadini, a così fida
cittadinanza, a così dolce ostello;


perchè in lei, quale questa divina poesia11 l’ha scolpita, ritroviamo, immutata lungo il corso delle età procelloso, [p. 9 modifica]l’antica madrefamiglia, sulla cui tomba il massimo della lode è che fu da casa e filò la lana (domum servavit, lanam fecit). Questa parte delle tradizioni latine era affidata a lei, che la mantenesse, incontaminata dalle orgie e dalle ebbrezze imperiali, poi fra le vendette sanguinose della barbarie, nella silenziosa desolazione successa all’immensa caduta, infine nei mescolamenti delle razze sopravvenute addosso al volgo innominato e disperso, ma conservatore tenace, finche gli rimane una famiglia, e della famiglia, vigile e sospettosa e, occorrendo, fiera custoditrice la donna. La donna del secolo XII, adunque, piuttosto che da quello al successivo invecchiata, può dirsi aver finito la parte sua, e andar cedendo alle condizioni, che intorno a lei si atteggiano così diversamente, di vita politica, di costumanze, di pensieri e propositi. Nella civiltà nuova — della quale è resultato e compendio, istituzione lentamente elaborata, il Comune — troppi elementi, fin allora latenti più o meno e costretti, si svolgono alle aure di libertà, cosicché anche la vita domestica, e le relazioni di questa con la civile, possano sfuggire ad una mutazione. Nè fa maraviglia che tale mutazione non piaccia a Cacciaguida. Egli si ricorda de’ bei tempi, quando, lui giovinetto, vivevano ancora i cittadini della «picciola Firenze divisa per quartieri, cioè per quattro porte», delle quali Porta del Duomo era stato, dice la cronica, il primo ovile e stazzo della rifatta Firenz» (rifatta, nessun Fiorentino ne dubitava, da Carlo Magno imperatore e dai Romani), e dove tutti i nobili cittadini di Firenze la domenica facieno riparo e usanza di cittadananza intorno al duomo, cioè al San Giovanni, e ivi si faceano tutti i matrimoni e paci, e ogni grandezza e solennità di Comune»12. Cacciaguida ha vissuto di questo Comune l’età, com’a dire, inconscia e imperfetta. [p. 10 modifica]senza ne la potenza né le burrasche che poi sopravvennero: la pacifica età consolare, durante la quale la cittadinanza si è venuta ordinando quasi estranea ai contrasti fra Chiesa ed Impero, che ha lasciati combattere ai Marchesini di Toscana, alle contesse Beatrice e Matilde, la cui nominale supremazia non pesò mai di fatto, neanche della grande e popolare Contessa, sulla indipendente città. Scarse relazioni esterne, sia di commercio sia di politica; qualche passata imperiale, fatta quasi sempre innocua dallo spontaneo omaggio e dall’essere la Toscana tenuta abitualmente fuori dell’itinerario strategico di cotesti Cesari e di ciò che si moveva con loro; qualche soggiorno di papa profugo; qualche guemcciuola di contado: ecco gli episodi di quella vita tranquilla, che menavano gli uomini de’ quali Cacciaguida ricorda la parsimonia e la modestia. Cavalieri con semplici cintole di cuoio e fibbie d’osso, non d’argento e perle: cittadini con rozze sopravvesti di pelle di camoscio, non co’ mantelli e le guarnaccie di scarlatto foderate di vaio; case strettamente misurate agli abitatori; nessun lusso, nessuna delicatezza, nessuna corruzione. La sacra maestà dell’Imperatore era ospitata e festeggiata come in famiglia; da Corrado il Salico, «che si dilettò assai della città di Firenze, e molto l’avanzò, e più cittadini di Firenze si feciono cavalieri di sua mano, e furono al suo servigio»13, venendo, per lo spazio di quei due secoli, a Ottone IV, del quale sentiamo pure ciò che racconta, molto a proposito nostro, la cronica14. «Quando lo ’mperadore Otto quarto, venne in Firenze, e veggendo le belle donne della città che in Santa Reparata per lui erano raunate, questa pulcella (Gualdrada di messere Bellincion Berti de’Ravìgnani) più piacque allo ’mperadore. E ’l padre di lei dicendo allo ’mperadore ch’egli avea podere di fargliela basciare, la [p. 11 modifica]donzella rispose che già uomo vivente non la bascerebbe se non fosse suo marito. Per la quale parola lo ’mperadore molto la commendò: e ’l conte Guido, preso d’amore di lei per la sua avvenentezza, e per consiglio del detto Otto ’mperadore, la si fece a moglie, non guardando perch’ella fosse di più basso lignaggio di lui, né guardando a dote. Onde tutti i conti Guidi sono nati del detto conte e della detta donna». Costei Dante chiama, in altro luogo del Poema, la «buona Gualdrada», e quel «buona» valeva quanto «saggia e valente»; e per bocca di Cacciaguida lodando nel padre di lei la semplicità del costume, ce lo conferma tale uomo quale nella ingenua narrazione del Villani apprendiamo a conoscerlo. In siffatta cittadinanza, piccola di numero e della purezza del suo sangue gelosa, è vissuto Cacciaguida; e da tale comunanza ben si usciva degni di cingere, come egli avea fatto, la spada per Cristo, e armato cavaliere dalle mani imperiali morire da valoroso in Terrasanta. Ahimè quanto diversa da quella, di mezzo alle cui miserie il Poeta era asceso allo spiritale viaggio, nella sede dei beati, sollevandosi

                    all’eterno dal tempo ...........
                    e di Fiorenza in popol giusto e sano!15

E un dramma femminile è designato pur da Cacciaguida come punto di separazione fra le due età. Buondelmonte che, per aver ceduto slealmente alle istigazioni d’una Donati e alla bellezza d’una figliuola di questa, paga col sangue lo spergiuro alla fidanzata Amidei, è la vittima che dee segnare in Firenze gli estremi anni di pace:

vittima nella sua pace postrema16.

Storico certamente nella sostanza, e sia pur leggendario nei particolari, quel dramma ritrae mirabilmente la vita [p. 12 modifica]fiorentina sul cominciare del secolo XIII. La comunanza dell’«ovile di San Giovanni»17 è turbata: si è cominciata battaglia tra gli Uberti, sangue germanico (o, com’altri vogliono, da Catilina), e la signoria, latina, de’ Consoli. Gli umori imperiali e chiesastici son già penetrati fra i cittadini, vi serpeggiano insidiosamente, hanno ormai disposti gli animi alla divisione: la consumeranno la bellezza d’una fanciulla, l’interessato zelo materno, la leggerezza e slealtà d’un giovine. Nessuna di siffatte cause avrebbe saputo così sinistramente operare nella sobria e pudica Firenze del buon tempo antico, a cui terza e nona, che le batteva la campana della vecchia Badia del marchese Ugo18, segnavano giorni di pace virtuosa fra cittadini l’uno all’altro affezionati e ossequenti. «E di ciò «fu cagione in Firenze, che uno nobile giovane cittadino, chiamato Buondalmonte de’ Buondalmonti, avea promesso tórre per sua donna una figliuola di messer «Oderigo Giantruffetti (degli Amidei). Passando dipoi giorno da casa i Donati, una gentile donna chiamata madonna Aldruda, donna di messer Forteguerra Donati, che avea due figliuole molto belle, stando a’ balconi del suo palagio, lo vide passare, e chiamollo, e mostrògli una delle dette figliuole, e disseli: — Chi ài tu tolta per «moglie? io ti serbavo questa. — La quale guardando molto li piacque, e rispose: — Non posso altro oramai. — A cui madonna Aldruda disse: — Sì, puoi, che la «pena pagherò io per te. — A cui Buondalmonte rispose: «— E io la voglio. — E tolsela per moglie, lasciando quella avea tolta e giurata»19. Il padre della tradita se ne duole coi consorti; deliberano di vendicarsi: ferirlo? ucciderlo? Il Mosca de’ Lamberti pronuncia la mala parola: «Cosa fatta capo ha». Buondelmonte, la mattina di Pasqua del 1215, mentre si reca a impalmare la [p. 13 modifica]Donati, è ucciso sul Ponte Vecchio, a pie della statua di Marte; di dentro al cui idolo i vecchi e savi fiorentini riconoscono operarsi dal diavolo, per vendetta, la distruzione della cristiana città,

                                                            che nel Batista
                    mutò il primo padrone : ond' ei per questo
                    sempre con l'arte sua la farà trista. 20


Un'antica cronichetta21 rappresenta, come in funebre fantasmagoria, il corpo sanguinoso esser portato per la città fra i pianti e le grida, e nella stessa bara, col capo in grembo, starsi tutta in lacrime la seduttrice fatale, o forse vittima innocente ella stessa delle suggestioni domestiche. Certo è che cotesta figura di donna, sott'ogni rispetto sciagurata, ritrae dal vero e in sé bene raccoglie i tanti e vari e ignorati patimenti che, per tanti anni appresso di cittadine battaglie, si accumularono sulla donna fiorentina:

                         .... infelici ....
                         che il duol consunse; orbate
                         spose dal brando: vergini
                         indarno fidanzate;
                         madri che i nati videro
                         trafitti impallidir.22


Quel «nobilissimo e feroce leone» del quale racconta la cronica che si teneva pel Comune nella piazza di San Giovanni, — e uscito della sua stia, correndo verso Or San Michele, afferra un fanciullo, e «tenealo traile branch »; e la madre, «che non ne avea più » se non questo che « le rimase in ventre » quando le fu ucciso il marito, « come « disperata, con grande pianto, scapigliata, corse contro il leone, e trassegli il fanciullo delle branche, 'e il leone nullo male fece al fanciullo né alla donna, se non ch'egli guatò e ristettesi»23 — e' rendeva, il leone, i figliuoli alle madri: ma il Comune, del quale egli era superbo [p. 14 modifica]sìmbolo, li divorava senza pietà. Altre madri sulle vie di Firenze imitarono quella d’Orlanduccio del Leone, ma esse chiedevano pietà agli uomini, e agli uomini di parte! «Deh quanto fu la dolorosa madre de’ due figliuoli ingannata!» (una madre di Guelfi Bianchi de’ tempi di Dante) che con abbondanza di lagrime, scapigliata, in mezzo «della via, ginocchione si gittò in terra innanzi a messer Andrea da Cerreto giudice, pregandolo, con le braccia in croce, per Dio s’aoperasse nello scampo de’ suoi figliuoli. 11 quale rispose, che però andava a palazzo: e di ciò fu mentitore, perchè andò per farli morire»24. Oh se nell’attraversare oggi quel tetro maestoso cortile, nel salire le lunghe erte scale di quel Palazzo del Podestà, studiosi e commossi visitatori delle reliquie del nostro passato, pensassimo di quanto sangue furono bagnate quelle pietre più che sei volte secolari, dovremmo dire che a cancellarne la traccia, non ci voleva meno delle lacrime tante che quel sangue è costato!

III.

Tutta ravvolta in questi foschi vapori di scellerato odio fraterno, attraversa la donna fiorentina il secolo XIII compagna de’ forti mercatanti ed artefici che lavorando e combattendosi, non meno alacremente l’una cosa che l’altra; e senza tuttavia rimanere insufficienti ad altre faccende, — soggiogare i magnati, osteggiare i Comuni vicini, resistere all’Impero, tenere in rispetto la Curia Romana; — fondano la guelfa, democrazia. Arti e mestieri, nonostante la intestina guerra, fioriscono; e con essi, i commerci e le industrie: la ricchezza muta i sentimenti e i costumi; l’arte del bello, figurato e scritto, comincia [p. 15 modifica]ad ingentilirli. Bensì lentamente. Siamo al primo di quegli ordinamenti popolari, a quello che fu chiamato «il primo popolo» o «popolo vecchio», del 1250; e la cronica25 nota «che al tempo del detto popolo, e in prima e poi a grande tempo, i cittadini di Fiorenza viveano sobrii e di grosse vivande, e con piccole spese, e di molti costumi e leggiadrie grossi e ruddi; e di grossi drappi vestieno loro e le loro donne, e molti portavano le pelli scoperte senza panno, e colle berrette in capo, e tutti con gli usatti in piede, e le donne fiorentine co' calzari senza ornamento; e passavansi, le maggiori, d'una gonnella assai stretta di grosso scarlatto d'Ipro o di Camo, cinta ivi su d'uno scaggiale all'antica, e uno mantello foderato di vaio col tassello sopra, e portavanlo in capo ; e le comuni donne vestite d'uno grosso verde di Cambragio «per lo simile modo. E lire cento era comune dota di «moglie, e lire dugento o trecento era a quegli tempi tenuta isfolgorata ; e le più delle pulcelle aveano venti e «più anni anzi ch'andassono a marito ». ~6 Ma soggiun- gendosi poi che «di sì fatto abito e di grossi costumi erano «allora i Fiorentini, ma erano di buona fé' e leali tra loro «e al loro Comune », — il che quanto a «lealtà tra loro » cioè concordia cittadina, non poteva dopo il 1215 dirsi più, — mostra che molto della descrizione appartiene di più stretto diritto ai tempi anteriori, dai quali il cronista stesso ha dichiarato di muoverla. È insomma la descrizione d'una età di passaggio, dove, da un canto, le «pelli scoperte » e gli usatti ci ricordano i contemporanei di Cacciaguida

andar contenti alla pelle scoperta;

mentre i nomi di que' panni francesi e inghilesi delle gonnelle fiorentine, lo scarlatto d'Ypres o di Cam, il panno [p. 16 modifica]di Cambrai, ci fanno avvertiti esser passati i tempi nei quali

uncor nessuna
era per Francia nel letto deserta. 26-'

E passati, altresì, quelli ne' quali i matrimoni a matura età conciliava non isforzato l'amore, che durante il decimoterzo secolo addivennero anch'essi arme e instrumento, manco male che di difesa, alle animosità civili. Tarda età da marito diventarono i venti anni od anche i diciotto; «grande etade e fiorit » i quindici ; quando si affrettava la collocazione delle figliuole nelle case, o de' consorti per raffermare i vincoli di parte, o degli avversari per suggello di pace: e talvolta anche il Comune stesso vi cooperava27. Si faceva il parentado, essendo tuttora fanciulli gli sposi; e bastava l'età di dodici o tredici anni, perchè la fidanzata fosse poi condotta all'altare e divenisse moglie. Uno degli antichi commentatori di Dante dice: «le maritavano nella culla»28. Guido Cavalcanti, il gentilissimo de' nostri antichi rimatori, fu ammogliato così; datagli dal padre a otto o nove anni, e datagli perchè Guelfi, la Bice degli liberti figliuola del magnanimo Farinata, piccola ghibellina di forse cinqu'anni o sei, che sopravvisse poi lungamente co' figliuoli al marito, morto giovine nel 130029. Forse cosi anche fu conciliato il matrimonio di Beatrice Portinari, giovanissima, con messer Simone de' Bardi30. Matrimoni che avevano, né poteva essere diversamente, i loro drammi. Ma la elegia di coteste giovinezze tiranneggiate è notabile che ci rimanga appunto nell'unico saggio di poesia femminile, offertoci, di molto probabile autenticità, dal secolo XIII, e poesia fiorentina, nei tre sonetti d'una donzella che nasconde il suo nome (la Compiuta Donzella di Firenze, la chiama l'antico Codice Vaticano che ce li ha conservati)31, la [p. 17 modifica]quale, dopo aver salutato col frasario provenzale de’ rimatori dugentisti la primavera,

la stagion che ’l mondo foglia e fiora,

Soggiunge:

ed ogni damigella in gioi’ dimora,
e a me n’abbondan smarrimenti e pianti:
che lo mio padre m’à messa in errore,
e tenemi sovente in forte doglia;
donar mi vuole, a mia forza, signore.
Ed io di ciò non ò disio né voglia,
e ’n gran tormento vivo a tutte l’ore:
però non mi rallegra fior né foglia.

Ed ecco poi, nella triste sua realtà, il dramma. Una Buondelmonti, di famiglia guelfa, «molto valente e savia e bella», va il 1239 sposa negli Uiberti a un fratello di Farinata: che è quanto dire, parentado fra le due famiglie, capo ciascuna di parte. Alcuni anni dipoi, in un agguato, alcuni degli Uberti sono trucidati dai Buondelmonti: la città è tutta in armi e sossopra. Messer Neri degli Uberti rimanda la donna alla casa paterna, dicendo: «Io non voglio generare figliuoli di genti traditore.». La poveretta, che lo ama, obbedisce e lo lascia. Il matrimonio è annullato: peggio ancora; è dissimulato dal padre di lei, in un altro trattato di nozze che egli conchiude con un conte della maremma senese. Il sacrifìcio è compiuto: ma la vittima, rimasta sola col nuovo marito, gli dice: «Gentile uomo, io ti priego per cortesia, che tu non mi debbia appressare né fare villania, sappiendo che tu se’ ingannato, ch’io non sono né posso essere tua moglie, anzi sono moglie del più savio e migliore cavaliere della provincia d’Italia, cioè messer Neri delli Uberti di Firenze». Il conte, gentiluomo davvero, la rispetta, la conforta, la restituisce padrona di sé: e quella nobile creatura ritorna alla sua Firenze, ma
Del Lungo 2
[p. 18 modifica]per vestirsi monaca in Monticelli, e quivi sparire dal mondo, che oggi ignora perfino il suo nome. 33

Il monastero riparò molte di queste infelicissime; il monastero, del quale la Compiuta Donzella cantava:

Lasciar vorria lo mondo, e Dio servire,
e dipartirmi d’ogni vanitate:
... marito non vorria né sire,
né star al mondo per mia volontate.
Membrandomi eli’ ogni uom di mal s’adorna,
di ciaschediin son forte disdegnosa,
e verso Dio la mia persona torna.
Lo padre mio mi fa stare pensosa,
che di servire a Cristo mi distorna,
né saccio a cui mi vnol dar per isposa.

Ma neanco il monastero fu talvolta asilo sicuro alla loro innocenza, alle loro sventure, alla libertà dell’anima loro. Dio solo, ha detto Dante, conobbe que’ misteriosi dolori:

e Dio si sa qnal poi mia vita fusi.32

Poiché a chi di voi non precorre qui alla mente la celestiale figura di Piccarda, che rimpiange la dolce chiostra dove giovinetta era fuggita dal mondo, e l’ombra delle sacre bende che ella ed altre indarno sperarono conservare sul capo canuto, e si compiace che

non fur dal vel del cuor giammai disciolte?

Gli antichi commentatori raccontano che ella «fue bellissima donna, sorella di messer Corso Donati: stata questa donna nel monistero, occorse a messer Corso di fare un parentado in Fiorenza: non avea né chi dare né chi tórre: si che fue consigliato di trarre la Piccarda del monistero, e fare tal parentado ... Sforzatamente la trasse del monistero, e maritolla»33. Con siffatti auspici entrò Piccarda nei Della Tosa: ai quali, sebbene famiglia guelfa e legatissima con la Chiesa e con l’episcopato fiorentino, sembra fossero familiari, forse perchè più facilmente [p. 19 modifica]impunite, siffatte violenze contro i monasteri; poichè nel 1304, quando i Guelfi Bianchi fuorusciti tentarono armata mano il ritorno, uno dei Tosinghi si gettò, narrano i contemporanei34, nel monistero di San Domenico, alla preda di due sue ricche nipoti. Le quali cose ricordando di cotesta possente famiglia magnatizia, che l’Alighieri pone fra le ingrassate a spese della Chiesa fiorentina35, occorre altresì alla mente un’oscura pagina, o piuttosto un curioso enigma, di storia, che risguarda e loro e la donna fiorentina del secolo XIII: dico una cena che il reverendo capitolo della Basilica di San Lorenzo dava il giorno di calen di maggio, ossia il di delle feste primaverili, non si sa a quali convitati, ma con abbondante imbandigione, e che si chiamava «la cena delle maladette donne de’ Tosinghi »36. Resta, ripeto, a sapersi il perchè di questa maledizione, e dell’esservi mescolate le donne di a nella casa, e dello intitolarsi da una maledizione di donne una cena imbandita per cura e a spese d’un capitolo di canonici. Forse Dante potrebbe dircene qualche cosa per bocca d’una delle donne del suo Poema, monna Cianghella della Tosa; il cui nome egli lancia, con quella potenza di vitupero ch’ei sa, come un ideale femminile di tutto quel che non era Cornelia romana:

          Saria tenuta allor tal maraviglia
               una Cianghella .........
               qual or saria ......... Corniglia37


Ma che sulla donna pesasse duramente la maledizione di quelle discordie, è certo pur troppo. Era già dura servitù la inferiorità civile nella quale era tenuta dalle leggi, con subordinazione non pure della sua personalità giuridica ma sottomissione della sua volontà al mundualdo o procuratore che quelle le assegnavano, e senza la «parola» del quale ella non poteva nè obbligarsi né sciogliersi, .}} [p. 20 modifica]insomma non fare un passo. Ponete caso; anzi sentitene uno da autentico documento per man di notaro38: due donne si accapigliano l'una con l'altra, monna Fiore e monna Puccia; si battono di santa ragione; poi fanno la pace: ma per fare la pace, e perchè monna Fiore, la più gagliarda, sia liberata dalla condanna di lire 275 di piccioli inflittale dal Potestà, occorre prima, che un notaio dia loro il mundualdo, il quale poi dinanzi a un altro notaio autorizza e fa valida la loro pacificazione. Tale la condizion giuridica: le civili discordie poi, con gli esili, con le violenze, con gli odi mortali col vincolare gli affetti, col calcolare a stregua di parte i parentadi, distruggevano alla donna ciò che per essa è tutto, la vita domestica. Si pensa mai, quando si legge di quelle vendette premeditate per dieci, venti, trent'anni, trasmesse in sanguinoso legato da padre a figlio, le quali si sapeva, dall'una parte e dall'altra, pesar com'un debito che era forza non meno agli uni esigere che agli altri pagare, si pensa quante trepidazioni materne e coniugali, di figliuole, di sorelle^ di fidanzate, quante lacrime di tenere creature impotenti a rompere que' giuramenti di sangue, quanti sentimenti repressi, quante vite spezzate, coteste atroci storie si trassero seco? Alcune anime sensitive e ferventi, gittate in età ancor quasi di bambine in quel vortice, ne contraevano lo spavento d'ogni cosa del mondo, cominciando, triste a dirsi!, dalla famiglia. La Chiesa, consacrando con la canonizzazione il distacco di tali donne dalla vita esteriore, quali una Cerchi, una Falconieri (anche Piccardà nel Calendario fiorentino, come nel Paradiso dantesco, è, ma col nome di suor Costanza, tra i Beati)39, può dirsi abbia non solamente coronate virtù miti in età feroce40, ma retribuito dolori ineffabili. Umiliana de'Cerchi, sposa e madre a sedici anni, vedova d'un brulal [p. 21 modifica]marito à venti, sfiduciata dell'avvenire de' suoi figliuoli in quella società di crudeli, torna alla casa paterna, e conforta la precoce vedovanza con la carità verso i poveri e i reietti: aborrente da nuove nozze che le si minacciano, spogliata con inganno della sua dote, le esce di bocca questo pietoso lamento: i^ «Com'io veggio, non è fede in terra, perocché il padre inganna e toglie alla figliuola. Abbiami dunque il mio padre quinci innanzi me non per figliuola, ma per fante e serva». E si rinchiude più in sé, facendo della casa sua monastero; si ritira nella torre del palagio, la quale è a lei oratorio, dice la leggenda, anzi quasi una carcere. L'umano, anche nelle sue più care e sacre attinenze, le si allontana vie- più sempre: «Al tempo dell'orazione, i vostri figliuoli vi sieno lupi, e la camera l'alpe di Montalpruno, dice ella a delle buone madri che si accusano di essere distratte dal pregare per la occupazione della masserizia e de' figliuoli»; ma essa medesima poi con lacrime chiede a Maria la vita della piccola Regale, sua figlia, un giorno che la poverina, dinanzi alle asprezze di quella penitenza, le cade a' piedi come morta: « Abbi misericordia di me, e rendimi questa mia figliuola». Presto la sua vita si va consumando. Sul capo suo, dalla torre del padre, imperversa la guerra civile; i mangani e ì trabocchi grandinano pietre; si appicca il fuoco alle case: per Umiliana tutto questo non è che il trionfo del diavolo, il quale viene a lei dicendo: «Leva su, figliuola, e vedi la città che tutta si consuma ed arde». A ventisett'anni, nel 1246, ella muore. Doveva passare ancor più d'un secolo, perchè Firenze e l'Italia ammirassero in una vergine senese gli affetti umani non spenti ma santificati dal fervore religioso; carit-ivarsi come fiaccola alle procelle del mondo ; l'amore [p. 22 modifica]allearsi allo sdegno in ardimenti virili con femminile modestia; e Caterina rimanere nella memoria degli uomini, ha scritto un suo devoto che propugnò con Daniele Manin la libertà di Venezia, rimanere «donna di consolazione e di lagrime, fanciulla ed eroe, Clorinda ed Erminia dell’eterno poema d’Italia»41.

IV.

Se non che agli uomini del secolo XIV erano ormai antiche, e da non poter più rinnovarsi, quelle atroci battaglie che desolavano, da un momento all’altro, l’intera città; quelle proscrizioni che schiantavano dalla cittadinanza la metà dei cittadini; que’ ritorni di sbanditi, che alle porte della patria esiliatrice si presentavano col ferro in mano e col fuoco. A esiliare pur troppo si seguitò; la condanna del padre colpi i figliuoli anche nelle culle: ma la donna fu rispettata; potè la donna rimanere nelle case vedovate, e serbarle ai ritorni con dolorosa preghiera, nelle chiese della patria, dinanzi alle madonne di Giotto, invocati. Diamo invece un ultimo sguardo al secolo XIII, a questa forte età che nel grembo travaglioso conteneva pure i germi della civiltà moderna. Ripensiamo la prima cacciata di Guelfi nel 1249, che per estremo atto nella patria, celebrano, tutti armati, le esequie del loro portansegna messer Rustico Marignolli, lo depongono in San Lorenzo, poi essi e le lamiglie si partono e si disperdono pel Valdarno: i Ghibellini distruggono le case deserte («maledizione del disfare» che cominciò allora, dice la cronica)42,e d’una torre, che dal vecchio cimitero intorno a San Giovanni prendeva nome di Guardamorto, vogliono «con maggiore empiezza», parole sempre della cronica, vogliono far rovina addosso alla chiesa e ballisiero, come guelfa anche lei, perchè ritrovo ab antico, e fonte di vita e riposo in morte, di Guelfi. E nella seconda cacciata, dopo Montaperti, «arriva in Fiorenza», lasciamo ancora parlare la cronica43, «la novella della dolorosa « isconfìtta; e tornando i miseri fuggitivi, si levali pianto d'uomini e di femmine si grande, che va sino al cielo; imperciocché non avea casa niuna in Fiorenza, né piccola né grande, che non vi rimanesse uomo morto o preso.... I Guelfi, sanza altro comiato, colle loro famiglie, piagnendo, uscirono di Fiorenza e andaronsene a Lucca.... »: fu una città che si riversava in un'altra. I vincitori, con le masnade tedesche, rientrano in patria, e dentro e fuori delle mura la demoliscono mezza. Strappano perfino rabbiosamente dalle chiese le arche sepolcrali e le ossa dei Guelfi: e se oggi un Aldobrandino Ottobuoni, cittadino integerrimo che ai nostri vecchi parve 1'imagine del « buono romano Fabrizio », non ha più la sua tomba in quella che allora era Santa Reparata, si deve a quei sacrilegi44; a omissione, non a reverenza, si deve, che del portansegna Marignolli sia rimasta in San Lorenzo con le ceneri la pietra del sepolcro domestico 45. Se Fiorenza non fu « tolta via » tuttaquanta46, ognun sa che fu virtù e gloria di un uomo. Ma a quei rifugiati in Lucca, che strazio l'udire, impotenti a ripararvi, la rovina delle loro case, delle loro memorie, dell'avvenire de' loro figliuoli! che furore negli uomini! che lacrime cocenti si saranno serrate nel cuore quelle misere donne!47. Poi, rivolta fortuna, successero le vendette guelfe, meno atroci ma più lente, più intime, più continuate, poiché durarono quanto durò la repubblica, dove il nome ghibellino rimase all'odio comune anche quando più non sussisteva la cosa. Confiscati, distribuiti, dispersi gli averi, i possessi delle famiglie ghibelline, come si distrugge il nido d'una bestia feroce; gli Uberti, votati a esilio per- petuo, e nelle orazioni de'Guelfi supplicato Dio che si degni di sradicarli;51 i Santi stessi, se del loro sangue, ri«mossi dall’ altare ; 52 vietato di contrar matrimonio coi conti Guidi e altrettali signori di contado, .e i figliuoli di siffatte unioni sentenziati bastardi : 53 insomma, una scomunica . dalla convivenza sociale, che accompagna l’anatema con che la Chiesa li separa dal suo grembo. Sotto questa bufera di persecuzione, i più de’ Ghibellini cedevano, e, per ritornare o rimaner cittadini, si face- vano Guelfi. Quasi soli i discendenti di Farinata rimasero fedeli alla parte degli avi loro 54 portarono superbamente per le terre d’Italia la propria condanna e la propria fermezza; pagarono intrepidi, sotto la mannaia guelfa, il debito, com’essi stessi lo chiamarono, lasciato Ioro da’ padri; « non mutarono aspetto, non mosser collo, non piegarono costa », quale Dante, fra le tombe di Dite, avea veduto giganteggiare il loro avo magnanimo, co’ suoi eretici ghibellini, col suo imperator Federigo.

Ma come in quel canto sublime, allato a cotesta figura di bronzo, vediamo « in ginocchion levata » l'ombra affettuosa e piangente d'un padre che cerca il figliuolo ; così alle persone di quei profughi, che pure erano figliuoli e padri e sposi e fratelli, noi congiungiamo l'imagine delle povere, deboli creature, che dietro a loro trascina- vano il tormentoso desiderio della patria e della casa perdute. E quando leggiamo 55 che in una di quelle illusorie pacificazioni, tornati per pochi giorni in Firenze anche gli Uberti, fra la gente che venne loro incontro, furono viste donne, i cui vecchi erano stati ghibellini, baciar l’arme degli Uberti sui palvesi di quei proscritti ; noi sentiamo, a distanza di secoli, quel memore bacio, e 1° alito che ne spira di affetti consacrati dal pianto e dal sangue.[p. 25 modifica]

Appartengono a quelli anni del trionfo e della concordia dei Guelfi, le feste del Calendimaggio che i cronisti e il Boccaccio 56 descrivono; le corti bandite, con apparati allegorici d’amore; 57 la poesia toscana che, rotto il circolo siculo provenzalesco, prende nome dal «dolce stil novo *, 58 della quale può esser gentile imagine quel vascelletto incantato, nel quale l’uno de’due maggiori rimatori di cotesta scuola, Dante, affigura sé e Guido Cavalcanti e Lapo Gianni, insieme con le loro donne, mollemente cullati dall’onde del mare tranquillo. 59

Ma prestò si scatenò la bufera. Siccome il lìagello di quelle discordie si rivolgeva contro coloro stessi che lo impugnavano, i vincitori Guelfi, presto gli uni con gli altri guerreggianti, fecero della città conquistatasi e delle case loro lo scellerato teatro di altri disordini. Si cominciò col non credere più oltre sicuro il trionfo del popolo guelfo artigiano, senza la oppressione, anzi V annientamento dei Grandi: e i terribili Ordinamenti della Giustizia rinnovarono, per le vie di Firenze guelfa, il triste spettacolo dei disfacimenti ghibellini. Or pensate voi che possa essere stata disfatta pur una di quelle case, senza che le donne di essa sentissero a uno a uno nel cuore i colpi di quelle demolizioni? Pochi anni dipoi. Guelfi Bianchi e Guelfi Neri, papa Bonifazio Vili e Carlo di Valois, sì aggruppano personaggi sinistri d’una tragedia mossa dalle Erinni familiari, la quale ebbe fin d’allora storico e poeta degni in Dino e in Dante. Raccogliamo brevemente, al proposito nostro, da quelle linee sparse, la imagine della città caduta nel novembre del 1301 in mano del ^ paciaro francese, che al disprezzo dell’Alighieri non parve meritare nemmeno il rinfaccio d’aver lacerato con la spada il seno di Firenze; egli, disse il Poeta, «le aveva, pontando la lancia di Giuda, fatto scoppiare la pancia». 60 [p. 26 modifica]Pagina:LadonnafiorentinaDel Lungo.djvu/42 [p. 27 modifica]Pagina:LadonnafiorentinaDel Lungo.djvu/43 [p. 28 modifica]Pagina:LadonnafiorentinaDel Lungo.djvu/44 [p. 29 modifica]Pagina:LadonnafiorentinaDel Lungo.djvu/45 [p. 30 modifica]Pagina:LadonnafiorentinaDel Lungo.djvu/46 [p. 31 modifica]Pagina:LadonnafiorentinaDel Lungo.djvu/47 [p. 32 modifica]Pagina:LadonnafiorentinaDel Lungo.djvu/48 [p. 33 modifica]Pagina:LadonnafiorentinaDel Lungo.djvu/49 [p. 34 modifica]Pagina:LadonnafiorentinaDel Lungo.djvu/50 [p. 35 modifica]Pagina:LadonnafiorentinaDel Lungo.djvu/51 [p. 36 modifica]Pagina:LadonnafiorentinaDel Lungo.djvu/52 [p. 37 modifica]Pagina:LadonnafiorentinaDel Lungo.djvu/53 [p. 38 modifica]Pagina:LadonnafiorentinaDel Lungo.djvu/54 [p. 39 modifica]Pagina:LadonnafiorentinaDel Lungo.djvu/55 [p. 40 modifica]Pagina:LadonnafiorentinaDel Lungo.djvu/56 [p. 41 modifica]Pagina:LadonnafiorentinaDel Lungo.djvu/57 [p. 42 modifica]Pagina:LadonnafiorentinaDel Lungo.djvu/58 [p. 43 modifica]Pagina:LadonnafiorentinaDel Lungo.djvu/59 [p. 44 modifica]Pagina:LadonnafiorentinaDel Lungo.djvu/60 [p. 45 modifica]Pagina:LadonnafiorentinaDel Lungo.djvu/61 [p. 46 modifica]Pagina:LadonnafiorentinaDel Lungo.djvu/62 [p. 47 modifica]Pagina:LadonnafiorentinaDel Lungo.djvu/63 [p. 48 modifica]Pagina:LadonnafiorentinaDel Lungo.djvu/64 [p. 49 modifica]Pagina:LadonnafiorentinaDel Lungo.djvu/65 [p. 50 modifica]Pagina:LadonnafiorentinaDel Lungo.djvu/66 [p. 51 modifica]Pagina:LadonnafiorentinaDel Lungo.djvu/67 [p. 52 modifica]Pagina:LadonnafiorentinaDel Lungo.djvu/68 [p. 53 modifica]Pagina:LadonnafiorentinaDel Lungo.djvu/69 [p. 54 modifica]54 NEI PRIMI SECOLI DEL COMUNE

l’avvenire affidata dalla coscienza del proprio diritto, e dal valore de’ suoi soldati che combattono e muoiono, senza contare i nemici, nel nome di lei e del dovere, m Santa Maria del Fiore si apparecchia a dischiudere le sue porte ai sovrani benedetti da Dio e dal popolo; e di sotto ai novelli marmi del suo limitare fremeranno in quel giorno le ossa, e per gli spazi delle arcate severe si affolleranno invisibili, intorno agli Eletti della nazione, i magnanimi spiriti dell’antica Firenze. 11 difensore a viso aperto e tutelatore della patria, l’Uberti, «si ergerà col petto e con la fronte» dalla tomba sua vera, ^"^ drappellando nel cospetto del Re prode e leale la vecchia insegna del popolo fiorentino, la Croce, oggi per virtù di Casa Savoia insegna di popolo e di re. Ma a Guido Cavalcanti, nel suo riaffacciarsi dal sepolcro al «dolce lume» del sole, «ferirà gli occhi» una visione gentile, come quelle da lui già idoleggiate nella sdegnosa fantasia, e gli farà ripetere li amorosi suoi versi, ii3 per entro a’ quali trepida, interrogando, l’affetto:

Chi è questa clie vien, eli’ ogni uom la mira, e fa di chiarità l’aer tremare?

E mille voci concordi risponderanno a quella sosjtìrosa melodia d’oltretomba, acclamando il nome dell’Augusta Donna, alle cui speranze materne è raccomandata tanta e sì cara parte delle speranze d’Italia.


Note

  1. [p. 71 modifica]Matteo Villani, Cronica, VII, lxiv.
  2. [p. 71 modifica]Giovanni Villani, Cronica, VII, lxviii.
  3. [p. 71 modifica]Commentaires de messire Blaise de Montluc, mareschal de France; Lyon, 1593; pag. 176.
  4. [p. 71 modifica]La donna; Milano, Agnelli, 1868; a pag. 44.
  5. [p. 71 modifica]Lettere di una Gentildonna fiorentina del secolo XV ai figliuoli esuli pubblicate da Cesare Guasti; Firenze, Sansoni, 1877; a pag. xliv: «Che le lettere familiari sono la prima fonte storica, è cosa nota; ma che nelle lettere delle donne sia riposta la storia più intima di un popolo, vorrei averlo mostrato io con questo volume». Lo stesso Guasti altrove (Opere; Prato, Succ. Vestri; I, 596) osserva che «gli storici fiorentini non sono molto larghi nel darci tipi di donna: ma quelle che ci mettono dinanzi agli occhi, son proprio degnissime di poema non che di storia.»
  6. [p. 71 modifica]Giosuè Carducci, Alla regina d’Italia, XX novembre MDCCCLXXVIII. A pag. 858-860 delle Poesie, Bologna, Zanichelli, 1902. E in Confessioni e battaglie, vol. IV delle Opere (Bologna, Zanichelli, 1890), a pag. 333-357, eterno Femminino regale. — Su l’uso e l’abuso, e la interpretazione critica, della frase goethiana «das Ewigweibliche» è da vedersi un bellissimo saggio di Michele Kerbaker, L’eterno Femminino e l’epilogo celeste nel Fausto di W. Goethe; Napoli, Pierro, 1903. «Per l’eterno Femminino, cioè l’eterna femminilità, nel senso più ovvio, chi non abbia riguardo al passo del Fausto, potrebbe intendersi la potente ed arcana attrattiva che la donna esercita sui sentimenti dell’uomo, mediante le speciali prerogative congenite alla sua complessione fisica e morale.» Ma dall’esame critico dell’epilogo celeste nel Fausto il Kerbaker conchiude, che quella «femminilità eterna» è «l’essenza stessa dell’indole femminile riguardata come una legge costante e provvidenziale della natura, in contrapposizione alla Mascolinità, e di cui la Beata Vergine, Madre di Dio e Regina dei cieli, è un simbolo». In quanto però la frase si presti, come s’è anche troppo compiacentemente prestata, a interpretazione astrattamente umana, [p. 72 modifica]
  7. [p. 71 modifica]La donna; Milano, Agnelli, 1868; a pag. 44.
  8. [p. 71 modifica]Lettere di una Gentildonna fiorentina del secolo XV ai figliuoli esuli pubblicate da Cesare Guasti; Firenze, Sansoni, 1877; a pag. xliv: «Che le lettere familiari sono la prima fonte storica, è cosa nota; ma che nelle lettere delle donne sia riposta la storia più intima di un popolo, vorrei averlo mostrato io con questo volume». Lo stesso Guasti altrove (Opere; Prato, Succ. Vestri; I, 596) osserva che «gli storici fiorentini non sono molto larghi nel darci tipi di donna: ma quelle che ci mettono dinanzi agli occhi, son proprio degnissime di poema non che di storia.»
  9. [p. 71 modifica]Giosuè Carducci, Alla regina d’Italia, XX novembre MDCCCLXXVIII. A pag. 858-860 delle Poesie, Bologna, Zanichelli, 1902. E in Confessioni e battaglie, vol. IV delle Opere (Bologna, Zanichelli, 1890), a pag. 333-357, eterno Femminino regale. — Su l’uso e l’abuso, e la interpretazione critica, della frase goethiana «das Ewigweibliche» è da vedersi un bellissimo saggio di Michele Kerbaker, L’eterno Femminino e l’epilogo celeste nel Fausto di W. Goethe; Napoli, Pierro, 1903. «Per l’eterno Femminino, cioè l’eterna femminilità, nel senso più ovvio, chi non abbia riguardo al passo del Fausto, potrebbe intendersi la potente ed arcana attrattiva che la donna esercita sui sentimenti dell’uomo, mediante le speciali prerogative congenite alla sua complessione fisica e morale.» Ma dall’esame critico dell’epilogo celeste nel Fausto il Kerbaker conchiude, che quella «femminilità eterna» è «l’essenza stessa dell’indole femminile riguardata come una legge costante e provvidenziale della natura, in contrapposizione alla Mascolinità, e di cui la Beata Vergine, Madre di Dio e Regina dei cieli, è un simbolo». In quanto però la frase si presti, come s’è anche troppo compiacentemente prestata, a interpretazione astrattamente umana, [p. 72 modifica]
  10. [p. 71 modifica]
  11. [p. 72 modifica]Parad. XV, 130-135; XVI, 34-39.
  12. [p. 72 modifica]G. Villani, IV, x.
  13. [p. 72 modifica]G. Villani, IV, ix.
  14. [p. 72 modifica]G. Villani, V, xxxvii. «Ma se nel 1209 accadde la venuta di Ottone in Firenze, il racconto è favola; chè.... diciannove anni avanti, Gualdrada e Guido eran congiunti, e fin dal 1196 avevano figliolanza»: nota il Guasti, Opere, I, 71. Ciò nonostante, il valor morale della gentile tradizione rimane intatto.
  15. [p. 72 modifica]Parad. XXXI. 38-39.
  16. [p. 72 modifica]Parad. XVI, 145-147.
  17. [p. 73 modifica]Parad. XVI, 25.
  18. [p. 73 modifica]Parad. XV, 97-99.
  19. [p. 73 modifica]Dino Compagni, I, II.
  20. [p. 73 modifica] Inf. XIII, 143-145.
  21. [p. 73 modifica]« Allora lo romore fue grande; e fue messo in una bara, « la moglie istava nella bara, e tenea il capo in grembo fortemente piangendo; e per tutta Firenze in questo modo il portarono ». Cronica fiorentina compilata nel secolo XIII; a pag. 234 del vol. II, P. VILLARI, I primi due secoli della storia di Firenze; Firenze, Sansoni, 1891.
  22. [p. 73 modifica]MANZONI, Adelchi, IV, i.
  23. [p. 73 modifica]G. VILLANI, VI, LXIX; Cronica malispiniana, CLXIV.
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