La metà del mondo vista da un'automobile/II

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CAPITOLO II. — La partenza

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I III

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CAPITOLO II.


LA PARTENZA

Il Principe Borghese — L’«Itala» — I preparativi — Vigilia d’armi — La partenza.


Il Principe Borghese aveva percorso in sei giorni cinquecento chilometri a cavallo, esplorando tutti i sentieri che conducono a Kalgan, e misurandone le incassature per mezzo di un bambù tagliato della larghezza dell’automobile. La Principessa Anna-Maria sua moglie, insieme ad una signorina amica, lo aveva accompagnato nell’aspra cavalcata, e le due signore, munite anch’esse dei loro bambù misuratori, avevano pure lavorato come semplici agrimensori alla verifica delle minime larghezze. In molti punti la strada si sdoppiava, si ramificava, ed era necessario conoscere tutti i passaggi per scegliere il migliore. Il Principe tornò a Pechino con tutto un piano topografico nella sua mente.

Egli ha una mente prodigiosa. Su di essa rimane come fotografato tutto ciò che gli occhi hanno visto. E tutto ciò che le orecchie hanno udito. Nomi, date, frasi di lingue orientali, le cose più difficili a rammentarsi, rimangono scolpite in quella memoria di ferro. Don Scipione non prende mai appunti; non ne ha bisogno. Il suo cervello trattiene e cataloga ogni cosa. Di una strada percorsa dieci anni prima egli può dirvi: Al tal chilometro v’è un albero così e così. Viaggiando in paesi nuovi, a cavallo o in [p. 20 modifica] automobile, egli consulta le carte alla mattina, prima di lasciare una tappa, e raramente ha poi bisogno di riguardarle; ricorda i bivii, le orientazioni, le distanze, i nomi dei paesi, e li indica ai compagni di viaggio come potrebbe farlo una guida.

Se a noi fosse possibile di ricordare tutte le cose che abbiamo veduto, udito, e letto nella vita, possederemmo la più vasta, varia e profonda cultura. Il Principe Borghese è infatti di una cultura rara; ed ha uno spirito sagace e freddo che a questa cultura ha messo un ordine. Nella sua mente presiede una calma che fa da bibliotecario. La calma, la riflessione, la logica, danno al suo pensiero una chiarezza matematica. Egli elimina tutti gli elementi emotivi che turbano la visione delle cose, che deformano il valore dei fatti. La sua potrebbe essere l’anima di un generale o d’un giudice. La simpatia per qualcuno è in lui un sentimento raro, ma la sostituisce con la stima, che forse vale di più perchè risponde a un merito. Ed egli sa conoscere i meriti; sa calcolare perfettamente la potenza d’un cervello o d’un braccio, la forza e la resistenza d’una macchina. La sua organizzazione della corsa Pechino-Parigi è tutta una dimostrazione di questa sua capacità di calcolo.

Al calcolo bisogna aggiungere la volontà. Una volontà che il Principe Borghese esercita su sè stesso prima che sugli altri. Quando a chi collabora con lui in qualche impresa domanda un sagrificio, egli è il primo a compierlo. Per raggiungere uno scopo sa imporsi la fame, la sete, la fatica, dicendo: Non ho fame, non ho sete, non sono stanco. La sofferenza sua, e la sofferenza dei compagni, non hanno per lui alcun valore di fronte al fatto che bisogna raggiungere la mèta. La sensibilità in certi casi non è che una dispersione d’energie. Egli attribuisce alla mèta una importanza suprema. È come se avesse assunto con sè stesso l’impegno assoluto di conseguirla, e non volesse mancarsi di parola a nessun costo. In ciò è il segreto di tutti i grandi successi. Dove vuole arrivare egli arriva, impegnandovi razionalmente ogni sua attività ed ogni mezzo del quale può disporre. Ne fa una questione di amor proprio, cioè di ambizione. E l’ambizione, se è un [p. 21 modifica] difetto negli uomini deboli, è una virtù negli uomini di valore. È la forza motrice delle imprese più belle ed audaci.

Vidi per la prima volta il Principe Borghese il giorno dopo che era tornato da Kalgan. Vestiva ancora l’abito khaki da viaggio, l’abito che avrebbe indossato anche in automobile, e che gli dava nell’insieme un po’ l’aria d’un ufficiale inglese. Il sole e il vento della montagna avevano già tinto il suo volto rasato, un volto asciutto e calmo da diplomatico di razza. Il Principe ha trentacinque Sormontando un ripido declivio sabbioso. anni. Il suo viso ne dimostra quaranta; il suo corpo, snello, vigoroso, elastico, ne dimostra venticinque. Questi sono gli svantaggi ed i vantaggi del gran sport della vita attiva all’aria aperta dove i muscoli si rassodano ma l’epidermide s’invecchia. Don Scipione s’è dedicato con passione alle più rudi forme dello sport. Alpinista ha vinto molte delle più aspre vette alpine, anche senza guida, anche in pieno inverno, per amore dell’ostacolo. Gli piacciono gli ostacoli, perchè gli piace di vincere. Egli non intende lo sport che come un esercizio delle facoltà combattive. Dominare una montagna, o un cavallo, o un’automobile, [p. 22 modifica] addestra a dominare gli uomini. In queste lotte contro le difficoltà che la sua volontà si imponeva, ebbe le sue ferite. Una volta volle fermare un cavallo in fuga, fu travolto, e la vettura che il cavallo trascinava gli passò sulla testa; ne porta il segno. Un’altra volta, montando un cavallo indomito, cadde malamente di sella; fu raccolto svenuto, col naso quasi completamente distaccato, il volto imbrattato di sangue; un abile chirurgo rimise al posto il naso, lo ricucì alle gote. Ma un abile chirurgo non è sempre anche un abile scultore, ed ecco perchè il naso del Principe Borghese è rimasto un po’ asimmetrico. Egli scherzosamente se ne lagna, sparla del suo naso, lo accusa di arrossire ai mutamenti di temperatura come un termometro chimico; ma questi suoi giudizi sono eccessivamente severi. La leggiera anomalia fisionomica non è troppo visibile.

Ci salutammo come se ci fossimo sempre conosciuti. Una stretta di mano, e cominciammo a parlare della corsa. Come mai gli era venuta l’idea di prendervi parte? Semplicissimo. Ogni tre o quattro anni egli compie qualche gran viaggio, e quest’anno aveva deciso di recarsi appunto a Pechino, che non aveva mai visitato, e dove suo fratello Don Livio reggeva la Legazione d’Italia come Chargé d’Affaires. Ed ecco che un mattino, a Roma, sfogliando i giornali all’ora del caffè, lesse sul Matin della strana sfida. Sembrava ideata apposta per lui. Immediatamente telegrafò alla fabbrica d’automobili “Itala„ chiedendo se era pronta a fornirgli una macchina per questa corsa, della quale egli si assumeva tutta l’organizzazione, l’esecuzione e le spese. La risposta fu, naturalmente, favorevole, e allora egli mandò al Matin la sua adesione. Intanto cominciava i preparativi.

Egli non partecipò alle adunanze degl’iscritti a Parigi; mandò soltanto un suo rappresentante (che fu Fournier, il vincitore della corsa automobilistica Parigi-Bordeaux) ad informarsi intorno alle pratiche necessarie per partecipare alla gara. Di pratiche non ve n’era che una: il versamento di 2000 franchi all’Automobile Club di Francia (Commissione dei concorsi). I 2000 franchi sarebbero [p. 23 modifica] stati restituiti a Pechino ai soli partenti. Per il resto, il Matin aveva già fatto una comunicazione esplicita: “Non vi sono formalità alle quali assoggettarsi, nè regolamenti dei quali imbarazzarsi. Si tratta di partire da Pechino per Parigi in automobile, e d’arrivare„.

La macchina scelta dal principe fu una del comune tipo italiano 24-40 HP. Al motore e allo chassis non furono portate modificazioni. Soltanto gli angoli del telaio e le molle vennero rinforzati, e la macchina fu montata su ruote più alte e più forti delle ordinarie. Per offrire una maggiore resistenza agli affondamenti si munirono le ruote di pneumatici del massimo diametro, della fabbrica Pirelli di Milano. Il Principe teneva che tutto nella automobile fosse italiano. La carrozzeria consisteva in due sedili anteriori, per Borghese e il meccanico, e in un sedile posteriore per me. Ai lati del mio sedile erano assicurati, con cerchi di ferro, due lunghi serbatoi cilindrici per la benzina, capaci di 200 litri ognuno. Dietro al sedile, un cassone a credenza, come quelli dell’artiglieria, per gli attrezzi e i pezzi di ricambio. Sul cassone un alto serbatoio a cilindro destinato all’acqua. I bagagli dovevano essere assicurati con delle corde sopra al cassone e al serbatoio dell’acqua. La mancanza di spazio, e la necessità di non aggravare la parte posteriore dell’automobile già troppo pesante, ci costringeva a ridurre i bagagli al minimo necessario: circa 15 chilogrammi per persona. Un serbatoio per l’olio, capace di 100 litri, era allocato sotto al mio sedile, e comunicava coll’esterno per mezzo d’un tubo di scarico munito di rubinetto. Sotto ai sedili anteriori, un gran ripostiglio era destinato alle provviste da bocca, consistenti in gran parte in carne di Chicago. Una singolarità dell’automobile erano i parafanghi, formati da quattro lunghe e solide tavole ferrate, tenute ai montatoi da una giuntura a cerniera, facili a smontarsi, e destinate a servire da passerella sui fossetti e sopra ai terreni paludosi e le sabbie. Nell’insieme la nostra macchina, così dissimile da tutte le automobili che si vedono per il mondo, aveva un’apparenza singolare e formidabile. Pareva una macchina [p. 24 modifica] corazzata, un apparecchio da guerra. È vero che, per i grandi serbatoi di benzina, poteva anche sembrare un meno terribile attrezzo somigliante in modo vago ad un qualche complicato carro da inaffiamento....

Per i rifornimenti lungo il tragitto, il Principe aveva affidato l’incarico alla ditta russa Nobel di stabilire depositi da Kiakhta a Mosca, distanti in media 250 chilometri l’uno dall’altro. La benzina e l’olio che noi potevamo portare sarebbero stati sufficienti per mille chilometri, e questo bastava a concederci una certa libertà d’itinerario. La famiglia Nobel è proprietaria di quasi tutte le miniere di petrolio siberiane, possiede in ogni città della Siberia grandi depositi e stabilimenti di raffineria, ha sempre vagoni suoi speciali in moto su tutte le linee ferroviarie, e carovane di carri in moto su tutte le strade. Essa s’interessava molto all’esperienza d’una traversata automobilistica della Siberia, dalla quale poteva derivare un futuro sviluppo dell’automobilismo in quelle regioni, e un futuro bisogno della sua benzina. Nessuno avrebbe dunque potuto meglio della casa Nobel organizzare il nostro servizio di rifornimento, per il quale il lavoro cominciò fin dal mese di marzo.

La Banca Russo-Cinese, che ha pure un interesse diretto ad ogni miglioramento delle comunicazioni e degli scambi nell’Estremo Oriente, si rese molto utile al Borghese fornendogli preziose informazioni sulle strade, sugli abitanti, sul costo delle cose necessarie. Fece di più; si assunse l’incarico del trasporto della benzina e dell’olio attraverso la Mongolia, e incaricò le sue sedi di Kalgan, Erga, Kiakhta, Verkhne-Udinsk, Irkutsk, di aiutarci in ogni modo che fosse stato loro possibile. La Banca Russo-Cinese, ci preparò veramente, lungo il principio della nostra strada, il conforto della più cordiale ospitalità.

I preparativi erano completati dall’acquisto delle migliori carte delle regioni da attraversarsi: carte tedesche dell’“Ost-China„; carte dello Stato-maggiore russo, all’1 per 250 000 edite dall’Istituto cartografico di Pietroburgo; carta delle “Comunicazioni dell’Impero Russo„ pubblicata dal Ministero delle Comunicazioni. [p. 25 modifica]

Ai primi giorni di Aprile il Principe, Ettore e l’Itala erano pronti a lasciare l’Italia. Dovevano imbarcarsi a Napoli sopra uno dei vapori del Norddeutschter Lloyd che fanno un servizio quindicinale per l’Estremo Oriente. Alla vigilia della partenza l’automobile e il meccanico erano già a Napoli, e il Principe si tratteneva ancora a Roma per gli ultimi addii e gli ultimi affari, quando gli giunse un telegramma da Parigi la cui lettura gli fece dare un balzo di sorpresa. Avvicinnandosi a Hsing-wa-fu. - La strada migliore.

A Parigi l’obbligo di versare i 2000 franchi, aveva ridotto assai la schiera degli aderenti alla prova. Varie iscrizioni erano dovute solo al legittimo desiderio di vedersi nominati dai giornali. Chiamarsi e lasciarsi chiamare concorrente ad una corsa Pechino-Parigi era sufficiente per una ragionevole réclame: fare di più sarebbe sembrato eccessivo. I rimanenti, i fedeli, si sentirono scoraggiati. Nelle lunghe discussioni si affacciavano nuove difficoltà, nuovi problemi. Non v’è che discutere un progetto per finire col trovarlo assurdo; la forza delle discussioni è l’obbiezione. L’entusiasmo si rinvigorisce con l’azione, ma si perde parlando. La [p. 26 modifica] parola è troppo ragionevole, prevede tutte le contrarietà e gli ostacoli, è pessimista. Se si costringesse ogni eroe a discutere per un minuto l’atto valoroso che si accinge a compiere, non esisterebbe più l’eroismo. Nelle imprese straordinarie bisogna lasciare al caso la soluzione di molte incognite; vi è sempre una parte d’ignoto che bisogna affrontare; occorre gettarsi nell’avventura con una certa dose di irragionevolezza. Questa irragionevolezza si chiama audacia. L’audacia è troppo contraria al buon senso, alla logica, per sopravvivere ad un prolungato esame critico. Ed ecco forse perchè a Parigi gli aderenti alla corsa finirono per decidere di non farne più niente, di lasciare il progetto allo stato di progetto rinunciando alla sua esecuzione. Il telegramma ricevuto dal Principe Borghese lo avvertiva della risoluzione presa. La Pechino-Parigi era morta.

Egli rispose: “M’imbarco domani a Napoli....„. La sua decisione fece ritornare gli altri sulla loro. Un giustificato amor proprio li indusse a non lasciare il principe italiano a tentare da solo un’impresa ideata e proposta dalla genialità francese. E così il 14 Aprile, a Marsiglia, gli altri concorrenti salivano a bordo d’un vapore delle Messageries Maritimes diretto a Shang-hai.

Erano uomini di valore, abili nella loro professione di chauffeur, scelti dalle ditte concorrenti fra centinaia di meccanici e chauffeurs che chiedevano di prender parte alla corsa. Cormier, uno dei conducenti delle De Dion-Bouton, aveva viaggiato con macchine di poca forza la Spagna e l’Ungheria, ed era un convinto della superiorità delle automobili piccole nel gran tourismo. “Otto cavalli — aveva dichiarato — otto soli cavalli di forza mi saranno sufficienti...„, e ne ebbe dieci. Colignon, il secondo conducente delle De Dion-Bouton, era anch’esso provato in difficili corse di resistenza. Un interessante tipo d’ardimentoso era Pons, il conducente del triciclo Contal, che si disponeva con tutto l’impegno al suo difficile compito. Egli non avrebbe indietreggiato che di fronte all’impossibile. Era un uomo risoluto e buono, coscienzioso, pronto al sagrificio. A vederlo, a conoscerlo, si comprendeva che se per superare una difficoltà fosse occorso del sangue invece che della [p. 27 modifica] benzina, egli avrebbe dato il suo sangue. Il piccolo gruppo francese era rallegrato dall’inalterabile e ingenua bonarietà di Bizac, il meccanico delle De Dion-Bouton, ex-meccanico della marina da guerra, al quale della vita di bordo fra i motori giganti era rimasto un istinto della disciplina e della regolarità, un’indifferenza alla fatica e alla diversità dei climi. Era l’orologio vivente dei compagni, per i quali all’alba cominciava a funzionare da sveglia, inesorabile come il tempo, insensibile alle ingiurie che sfuggono inevitabilmente a chi è sottratto a viva forza alle dolcezze del sonno. Con la spedizione, due giornalisti: Du Taillis, francese, e Longoni, italiano.

Avevo conosciuto Du Taillis, alla Conferenza di Algesiras dove rappresentava il Figaro. Tante volte nella noia di quell’interminabile e inutile convegno diplomatico, l’incontro di Du Taillis rappresentava per me un quarto d’ora di gaiezza. Aveva degli aneddoti pronti su tutti e su tutto, e li sciorinava con uno spirito irresistibile. Era una sorgente di piccole notizie, di potins politici, di episodi diplomatici, che raccontava con un amabile scetticismo. Attraverso la sua parola e la sua penna divenivano interessanti persino le sedute nella famosa “Sala rossa„ e prendeva risalto tutto quello che v’è di ameno, di buffo, di risibile intorno a certi grandi e vuoti congressi internazionali. Ad un certo punto io lasciai la Conferenza per andare a Fez, e con la Conferenza Du Taillis. Ed ecco che un bel mattino ci riconoscemmo in Cina.

Da dietro gli occhiali d’oro la sua faccia sorridente, allargata da una rigogliosa barbetta bionda, mi osservava attentamente. Eravamo nell’atrio d’un albergo fra il va e vieni dei boys cinesi, dei mercanti di curiosità, degli stranieri attirati dalla colazione. Il mio collega era un po’ trasformato in alto dalla presenza di un enorme cappello tropicale, e in basso da quella di due superbi gambali di cuoio. Ma il resto era normale, e non mi lasciò alcun dubbio sulla sua identità. Ci slanciammo a salutarci cordialmente. Ci spiegammo reciprocamente le ragioni della nostra presenza sulla sacra terra dell’Impero Celeste, e sparlammo piacevolmente del Wai-wu-pu. [p. 28 modifica]

Longoni, un simpatico giovane, si trovava aggregato alla spedizione, credo, più per amore dello sport che per dovere giornalistico. Egli doveva intraprendere il viaggio sopra una delle De Dion-Bouton.


Intanto si avvicinava la data della partenza.

Gli europei di Tien-tsin e di Pechino non parlavano d’altro ormai. Bisogna convenire che rimanevano ancora molti increduli nel pubblico. Due categorie d’increduli: gli assoluti che non credevano neppure alla partenza, e i relativi che credevano ad un immediato ritorno a Pechino dopo un vano tentativo di salire le montagne di Nan-kow. Certo, l’ascensione delle montagne presentava tali difficoltà che il Principe Borghese stesso non si diceva sicuro di superarle.

Bisognava escludere la possibilità di percorrere l’intera strada di Kalgan usando del motore. E prima di tutto perchè non esiste strada. Da migliaia d’anni le carovane di cammelli, di muli, i carri, i palanchini, recandosi da Pechino a Kalgan e da Kalgan a Pechino, hanno finito per tracciare dei sentieri, per ritrovare i passi meno difficili, modificando di tanto in tanto i loro itinerari a seconda che una frana chiudeva sul monte un vecchio sbocco o che una inondazione allagava in basso i viottoli della pianura. Era necessario trainare le automobili con muli e uomini. Usare della sola trazione animale sarebbe stato pericoloso perchè troppo violenta; non si può pretendere dal mulo uno sforzo intelligente, ora cauto, ora impetuoso. Gli uomini avrebbero fatto da regolatore. Ma anche trascinate, le automobili sarebbero potute passare per tutto? In molti punti il bambù del Principe aveva trovato appena lo spazio sufficiente, e in quei punti sarebbe bastato un piccolo errore di direzione per spezzare una ruota o rompere un’asse.

Vi è a Pechino un’antica impresa di trasporti, una specie di posta privata, alla quale si ricorre per spedire degli oggetti in qualunque parte dell’Impero. Essa gode di privilegi imperiali, possiede carri, cavalli, ha al suo soldo carrettieri e carovanieri. Il [p. 29 modifica] Principe Borghese le propose di assumersi l’incarico di portare l’automobile a Kalgan. E il direttore della impresa, un lungo cinese magro come un palo, si presentò alla Legazione Italiana per vedere il chi-cho. Lo seguiva uno stuolo di coolies armati di assi, di stanghe, di tutto quel colossale apparecchio che i cinesi adoperano per trasportare i loro pesanti sarcofaghi. Ad un cenno del lungo cinese tutti quegli uomini si precipitarono sull’automobile, con grande preoccupazione di Fra le montagne cinesi. Ettore, le applicarono l’apparecchio funerario, e la sollevarono per saggiarne il peso. Ma non poterono fare due passi, barcollando, che la macchina volle riprender terra facendo cadere qualcuno degli assalitori. L’uomo magro sentenziò: il chi-cho era più pesante d’una montagna; sollevarlo sarebbe stato impossibile; ma se il nobile e venerabile signore Po (Borghese) riusciva a renderlo più leggero di qualche migliaio di libbre, si sarebbe potuto trascinarlo impiegandovi 35 uomini e 4 muli.

Il nobile e venerabile signor Po lo contentò. L’automobile fu resa più leggera di 500 chiogrammi, togliendole la carrozzeria, e sostituendola con un modesto sedile formato dall’ingegnoso [p. 30 modifica] adattamento d’una cassetta da imballaggio. Sui montatoi vennero fissate delle scatole con gli attrezzi. Ai parafanghi furono assicurati i picconi e le pale. Solide funi, grosse e sottili, trovarono un adatto collocamento nella cassetta-sedile, sulla quale venne disteso e legato un materasso da marinaio per renderla più adatta al suo nuovo ufficio. E l’automobile apparve trasformata. Strana, semplice, snella, dava veramente l’idea dell’impeto e della risoluzione. Era scomparsa in essa ogni traccia di lusso, di comodità, aveva perduto l’ultima apparenza d’una cosa creata per divertire; sembrava nata per offendere; ideata per essere lanciata contro qualche nemico con tutto l’impeto della sua cieca potenza. Così spogliata del superfluo, aveva una nuova bellezza: la bellezza della nudità. Anche quei picconi, quelle pale, quelle corde, le conferivano un non so che di audace. Era veramente una macchina pioniera. Si comprendeva che essa stava per andare dove nessun’altra era mai andata. Noi l’ammiravamo di più, senza saperne bene il perchè, e ci ripetevamo: Com’è bella!

Fu deciso che i coolies e i muli ci avrebbero aspettato nelle vicinanze di Nan-kow. Per le automobili francesi e per la Spyker si era organizzato un eguale trasporto. A sorvegliare il lavoro dei cinesi la Legazione di Francia mandava un drappello di soldati pratici del paese. La nostra Legazione mandava cinque marinai. Il comandante la guarnigione italiana di Pechino donò all’Itala la bandiera, una piccola bandiera di lana da pavese che venne subito innastata sull’automobile. E fu la nostra bandiera di combattimento.

Se in Cina v’erano ancora degl’increduli, più ancora ve ne dovevano essere in Europa. Ne avevo un indizio dai telegrammi che ricevevo, i quali mi parlavano del “caso probabile che la corsa non avesse più luogo„. Rispondevo descrivendo brevemente i preparativi, e il telegrafo mi riportava fedelmente l’eco d’uno scetticismo inalterato. Io ne ero preoccupato; temevo veramente che in Europa ne sapessero più di me. Correvo dal Principe.

— Che c’è di nuovo? — gli chiedevo. [p. 31 modifica]

— Niente.

— Nessun ritardo?

— Nessuno.

— Si parte il dieci?

— Alle otto del mattino.

Finalmente cessammo dal dire “il dieci„ per dire “domani„. Fu vigilia di battaglia. I treni di Tien-tsin portavano ufficiali, residenti europei, signore, touristes. E portarono anche la banda musicale della guarnigione francese, che cominciò subito ad inondare di armonie il quartiere delle Legazioni. Molte ore furono da me consumate nella difficile formazione d’un bagaglio che pesasse 15 chilogrammi e contenesse di tutto; mi aiutavano i boys dell’albergo in questo lavoro gigantesco. Intanto si diramavano per legazioni e alberghi gli ultimi ordini: “Adunata alle ore 7.30 a.m. nel cortile della caserma francese Voyron — Partenza alle ore 8 — Uscita da Pechino per la Dosh-man (una delle porte al nord della città)„. Io correvo a dei conciliaboli importantissimi con gli alti funzionari della amministrazione dei Telegrafi Imperiali per organizzare il servizio telegrafico; e trovavo dei bravi giovani cinesi, pieni d’una calma volontà di fare, con i quali, fra una coppa di thè e l’altra, mi trovai presto d’accordo. Gli uffici telegrafici della Mongolia sarebbero stati pronti a trasmettere le mie missive. Alla sera pranzi e brindisi d’addio. Il capo della polizia pechinese, un grave mandarino, per ordine della Corte si presentò al Principe Borghese a chiedergli quale era il nostro itinerario nell’interno della città, al fine di predisporre un servizio d’ordine e fare annaffiare le strade. E fu poco dopo il suo arrivo che il Wai-wu-pu ci fece pervenire i passaporti. Quale miracolo si era compiuto nelle menti di quell’eccelso consesso?

Nel silenzio solenne della notte di Pechino, interrotto appena da un battere di tam-tam che s’avvicina e s’allontana ogni ora segnalando il passaggio d’una ronda dalla polizia, in quel grave silenzio che lascia giungere di tanto in tanto un misterioso distante suono di gong, io, agitato ed insonne, ebbi veramente un senso [p. 32 modifica] di dubbio. Sentivo l’atmosfera di Pechino; e la corsa mi pareva un sogno. Tutto quanto accadeva acquistava ad un tratto al mio pensiero le proporzioni dell’inverosimile. L’esistenza di un’automobile a Pechino mi appariva più assurda di quella d’un palanchino sul ponte di Londra. Sentirsi a Pechino è come sentirsi lanciato indietro nei secoli, in una vita remota, immutabile. Quella civiltà millenaria ha raggiunto una perfezione, ed ha voluto mantenerla arrestandosi. Una sola cosa cammina ancora: il tempo. È nell’aria una specie di torpore che ad un certo punto vi afferra In vicinanza dell’Hun-ho. — L’automobile sorpassata dal palanchino. e vince. Non c’è europeo che vivendo a lungo laggiù non diventi un po’ cinese nell’anima. Si respira forse con la polvere sottile che cade da tante vecchie cose, quella dimenticanza del presente. Non riuscivo a pensare alla nostra Itala in corsa per le vie di Pechino e della Cina. “Alle ore otto partenza!„, parole vane. Alle ore otto l’automobile sarebbe rimasta ferma, e i secoli futuri l’avrebbero trovata ferma allo stesso posto, trasformata in un monumento cinese come quelle enormi tartarughe di pietra che si vedono nelle corti dei templi, ornamento e simbolo.

Il giorno sorse grigio, nuvoloso. Un giorno di cattivo umore. [p. 33 modifica] Fino alla sera precedente il tempo s’era mantenuto splendido, ma nella notte pareva che le divinità cinesi avessero deciso l’immediata inaugurazione della temuta stagione delle piogge.

— Pioverà? — chiesi al boy che era venuto a svegliarmi.

Superando gli sconnessi pendii sabbiosi di Ta-tu-mu.

Egli guardò le nuvole: — Sì, signore — rispose senza esitazione — pioverà prima di mezzogiorno.

— E dopo?

— Anche dopo. [p. 34 modifica]

Portai la previsione al Principe Borghese. L’Itala era già pronta avanti alla villetta del Ministro. Ettore aveva ancora qualche nodo da stringere, qualche legatura da rifare, e girava intorno alla macchina a gran passi, calzato d’un fiammante paio di stivaloni di cacciatore d’anitre. Alle sette i marinai di scorta erano partiti in ferrovia per Nan-kow; e alla sera precedente due carri, con i nostri bagagli e la carrozzeria smontata, avevano lasciato Pechino sotto la vigilanza di Pietro, il Ma-fu della Legazione. Non ci rimaneva altro da fare che aspettare l’ora di mettersi in cammino. Occupazione accasciante. Pareva che le sfere dell’orologio impiegassero delle ore a percorrere cinque minuti. Intanto scambiavamo parole di saluto e strette di mano. I nostri bravi e simpatici ufficiali erano intorno a noi esprimendo voti e auguri, e toccavano la macchina con gesti d’incoraggiamento come si fa ad un cavallo. Un frate cappuccino dalla aperta e onesta faccia da soldato, arriva in fretta, tutto ardente d’entusiasmo, e ci dice parole di benedizione. È il cappellano della guarnigione italiana e della Legazione.

Le sette e mezza! Un carabiniere giunge correndo dalla strada, e annunzia: I Francesi sono già alla caserma!

— In macchina! — esclama il Principe, che con quest’ordine assume il comando della piccola spedizione.

Sull’automobile ci arrampichiamo in cinque. La principessa Anna-Maria (intrepida e appassionata viaggiatrice anche lei, che accompagnò lo sposo in Persia, e della quale Don Scipione dice che “ama talmente i viaggi, che pur di viaggiare andrebbe persino in ferrovia„), Don Livio Borghese, Chargé d’Affaires d’Italia, un così simpatico e caro gentiluomo quanto colto ed abile diplomatico, il Principe Scipione, io, ed Ettore. Don Livio e la Principessa ci lasceranno alla prima tappa, a Nan-kow.

Non so per quale prodigio di volontà e di equilibrio possiamo tenerci in quattro sulla cassetta da imballaggio promossa alla dignità di sedile. Ci afferriamo a delle corde, ai parafanghi, e come dei cavallerizzi mal sicuri prendiamo con gli occhi le misure [p. 35 modifica] per un eventuale piede a terra. Ettore, girata la manovella del motore, s’è rannicchiato sul cassone della benzina, dentro una gomma di ricambio, e sembra un naufrago aggrappato al salvagente. La macchina romba. Il Principe, che tiene il volante, grida:

— Pronti?

Sì, pronti. L’automobile corre silenziosa sulla sabbia del viale.

— Buona fortuna! — ci gridano.

— Addio!

Al cancello della Legazione tutto il corpo di guardia è fuori, e saluta. La sentinella presenta le armi. Siamo sulla strada. Quale insolita animazione nel quartiere diplomatico, che dorme abitualmente fino alle dieci! Tutti i rickshas di Pechino sono in servizio, e arrivano correndo da ogni parte conducendo una preziosa clientela di dame e gentiluomini. Avanti alla caserma Voyron s’affolla una moltitudine di cinesi frammista a soldati d’ogni nazionalità. Trofei di bandiere ornano i muri, e festoni di verdura circondano i trofei. Un velario attraversa la strada; su di esso è scritto: Bon voyage! — “Bon voyage! „ è la frase che si ripete da ogni bocca. Un malaccorto grida — Au revoir! — la gente ride.

La corte della caserma era gremita. Si sarebbe detto un pesage in un giorno di grand prix. Tutti gli stranieri vi si erano dati convegno. Il poco d’Europa e d’America che vive disperso nell’estremo Chi-li, si trovava riunito in quel punto. Era l’anima delle nostre razze che vibrava fra quelle mura. Qualunque fosse la sua nazionalità, ognuno sentiva un po’ d’orgoglio per l’avvenimento che lo aveva chiamato. Vi era come una solidarietà di cultura, d’educazione, d’istinto. Bisogna trovarsi lontano, isolati in mezzo ad altre civiltà, per provare l’affrattellamento della civiltà propria. Si celebrava una festa dell’Occidente nel cuore di Pechino.

Al personale delle banche, delle case commerciali, agli agenti dei sindacati, si frammischiavano con promiscuità cordiale addetti [p. 36 modifica] alle Legazioni, signore, ufficiali, ministri. Il ministro di Francia, il ministro di Olanda, quello d’Austria, quello di Russia.... S’incrociavano saluti in tutte le lingue.

Un vecchio dignitoso, piccolo, dalla caratteristica barbetta bianca, che gli dava qualche cosa di cinese, dallo sguardo vivo, energico, profondo, passava riverito fra la gente che diceva sottovoce: Anche Sir Robert è qui? — Era Sir Robert Hart, il grande economista. Ad un certo punto un palanchino si è fermato alla Durante un alt in un villaggio cinese. — La folla studia il mistero a ruote. porta della caserma e ne è sceso un giovane dignitario, il mandarino Kwo, uno dei segretari del Wai-wu-pu, che si era ricordato finalmente di essere stato nominato, da Parigi, membro d’un ipotetico comitato cinese della Pechino-Parigi. Egli rappresentava alla cerimonia il Governo Imperiale, e lo rappresentava sventagliandosi attivamente e ripetendo: Good bye, good bye! ai partenti, ed anche agli altri.

L’Itala era rimasta ad aspettare sulla strada. Nel cortile, strette da un assedio di curiosità, stavano le due De Dion-Bouton, [p. 37 modifica] il Contal, la Spyker, in completo assetto da viaggio; le macchine francesi dipinte in grigio, l’olandese screziata di bianco, di rosso, di nero, coperta da grandi iscrizioni che dicevano l’itinerario futuro, le distanze, ed altre cose ancora. Un grande e antico cannone cinese, preso dai francesi all’epoca dell’assedio delle Legazioni è costretto a servire da ornamento al cortile della caserma nemica, vicino alle automobili offriva un curioso contrasto. Ma per l’occasione il vecchio cannone s’era ornato di bandiere e di verdura, e pareva far festa. S’era riconciliato anche lui, come il Wai-wu-pu. La banda suonava delle marcie militari, mentre i partecipanti alla corsa compivano la gradevole formalità di ritirare, dalle mani di un rappresentante della Banca Russo-Cinese, il deposito dei 2000 franchi versato a Parigi per l’iscrizione. Du Taillis si aggirava solo nella folla, e la sua faccia espressiva mostrava i segni d’una vaga emozione.

È l’ora.

I conducenti e i meccanici raggiungono le loro vetture. I motori rombano, e dai tubi di scarico si spandono dense nubi di fumo. La voce della folla si leva. Molti ufficiali che son venuti a cavallo, saltano in sella. Cento macchine fotografiche oscillano sulle teste in cerca della mira. Noi italiani corriamo a issarci di nuovo sull’Itala, che palpita e sussulta quasi impaziente di prendere la fuga. Le altre automobili escono dalla caserma.

Non v’è disposizione di partenza; il caso ci fa ritrovare sulla strada in questo ordine: De Dion-Bouton guidata da Cormier, Spyker guidata da Godard, Itala, De Dion-Bouton guidata da Colignon, Contal guidato da Pons. Le automobili sono ferme. Si aspetta il segnale. Il concerto esce dalla caserma e si mette in testa al corteggio. La folla ci circonda e erompe in grida di entusiasmo. Una elegante signora, Mme Boissonnas, moglie del primo segretario della Legazione francese, assume con grazia l’incarico di starter.

Essa solleva la bandiera.

Segue un istante di silenzio nella moltitudine, durante il quale [p. 38 modifica] non si ode che la voce dei motori. Il fumo a tratti ci circonda e ci isola.

La bandiera si abbassa.

Scoppia un fragore di petardi e di mortari. Ci moviamo in mezzo a questo rumore di battaglia. Partiamo. Siamo partiti.

La musica, marciando avanti a noi fa echeggiare i caldi accenti d’un canto marziale. Procediamo a passo d’uomo. Gli ufficiali a cavallo ci fiancheggiano. La folla ci segue urlando, sventolando fazzoletti e cappelli. Udiamo i nostri nomi ripetuti da voci amiche.

Una via di Shim-pao-wau.

Percorriamo la strada che fronteggia la Legazione austriaca, fiancheggiata da alti muri dall’aria claustrale, stretta come un sentiero di ronda. Saluti isolati ci giungono dai corpi di guardia, e le sentinelle, non potendo salutarci, ci sorridono. Giriamo l’angolo della Legazione italiana, e sbocchiamo fuori del quartiere diplomatico, sull’ampio viale che lo divide dalla città nativa.

Quando la nostra automobile appare sul viale, scoppia un urlo formidabile. Il muro esterno della Legazione d’Italia è [p. 39 modifica] gremito di marinai nostri, che in piedi, come fossero sui pennoni delle loro navi, ci mandano il triplice saluto alla voce: Hurrah! Hurrah! Hurrah!

Sentiamo in noi un impeto strano, la sensazione di poter rispondere con un grido più potente del loro, di poter spandere su tutta l’immensa città l’ampia voce della nostra emozione: ma non sappiamo fare altro che scoprirci silenziosamente. E lo sguardo nostro corre con raccoglimento affettuoso lungo quella generosa e vigorosa schiera, che ci acclama dall’alto di spalti fortificati sui quali dovrà forse un giorno salire per combattere.

Il concerto cessa di suonare e si tira in disparte. Il tumulto dei saluti si allontana. Nulla più ci trattiene. “Avanti? — Avanti!„ si gridano i guidatori, e le automobili aumentano gradatamente di velocità. I motori cantano in un tono più alto. Dietro a noi gli ufficiali a cavallo si spingono al galoppo, ma la distanza si allunga e li perdiamo di vista.

E sulla strada, mantenuta sgombra da soldati cinesi, fra due ali di popolo muto, non rimangono che le cinque automobili, inseguentisi attraverso la Capitale dell’Impero Celeste ad una velocità che non vi fu mai vista, e che forse non vi si vedrà mai più.