La metà del mondo vista da un'automobile/XV

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CAPITOLO XV. — Nel bacino di Jenissei

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XIV XVI

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CAPITOLO XV.


NEL BACINO DEL JENISSEI

Nella «Taiga» — Kansk — La ruota incatenata — Krasnojarsk — La potenza di due documenti — Il passaggio del Kemtschug — Atschinsk — Un affondamento.


Nischne-Udinsk non è che un grosso villaggio sulle rive del Tschuna — uno dei tanti confluenti dell’Angara — . Attraversammo alle quattro del mattino le sue strade fangose, mettendo in fuga pacifiche famiglie di maiali che dormivano allungati nelle pozze d’acqua presso alle pareti delle case. Qualche abitante mattiniero si affacciò al rumore e ci guardò con aria assonnata e diffidente. L’automobile era preceduta da un tarantas della polizia, montato da un ufficiale e condotto da un gendarme, per mostrarci la strada di Kansk — lontana 275 chilometri. Ad un passaggio a livello della ferrovia il tarantas si fermò:

— Non c’è più da sbagliarsi — esclamò l’ufficiale — seguite questo sentiero. Do svidania!

Do svidania! Spasibo! — “Addio! Grazie!„ — gridammo.

E l’automobile affrettò l’andatura gettandosi verso la nuova mèta. Correvamo in una nebbia folta e gelida che ci bagnava il viso e copriva di rugiada le nostre pellicce. Per qualche tempo sperammo che il sole riuscisse a dissiparla. Ci appariva il sole, [p. 332 modifica] a momenti, pallido pallido, e gli gridavamo parole di incoraggiamento.

— Forza, amico! Forza adesso!

Non so perchè, in quello stato atmosferico vedevamo una specie di lotta fra il sole e la nebbia. Ora aveva il sopravvento l’una, ed ora l’altro. Noi, naturalmente, prendevamo partito per il sole. Ettore lo compassionava:

— Poveretto, fa quello che può!

Ma il sole fu ignominiosamente battuto. Fuggì, e non lo vedemmo più. La nebbia si sollevò per ricadere in forma di pioggia; e per tutto il giorno fummo tormentati dall’acqua, dal vento, dal freddo e dal fango. Le strade non erano più così buone come vicino ad Irkutsk. Fummo costretti qualche volta a deviare sull’erba dei prati per evitare delle buche, o delle pozze profonde, o dei fanghi sospetti. Non incontravamo più nessuno. La regione si faceva sempre più deserta. I campi e i prati cedevano il posto agli alberi. Entravamo nel regno della taiga, la sterminata foresta siberiana. Alle nove del mattino già correvamo nella sua tetra penombra.

La strada è un taglio attraverso la selva. Gli uomini si sono aperti un passaggio, ma per lunghi tratti, a destra e a sinistra, la foresta è impenetrata. Le regioni della taiga arrivano dalle praterie alle tundre; sono vaste come un impero; sulla più gran parte di questo mondo di giganti verdi l’umanità ha potuto conquistare faticosamente il solo diritto di transito. Correvamo per decine e decine di chilometri in mezzo alla imponente moltitudine oscura degli abeti, dei pini secolari, delle betulle dal tronco bianco. Valicando le alture dominavamo talvolta l’infinita distesa dei boschi. Penetrava in noi il penoso senso della solitudine. Una solitudine opprimente perchè limitata da quella immensa barriera d’ombre che ci fiancheggiava, resa più fosca e paurosa dalla luce crepuscolare che scendeva dal cielo burrascoso. Quel gran popolo d’alberi pareva avesse una vita, una non so quale apparenza ostile, un silenzioso atteggiamento di difesa, una volontà di [p. 333 modifica] chiuderci, di trattenerci; nei giri della strada sembrava sempre che le piante si rinserrassero avanti e dietro di noi, che avanzassero insensibilmente a barrarci il cammino e tagliarci ogni scampo; si sarebbe detto che si muovessero quando noi non le guardavamo; ad ogni momento la via spariva nel folto e pareva sopraffatta e finita. I tronchi dei pini, rossastri, eretti, altissimi, avevano la maestà di colonne. Folti arbusti selvaggiamente intrecciati, invadenti i bordi della strada, formavano lunghe siepi impenetrabili, che sembravano voler custodire la vergine maestà della selva. Ad un certo punto, sorpreso dal rapido sopraggiungere dell’automobile, un grosso lupo attraversò correndo il sentiero: noi turbavamo la vita primordiale della taiga.

Qualche volta il bosco si diradava, trovavamo delle radure, poi dei prati, e, nelle avvallature, villaggi solitarî che vivono nella foresta e della foresta, circondati da enormi cataste di legname destinato forse alla ferrovia. Erano piccoli villaggi dall’aria felice, soddisfatti d’ignorare il mondo, di essere tutto il proprio mondo, abitati da biondi boscaiuoli dalle forme atletiche. Questi uomini sono gli amici e i nemici della taiga, l’amano e la combattono, atterrano le sue schiere gigantesche e credono alle più poetiche leggende della foresta, gli alberi sono i loro compagni e le loro vittime. Vicino alle isbe, con le stanghe sollevate come due braccia, si allineano i carri enormi che servono al trasporto dei tronchi, e tutto intorno pascolano cavalli che l’automobile spaventava e faceva fuggire avanti a noi in lunghe galoppate.

Una sorpresa ci aspettava. Improvvisamente abbiamo scorto fra i rami i pali del telegrafo, e poco dopo ci siamo trovati vicino alla ferrovia. Un lungo sibilo ha echeggiato, e un treno ci ha raggiunti spandendo il suo ansimare alacre. Durante qualche minuto abbiamo corso fianco a fianco con quel convoglio. Dai finestrini i viaggiatori ci salutavano e ci gridavano “addio„. Ma presto il nostro sentiero ci ha discostati dalla strada ferrata, e ci siamo ritrovati ancora in una quiete primitiva. È stato per noi come un fuggevole congiungimento con il mondo in mezzo a [p. 334 modifica] selvagge solitudini; l’umanità era venuta a gettarci un breve grido d’incoraggiamento nel vasto silenzio della foresta.

Nel pomeriggio è scoppiato un temporale violento. Schiantavano i fulmini, e il tuono rimbombava continuo da vallata a vallata. La strada ruscellava d’acqua, e la pioggia dirotta velava ogni cosa. Presso al villaggio di Taitisk attraversammo con un battello il fiume Birussa, confluente del Tschuna da noi passato al mattino a Nischne-Udinsk, impetuoso, gonfio e torbido come un gran torrente. Il temporale s’era calmato, ma alcune ore dopo, quando scendevamo nella valle del Kan, un’altra tempesta ci sopraffece. Attraversammo il Kan, sopra un battello grande come quello della Selenga a Verkhne-Udinsk, mentre ancora si scatenava quel nuovo furibondo temporale in mezzo al livido bagliore dei lampi.

Nel Kan trovavamo il primo fiume che si getta nel Jenissei. Avevamo definitivamente lasciato il bacino dell’Angara per quello del Jenissei. Entravamo nella Siberia centrale. Kansk, sulla riva del Kan, ci si mostrava come una grande città. Era un’apparenza di grandiosità derivante da due cose: dalla bruma che rendeva vaghi ed allargava i profili delle cose, e dalla presenza sulla riva del fiume di uno stabilimento industriale. Un giovane, all’aspetto studente, che aveva preso posto con noi sul battello, e che ci aveva salutati, capì alla parola “fabbrica„ che parlavamo di quell’opificio dalle alte ciminiere, si volse e disse:

— No. Non è una fabbrica.

— E che cosa è?

— Meglio sarebbe per Kansk che non esistesse. Impoverisce il paese invece di arricchirlo. È una rovina. È la rovina della Russia.

— Che cosa è?

— Una distilleria governativa della vodka.

Eravamo bagnati come se avessimo attraversato il fiume a nuoto. Trovammo le strade del paese allagate e deserte; qualche rara iswoshchik passava diguazzando. Alloggiammo in un vecchio [p. 335 modifica] albergo di legno, il migliore, dove ci portarono la benzina e l’olio arrivati per noi. L’albergo non aveva altri inquilini, e nelle sue camere faceva il freddo dei luoghi disabitati; ma la sala da bigliardo, al pianterreno, era piena di ufficiali, di grida e di fumo. E nella notte, in mezzo al vasto gocciolìo della pioggia, ci giungeva confusamente il vociare dei giuocatori e il cozzo delle biglie.

Alle tre del mattino eravamo in piedi. Volevamo giungere In un villaggio siberiano. — Le spettatrici. di buon’ora a Krasnojarsk, lontana 230 chilometri. Poco prima della partenza venne un ufficiale della polizia ad offrirci la scorta di due soldati armati.

— È impossibile — osservò Borghese — non potrebbero seguirci.

— Portateli sull’automobile — consigliò l’ufficiale.

— Non c’è posto che per noi tre.

— Abbiamo notizie della presenza di banditi nella foresta. Tempo fa i rivoluzionari assalirono una caserma di sorpresa, a Krasnojarsk, s’impadronirono di armi e munizioni e aprirono le [p. 336 modifica] porte della prigione. Nella prigione v’erano settanta criminali che evasero tutti. Di essi soltanto trenta sono stati ripresi.

— E gli altri quaranta?

— Gli altri quaranta, divisi in piccole bande, scorazzano nella regione del Jenissei. Sono segnalati continuamente, ora qua ora là, ma noi non abbiamo forza disponibile per dar loro la caccia. Essi spesso svaligiano le vetture sul “trakt„, nella foresta. Fortunatamente ora c’è la ferrovia; e a quei pochi che debbono passare di lì, se sono persone di riguardo concediamo una scorta.

Fermare un’automobile è un po’ difficile, specialmente per chi non l’ha mai vista. Soltanto una panna avrebbe potuto tradirci. Del resto non v’era modo di allocare dei soldati con noi e non intendevamo, per un ipotetico timore di banditi, impiegare sette giorni per arrivare a Krasnojarsk con la scorta a piedi, in fatto di banditi poi, non avevamo sentito parlare d’altro da Missowaja in qua, e eravamo un po’ scettici intorno a questo genere di pericoli della strada maestra. La scorta fu dunque rifiutata. L’ufficiale fece un gesto come per dire: Sia fatta la vostra volontà.

In compenso chiedemmo d’essere guidati, come a Nischa-Udinsk, fuori della città, sulla giusta via. Non è così difficile arrivare in una città come venirne via. L’ufficiale, cortesemente montò in una iswoshchik, diede un ordine al cocchiere che partì al gran trotto; e noi lo seguimmo.

Fuori della città l’ufficiale ci lasciò dicendoci:

— State in guardia!


Quel 6 di Luglio fu una delle peggiori giornate del nostro viaggio.

Fummo perseguitati da una pioggia continua, torrenziale, era un vero diluvio che allagava le strade della pianura e scavava e solcava quelle della collina. Era impossibile andare con una certa velocità, sia pure modesta per una 40 HP. L’automobile [p. - modifica]L’Itala affondata sul cammino di Kiakhta. [p. 337 modifica] scivolava, deviava sul fango viscido, le ruote motrici cessavano a tratti di “far presa„ e giravano folli turbinando, urlando, gettando in aria fango e acqua. È impossibile dare un’idea della strada siberiana sotto una tal pioggia. Nei villaggi, dove il calpestìo delle mandrie scava e sconvolge il terreno, la melma è profonda e molle. Le ruote vi sparivano fino ai mozzi, e la fanghiglia schizzava intorno a ventaglio. Su vaste estensioni di territorio trovavamo la così detta “terra nera„ che è certamente la più fertile delle terre del mondo, ma anche la più ostile all’automobilismo. La terra nera è formata dalla millenaria macerazione di erbe, è una specie di torba, un ex-pantano che sotto alla pioggia ritorna pantano. Essa è satura di principi organici, saponosa, sottile; quando è bagnata, nulla di più difficile del camminarvi in perfetto equilibrio. L’automobile vi si fermava, e dava segni d’una deplorevole disobbedienza al volante: si girava, si gettava dalle parti — e spesso stentavamo a fermarla proprio sull’orlo dei fossati.

Non eravamo molto lontani da Kainsk, quando c’imbattemmo in una piccola salita coperta della terra nera. Per più di un’ora tentammo di superarla, provando tutti i sistemi che la pratica ci aveva insegnato. Fu impossibile. Stanchi ed esasperati decidemmo di tornare indietro. A qualche versta da lì v’era un passaggio a livello della ferrovia, con una casetta da cantoniere. Domandammo ricovero al cantoniere, e lasciammo la macchina sulla strada. Non c’era altro da fare. Bisognava aspettare che cessasse di piovere e che la strada si prosciugasse.

La moglie del cantoniere accese il samovar, noi attaccammo le pellicce e le impermeabili intorno alla stufa calda, e ci sedemmo nella piccola camera, accigliati e silenziosi come dei condannati. Da quando eravamo entrati nella Siberia avevamo avuto un solo giorno di tempo buono, e quel giorno eravamo cascati da un ponte. Non v’era contro di noi qualche cosa che somigliava ad una persecuzione? Gettavamo ogni tanto un’occhiata fuori della finestra. Pioveva sempre. Il cielo era buio e basso. Non era questione di ore. Era questione di giorni. Forse di settimane. [p. 338 modifica]

Arrivò mezzodì. Il cantoniere infilò il cappotto, si mise il berretto, staccò dal muro l’asta dei segnali, ed uscì fuori. Sua moglie corse a chiudere i cancelli del passaggio a livello, e poco dopo un lungo treno passò velocemente facendo fremere i vetri della finestra e sussultare la casa. Veniva da Kainsk. Il guardiano rientrò, si tolse cappotto e berretto, caricò la pipa, e ci disse:

— Il tempo non cambia.

— Ma è sempre così l’estate in Siberia? — gli chiedemmo.

— A memoria d’uomo non s’è vista un’estate così. Da due mesi piove quasi continuamente. Mai di luglio s’è avuto tanto freddo e tanta acqua. I lavori campestri sono impossibili. Nel governatorato di Jenisseisk molti raccolti sono perduti. Avremo un inverno di fame in questa parte della Siberia!

Non potevamo restare indefinitivamente a veder passare dei treni e a fumare sigarette vicino ad una stufa. Dovevamo pure trovare qualche mezzo per superare quella maledetta terra nera: un modo ingegnoso per impedire alle ruote di scivolare. Il problema era tutto lì. Con quelle strade ci sarebbero volute delle ruote dentate. Ettore uscì fuori e si mise a lavorare intorno alla macchina. Doveva avere qualche progetto. Era l’uomo dalle risorse. Lo vedemmo infatti prendere le catene dei paranchi, e attorcigliarle intorno alla gomma della ruota motrice sinistra. L’idea era genialissima, e l’applaudimmo.

— Proviamo, adesso! — esclamò il bravo meccanico riabbassando al suolo la ruota incatenata che aveva sollevato con la binda.

— Proviamo!

Balzammo sui nostri sedili, e via. Pochi minuti dopo eravamo in vista del nemico. L’automobile attaccò velocemente la salita che ci aveva tante volte respinti. Verso la metà la macchina ebbe un istante d’incertezza. Ma fu un istante; la catena raspava il suolo come un artiglio, arrivava al duro, si aggrampava palmo a palmo. Giungemmo in cima, e non ci fermammo [p. 339 modifica] più. Però dovemmo sopportare con pazienza e rassegnazione un grave inconveniente: la catena raccoglieva una straordinaria quantità di fango e la gettava sull’automobile e su noi: tutto ne fu ricoperto. Potevamo a stento tenere gli occhi dischiusi. E nei villaggi erano pezzi di legno, ramoscelli intrisi di mota, sassi, che le catene scavando ci buttavano addosso. Ma camminavamo. Non avevamo più paura di guadare nel fango. La pioggia spinta da un vento gelido, violento, pungente, ci batteva sul viso.

Per molte decine di chilometri la strada ci ricondusse nella taiga. Dal cielo buio le nuvole basse spesso si abbandonavano su di noi, circondandoci d’una nebbia strana nella quale gli alberi della foresta assumevano bizzarre forme spettrali. Le masse degli abeti disegnavano oscuri profili fantastici, pieni di punte erette arieggianti a cuspidi e a pinnacoli, profili di tenebrose città gotiche. Non potemmo mai vedere l’orizzonte chiaro. Tutto era indefinito e pallido intorno a noi. Ci rimase delle regioni attraversate una confusione di ricordi imprecisi, come di cose sognate. Rammentavamo nettamente solo l’impetuoso scrosciare dei burroni, il fruscio della pioggia sugli alberi, il ruscellare dei fossetti ai lati della strada, tutta una memoria di acque cadenti e scorrenti. I torrentelli erano gonfi e torbidi, i fiumi erano in piena. Ma trovammo per tutto dei ponti. Uno ne attraversammo sulla Kizbna, presso al villaggio di Kiebfska, un lungo ponte il quale tremava tutto sotto l’urto della corrente impetuosa che assaliva i piloni.

Nella foresta, dopo ore e ore di solitudine, improvvisamente vedemmo fermi sulla strada tre uomini armati di fucile. Erano vestiti da mujik.

— Che siano i famosi banditi? — esclamammo scorgendoli.

— O dei semplici cacciatori di contrabbando?

Cacciatori o banditi, noi apprestammo la Mauser vigilando ogni loro movimento. I tre uomini ci osservavano immobili. Si capiva che erano intensamente meravigliati di un così strano incontro nel cuore della taiga. Quando fummo a cinquanta passi da loro, non aspettarono più. Scapparono velocemente fra gli arbusti, [p. 340 modifica] dove si fermarono a guardarci con aria esterrefatta. Sembravano così storditi che avremmo potuto domandar loro la borsa o la vita con perfetto successo.

Durante le nostre brevi fermate eravamo assaliti da nuvoli d’insetti, che ci pungevano fino ad insanguinarci la faccia. Soffrivamo duramente per questo noto flagello siberiano, terribile sopra tutto nella foresta. Gli abitanti per difendersi avvolgono il capo in lunghi veli neri che scendono loro sul petto e sulle spalle. Tutti, uomini, donne, e bambini, indossano nell’estate questo lugubre abbigliamento. Esso dà la sinistra impressione d’una gramaglia, di un perenne segno di lutto portato da un popolo intero.

Erano le sei quando uscendo dai boschi vedemmo nella lontananza velata biancheggiare un gran fiume: il Jenissei. Un’ora dopo arrivavamo sulla sua riva destra, di fronte ai campanili ed alle cupole azzurre di Krasnojarsk. Fiume magnifico, fra rive alte e verdi, ampio, veloce — quasi frettoloso di rifarsi della lunga immobilità invernale — solcato da battelli e da vapori, tagliato dalle leggere e singolari piroghe indigene fatte d’un sol tronco di albero scavato. Avanti alla città il Jenissei si divide in due rami, che abbiamo attraversati su grandi e solide barche. Degli ufficiali di polizia ci aspettavano, e ci condussero ad un albergo per vie quasi deserte. Krasnojarsk riposava nel perpetuo chiarore della notte siberiana.

Ci siamo fermati una giornata intera a Krasnojarsk, una tediosa domenica che abbiamo trascorso nell’albergo perchè di fuori pioveva, i negozi erano chiusi, le strade silenziose, e la città aveva un’aria desolata come se la popolazione fosse fuggita sotto la minaccia di qualche ignoto pericolo. Scendevamo nella corte, ogni tanto, a dare un’occhiata all’automobile che subiva la “gran ripulitura„. Ne aveva bisogno; il fango era penetrato in tanta quantità nei buchetti del radiatore, da impedire la libera respirazione di questo polmone del motore. E al fango attribuivamo l’incidente del freno riscaldato, incidente che ci aveva fermati anche nell’ultima tappa. Grazie alla polizia ritrovammo a [p. 341 modifica] Krasnojarsk come nelle altre città, il nostro deposito di combustibile e lubrificanti. Era sempre la polizia che s’incaricava di scovarcelo e di farcelo consegnare, di giorno o di notte.

Intorno all’automobile non mancava mai del pubblico, un In Siberia. — All’imbarco di un ferry-boat. — Tipi di battellieri. pubblico scelto di funzionari e di ufficiali, perchè la corte era inaccessibile alla folla. Nel pubblico trovammo, non senza meraviglia, degl’inglesi, con i quali annodammo i più affabili rapporti per un senso di affinità occidentale. Erano ingegneri trapiantati in Siberia dal più affascinante dei lavori: l’estrazione dell’oro. A Krasnojarsk si sente parlare d’oro come in California. [p. 342 modifica]

Pare che sotto alle ricche coltri di terre fertili, la Siberia nasconda ben altre ricchezze. Nel bacino della Lena, del Jenissei, dell’Amur, e di tanti fiumi minori, abbonda l’oro. Per la produzione dell’oro la Siberia viene soltanto dopo gli Stati Uniti, l’Australia e il Transvaal. E non si è arrivati ancora a sfruttarne i filoni. Con mezzi primitivi si raccolgono e si lavano le sabbie aurifere dei depositi alluvionali. Ma da alcuni anni s’impiantano sistemi di lavorazione razionale. La ferrovia ha reso possibile il trasporto dei complicati macchinari delle moderne miniere. Per le macchine, per gl’ingegneri, per la direzione dei lavori, si è ricorso all’Inghilterra come ad un paese di maestri in fatto di estrazione d’oro. Al di fuori dell’oro, Krasnojarsk ha una storia a sè di rapporti diretti con gl’inglesi, una storia singolare che per poco non ha dato a Krasnojarsk l’illusione di divenire un porto di mare.

Un navigatore inglese, di nome Wiggins, ebbe l’ardita idea di profittare delle poche settimane — sei o sette — nelle quali il Mar del Nord è libero di ghiacci, per passare lo stretto di Kara e penetrare nell’estuario del Jenissei, cercando una nuova via commerciale per la Siberia. Nel 1874 egli tentò l’esperienza con una nave di nome Diana, e riuscì. Era trovata una fantastica congiunzione navale fra l’Inghilterra e la Siberia. Un’altra prova fu fatta nel 1875, coronata da successo. Nel 1878 l’esperienza fu messa al servizio della pratica, e delle merci furono sbarcate alla foce del Jenissei e dell’Obi. Sette anni dopo si formò una compagnia inglese per organizzare regolarmente questa navigazione estiva. Ma, se l’Inghilterra aveva bisogno di smerciare i suoi prodotti, la Siberia non si trovava pronta a riceverli. Gli affari furono cattivi, e la compagnia si sciolse. Un’altra compagnia, fondatasi allo stesso scopo alcuni anni dopo, quando pareva che la Siberia cominciasse a prendere sviluppo e dovesse aver bisogno di ferro e di macchine, dovette rinunziare ai suoi affari: la Siberia non era ancora matura. Ma nel 1895, allorchè la ferrovia portò in quel vasto continente il primo risveglio dell’industria, si formò una [p. 343 modifica] terza compagnia inglese, e nell’estate del 1896 non uno ma tre vapori carichi penetrarono nel Jenissei e lo rimontarono fino a Turukhansk, dove scaricarono le loro mercanzie — e fra esse sette macchine a vapore — che furono rimorchiate in piccoli battelli fino a Krasnojarsk. L’anno dopo i vapori inglesi che si ancorarono a Turukhansk erano sei, ed altri di minore pescaggio entravano nell’Obi. Gli affari questa volta andavano splendidamente. Nel 1898 arrivò una nuova flotta commerciale. Ma il Governo russo, che aveva incoraggiato questi tentativi riducendo o sopprimendo i dazi, cessò ogni regime di favore, e da allora la navigazione finì. Krasnojarsk non sarà più un porto di mare.

Alla sera l’albergo era in rumore. Vi si svolgeva uno di quei grandi banchetti siberiani che conservano la opulenza di antichi conviti. Dalle cucine i camerieri, in blouse bianca, portavano con le due mani, correndo, enormi piatti fumanti. Ci addormentammo mentre risuonavano per tutto le risate piene, ed alte, dei convitati, e il passo precipitoso dei servi faceva vibrare il pavimento di legno avanti alle nostre porte. Dalla strada veniva di tanto in tanto un cupo rumore di marcia. Passavano grosse pattuglie. Avevamo visto disporre delle sentinelle sui marciapiedi. Si vociferava quella sera di un ammutinamento avvenuto in una caserma. Ma nessuno sapeva nulla di preciso, nè si curava di saperlo. Pareva parlassero di queste cose come del tempo....


Due dei nostri amici inglesi, alle quattro della mattina dell’8 Luglio, montati in un’iswoshchik, ci guidarono fuori di Krasnojarsk. Occorre dire che pioveva? A una versta dall’abitato lasciammo le nostre guide con un cordiale good bye!, e ci allontanammo per una strada orribile, su lievi alture erbose, fra le quali scendevamo e salivamo come fa la barca nel cavo e sulla cresta delle onde. E incominciò un viaggio che somigliava a quello della vigilia e dell’antivigilia. Attraversavamo prati, foreste, piccole zone coltivate intorno ai villaggi; tutto era bagnato, oscuro, triste. Passavano le ore e passavano i chilometri, lentamente; e [p. 344 modifica] i piccoli incidenti del cammino, la comica sorpresa dei mujik, lo spavento dei cavalli, l’arrivo in mezzo a mercati rurali nei quali gettavamo il più buffo disordine, non riuscivano più a distrarci, a farci parlare. Eravamo accigliati, e quasi pieni di rancore.

Qualche volta si finisce per provare del vero risentimento verso la fatalità come verso un nemico. Noi ci sentivamo perseguitati, quasi che una volontà maligna mettesse gli ostacoli sulla nostra via. Perchè non erano ostacoli inevitabili come le montagne di Kalgan, come il corso dell’Iro; no, erano difficoltà che potevano non esistere un’ora prima del nostro passaggio, e non esserci più un’ora dopo. Sembravano disposte una dopo l’altra per stancarci, per ritardarci, per esasperarci. Eravamo nella stagione della siccità abituale, e non cessava di piovere. Quelle strade avrebbero dovuto essere eccellenti, ed erano impassabili; una giornata di sole le avrebbe rese buone, e il sole non veniva. I nostri calcoli, le nostre previsioni, erano sconvolti. Avevamo immaginato di potere andare da Krasnojarsk a Tomsk in un giorno, e avremmo dovuto impiegarne tre, forse quattro. La Siberia dimostrava una specie di ostinazione a non lasciarci passare. E noi sentivamo cambiarsi in ostinazione la nostra volontà. L’ostinazione non è che volontà irritata.

Verso le nove giungemmo in riva ad un fiume, il Kemtschug — un confluente del Tschulym, che alla sua volta è un confluente dell’Obi — presso ad un piccolo villaggio che porta il nome di Grande: “Bolshaja„.

Domandammo del battello, il consueto paravieda che traghetta le teleghe.

— Era qui — ci risposero i contadini accorsi intorno a noi — ma la piena lo ha travolto ed affondato. È andato ad affondare mezza versta lontano.

Domandammo se v’era un ponte nelle vicinanze. I paesani traversavano il fiume sopra una debole passerella larga due palmi, sulla quale era già pericoloso rischiarsi a piedi:

— C’era un ponte — ci risposero — ma la piena lo ha distrutto. [p. 345 modifica]

— Vi sarà un guado, allora.

— No. Il fiume è profondo più d’un uomo, nel mezzo, e non si passa a guado.

Progettammo allora di traversare il ponte ferroviario, come avevamo fatto in Transbaikalia.

— Dov'è la ferrovia? — chiedemmo.

— È laggiù, a dieci verste da qui.

— Vi è una strada per andarvi?

Sulla grande strada siberiana è cresciuta molta erba.

— No.

— Un sentiero?

— No. È tutta foresta, e non vi si passa che a piedi o a cavallo.

Eravamo perplessi. Ecco che un piccolo fiume il Kemtschug ci bloccava completamente. Calcolammo quanto tempo ci sarebbe voluto a costruire una larga e solida zattera: almeno due giorni di lavoro. Tentammo allora un grande mezzo. Facemmo chiamare lo Starosta.

Egli era un vecchio mujik dalla barba bianca vestito di un [p. 346 modifica] armiak di velluto adorno di ricami che gli dava un’aria da bojardo decaduto. Borghese gli presentò le lettere ufficiali rilasciateci dal Ministro dell’Interno e dal Direttore della Polizia dell’Impero, ingiungenti a tutte le autorità di concederci ogni aiuto e protezione e gli disse solennemente:

— Leggete!

Disgraziatamente lo Starosta non sapeva leggere, e guardava con gravità quei documenti capovolti. Ma un giovanotto, che portava un berretto militare, glie li tolse e lesse ad alta voce al popolo riunito.

Lo Starosta salutò profondamente. Quel che più aveva impressionato quella brava gente era il titolo di Principe e la qualità di deputato al Parlamento di Borghese.

— Fa parte della Duma d’Italia! — si sentiva ripetere con accento ammirativo.

— È un Kniatz!

— Ha un podorojnè del Governo!

— È come un corriere dell’Imperatore!

Lo Starosta domandò cosa dovesse fare. Il Principe gli disse che aveva assoluto bisogno di trovarsi prima di sera ad Atschinsk. Doveva quindi traversare al più presto il fiume. Vi fu una breve discussione fra i mujik, in seguito alla quale il vecchio dichiarò, inchinandosi, che sperava di farci traghettare il Kemtschug in qualche ora. Intanto ci invitava ad aspettare nella sua isba, dove la moglie ci offrì del thè nelle tazze d’onore.

In un momento Bolshaja fu in armi: i contadini armati di asce, di corde, di secchie, di pale, si adunarono in riva al fiume. Noi seguivamo con curiosità da dietro i doppi vetri della finestra quel movimento; la presenza delle secchie c’imbarazzava. Lo Starosta comandava la manovra: presto comprendemmo il suo piano, e perciò anche l’uso delle secchie. Si voleva risollevare il battello affondato, del quale emergeva dall’acqua una punta. Degli uomini entrarono nel fiume, legarono il barcone con le corde, e così fu tratto facilmente vicino alla riva. Poi con le secchie lo vuotarono, [p. 347 modifica] rimettendolo a galla. L’operazione durò qualche ora. Rapidamente poi delle tavole e delle travi furono portate sulla sponda, e, con l’abilità straordinaria che hanno i mujik a lavorare il legname, in poco tempo costruirono un solido ponte di approccio.

Quando tutto fu pronto, accorremmo. L’automobile venne afferrata, issata sul battello ormeggiato, e il battello, tratto, sospinto, accompagnato da uomini nell’acqua, incominciò la sua traversata. La corda che lo legava era stata gettata sull’altra sponda, dove fu tirata da una lunga squadra d’uomini. Lo sbarco fu facile. L’automobile arrivò sulla riva trascinato come un carro trionfale dalla moltitudine grondante d’acqua e di sudore ma contenta del successo.

Dopo avere distribuito un equo compenso ai bravi mujik di Bolshaja, a mezzogiorno riprendevamo il viaggio salutati da cordiali do svidania. La strada poi ha migliorato leggermente. Per alcuni tratti cominciavamo a trovare il terreno della steppa. Alle tre eravamo in vista di Atschinsk, lontana 200 chilometri da Krasnojarsk.

Atschinsk appare improvvisamente, a chi viene dall’est, e sotto l’aspetto il più pittoresco. Si traversano dei boschetti di betulle, poi la strada discende, e nel declivio, fra gli alberi, si scoprono le cupole e i campanili della città. E poco dopo le sue casette imbiancate, i cui tetti digradano verso un gran fiume, il Tschulym, al di là del quale sfuma via un’immensa pianura.

Fuori di Atschinsk erano venuti dei cittadini a vederci arrivare. Avevano internato i loro tarantas fra gli alberi, e ci aspettavano sul margine della via. Un ufficiale di polizia ci faceva dei segnali agitando il fazzoletto, e quando ci vide fermi, temendo di non farsi comprendere da noi con la parola, cominciò a furia di gesti espressivi a indicare il mangiare, il bere, il dormire, con una mimica che parve divertire molto il pubblico. Invitammo l’ufficiale a prendere posto sull’automobile e a guidarci in quel luogo dove si mangiava, si beveva e si dormiva. Sembrò molto meravigliato di sentirsi interpellato in russo. [p. 348 modifica]

La voce del nostro arrivo si era sparsa per Atschinsk. La gente si affacciava alle finestre, veniva fuori dalle botteghe. Passammo avanti a degli edifici bassi, muniti di solide inferriate, circondati da sentinelle: erano delle note prigioni. Anche lì dentro si era diffusa la grande notizia. I forzati ci aspettavano. Dietro alle inferriate si affilavano le teste rase, una sull’altra da sembrare ammonticchiate; decine di mani si aggrampavano nervosamente alle sbarre; ed anche nell’interno, nella penombra, era uno scintillare di sguardi avidi.

Alloggiammo in una misera stamberga di legno che si dava il titolo di Hôtel. Era il migliore albergo della città. Nella notte degli uomini vennero a bussare alla porta. Nessuno aprì perchè nella gostinitza non c’eravamo che noi: un giovanotto era venuto alla sera tardi, dall’esterno, a portarci il pranzo, poi se n’era riandato. Gli uomini gridarono, volevano entrare ed entrarono, s’introdussero nelle nostre stanze, al lume di una candela, comandandoci imperiosamente da dormire. Erano dei mercanti arrivati chi sa da dove, impellicciati, infangati. Riuscimmo a convincerli di cercare altrove, e si allontanarono vociando. Alle tre del mattino ricomparve da fuori il giovanotto con un samovar acceso per il nostro thè. Quell’albergo — se ben ricordo si chiamava Hôtel d’Europa — aveva certo il più originale dei servizi. Un servizio esterno. Se non ci avesse condotto lì la polizia avremmo potuto credere d’essere caduti in una casa da agguati.

Alle tre e mezza partivamo. La nostra toilette mattutina era presto fatta, poichè nelle piccole città dovevamo dormire vestiti. Soltanto i grandi alberghi, e nelle città principali, posseggono delle lenzuola. Il viaggiatore siberiano porta con sè le coperte, il cuscino e le lenzuola, come porta il samovar, il sacchetto del thè e il sacchetto dello zucchero. Quell’uso di portarsi appresso il giaciglio ha un sapore di vita nomade, è qualche cosa forse che rimane dell’attendamento. È vero che tale usanza può significare semplicemente un’abituale sfiducia nei letti delle gostinitze; e la sfiducia non è assolutamente immeritata. Dicevo dunque che noi [p. 349 modifica] dovevamo dormire vestiti, avvolti nelle pellicce, su delle brande nude, con un sacco o la macchina fotografica per cuscino. Ci sfogavamo alla mattina a fare le nostre abluzioni a grand’acqua nei cortili, con sorpresa dei siberiani che usano lavarsi sotto una specie di contagocce, il quale lascia cadere un bicchier d’acqua in mezz’ora. I mujik poi, quando sono in vena di lavarsi il viso, si empiono la bocca d’acqua, per riscaldarla, la risputano un po’ alla volta nel cavo delle mani, e si lavano.... In Siberia. — Il nostro pubblico.

Il comandante la polizia, presso il quale avevamo preso il thè alla sera, dopo il pranzo, ci aveva avvertiti che, oltre ai soliti banditi, v’era da temere un altro pericolo: i pantani. Dovevamo stare attenti a prendere la strada giusta per Marinsk, dove volevamo pernottare l’indomani, 9 Luglio, e non perderci nei meandri paludosi della pianura del Tschulym. Per evitare questa disgrazia ci offrì la guida di un suo luogotenente, il quale ci avrebbe condotti sulla strada sicura. Alla mattina infatti, il luogotenente, in un tarantas attaccato a due splendidi cavalli, ci precedeva. [p. 350 modifica]

Il cielo era piovigginoso; faceva freddo. Sotto alla città attraversammo il Tschulym con uno dei soliti battelli siberiani formato da una piattaforma sorretta da due barche, simile ad una larga zattera, e ci allontanammo per la pianura bassa e erbosa, priva d’alberi, coperta qua e là da giunchi che rivelavano l’acquitrino, infestata da vere nubi d’insetti. Il sentiero era fangoso, ma non difficile. Ci dispiaceva di dover andare lentamente per seguire il tarantas, e stavamo per sorpassare e salutare il barbuto ufficiale che ci guidava, sicuri di poter bene affrontare i pantani del Tschulym dopo aver trionfato di quelli del Charagol, quando l’automobile si fermò improvvisamente inclinandosi da un lato.

Eravamo affondati. I pantani del Tschulym reclamavano la nostra attenzione.