La zecca di Scio/Monete dei Maonesi

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MAONESI.


Caduta di nuovo nel 1329 l’isola sotto l’impero dei Greci, ignoriamo se vi abbiano conservato la zecca; imperciocché, siccome in questi tempi non usavasi più di segnare le monete bizantine colle iniziali dei nomi delle città nelle quali si battevano, quando non ne varia il tipo è impossibile distinguere da quale officina siano esse uscite, meno che abbiano un qualche special contrassegno, che però sinora in nessuna si è scoperto.

Restando adunque inutile qualunque ricerca circa questa zecca in quegli anni, passiamo a trattare delle monete che vi furono coniate durante il dominio che ebbe in Scio la società dei Genovesi conosciuta sotto il nome di Maona.

Abbiamo già detto che Simon Vignoso con una flotta allestita da vari armatori suoi compaesani si era impadronito di quest’isola, e che mediante una convenzione, fatta col comune di Genova li 26 febbraio 1347, loro ne era rimasto il totale possesso sotto l’alta sovranità della comune patria. In tal atto abbiamo notato che anche si era venuto a patti per l’affare della zecca e che si era convenuto che al podestà fesse lasciato libero di fissare l’impronto, peso e bontà delle monete che si avessero a coniare, purché su da esse si conservassero, le stesse parole che leggevansi sulle genovesi, cioè Dux Ianuensium e Conradus Rex. Siccome però il comune era essenzialmente retto da cittadini, qual più qual meno, tutti commercianti, i quali perciò comprendevano di quanto grande importanza fosse il poter essere sicuri della bontà delle monete che si emettevano, perciò si ordinò che i maonesi per la loro zecca in Genova avessero a prendere un buon saggiatore, e questa prescrizione venne rinnovata nell’anno 1373.

Non consta se il Vignoso rimasto nell’isola alla testa dell’amministrazione della società vi abbia subito fatto lavorare la zecca, oppure se alcun tempo ancora la lasciasse inoperosa; tuttavia stando alle parole della convenzione del 1347, cioè che sulle monete dovessero essere literae monetae ianuensis et figurae ut deliberabitur per potestatem, ed all’altra del 1373, che esse fossero cum literis et figuris monetae Ianuae, vel cum signis domini ducis Ianuae, non possiamo a meno di attribuire a questi anni, e dire [p. 39 modifica]che devono essere esse le prime coniate dai maonesi quelle monete che conosciamo colla figura del doge, e che per il loro tipo e forma delle lettere patentemente vedonsi spettare a questo secolo.

Di esse nessuna consta esistere d’oro, e probabilmente nei primi tempi in tal metallo non se ne dovette coniare, ma solamente di argento, procurandosi d’imitare quelle che allora erano maggiormente ricercate, e che importate nell’Arcipelago da Napoli si lavoravano con successo nelle officine di Cipro e di Rodi.

Queste sono i gigliati (Tav. I, n.ᵒ 5), dei quali uno ha da un lato la figura del doge seduto in cattedra, tenente colla destra uno scettro sormontato da croce e colla sinistra un globo pure crociato; il suo capo è coperto da cappello in forma di cono tronco e dal quale pendono due nastri, colla leggenda ☩ DUX · IANVENS · QUEN · DEVS · PTAGAT, cioè Dux Ianuensium quem Deus protegat, il che vediamo sui fiorini e grossi di Simon Boccanegra che fu il primo doge dal 1339 al 1345. Dall’altro lato evvi una croce filettata, fiorita ed avente negli angoli quattro gigli esattamente come negli angioini, ed in giro la solita leggenda delle monete genovesi ☩ CVRADVS · REX · ROMANORVM, sempre conservatasi in memoria di tale importantissimo privilegio concesso al comune da questo Cesare nel 1138.

Pesa denari 3. 10. 14 pari a grammi 4.407; per la qual cosa dobbiamo dire che si vollero conservare uguali ai buoni, ed avendone appunto esaminati alcuni di Carlo II e di Roberto d’Angiò si trovarono di denari 3. 2 e 3. 7, altri di Rodi di denari 3. 6, e di Cipro, conosciuti col nome di bisanti bianchi, di denari 3. 12 e 3. 15. La bontà loro ad essi non deve in conseguenza nemmeno esser inferiore che sono a denari 11. 3, ossia a millesimi 9271.

L’altra varietà del gigliato che conosciamo, ed a quest’epoca [p. 40 modifica]certamente appartenente (Tav. I, n.ᵒ 6), è nel tipo esattamente uguale da ambi i lati a quelli di Napoli, però colle stesse leggende dell’antecedente, solamente che il nostro esemplare è un poco in esse mancante per esser alquanto corroso.

Ne ignoriamo il peso ed il titolo per possederne il disegno comunicatoci dal Direttore del Museo di Copenhaguen, signor Tompsen, che la morte viene di rapire alla scienza.

Inferiore a questo bel pezzo, e che si possa con certezza sotto quest’epoca classificare, altra moneta non conosciamo che una piccola pure d’argento, della quale possediamo tre esemplari, con qualche varietà, e dei quali uno (Tav. I, n.ᵒ 7) da un lato presenta nel campo con sotto una rosetta, segno dello zecchiere, il busto di faccia del doge vestito, pare, di vaio e coperto il capo col cappello, come nel gigliato, a forma di cono tronco, e con due nastri da esso pendenti, con in giro ☩ DVX · IANVENSIVN, e dall’altra ha una croce patente con attorno ☩ CVNRADVS · REX.

Altro affatto uguale al suddetto (Tav. I, n.ᵒ 8), ma nel quale per proprio contrassegno il maestro della zecca in luogo della rosetta mise un anello.

E finalmente un terzo ai precedenti pure simile (Tav. I, n.ᵒ 9), però colla testa più piccola e così pure la croce; manca in esso il segno dello zecchiere.

Di queste tre monetine quella che offre una miglior conservazione pesa grani 18.18 pari a grammi 1, e paiono tutte alla stessa bontà del gigliato.

Cosa fosse questo pezzo, come si denominasse e qual rapporto avesse coll’altro maggiore non ci venne fatto di trovarlo indicato in alcun luogo, in conseguenza dobbiamo cercarlo paragonando la quantità di fine che l’uno e l’altro contengono.

Il gigliato pesando grammi 4.407, e concesso che sia allo stesso titolo di quelli di Napoli e di Rodi, cioè a denari 11.3 ossia millesimi 927, deve contenere di fine grammi 4.085, così la nostra monetina calcolata alla stessa bontà e pesando grammi 1, darebbe grammi 0.927; ed appunto grammi 4.085 divisi per quattro danno grammi 1.021 ¼ di fine, quantità bensì di 100 millesimi incirca superiore a millesimi 927, ma da non tenersene [p. 41 modifica]conto trattandosi di monete piccole sempre scadenti dal peso legale, tanto più che sonosi conservate nel minuto commercio dell’isola forse per due secoli, chè nuove di zecca dovrebbero essere di peso assai maggiore, onde non possiamo aver dubbio che siano il quarto del gigliato e la metà del grosso matapane, in conseguenza di quei tali pezzi ai quali sempre vedemmo calcolarsi i fiorini d’oro, cioè caratti, come già si è detto descrivendo la moneta di Martino e Benedetto II.

Dopo questi ne rimangono ancora molti altri e tutti di uguale legge, ma che per la diversità dei loro conii e varia forma dei caratteri si riconoscono ad essi posteriori, e difficili a classificarsi, essendovene dei battuti dal finir del XIV secolo sino alla metà incirca del XV; onde prima di essi crediamo di descrivere tre ducati d’oro, i soli di questa zecca che conosciamo; sebbene altri debbanvisi essere stati coniati, e probabilmente tutti contraffatti a quelli di Venezia variandone solamente le leggende.

Il primo (Tav. I, n.ᵒ 10) presenta nel diritto il doge ginocchione con manto e berretto ducale nell’atto di ricevere il vessillo della croce da un santo in piedi che tiene colla sinistra un libro, ed accanto al quale perpendicolarmente leggesi S · LAVRETI per Sanctus Laurentius, titolare della cattedrale di Genova, non già della latina di Scio, la quale, secondo il Lupazzolo che vi abitava ed è citato dal Giustiniani2, era dedicata a S. Antonio; accanto al doge evvi il suo nome così T · DVX · IANVE, e contro la bandiera ripetuto il DVX per meglio imitare il ducato veneto. Qual fosse il doge il cui nome cominciasse con tal lettera facilmente riviensi, che avanti al 1500 nella loro serie evvene un solo, e questi è Tommaso da Campo Fregoso eletto tre volte, cioè la prima nel 1415, la seconda nel 1436 e la terza nel 1437. Sotto quali di questi dogati il nostro pezzo sia stato coniato è impossibile dirlo, avendo il primo durato sei anni, il secondo uno ed il terzo incirca sei.

Il rovescio suo nel tipo e nella leggenda in nulla differenziando da quello di Venezia, è inutile che si descriva.

Esso è del peso di soli denari 1. 19, ossia grammi 2. 295, e siccome pare appena giungere a millesimi 850, deve perciò [p. 42 modifica]contenere incirca grammi 1.900 d’oro fine, quando il veneto ne avrebbe grammi 3.450, e tenuto anche conto che lo sciotto essendo molto corroso, è in conseguenza ben calante dal suo peso legale, contuttociò è sempre a questo immensamente inferiore.

Il secondo (T. I, n.ᵒ 11) posseduto dal signor Morel-Fatio di Parigi, che gentilmente ce ne favorì il disegno, è simile nelle figure del diritto al precedente, ma il nome del doge che leggesi è RAFAEL ADV. per Adurnus, e l’asta del vessillo appare piantata sopra qualche cosa quasi totalmente cancellata, ma che deve essere una S iniziale di Scio, come dal susseguente pezzo rilevasi. Nel rovescio poi attorno alla figura del Salvatore evvi GLORIA . I . EXCEL. DEO ET I . TERRA P., cioè Gloria in excelsis Deo et in terra pax; nel che varia dal veneto sul quale leggesi sempre Sit tibi Christe datum quem regis iste ducatum.

Ne ignoriamo affatto il peso ed il titolo, ma non crediamo di andar molto errati dicendolo consimile all’antecedente.

Questo doge essendo stato eletto nel gennaio del 1443 quando fu deposto Tommaso Campofregoso, volontariamente nello stesso mese del 1447 rinunziò a tal dignità, onde in un di questi quattro anni fu battuto il nostro ducato.

Il terzo (T. I, N. 12), che conservasi nel museo Correr di Venezia e nel regio di Copenhaguen, è uguale ai precedenti, solamente che il nome è PETRUS D C F, ossia Petrus de Campo Fregoso, e che l’asta della bandiera è piantata visibilmente sopra la lettera S, come sopra dissimo per Sii; e questo quanto al diritto; nel rovescio poi non varia che in qualche lettera nella leggenda così: GLORIA . I . EXCE . DEO . ET . I . TERA. Non abbiamo notizia del suo peso e bontà, ma non dovrebbe gran fatto variare dal primo.

Pietro di Campofregoso fu dal popolo innalzato a questa suprema magistratura quando nel dicembre del 1450 ne depose il suo agnato Gian Campofregoso, e durò nella signoria sino al febbraio del 1458, allorché dovette cederla a Prospero Adorno; e questo è l’ultimo ducato di Scio che conosciamo, quantunque ancora per un tempo pare debbasi essersene battuti.

Dopo questi ducati avremmo a collocare la serie di quelle monete d’argento che abbiamo sopra menzionate; siccome però variano dalle precedenti portando indi in poi tutte il nome della [p. 43 modifica] città quando le prime non l’hanno, così anzi tutto crediamo di dover rispondere alle obbiezioni che ci si potrebbero fare relativamente a quelle sinora descritte come battute in Scio dai maonesi, cioè che non se le possano attribuire non leggendovisi il suo nome, nè veggendovisi il castello turrito che sempre si trova sopra quelle colle parole Civitas Sii o Chii.

Cominciando adunque da quelle di argento, che sono le più antiche, procureremo di provare che nè a Genova direttamente, nè alle colonie che in quest’epoca essa possedeva in Oriente devono le nostre monete spettare. Per il tipo che presentano e per la loro specie non possono per alcun verso appartenere al sistema monetario in vigore in quella città, che fuori della porta e croce altro mai permise che fosse improntato sulle sue, che sempre si divisero in lire, soldi e denari. Nemmeno può dirsi che vi siano state battute per le sue colonie, chè il loro intaglio sente la lontananza dall’Italia, e poi alcuna sarebbesi nel suo territorio scoperta, quando tutte nelle isole dell’Arcipelago esclusivamente trovansi. In quanto alle colonie nelle quali per la loro importanza potevasi tener aperta una zecca, esse si riducono a Pera, Caffa, Famagosta e Scio. Nella prima certamente no, chè giammai si sarebbe tollerato dagli imperatori greci che in un borgo della loro capitale stranieri venissero ad usare di un tal diritto, del quale alcun cenno nemmeno trovasi nei diplomi coi quali essi ai Genovesi concessero quella residenza, così nessun pezzo sinora si conosce che per alcun indizio possale attribuirsi. Riguardo a Caffa, si hanno bensì sue monete, ma tutte piccole, basse e con leggenda araba da un lato, perchè esclusivamente battute pel commercio della colonia coi Tartari, e queste crederei aspri del secolo XV. Di Famagosta poi non conosconsi che piccoli tornesi necessarii pelle contrattazioni dell’interno della città, chè per tutte quelle più importanti che si facevano colle altre parti dell’isola dipendenti dai re, come risulta dai documenti che ci rimangono, sempre si usarono i bisanti bianchi, i quali uscivano dalla zecca del principe.

Non avendo Genova altre possessioni in Levante dove vi fosse zecca fuorchè Scio, e le nostre monete essendo state sicuramente lavorate in quelle parti, dove solamente trovansi, e visto che [p. 44 modifica]non sono nè di Pera nè di Caffa, nè di Famagosta, ne segue che devono a quell’isola spettare tanto più che offrono quei dati che per queste furono prescritti dal governo della repubblica, come abbiamo antecedentemente veduto sia nella convenzione del 1347, nella quale fu detto che la loro leggenda fosse Dux Januensium e Conradus Rex, quanto in quella del 1373, nella quale si ordinò che oltre tale scritto avessero la figura delle monete di Genova (cioè porta e croce), oppure fossero cum signis del doge, onde ne restava escluso il nome ed il segno ossia stemma della città, ed invece sostituiti i segni della dignità del doge, come è la sua figura stessa. Per quale causa poi indi si abbandonasse la leggenda Dux Janue, e ad essa si sostituisse il nome dell’isola, è ignoto; tuttavia non crediamo di allontanarci dal vero dicendo che ciò deve esser avvenuto quando, caduta la repubblica negli ultimi anni del secolo XIV sotto il dominio di Francia ed alcuni anni dopo sotto quello di Filippo Maria Visconti, duca di Milano, ignorando i maonesi per la loro lontananza i cangiamenti di governo che continuamente si succedevano nella madre patria, epperciò non potendo conoscere se da un doge eletto dal popolo oppure da un principe straniero fosse essa retta, credettero più sicuro partito omettere un nome che quando si emetteva la moneta in Scio forse poteva già esser tolto da quelle di Genova, e sostituirvi quello della città nella quale essa si lavorava.

In quanto a quelle d’oro, che per tutto il loro assieme si vedono uscite da una stessa officina ed in Oriente nel secolo XV, esse paiono intagliate dallo stesso artefice che fece quelle contemporanee dei Gattilusio in Metelino, e che sono contraffazioni dei ducati veneti con variazioni nelle leggende. Ciò che ne fa conoscere l’origine, si è che sopra due diverse, affine di distinguerne la provenienza, si collocò ai piedi dell’asta del vessillo un grande S, che altrimenti non si può spiegare che come iniziale del nome dell’isola, cioè Scio, dalla quale appunto proviene l’esemplare che si conserva nel medagliere di S. M.

Provata così l’attribuzione da noi data delle precedenti monete ai maonesi di Scio, prima ancora di ripigliare la descrizione di quelle monetine d’argento con castello e croce, delle quali si [p. 45 modifica]conoscono tante varietà e che abbiamo già detto essere di quella specie detta caratti, crediamo di collocare un piccolo tornese che alle suddette non è certamente posteriore, ma di cui non possiamo fissar bene l’epoca.

Da una parte (T. I, n.ᵒ 13) ha il solito tempio, simbolo della chiesa cristiana, ed attorno CIVITAS ⚪︎ SII, e l’anello è contrassegno dello zecchiere: dall’altra vedesi una croce e ☩ CVIRADVS . REX. con tal forma di caratteri che annunziano il principio del XV secolo. Questo piccolo tornese pesa grammi 0.450 e probabilmente come quelli di Morea è a millesimi 200 incirca, onde avrebbe di fine grammi 0.090; ma tenuto conto che esso è scadente nel peso, oltrepassando in generale tutti il mezzo gramma, e che nelle monete basse sempre si riduceva la bontà intrinseca, cioè quella quantità di fine che corrisponde all’intiero d’argento buono, e ciò affine di ricavarvi grosso guadagno, stantechè sulle altre poco o nulla potevasi lucrare, possiamo dire che deve essere stato lavorato alla stessa lega degli altri che battevansi in Oriente, e correvano per un ottavo di grosso.

Ora abbiamo a descrivere, abbenchè qual più qual meno quasi tutti scadenti dal peso legale per essere pel lungo uso logori, ma che appaiono egualmente retti dalla stessa legge delli avanti descritti, quattordici caratti collocati secondo che più antichi o moderni pel loro assieme ci parvero, tutti però aventi ugual tipo e leggenda.

Il primo (T. II, n.ᵒ 14), che per la forma delle lettere vedesi più antico degli altri e probabilmente coniato subito dopo quelli colla protome del doge, ha da un lato il castello cori tre torri merlate ed attorno ☩ ☆ CIVITATE: ☆: SI..., la quale ultima stella crediamo segno del maestro, e dall’altro una croce patente con due perlette alle estremità delle braccia ed in giro ☩ ☆ CVMRADVS ☆ R... ☆.

Il secondo (T. II, n.ᵒ 15), con castello simile ma più rozzo, ha ☩ ☆ CIVITATE ☆ SYI ☆ da una parte, e dall’altra attorno ad una croce patente ☩ ☆ CVMRADVS ☆ REX ☆.

Il terzo (T. II, n.ᵒ 16) è uguale al suddetto in tutto, fuorchè dal lato della croce evvi ☩ . CVRADVS ☆ REX ☆.

Il quarto (T. II, n.ᵒ 17) ha il castello grossolanamente disegnato, [p. 46 modifica]e sotto ed alla sinistra un bastoncino segno dello zecchiere, colla leggenda ☩ CIVITAS · SIY, quando i tre primi avevano civitate come per dire battute nella città di Scio, e nel rovescio la croce patente con due perle alle estremità delle braccia, e ☩ · CVMRADVS · REX; e tutti questi sono certamente anteriori ai susseguenti.

Il quinto (T. II, n.ᵒ 18) ha dal lato della croce patente ☩ CIVITAS SII, e dal lato del castello ☩ CVNRADVS REX.

Il sesto (T. II n.ᵒ 19) ha attorno al castello colle solite torri merlate ☩ CIVITAS · SIY ·, ed attorno alla croce sempre patente ☩ · CVRRADVS · REX ·

Il settimo (T. II, n.ᵒ 20) sopra le due torri minori del castello vario dal precedente, e sotto il medesimo ha un punto per segno del nuovo maestro, ed attorno ☩ CIVITAS · SIY ·, e dalla parte della croce ☩ · CVNRADVS · REX ·

L’ottavo (T. II, n.ᵒ 21) tiene nel diritto un mal disegnato castello e ☩ CIVITAS ☆ SIX ☆ per Siy, e nel rovescio la croce e ☩ CVNRADVS ☆ REX.

Il nono (T. II, n.ᵒ 22), con castello d’altro conio, ha ☩ CIVITAS · SII · da un lato, e dall’altro la croce e ☩ CONRADVS · REX ·

Il decimo (T. II, n.ᵒ 23), eguale al suddetto dalla parte del castello, ha da quella della croce ☩ CONRAD · VS · RES; il punto è segno di altro zecchiere.

L’undecimo (T. II, n.ᵒ 24) ha nel diritto, uguale all’antecedente, la parola civitas molto imbrogliata, e nel rovescio attorno alla croce ripetuta la leggenda ☩ CIVITAS · SII ·

Il dodicesimo (T. II, n.ᵒ 25) ha da un lato il solito castello ed in giro ☩ CIVITAS ☆ REX, errore dell’intagliatore del conio che vi ripetè invece di Sii le ultime lettere del rovescio, è dall’altro ☩ CVNRADVS REX.

Il decimoterzo (T. II, n.ᵒ 26) tiene l’istesso diritto dell’antecedente, ma dalla parte della croce ha una piccola varietà, cioè ☩ CONRADVS · REX ·

Il decimoquarto (T. II, n.ᵒ 27), improntato coll’istesso conio dei precedenti dal lato del castello, da quello della croce ha ☩ CONRADVS : REX :, nuovi segni di zecca.

Quantunque in queste tre ultime monete siasi messa la parola [p. 47 modifica]Rex in vece di Sii, tuttavia si conosce che anch’esse appartengono a quella serie, nella quale il nome dell’isola è scritta Sii, che poi cangiossi in Chii, onde crediamo di dover classificare dopo le sopraddette tutte quelle che al nuovo modo segnano il nome della città.

Di queste conosciamo quattro varietà, tutte del diametro almeno d’un genovino di argento, e di sì bel conio che al primo colpo d’occhio conosconsi intagliate in Genova, od almeno da artisti italiani.

La prima (T. III, n.ᵒ 28) e la più antica di esse, per avere nel diritto il solo castello colle tre torri merlate, tiene in giro le solite parole ☩ : CIVITAS : ☆ : CHII :, e nel rovescio ha una croce patente con ☩ : CONRADVS ❀ REX · R’. Credo la stella del diritto segno del maestro.

Pesa questo esemplare, comunicatoci dall’intelligente raccoglitore di monete patrie signor Luigi Franchini di Genova, denari 1. 13. 12 pari a grammi 2, ed è d’argento fine. Questa moneta certamente fu coniata nei primi anni del secolo XV, ed avanti che i maonesi avessero aggiuntò allo stemma l’aquila imperiale, che abbiamo veduto concessa da Sigismondo nel 1413 a Francesco Giustiniani Campi. In quanto al suo valore dal peso pare uguale ai matapani veneti, ma avendo trovato genovini d’argento battuti dal doge XIX tra il 1415 e 1421, e del peso di denari 1. 17 pari a grammi 2.188, ciò ci fece sospettare che potesse essere di tali grossi, e fatta battere nella zecca di Genova dall’ufficio della Maona per ragioni a noi ignote, dubbio che meglio si spiegherà colle susseguenti.

La seconda (T. III, n.ᵒ 29) ha da un lato il solito castello e sopra un’aquila nascente colle ali aperte e coronata, colla leggenda ☩ : CIVITAS : ❀ : CHII :, e dall’altro attorno ad una croce patente ☩ : CONRADVS : REX : R’: cioè Romanorum.

Pesa denari 2. 10. 20 pari a grammi 3.300 e probabilmente è alla bontà di millesimi 950; onde non trovando che possa corrispondere ad alcuna frazione del gigliato, ed in conseguenza alle monete che si battevano nell’isola, ci cadde in sospetto che, come il precedente, questo ed i susseguenti grossi siano dalla zecca di Genova usciti e dopo che ebbero i maonesi aggiunto allo stemma [p. 48 modifica]loro l’aquila. Questo dubbio divenne per noi probabilità quando abbiamo osservato che tali pezzi erano gli unici col nome di Scio, i cui esemplari sino all’epoca presente tra noi fossero conosciuti e rinvenuti in queste parti d’Italia, anzi quasi esclusivamente nelle provincie già formanti la repubblica di Genova, quando di tutti gli altri nessuno, per quanto ci consta, mai vi si scoperse.

Abbiamo dunque voluto cercare se avessero alcun rapporto col grosso genovino che si lavorava dopo il 1421 nella capitale della Liguria, cioè da quando i maonesi avevano potuto inquartare nello stemma l’aquila, ed appunto vediamo che Filippo Maria Visconti, duca di Milano e signore di Genova, dal 1421 al 1436 fece lavorare in questa città grossi, come abbiamo potuto riconoscere pesandone vari esemplari, di denari 2. 10 ossia di grammi 3.095 ed a millesimi 950: inoltre che nel 1437 dal doge Tommaso Campofregoso3 fu ordinato che il grosso dovesse essere a denari 11. 12 ed a pezzi 100 per libbra sottile, epperciò di grammi 3.171 pari a denari 2. 11. 9 caduno, equivalendo questa a grammi 317.095; ed avendo ancora verificato il peso di altri del doge XXVI battuti dal 1450 al 1457, e trovatili di denari 2. 12, cessato ogni dubbio, restammo convinti che uguale a questo grosso deve essere il nostro pezzo, e forse a tal legge venne lavorato per ottenere che anche nella madre patria la moneta d’argento di Scio potesse aver corso, e così anche si ricevesse nelle contrattazioni tra Genovesi e Sciotti, nelle quali non v’era l’uso che di contare a ducati.

Altra ne segue simile alla suddetta in tutto (T. III, n.ᵒ 30), ad eccezione che manca la rosetta, ed invece per contrassegno ha nel campo a sinistra fra le due braccia superiori della croce un piccolo bisante. Ne ignoro il peso avendone solamente il disegno, ma certamente deve esser uguale a quello dell’antecedente.

Altra evvene ancora nel tipo affatto alla anzidescritta uguale (T. III, n.ᵒ 31), ma di diametro un po’ inferiore, e con questa, varietà che dopo la parola Chii prima dei due punti vi è una rosetta contrassegno del maestro della zecca. Dal suo peso, sebbene di soli denari 2. 10. 2, o grammi 3.100, vedesi essere stato lavorato alla stessa legge del num. 29.

[p. 49 modifica]Dell’epoca degli anzidetti grossi e colla stessa leggenda altre monete non conosciamo che alcune frazioni del tornese piccolo, tutte tra loro simili nel tipo e solamente vari nei segni degli zecchieri, e per questo appunto crediamo opportuno di produrle.

La prima di queste monetine (T. III, n.ᵒ 32) mostra da una parte il solito tempio dei tornesi con attorno ❀ CIVITAS ☆ CHII ❀, e dall’altra una croce potenzata con ☩ CONRADVS ☆ REX ☆ R.

La seconda (T. III, n.ᵒ 33) ha la leggenda del diritto così: CIVITAS ❀ CII ❀ :, e quella del rovescio ☩ CONRADVS · REX.

La terza (T. III, n.ᵒ 34) tiene un punto sotto il tempietto ed attorno CIVITAS : ❀ : CHII : ❀ : da un lato e dall’altro ☩ CONRADVS ❀ REX R ·

La quarta (T. III, n.ᵒ 35) ha CIVITAS ❀ CHII ❀, e dalla parte della croce ☩ CONRADVS · REX · R ·.

La quinta (T. III, n.ᵒ 36) ha così la leggenda del diritto CIVITAS · CHII ·, e quella del rovescio ☩ CONRADVS R .....

Il peso in comune di questi cinque pezzi è di denari 1. 17. 10, pari a grammi 2.210 ; onde la quinta parte resta grammi 0.442 e calcolati a denari 1 di fine, ossia millesimi 83, come appaiono essere, avremo per caduno grammi 0.037 d’argento incirca; epperciò vi è tutta probabilità che fossero la metà del tornese piccolo, mai in sì minuti pezzi cercandosi la corrispondenza esatta coll’intiero.

E queste sono le monete che sinora vennero a nostra conoscenza essersi dai maonesi battute a nome proprio, cioè senza quello di principe straniero, sino alla metà del secolo XV, quantunque ne possano anche esistere anteriori, essendo Genova per causa delle intestine discordie continuamente passata in questo secolo dal dominio di Francia a quello di Milano; tuttavia è probabile che ciò non avvenisse sin verso il 1450, quando gli Sforza ne conservarono per notabile tempo il possesso; con tutto ciò di quest’epoca se ne ha una sola di argento battuta col nome di Galeazzo Maria duca di Milano, il quale, succeduto al padre Francesco nel dominio di questa città in marzo del 1466, la [p. 50 modifica]tenne sino al 1477, quando sollevatasi a furor di popolo e cacciatane la sua guarnigione, conservò per alcun tempo la riacquistata indipendenza.

Questa moneta (T. III, n.ᵒ 37) da un lato ha il solito castello colla leggenda ☩ C · R · R · CIVITAS ❀ CHII ❀, cioè Conradus Rex Romanorum Civitas Chii, e dall’altro la croce ed attorno ☩ GALEAZ · M · S · D · IANVE, cioè Galeaz Maria Sfortia Dominus Ianue, ed è del peso di grammi 1.445 e pare di argento buono.

Tale pezzo, che positivamente si conosce essere stato coniato in Scio, quantunque scadente pel suo peso non può essere che un grosso da due caratti.

Dopo quest’epoca non abbiamo più monete che possano con probabilità darsi che agli ultimi anni del secolo XV; per contro dalla seconda metà di esso cominciamo a trovare qualche provvidenza dal governo di Genova data per le monete di quest’isola.

Già sin dal 1440 Giovanni da Uzano nel suo libro della mercatura4, trattando del cambio delle principali piazze di commercio di Levante con quelle di Ponente, aveva scritto che quello di Genova con Scio facevasi a fiorini contro ducati veneti: che i fiorini genovesi calcolati circa 4 ½ peggio di quelli di Scio5, vi si spendevano per caratti 58 in 59, quando un secolo prima ne abbisognavano soltanto 486.

A spiegare tal rapporto fra queste due specie di monete abbiamo una sentenza arbitramentale data in Genova nel 1467 tra alcuni Giustiniani de Forneto7, nella quale ducati d’oro 100 di Scio sono valutati 125 fiorini. Al primo aspetto pare che i ducati sciotti, che sopra abbiamo veduti effettivi ma assai scadenti, ora siansi battuti di ottima lega e peso; invece quando in questo secolo troviamo che si tratta sia in Genova che nelle sue colonie a fiorini, ancorché alcune volte specificati d’oro, altro non [p. 51 modifica]devesi intendere fuorchè fiorini di conto8, che conservarono nominalmente il valore cui correvano anticamente i buoni o ducati effettivi, cioè L. 1.5, valore che s’accrebbe quando si cominciarono questi a migliorare nel 14229 dalla repubblica di Firenze, accrescendo il peso dei nuovi di due quinti di fiorino sopra 96 pezzi, e coniandoli di un diametro un po’ superiore ai vecchi, onde furono detti fiorini o ducati larghi, il che presto venne imitato da Genova, dove per la prima volta li troviamo nel 144410 per L. 2.2 di moneta buona11, la quale in questa città stava come L. 1 a L. 1.5 di moneta corrente, proporzione conservatasi sino al finir del secolo.

Ora venendo ai pochi atti governativi che ci venne fatto di conoscere relativi alle monete di quest’isola, di essi il primo, colla data delli 2 dicembre 145812, è un ordine del doge che proibisce la spendita di un grosso di Scio di nuova stampa, allora venuto fuori col solito stemma dell’isola o meglio della Maona da una parte, e dall’altra colla figura di un uomo che tiene una croce in mano, il che ci lascia sospettare che fosse una contraffazione del gigliato o del mezzo gigliato coniato dai cavalieri di S. Giovanni in Rodi, nel quale vedesi il Gran Maestro ginocchioni in atto di adorare una croce, ma disposto in modo che pare voglia tenerne l’asta con una mano.

Questa determinazione del doge non dicendosi che fosse stata presa per essere tal moneta cattiva, nè alcun’altra ragione per ciò adducendosi, ci fa credere che avendo essa il tipo da noi supposto, siasi fatta torre di circolazione sull’istanza di Giacomo di Milly, il Gran Maestro che allora presiedeva all’Ordine.

Qualche anno dopo cominciansi ad avere alcune deliberazioni del comune di Genova adottate riguardo alle monete dell’isola per [p. 52 modifica]causa dell’essersi dai suoi rettori alterate. La prima venne presa, ad istanza di vari mercanti che con essa trafficavano, dai nuovi governatori della Maona sedenti in Genova, i quali radunatisi li 15 settembre 1479 (Documento in fine) e sentito il parere degli anziani dell’Uffizio di Scio e dei primari mercanti della città, decretarono che a cominciare da un mese dopo la pubblicazione di detta deliberazione, per tutti i contratti fatti prima a ducati di Scio si dovessero questi calcolare a soli caratti 68 : che per quelli indi a farsi avessero ad essere per tre quarti in ducati larghi o gigliati, e per l’altro quarto in caratti contandone 80 per un ducato largo: che pure a datare da un mese fosse proibito il corso dei gigliati sciotti sino allora battuti, che indi si avessero a fondere: che in quella zecca si dovessero battere ducati larghi nel peso e bontà eguali a quelli di Genova e Venezia: che i gigliati da emettersi per l’avvenire avessero ad essere della bontà di denari 11. 12 ed a 88 pezzi per libbra di Genova, ed a 11 per un ducato: che l’impronto delle monete d’oro e d’argento continuasse ad essere quello sino allora usato, e che per la loro stampa non avesse la Maona a ricevere diritto alcuno dalle persone che portasservi detti metalli in verghe, ma solamente la mercede necessaria per gli operai. E questo decreto venne due giorni dopo sancito dal doge e dal consiglio degli anziani di Genova.

Dunque da quest’atto appare che non più si volevano gli antichi ducati dell’isola, che in prova dell’essere molto scadenti vennero tassati 20 caratti meno dei buoni nuovi introdottivi, i quali in conseguenza dovevano pesare grammi 3.540 incirca ed essere a millesimi 1000, ossia di denari 2. 16. 4/5 incirca, ed a caratti 24 di fine, ragguagliato il peso veneto a quello di Troyes; così pei gigliati il peso di cadun pezzo doveva essere di denari 3. 6. 13 pari a grammi 4.192, ed il titolo a denari 11. 12 o millesimi 958; epperciò vedesi che s’era voluto portar la moneta a quella bontà che in prima aveva, la qual cosa non pare siasi ottenuta, chè troviamo in atto rogato in Genova il 5 maggio 148013 che ducati di Scio 2500 sono ragguagliati a L. 4375 e così caduno soldi 35 di moneta buona genovese, quando in altri delli 16 [p. 53 modifica]marzo ed 8 giugno14 dello stesso anno e pure rogati nell’anzidetta città, i ducati larghi sono detti valere soldi 55 di moneta corrente, che, calcolata, come sopra si disse, per un quarto di più della buona, equivalgono a soldi 44 buoni, e vedesi che quello di Scio a soldi 35 stava al largo di soldi 44 poco presso nella proporzione dei ducati come sono citati nel decreto del 1479, nel quale quello è tassato a caratti 68 e questo a 80.

I rettori della Maona residenti in Scio, parte per troppa cupidigia di guadagno, parte anche per sopperire alle gravi spese che necessitava la difesa dell’isola contro le continue minaccie dei Turchi come già abbiamo veduto, non solamente avevano alterato le monete d’oro e di argento, ma avevano persino avuto ricorso alla battitura di una moneta affatto falsa, poichè essendo emessa come contenente una certa quantità d’argento, era intieramente di rame.

Tal novità essendo causa di non lieve danno ai commercianti che frequentavano i mercati dell’isola, il governo genovese ordinò li 7 luglio 148415 che fra quindici giorni dovesse essa esser tutta ritirata, mettendo perciò a disposizione di quel podestà la somma di tremila ducati larghi, e prescrivendo che a quelli i quali la portassero in zecca si soddisfacesse o in tale specie di ducati calcolandoli denari 780 caduno, oppure in caratti di Scio in ragione di denari 6 il caratto. Ora da questo conosciamo che il ducato largo era pell’isola tassato a soldi 65, cioè, meno una frazione impossibile ad evitarsi pel diverso rapporto che esisteva fra le monete di Scio e quelle di Genova, allo stesso corso che vediamo avere in questa città nel 151016, e che il caratto equivaleva a sei denari di questa moneta.

La determinazione sopraccitata delli 7 luglio 1484 non dovette produrre tutto l’effetto che se n’aspettava, poichè troviamo che poco tempo dopo lagnanze per causa di tal moneta vennero nuovamente sporte ai rettori del comune, dicendo che qualora il volessero qualunque mercante con 5 a 6000 caratti tutta la avrebbe potuta ritirare; per il che il doge con decreto delli [p. 54 modifica]13 agosto dello stesso anno17 ne proibì assolutamente il corso sotto la pena del doppio pagamento per chi volesse smerciarla.

Tutti questi ordini pare che nessun risultato producessero, poichè ci risulta che quindici anni dopo, cioè li 29 aprile 149918, sentendo il governo di Genova che le monete di Scio talmente erano scapitate, che qualora non vi si portasse pronto rimedio ne restava affatto rovinato il commercio, ordinò che indi innanzi fosse vietato il contrattare a ducati di Scio, aboliendone sino il nome per non potersi su di essi in alcun modo contare, e che tutti i contratti fatti a tale specie di moneta fossero ridotti a ducati larghi calcolandoli caratti 130 caduno e gli altri soli 68, dichiarando che nei pagamenti i larghi potessero entrare per tre quarti ed un quarto fosse di caratti, e che nessuno di essi, meno quelli di Lucca, perchè inferiori, si potesse rifiutare; finalmente che nella zecca dell’isola solamente di questi buoni si potesse stampare sia al conio di Venezia che a qualunque altro, e per la mano d’opera un solo caratto per ducato si ritenesse.

Questo decreto nemmeno ebbe esecuzione, come ci prova un nuovo ordine emanato dal governatore del re di Francia in Genova li 8 febbraio 150919, pel quale, dopo essersi detto come il ducato di Scio era rimasto solamente di nome, nessuno più vedendosene in commercio, e che contuttociò sempre di esso continuavasi ad usare nelle contrattazioni con grave danno dei mercanti, annullata qualunque anteriore decisione, venne ordinato che indinnanzi sempre avesse a contrattarsi ad aspri turcheschi, contandone 27 per un ducato sciotto, permettendo che i pagamenti inferiori ad aspri 300 si potessero fare in moneta minuta in ragione di denari 15, od in caratti calcolandoli a pezzi 2 1/2 per aspro; ma qualora fossero a tale somma superiori, non se ne potesse dare più del cinque per cento; quando però le parti contraenti così amassero, fossero autorizzate a far i pagamenti in ducati larghi, contando ciascheduno per aspri 52. Inoltre, pel caso che i Turchi variassero il titolo o peso dei loro aspri, che si avesse subito a verificare quanti se ne contenesse [p. 55 modifica]in una libbra, ed allora i pagamenti si avessero a fare secondo la quantità di aspri riconosciuta in essa trovarsi.

Da questo documento ricaviamo quale fosse il rapporto degli aspri turcheschi colle monete dell’isola e di Genova, essendovi detto che 27 aspri composti di caratti 2 ½ equivalevano ad un ducato di Scio; ora moltiplicando 27 per 2 ½ abbiamo caratti 67 ½, cioè, meno una frazione della quale è impossibile tener conto stante la diversa specie di tali monete, la stessa quantità per la quale nel 1499 era stato tassato il ducato sciotto; indi vi troviamo che per un aspro ci volevano denari 15, sottintesi di moneta corrente genovese, i quali moltiplicati per aspri 52 necessarii per fare un ducato largo, ci danno denari 780 ossia soldi 65, che, meno una piccola frazione causata come sopra, equivalgono a L. 3. 4. 6, valore cui essi vediamo correre in Genova nell’anno susseguente.

Possiamo inoltre arguire che da molto tempo, e probabilmente sin da quando per la caduta di Costantinopoli sotto il giogo di Maometto II, essendosi intieramente cangiate le condizioni delle isole greche, non si battè più in Scio moneta d’oro20; così da altro documento già citato21, cioè dalla convenzione fatta da Genova con Solimano II nel 1558, nella quale è detto che le era concesso di stampare ducati sultanini, o altre sorte di quelli vorranno, così dè veneziani come i sciotti, o vero dette loro stampe, inteso che tali specie sarebbero ricevute nei mercati di Oriente, pare che si debba dedurre che i ducati di Scio dovessero essere uguali nel tipo ai veneti.

Ritornando al decreto del 1509, esso è l’ultimo a noi noto nel quale trattasi della moneta di Scio, e dobbiamo credere che ulteriore variazione più in essa non avvenisse, o almeno che la madre patria più non intendesse prendervi parte, essendosi già detto che, per non mettersi in imbrogli colla Porta Ottomana, [p. 56 modifica]non permetteva nemmeno che sussistesse alcuna apparenza di relazione tra essa ed i maonesi.

Avendo veduto quale fosse il sistema monetario introdottosi per le reciproche contrattazioni nell’isola sul principio del secolo XVI, resta a cercare se fra le monete che ancora ci rimangono battute da quest’epoca sino alla caduta della Maona nel 1566 alcuna esista che alle specie sopraddette possa appartenere.

Delle tre d’argento, che tra queste si possono dire le più antiche, ma che spettano certamente al detto secolo, la prima (T. III, n.ᵒ 38) ha da un lato nel campo il solito castello turrito col capo dell’aquila nascente e coronata, ed attorno ☩ CIVITAS · CHII, e dall’altro una croce patente con due perlette alle estremità di ciaschedun braccio, ed in giro ☩ · CONRADVS · REX · R. Questo pezzo, gentilmente comunicatoci dall’avvocato Gaetano Avignone, autore di una preziosa collezione di monete genovesi, pesa denari 2. 0. 17, pari a grammi 2. 600 e pare a millesimi 900 incirca.

La seconda (T. III, n.ᵒ 39) varia dalla precedente nei conii in questo che dal lato dello stemma in testa alla leggenda ha dopo la croce grande una piccola, e che nel rovescio non vedonsi le otto perfette alla croce, e la leggenda termina con RO · per Romanorum. Pesa quest’esemplare solamente denari 1. 20. 22, cioè grammi 2. 400; però nella lega si riconosce dover essere uguale alla precedente.

La terza (T. III, n.ᵒ 40), menochè è di diametro inferiore alle due prime, è ad esse affatto simile nel diritto, ma nel rovescio ha una croce patente e biforcata con attorno ☩ · CONRADVS · REX · RO · Questo pezzo, di cui abbiamo l’impronto per cortesia del signor Giulio Friedlaender, direttore del museo numismatico di Berlino, secondo quanto egli stesso scrisse22, pesa 1/16 di loths ossia grammi 0.91 5, e non dice quale ne sia la bontà.

Dai documenti citati conosciamo che ben prima ancora che il XV secolo terminasse si era già in Scio introdotta la monetazione genovese, avendo trovato grossi a questi uguali, e non [p. 57 modifica]più tornesi ma denari piccoli, frazioni del soldo ligure, e ai quali ragguagliavansi i caratti e persino i ducati; però di tali minuti pezzi non si coniò alcun effettivo restando sempre nominali, come nemmeno di aspri, essendo detto che dovevano servire i turcheschi, per il che non abbiamo veramente battuti in Scio che caratti, sempre contandoli per denari 6, e loro molteplici, e di questi non v’è dubbio che sono i tre pezzi sopra descritti. Non ci fu però possibile di venir a constatare quanti caratti fossero in ciaschedun pezzo contenuti, stante la troppo grande varietà che s’incontra nel peso dei diversi esemplari che conosciamo appartenenti alla stessa specie, e trovando nessun rapporto tra essi e le monete che a quest’epoca lavoravansi sia in Genova che nelle isole dell’Arcipelago ancora indipendenti dagli Ottomani; onde lasciando che altri più fortunato possa risolvere questa difficoltà, passeremo a descrivere quelle che sono alle precedenti posteriori, ed appartengono ad una serie di anni nei quali tutte le monete sciotte sono segnate con due iniziali, cioè del nome e cognome dei podestà che reggevano l’isola, però come Giustiniani, e sempre omesso quello del proprio casato. Che con esse il nome di quel magistrato e non quello dello zecchiere si abbia voluto indicare lo prova il trovarsi sempre dopo l’iniziale del nome di battesimo la lettera I per Iustinianus, nome dei vari podestà succedutisi sino al 1563, sulle monete del qual anno evvi V · I · iniziali conosciute dell’ultimo supremo magistrato dell’isola, Vincenzo Giustiniani, già Garibaldo.

A capo di questa serie crediamo di dover collocare un pezzo piccolo (T. III, n.ᵒ 41) avente nel diritto il solito castello turrito con sopra un’aquila nascente, il tutto accostato dalle lettere L · I, ed attorno ☩ CIVITAS CHII, e nel rovescio una croce biforcata e ☩ CONRADVS REX R . Le lettere L. I. pare non debbano indicare altri che Lorenzo Giustiniani Banca, che fu podestà in Scio nel 14832324. Quest’esemplare poi pesa [p. 58 modifica]grammi 0.675, altri sonovi di grammi 0.610 e grammi 0.445, e tutti di lega, come abbiamo riconosciuto, bassissima; onde non dubitiamo di dire che sono caratti, specie minima fra quelle d’argento che a quest’epoca battevansi ancora nell’isola.

In seguito non troviamo più monete basse, ma solamente di rame, e nella serie di queste la prima (T. IV, n.ᵒ 42) ha il campo del diritto spaccato in due; nel primo evvi il castello e l’aquila coronata, e nel secondo il simbolo del tempio dei tornesi e sotto B · I, con attorno ☩ · CIVITAS · CHII, e nel rovescio una croce patente con ☩ · CONRADVS · REX · ROMA ·, e pesa grammi 4.580.

Si è collocata questa per la prima perchè parci la più antica di tutte avendo quel tempietto che sulle altre non vedesi, e tenendo iniziali che non possono attribuirsi che a Battista Giustiniani Campi podestà nel 1487 e 1488.

La seconda (T. IV, n.ᵒ 43) è uguale alla precedente, salvochè l’aquila è senza corona, e ciò per inavvertenza dell’intagliatore del conio; è del peso di grammi 4.400.

La terza (T. IV, n.ᵒ 44) nel diritto colla stessa leggenda delle precedenti ha nel campo solamente il castello turrito con sopra l’aquila nascente coronata, ed accostata dalle lettere N · I; nel rovescio poi attorno alla solita croce ha ☩ CONRADVS · REX ROMANOR · Pesa grammi 3.000, ed un altro esemplare simile grammi 2.100.

La quarta (T. IV, n.ᵒ 45) è in tutto uguale alla suddetta, ma nel rovescio leggesi ☩ CONRADVS · REX · ROMANO ·, e questa pesa grammi 4.500. Chi si volesse indicare colle lettere N · I non è certo, tre essendo stati i podestà nel secolo XVI ai quali si possono attribuire questi pezzi, cioè Nicolò di Andriolo Giustiniani Campi, che lo fu nel 1512 e 1538, Nicolò di Vincenzo Garibaldo nel 1528 e Nicolò di Silvestro Giustiniani Campi nel 1504.

La quinta (T. IV, n.ᵒ 46) dalla parte dello stemma ha le lettere D · I, e da quello della croce ☩ CONRADVS · REX · RO ·, ed è di grammi 4.400.

La sesta (T. IV, n.ᵒ 47) simile alla precedente ha dal lato della croce ☩ · CONRADVS · REX · ROMA ·, ed è di grammi 5.420.

In questi due pezzi le iniziali D · I indicano Domenico di Gio. Antonio Giustiniani Campi che fu podestà nel 1529.

[p. 59 modifica]La settima (T. IV, n.ᵒ 48) dalla parte del castello ed aquila ha I · B · I, le due prime lettere legate assieme, e dall’altra una croce un po’ ornata alle estremità delle braccia, e ☩ · CONRADVS REX · ROMANORV · Pesa grammi 2.600.

Vari furono nel 1500 i podestà ai quali possono appartenere queste iniziali, cioè Giambattista di Brizio Giustiniani Forneto nel 1507-1521, Giambattista di Urbano Giustiniani Negri nel 1517 ed altri ancora che si tralasciano nulla potendo determinare.

L’ottava ed ultima (T. IV, n.ᵒ 49), colle lettere F · I nel diritto, ha nel rovescio attorno alla croce ☩ · CONRADVS · REX · RO, ed è di grammi 4.605. È probabile che queste lettere F · I siano le iniziali di Francesco di Lorenzo Giustiniani Banca podestà circa il 1520.

Queste sono le sole monete in rame che sinora conosciamo colle iniziali dei nomi di podestà di Scio; ma varie altre avrannosi ancora a scoprire essendo numerosi quelli che ressero tal carica dal 1500 al 1566; in quanto poi al loro valor nominale, siccome in questo secolo moneta minuta più non si battè, ad eccezione dei caratti, a questa specie non rimane dubbio che esse spettino, quantunque più nessun rapporto abbiano cogli antichi del 13oo e dei primi anni del 1400, quando cioè lavoravansi d’argento; ed è in questo ad osservarsi quanto fossero scapitati abbisognandone nei primi tempi 48 per un fiorino buono, ed indi sul finire del 1400 sino 130, e forse più progrediendo innanzi li vedremmo diminuiti se avessimo documenti che di essi facessero ancora menzione.

In quanto al trovarsi ora tutte le monete basse esclusivamente di rame, cosa che si è veduto essersi già dai maonesi tentata sin dal 1484, ci fa conoscere che essi, visto come in Oriente dai Munsulmani quelle anche emettevansi per ingordigia di guadagno, trovandosi ora a se stessi come abbandonati, subito ne ripresero la battitura vedendo quanto potevasi lucrare, nemmeno poi badando che almeno nel peso fossero i pezzi poco presso uguali; e se dobbiamo arguirlo dal numero che ancor al presente se ne va scoprendo, la quantità emessa dovette essere assai considerevole.

Dopo queste monete mal battute e peggio intagliate, sul cader [p. 60 modifica]della Maona ne abbiamo alcune d’argento meglio lavorate e di più grazioso conio.

La prima e più grande (T. IV, n.ᵒ 50) ha nel diritto il solito castello turrito sormontato da aquila nascente coronata, ed accostato dalle lettere V · I, con sotto l’anno 1562, ed in giro ☩ . CIVITAS · CHII; nel rovescio poi attorno ad una croce ornata ☩ · CONRADVS · REX · RO. Pesa denari 5.2 pari a grammi 6.500 e potrebbe essere a denari 10.20, ossia millesimi 90025.

La seconda (T. IV, n.ᵒ 51) che ci venne comunicata dal già lodato signor Franchini, abbenchè di conio più ristretto, è simile alla precedente dal lato dello stemma, ma dall’altro ha una croce fiorita con in giro ☩ · CONRADVS · REX · ROMANO. Quest’esemplare pesa denari 3.3 circa, o grammi 4.000, come un altro simile del quale abbiamo un calco dal cortese padre Pellegrino Tonini, dotto nummografo di Firenze.

La terza (T. IV, n.ᵒ 52), quantunque di minor diametro, è uguale alle suddette nel diritto, ma nel rovescio ha una croce un po’ ornata alle estremità e la leggenda ☩ · CONRADVS · REX · ROMA. Pesa denari 1.13.12 pari a grammi 2.000, e l’ebbimo dal signor Franchini.

La quarta (T. IV, n.ᵒ 53) è varia dalla precedente solo nella leggenda del rovescio che è ☩ CONRADVS REX RO, e nel peso che è di grammi 1.555.

In questi pezzi, nei quali vedonsi le lettere V · I · iniziali di Vincenzo di Tommaso Giustiniani, già Garibaldo, podestà in detto anno 1562, abbiamo una piccola serie di moltiplici di caratti, che però non sappiamo come determinare esistendo troppa disuguaglianza nei pesi, poiché il primo non può corrispondere col secondo, del quale o dovrebbe essere il doppio o la metà di più, ma non sta nè per l’un caso nè per l’altro; il terzo sarebbe la metà del secondo, ma il quarto che dovrebbe essere ad esso uguale diminuisce di grammi 0.445 dal suo peso; per la qual cosa dobbiamo aspettare a stabilire il loro valore quando troveremo qualche documento che ci arrechi sopra tali monete alcun lume. [p. 61 modifica] Abbiamo ancora per comunicazione del prelodato P. Tonini un largo pezzo in rame, i cui conii furono certamente intagliati da un artista italiano (T. IV, n.ᵒ 54), nella cui terza parte superiore del diritto vedesi un’aquila nascente coronata, e nella parte inferiore in giro attorno il campo nel quale è il castello colle tre torri merlate, però toccando solamente l’orlo della moneta, la leggenda CIVITAT · CHIO · MONET · IVSTINIANA; nel rovescio poi vedesi una piccola croce con attorno ❀ CONRADVS ❀ REX ❀ ROMANORVM. Il suo peso è di grammi 5.500.

Il Friedlaender26 dal catalogo del museo Dunziano (Amburgo 1750, pag. 375, n.ᵒ 1921) cita una moneta con questa stessa leggenda, e che dalla sua descrizione appare uguale alla suddetta nel tipo, ma dice esser d’argento e pesare 5/16 di loths ossia grammi 4.575. Dal genere d’intaglio e dalla disposizione e forma della leggenda che nulla hanno di comune colle monete del secolo XVI al quale dovrebbero spettare, abbiamo quasi certezza che questi pezzi siano opera di qualche falsario piuttosto moderno, e forse dello stesso che falsificò quello d’argento sopra descritto col n.ᵒ 49, abbelliendone l’impronto e portandone il diametro a 3 centimetri ed il peso a denari 5.23 ossia a grammi 7.625, ma che paragonato col genuino all’occhio pratico subito compare lavoro dei nostri tempi.

Per nulla omettere dobbiamo ancora notare che Vlastos27 descrive come sciotta una moneta che dice battuta prima dei Giustiniani, nel cui diritto sarebbe il busto di un arconte con quello di una bella giovane e la leggenda MONETA MACRI CHIO, e nel rovescio la figura dello stesso arconte che sposò Eumorfia figlia di Sclerione.

Da questa descrizione si vede che chi l’ebbe fra le mani non conosceva la numismatica del medio evo, poichè monete colla figura di un magistrato e della sua moglie con iscrizione latina e anteriori ai Giustiniani non possono esistere, avendo veduto che dal 1301 al 1329 apparteneva l’isola ai Zaccaria, e dopo il 1346 conosciamo quali furono le monete dei maonesi che tali impronti non poterono mai avere. [p. 62 modifica]Sotto i Bisantini poi non potevano aver leggende latine, e avrebbe dovuto esser in greco il nome dell’arconte in questione per dover essere di quella nazione; per il che crediamo che tale pezzo non pnò appartenere che al decimosesto secolo avanzato, e probabilmente vi era scritto, come in moltissime sopratutto di Germania, Moneta marchio per marchionis o marchionum, e perchè un pò guaste le lettere si credè staccata la finale CHIO, e senz’alcuna critica dall’autore si attribuì ad un magistrato della propria nazione.

Prima di chiudere la descrizione di questa ricca serie di monete sciotte diamo l’impronto d’una curiosa tessera in rame proveniente dall’Arcipelago, non ultimo di quei tanti pezzi dei quali ci favorì il disegno il già lodato signor Lambros. Ha essa da una parte (T. IV, n.ᵒ 55) un castello a tre torri merlate e circondato da cinque rosette, e dall’altra una croce patente accantonata pure da quattro rose. Una delle torri è guasta da un contrassegno improntatovi sopra, che pare un Γ. È del peso di grammi 1.070, e vedesi lavoro del secolo XV. Il castello è uguale a quello delle monete di Scio, e perciò quantunque non abbia alcuna leggenda che ne provi l’origine, tuttavia senza timore di errare a quest’isola l’attribuiamo per causa del suo tipo che così fatto non trovasi in Oriente che sulle monete dei conti di Tripoli, i quali però erano a questa data da due secoli estinti.

Con ciò mettiamo fine alla illustrazione di questa quasi diremmo inedita officina monetaria, che sebbene appartenga ad un’isola vicina alle coste dell’Asia minore, tuttavia si può classificare tra le italiane, perchè apertavi prima da una potente famiglia di Genova, e indi conservatavi sotto l’alta sovranità di detto comune da una società di mercanti liguri sino ad oltre la metà del secolo XVI, quando, ad eccezione di Cipro e di Candia ancora tenute dalla repubblica di Venezia, nessuno più vi esisteva dei tanti stati latini che in Oriente si erano formati in seguito alle crociate, e che sebbene assai più potenti, tuttavia molto prima di Scio caddero sotto il dominio ottomano.

Note

  1. «Nella decima fiorentina (T. III, pag. 92 e 184) è detto che a Napoli i gigliati sono ad oncia 11 e soldi 3, che corrispondono al titolo in questo scritto usato, cioè denari 11. 3, e che a Rodi sono a denari 11 e sterlini 3, ed a pezzi 57 il marco; ma ridotto questo peso a quello di Troyes, ciaschedun pezzo risulterebbe di denari 3. 8. 20 incirca.»
  2. Scio sacra di rito latino, pag. 18.
  3. Gandolfi — Della moneta antica di Genova. Tomo II, pag. 234.
  4. Della decima fiorentina. T. IV, pag. 134.
  5. Idem, pag. 160.
    «Intendesi sempre quello di conto e non l’effettivo di Genova.»
  6. «Come si è veduto nel Pegolotti, che il fiorino d’allora, il quale equivaleva al ducato largo, constava di due perperi, che si dividevano in 24 caratti.»
  7. Pandette Richeriane. Libro fasciato di cartina, f. 201,
  8. Seconda dissertazione sull’Agostaro del secondo Federico etc. Bologna 1822, p. 11.
  9. Il fiorino d’oro illustrato. Firenze 1738, pag. 300.
  10. Gandolfi — Della moneta antica di Genova. Vol. II, pag. 248.
  11. «Il Gandolfi a pag. 237 dice che in codice dell’archivio di S. Giorgio evvi che il fiorino essendo salito a soldi 47 venne nel 1444 ridotto a soldi 42, che quantunque non specificata si conosce essere di moneta buona; ma o lui, o chi egli copiò, deve aver confuso tale specie di moneta allora solamente nominale col ducato largo, il quale, secondo lo stesso autore, si spendeva nel 1448 per soldi 51 di moneta corrente, ossia soldi 40. 2. 1/2, e nel 1483 soldi 55 pari a soldi 44 di moneta buona.»
  12. Archivio di Stato in Torino. Volume Diversorum all’anno 1458.
  13. Pandette Richeriane. Libro fasciato in cartina, pag. 258.
  14. Pandette Richeriane. Libro fasciato in cartina, pag. 256 e 259.
  15. Archivio di Stato in Torino. Diversorum all’anno 1484.
  16. Gandolfi — Della moneta antica di Genova. Vol. II, pag. 262.
  17. Archivio di Stato a Torino. Diversorum all’anno 1484.
  18. Idem, all’anno 1499.
  19. Idem, volume dal 1507 al 1516.
  20. «Quantunque si abbia ragione di credere che ducati da lungo tempo più non si battessero in Scio, contuttociò continuarono nel commercio d’Oriente ad essere in corso almeno sino alla metà del secolo XVI, trovandosi, secondo lo Zon, (Cenni istorici intorno alla moneta veneziana. Venezia 1847, p. 26), tassati in una tariffa veneziana del 1543 con quelli di Rodi a lire venete 7. 6.»
  21. Morinello — Descrizione del viaggio dell’ambasciatore genovese a Solimano nel 1558.
  22. Numismata inedita. Berolini 1840, p. 30.
  23. «Il già lodato signor dottore Hopf fu quegli che cortesemente ci comunicò un lungo elenco di questi podestà da lui raccolti nell’archivio Giustiniani in Roma ed in Genova.»
  24. «L’autore anonimo della Storia di Scio, che conservasi nella biblioteca civica di Genova, scrisse che le lettere L. I. indicano Lazzaro Giustiniani, ma nessun Lazzaro si conosce podestà di Scio dopo l’anno 1400 onde abbiamo messo Lorenzo, che ci parve essere quello al quale con maggior probabilità si può dare questa monetina.»
  25. Questa moneta venne già pubblicata dal Giustiniani a pag. 54 del libro La gloriosa morte de’ 18 fanciulli Giustiniani. Avellino 165.
  26. Numismata inedita. Berolini 1840, p. 30.
  27. ΧΙΑΚΑ ΗΤΟΙ ΙΣΤΟΡΙΑ ΤΗΕ ΝΗΣΟΥ ΧΙΟΥ. ΕΡΜΟΥΠΟΛΕΙ, 1840. Tom. II, pag. 45.