Le donne di casa Savoia/XXXII. Maria Teresa di Toscana
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moglie di Carlo Alberto
1801-1855.
XXXII.
MARIA TERESA DI TOSCANA
Regina di Sardegna
n. 1801 — m. 1855
........la battaglia Prati |
«L’affare del Principe di Carignano è spiacevole (Cagliari 7. 7. 1814), ma da lungo tempo me lo aspettavo. Ad esprimervi francamente il mio parere, maritate al più presto nostro nipote. Altrimenti, o lo uccideranno, o lo tufferanno in qualche grande imbroglio da renderlo impotente per sempre.... Noi siamo trattati bene, perchè si crede poter goder presto delle nostre spoglie, estinguendo la Casa di Savoia. Questa è l’attitudine del gabinetto di Vienna. Così ha fatto finire la Casa d’Este......»
E Vittorio Emanuele, appena letta questa lettera, non frappose indugio a rispondere appunto alle richieste del giovinetto e a richiamarlo a Torino. D’altra parte, le risoluzioni del Congresso di Vienna, per principale iniziativa del rappresentante di Francia, furono anch’esse contrarie alle austriache mire, e Carlo Alberto venne riconosciuto come unico erede del Regno di Piemonte, ad esclusione di qualunque altro pretendente.
Venuto indi il principe di Carignano a stare a Torino, qual nipote ed erede del Re, si pensò ad ammogliarlo, e dopo avere egli rifiutate parecchie proposte, scelse da sé Maria Teresa di Toscana, con sommo gradimento del Re e della Regina, e subito si trattò il matrimonio.
Dovendo il principe andare a Roma per visitarvi certi suoi parenti, e conoscere di persona il duca di Genova, che allora si trovava colà, passò da Firenze per vedere la fanciulla.
Egli arrivò quivi il 19 marzo 1817, e la sera appresso vi fu per lui ricevimento al palazzo Pitti, dove fu dal Granduca presentato alle figliuole; e dopo, invitato alla cena di famiglia, posto accanto all’arciduchessa Maria Teresa. Un’altra sera furono al teatro, ed anche allora il principe Sabaudo era vicino ad essa. I giovani si piacquero tanto, e fu tanta la premura, da ambe le parti, di concludere il matrimonio, che fece dimenticare a Carlo Alberto l’etichetta e le ingiunzioni del Re, il quale voleva che quella non fosse che una visita, e la domanda venisse dopo. — Il principe intanto scriveva in proposito al suo scudiero ed amico, il marchese Costa: «Sembra ch’io debba essere felice. Essa ha, per quanto ho potuto giudicarne, molto spirito. E mi ricorderò sempre, amico Costa, che siete stato voi il primo a consigliarmi questo matrimonio.» (1817).
Affermazione però che poco concorda con queste righe che si leggono nelle memorie di Gino Capponi, stato dato in quell’epoca al principe, dalla Corte granducale, come cavaliere d’onore: «Carlo Alberto andava tant’oltre nell’avversione sua contro l’Austria, ch’egli sovente mi dichiarava essere a lui poco accetta anche la giovine sposa, e contro sua voglia impostegli quelle nozze, in luogo di altre, non mi ricordo se bavaresi o sassoni, che egli avrebbe desiderate. Ed io gli predicava essere dolce creatura ed anche bellina, e che solamente col volerle un poco di bene, in sei mesi non si accorgerebbe più di qual sangue ella fosse uscita.»
Maria Teresa aveva allora sedici anni. Senza essere di una bellezza regolare, la freschezza, il bel colorito, i lunghi capelli biondi, le davano una speciale attrattiva. Era nata il 21 marzo 1801 a Vienna, durante l’esilio dei suoi genitori. Suo padre, Ferdinando III di Lorena, Granduca di Toscana, era stato scacciato da Firenze dall’invasione francese; sua madre fu Maria Luisa Teresa Amalia dei Borboni di Napoli, che morì poco dopo la di lei nascita. L’essere nata, per combinazione, in quel paese rigido e austero, i cui abitanti Ferdinando III chiamava legnosi, portò la conseguenza che essa, e la sorella Maria Luisa, venissero educate da istitutrici tedesche, che le seguirono anche a Würzburgo, quando andarono colà a stabilirsi, allorché Ferdinando fu creato Elettore di Salisburgo; e quindi in Toscana, ove tornarono con la restaurazione del 1814. Ciò lasciò, almeno in Maria Teresa, una certa rigidezza, una certa timidità, che la rese sempre impacciata nella esplicazione dei suoi sentimenti più gentili e delicati, timidità di cui essa soffriva per la prima, e che solo un amore tenero e premuroso avrebbe potuto vincere rendendola felice. Perciò, mentre Carlo Alberto la chiamava famigliarmente Teresa, e sarebbe stato incantato di vederla più sciolta con lui, essa, ammirandone lo spirito, la finezza, la persona, non potè mai persuadersi che ei non le fosse superiore in tutto; e qualunque cosa le dicessero o suggerissero quelli che la circondavano, cercando farle comprendere il desiderio di lui, essa rimaneva alla di lui presenza sempre più timida ed impacciata.
Pur troppo essa non era il carattere che ci sarebbe voluto per quell’uomo sospettoso ed indeciso, onde essere felici e riuscire a fare dei felici, e l’avvenire lo dimostrò. Intanto niuno si prendeva cura di questo, che in ogni matrimonio dovrebbe essere il primo pensiero, e si apprestavano i preparativi per le nozze, da tutti i parenti desiderate e festeggiate. Maria Teresa portò in dote 200.000 scudi, e degli stupendi diamanti. La benedizione nuziale ebbe luogo il 2 ottobre in Santa Maria del Fiore, al suono delle campane della cattedrale e di Palazzo Vecchio, e al tuonare delle artiglierie. Ma nè la Corte di Toscana nè i tempi, consentivano sfarzi, sicché non vi fu gran codazzo di feste; e neppure a Torino ebbero gli sposi grandi accoglienze; ma essi non vi fecero attenzione, tutti compresi, in quei primi giorni, del loro amore, che sembrava volesse fare il miracolo di fonderne i cuori e i caratteri. Ma fu solo una parvenza. Ben presto vi fu chi prese gusto a tormentarli, a dividerli: il principe cominciò a trovare noiosa sua moglie, delle usanze e della gravità della quale egli mostravasi seccato, e troppo bambina in famiglia. Forse in parte da questo lato egli aveva ragione, giacche la principessa passava delle giornate intere a fare a capo e nascondi con le figlie minori del Re; ma essa era sì giovane! E la Corte di Torino allora così sorniona! Quando non vi era né ballo ufficiale, né circolo, né teatro di parata, quando non vi era da mettersi in vestito scollato alle nove del mattino, per una messa solenne od una presentazione, ognuno rimaneva tutto il giorno in veste da camera, seduto dinnanzi al proprio caminetto. «Due mesi appena dopo il suo matrimonio» — scrive una dama della principessa — «eravamo ridotte lei ed io, a passare le giornate e le serate nel più triste a quattr’occhi, al palazzo Carignano.»
E i maligni, non contenti di ciò, soffiarono ancora in quell’unione per renderla completamente infelice, e riconosciuto nella giovine sposa un gran buon senso e principi fermissimi, e temendone l’influenza, cominciarono ad insinuare che essa (tanto timida) non aveva punto spirito, che sarebbe stato ridicolo farsi influenzare da una dappoco, ecc., tanto che il marito, da allora, proprio per non aver l’aria di essere influenzato, ostentatamente la neglesse. Ma la principessa fu in quel frangente veramente ammirabile. Sola, in mezzo, a quel conflitto d’intrighi e di villanie, non si lamentava; al contrario, essa fingeva la felicità perfetta, e tanto bene, che un giorno, in cui essa aveva detto allegramente alle sue dame che andava dal principe, queste, rimaste nel salone, videro per più di un’ora la coda del suo vestito rimasta presa fra i due battenti della porta. Certamente ella aveva passato invece quell’ora là dentro a pregare.
L’eccesso di abnegazione in famiglia, fa i santi e le donne infelici, ed è dannoso per esse di mostrarsi come l’ammirabile principessa di Carignano, senza difetti all’indomani del matrimonio. «Malgrado la sua bontà e la sua grande pietà, o forse precisamente a causa di queste virtù — scriveva un testimone oculare nel 1818 — la nostra Principessa vive sempre più sola. Ad essa mancano le attrattive e la civetteria necessaria per sedurre suo marito.»
Fortunatamente la natura venne in suo soccorso. Dopo una prima maternità andata male. Maria Teresa, che anelava ad aver figliuoli, si manifestò nuovamente madre. Questa notizia dissipò alcun poco la regale musoneria, e Carlo Alberto, lietamente lusingato, tornò con più costanza alla moglie.
Vittorio Emanuele II, il futuro primo Re d’Italia, venne al mondo! Ne esultò il vecchio Re, che gli diè il suo nome; ne esultò il padre, che si mostrò per questa nascita tenero e riconoscente con la giovine madre; e anche Carlo Felice e sua moglie, sorella questa della madre di Maria Teresa, ne furono lietissimi.
Ma i tempi erano torbidi, e poiché non furono risparmiati, per questo avvenimento, i dispetti e le burle di cattivo genere, preludi di prossima rivoluzione, Carlo Alberto credè bene inviare la moglie e il figlio in sicuro a Nizza.
La timida Maria Teresa non fece nessuna opposizione, e mesta si separò dal marito, e si ritrasse colà ad attendere gli avvenimenti, tutta premurosa pel suo piccino.
Risoluto Vittorio Emanuele I ad abdicare, e mandata ad effetto la sua risoluzione, venne affidata a Carlo Alberto la Reggenza, trovandosi allora Carlo Felice, il nuovo Re, alla Corte di Modena, presso i nipoti. Ma agli eventi che s’imponevano, non ebbe il giovine principe la forza di opporsi, e compromessosi prima dinanzi ai partigiani del Governo assoluto, si disgustò poi i liberali, volendo rattenersi sulla china.
Desolato per l’insuccesso, lasciò il Piemonte per andare a Modena a scolparsi, ma saputo, mentre era in viaggio, che il Re, forse sobillato colà, lo accusava di ribellione, e lo avrebbe ricevuto malissimo, decise andare a Firenze, dove arrivò la notte dal 1° al 2 aprile 1821, freddamente accolto dal suocero, e d’onde subito mandò a prendere la moglie col bambino a Nizza.
Il viaggio per mare fino a Livorno fu addirittura disastroso per Maria Teresa, avendo essa voluto compierlo ad ogni costo subito, e costretta a contentarsi di una barca mercantile, la sua vita e quella del bambino corsero serio pericolo, minacciati di naufragio, di notte, col mare in tempesta e il lume spento, tanto che la balia nel momento più terribile svenne per la paura!
Al rivedere la figliuola esiliata, il Granduca Ferdinando, più addolorato di quanto voleva parere, si smosse da quella freddezza che aveva prima assunta col genero, e assegnò loro come soggiorno la villa del Poggio Imperiale. E soltanto quei vasti saloni, quei cortili, quei corridoi, quelle terrazze, potrebbero ridire l’angoscia di Maria Teresa in quei primi mesi di esilio, amareggiati più ancora a lei dallo stato d’animo del marito! Per essa, carattere mite e dolce, che non si estrinsecava a parole, la persistente sventura aveva il potere di annichilirla; e tale infatti ella appariva colà, sempre silenziosa, sempre triste e dimessa.
Chi di voi, signore e signori, non ne ha letta ha descrizione, o visitata la splendida villa, ora Collegio o Istituto Reale della SS. Annunziata? E’ certo dunque che nessuno di voi ignora la iscrizione ivi posta a ricordo del pericolo corso da Vittorio Emanuele II fanciullino, a cui s’incendiò la culla. — Cotesto caso poco mancò non riuscisse doppiamente fatale per la famiglia del principe di Carignano, facendo ammalare per lo spavento e la commozione Maria Teresa, che stava per avere il duca di Genova, sulla nascita del quale erano converse tutte le speranze, onde vedere cambiati i sentimenti di Carlo Felice verso il nipote. L’aspettativa di questo secondo figlio aveva non poco rasserenati gli esuli regali, e dissipati tutti i crucci e i dolori dei genitori del nascituro.
Doveva aprirsi allora a Verona un Congresso, ove il destino di Carlo Alberto (che poteva rassegnarsi all’esilio, ma non alla perdita dei suoi diritti avendo la coscienza di non meritarlo), sarebbe stato deciso. Aspettavasi colà l’arrivo del Granduca Ferdinando III, che doveva accomodare le partite con Carlo Felice (a cui in fondo repugnava di dover trasmettere il trono al duca di Modena come volevasi a Vienna, egli che a ciò era sempre stato contrario), in favore del genero, e il Granduca ritardava. La cagione del ritardo eccola qui, in questo brano di lettera di Carlo Alberto.
«Che il mio vecchio amico, conte de Sonnaz, sappia da me stesso la nascita del mio secondo figlio. Ieri sera (15 novembre 1822) verso le dieci, la Principessa ebbe un bel maschiotto che il Granduca terrà al fonte battesimale, e che si chiamerà, per conseguenza, Ferdinando. La mia buona Teresa è ora in soddisfacentissimo stato. Ieri era la festa del mio santo patrono, il felicissimo Alberto; e sono persuaso che è stato lui che mi ha ottenuto dal Signore questa grazia, grazia che apprezzo come si deve....»
Sì, perchè il principino arrivava quale intercessore presso Carlo Felice, nell’ora m cui il vecchio Re senza figli, vedeva l’Austria stendere ancora più sfrontatamente le mani verso la sua corona. — Durante il Congresso, che si prolungò più mesi, l’animo di Carlo Alberto, che molto sperava per certi segnali da lui ben notati, si rialzava, abbandonava le idee mistiche, e si decideva a divertirsi insieme alla moglie, con quanta consolazione di questa poveretta facile sarà ad ognuno il comprendere. Conservasi infatti memoria di un gran ballo mascherato dato in quel carnevale 1823, dal principe Borghese, ove intervenne la Granduchessa, seconda moglie di Ferdinando, con la famiglia e la Corte, in splendida mascherata. Rappresentava questa il matrimonio di Piero de’ Medici, figlio di Lorenzo il Magnifico. I costumi ricchissimi erano indossati pressoché tutti da principi. Lorenzo il Magnifico era rappresentato precisamente da Carlo Alberto; Clarice Orsini, moglie di quello, dalla Granduchessa; Piero, lo sposo, dal Granduca; e le due sorelle di Lorenzo, Nanina Rucellai e Bianca Pazzi, erano Maria Teresa principessa di Carignano, e sua sorella ancor nubile Maria Luisa.
Ma la gioia di Maria Teresa doveva durar poco così schietta, placida e famigliare! Dal Congresso di Vienna nacque la guerra di Spagna, essendovisi imprudentemente sollevata la questione spagnuola; ma nacque però anche la riconciliazione di Carlo Felice col suo erede, il quale, per riabilitarsi, aveva chiesto ed ottenuto di andare a combattere in Spagna. La Principessa rimase per allora in Firenze coi bambini, e delle cure per essi, e della loro prima educazione fece la sua gioia.
Al Trocadero il principe di Carignano rivendicò la sua fama in faccia a tutto il mondo. Dalla Spagna, terminata la guerra, passò a Parigi, e trattenutosi ivi alquanto, andò poi a Torino il 2 febbraio 1824, ove il Re lo presentò ai suoi popoli come erede presuntivo della corona, e lo invitò a tornare ad abitare colà insieme alla famiglia. Maria Teresa coi bambini era allora a Pisa, e un poco per l’inaspettata morte del Granduca avvenuta in quell’anno, un poco per altro, la famiglia di Carignano non si stabilì di nuovo definitivamente a Racconigi che nel maggio dell’anno successivo. Qui l’affetto della timida e soave sposa, fece che il suo eroe trovasse in un luogo appartato e bene scelto di quel delizioso parco, un obelisco in suo onore, con questa iscrizione semplice e affettuosa:
ALLO SPOSO AMATO
Maria Teresa
Carlo Alberto non mancava di cuore, ma di espansione, di sensibilità affettiva, e ciò era il tormento suo e della famiglia, senza che alcuno vi avesse particolarmente colpa. Maria Teresa, oramai donna e madre, e per conseguenza meno impacciata che nei primi anni della loro unione, talora dolcemente lo rimproverava. Ecco qui una sua lettera dell’8 aprile 1829, in cui non sappiamo se sia maggiore la tenerezza o la malinconia della donna, il cui cuore è compresso dal ghiaccio dell’altro cuore che dovrebbe battere insieme al suo: «Mio amatissimo Carlo, sono felice questa mattina avendo ricevuto tue notizie da una lettera del cavaliere Costa. Ma lo sarei stata di più ancora se ne avessi ricevuta una da te stesso, amor mio. Tu non puoi credere quanto la tua assenza mi renda triste; non posso che pensare a te. E se non fosse che, occupandomi dei nostri figli dalla mattina alla sera, penso che faccio così qualche cosa per te, non sarei più capace di far niente.»
Maria Teresa naturalmente, poiché veniva dalla terra di Dante, parlava e scriveva benissimo l’italiano, e fu a suo tempo la prima Regina che in Piemonte usasse sempre questa lingua. Suonava anche stupendamente il piano-forte, e la musica era uno dei pochi sollievi di cui le era dato godere nella sua triste e monotona vita.
Giunse intanto il 1831, e il ritorno dei principi da Racconigi a Torino. La salute di Carlo Felice deperiva ogni giorno, e all’avvicinarsi della primavera, invece che riaversi, tanto declinò che non lo lasciavano più la notte senza vegliarlo, cosa questa che ogni tre o quattro notti toccava anche a Carlo Alberto. Sui primi di aprile però il principe non venne più ricercato particolarmente, né poteva più vedere il Re senza testimoni; ed egli, giustamente sdegnoso, si mantenne in disparte, allorché proprio il giorno 27 mentre stava montando a cavallo nel suo giardino, si presentò un cameriere del Re a dirgli che Carlo Felice era da varie ore in agonia. Carlo Alberto fece allora avvertire la Principessa, e accorse presso il moribondo. Questi, nel separarsi dai suoi, dette brevi parole al suo successore, si rivolse alla nipote che sfacevasi in lacrime, e poiché essa era sempre stata da lui prediletta, le disse:
— E voi, Teresa, siate di speciali benedizioni protetta! Io vi saluto.... Regina. — E spirò!
Carlo Alberto in ginocchio gli baciò la mano, poi trasse di là la vedova, conducendola in una saletta appartata; ed affidandola indi alla moglie che in breve li aveva raggiunti, andò ad assumere il compito grave e pesante che quella morte gli abbandonava.
Maria Teresa, Regina, così delineò la sua missione: la concordia e la pace nella famiglia, l’amore e l’educazione dei figli, la beneficenza e la religione. E insieme ai figli, essa che aveva perduto in fasce una bambina, Cristina, nata nel 1826, amò, educò e predilesse la futura Regina delle due Sicilie, quella affettuosa fanciulla. Maria Cristina essa pure, che perduta anche la madre, nel 1832, a lei venne affidata, a lei, che ricordava l’accoglienza e l’affetto che, giovinetta sposa, aveva ritrovato nella famiglia dell’orfana.
Ma i figli crescevano, e per la loro educazione, non più affidata in parte alla signorina Nicaud, un’istitutrice savoiarda, dovevano talora esser divisi dalla madre, e allora Maria Teresa più che mai si occupò in cose riflettenti la pubblica carità. Durante e dopo il colera del 1835, essa raccolse parecchie fanciulle orfane, fondando per esse un istituto detto delle Teresine, sempre poi da lei sostenuto e beneficato; e nel 1836, quando il morbo infierì a Genova, essa volle accompagnarvi il Re, che si recò colà per confortare i colpiti colla sua presenza ed i suoi soccorsi.
Il patrimonio di Maria Teresa era dei poveri e degli infelici, che mai a lei ricorrevano invano, giacché lo scopo della sua vita fu il perfetto adempimento di ogni dovere, e dovere era per lei il soccorrere la sventura. Però, nella gravità del tratto, nell’austerità del contegno, nella scrupolosa osservanza degli obblighi assunti, essa celava, con rara ed unica modestia, il suo cuore, che era costretta sempre a comprimere. L’etichetta che Carlo Alberto voleva strettamente osservata, opprimeva la Corte, e ne aveva messe nuovamente in bando le tenerezze famigliari che sotto Vittorio Emanuele I erano tornate alquanto in onore. Nelle donne e nei figli della sua razza, il Re non vedeva che delle principesse e degli eredi, onde da molto tempo Maria Teresa non era più che la Regina, regina timida e senza prestigio fuorché dinanzi a Dio, ai poveri e ai figli, e particolarmente al secondogenito, Ferdinando, che la somigliava tanto nei lineamenti che nel carattere affettuoso.
Si sperò, al momento del matrimonio del duca di Savoia, che la Corte si ringiovanisse con gli sposi, e riprendesse un giusto equilibrio; ma l’illusione durò fino che durarono i fuochi e i lumi che avevano accolta e festeggiata la giovane Duchessa. Poi il nulla si rifece intorno alla sposa e alla suocera, in quanto a piaceri, iniziative e libertà le più innocenti.
Dopo che fu divenuta nonna, Maria Teresa, che tanto amava la nuora, scelta si può dire da lei, divise allora il suo tempo fra la beneficenza e i nipotini. Si prendeva cura di loro nelle indisposizioni infantili, nelle assenze e nelle malattie della madre, e sopratutti idoleggiò la primogenita, la principessina Clotilde.
Ma quella vita di ritiro e di pace, che pure aveva tante dolcezze, doveva essere interrotta da ansie e da cure dolorose. Fino dalle prime concessioni che Carlo Alberto fece al suo popolo, sul finire del 1847, e agli osanna che vi corrisposero, Maria Teresa ebbe come un presentimento di dolori futuri, e, invece di rallegrarsi, pianse. Forse ella antivedeva Novara, l’abdicazione, l’esilio, la morte!
Quello poi che provò Maria Teresa durante la guerra, ove erano esposti il marito e i figli, nessuna penna può efficacemente descriverlo! Il Re lasciava Torino il 26 marzo 1848 verso mezzanotte; i figli erano partiti il giorno avanti: come tristi erano state per la famiglia reale queste due successive partenze!
L’interesse politico poteva far dimenticare al Re ed ai principi il loro parentado austriaco, ma le due principesse che rimanevano a Torino, non potevano non ricordarlo, tanto più che, sebbene esse vivessero ritiratissime, e non uscissero mai dal palazzo, anche dal fondo di esso la Regina e la nuora avevano udite le acclamazioni della folla, e intravista una letizia che il rispetto non aveva saputo del tutto reprimere, quando giunse a Corte la notizia della rivoluzione di Vienna e di Milano. Senza che il loro sacrifizio fosse generalmente compreso e valutato, anzi sotto il peso della comune riprovazione, le due poverette si staccavano lacrimanti dalle braccia dei loro mariti! Di loro non si riguardava che l’origine (non dico la nascita), e si dimenticavano i legami più teneri, quelli del cuore. Un lampo, ma ben fugace, di gioia provò la Regina, allorché il suo Ferdinando, più non resistendo alla lontananza da lei, fece nell’ottobre dal campo una scappata a Torino per rivederla. L’affetto e la soddisfazione della madre le fecero in quel momento dimenticare tutto; ma ahimè! il lampo si dileguò; e toccò ancora a lei ad avere il coraggio della disperazione, per assistere e confortare la nuora, caduta ammalata pel contrasto degli affetti, e sola, e come abbandonata in quel vasto palazzo, prendersi cura di lei e di quattro irrequieti figliuoletti!
Quando poi nella notte dal 13 al 14 marzo 1849, il Re partì di nuovo per la guerra, sfiduciato, acre, deluso, la scena dell’addio alla moglie fu crudelmente straziante. Le poche persone presenti furono concordi a dire che qualchecosa di precipitato, di febbricitante e nello stesso tempo di rassegnato, di finale eravi nelle sue parole e nel suo gesto. Contemplandolo si riceveva l’impressione che la morte passasse in quel momento su di lui. L’ultima sua parola alla moglie fu desolante. — Oramai la Regina non usciva dalla oscurità in cui si era avvolta, se non quando eravi da soffrire più del consueto; in quella notte ne usciva, essa, la figlia di quel Ferdinando che, dall’esilio nel 1803, scriveva al marchese Roberto Capponi a Firenze: «Finchè avrò vita sarò italiano,» con un si crudele sentimento della sua nazionalità, che la faceva rimanere là, dinanzi a suo marito, quasi senza alzare in faccia a lui gli occhi pieni di lacrime. Dopo un silenzio terribile nella sua profondità, essa si azzardò finalmente a dire:
— Quando ci rivedremo, Carlo?
— Forse mai più! — fu la risposta del Re. Essa, colpita al cuore, svenne, e non lo vide partire; e come le aveva detto, non lo vide più!
Allorquando dopo l’abdicazione, esule volontario partì pel Portogallo, neppure le scrisse; ed essa pianse, non la corona, che non le aveva dato che lacrime, ma l’oblio di lui!
Pochi giorni appresso essa scriveva in questi termini a persona intima: «Non posso applicarmi a nulla, la mia mente vi si rifiuta, il mio cuore è sì ridondante di affanno e come aggruppato! Ah, la determinazione presa da mio marito m’ha straziata, e tuttora mi strazia fieramente. Abbandonarci così! Ah, m’avesse almeno concesso di seguirlo! Allora sarei stata felice di accompagnarlo io sola ai confini del mondo e dividerne i patimenti e i pericoli. Chi lo consolerà ora? Chi si prenderà cura di lui se cade ammalato? Oh, quanto è grande lo strazio dell’animo mio! Quanta fatica provo a rassegnarmi!»
Il suo acerbo dolore ebbe una leggera tregua quando ricevè dall’esule di Oporto una lettera, nella quale in termini recisi le diceva che avendo preferito di rinunciare alla corona piuttosto che sottomettersi a condizioni umilianti, aveva deciso di passare il resto dei suoi giorni nella solitudine. Ma quando in breve lo seppe ammalato, eppoi morto, essa disse amaramente che Dio le aveva dato una croce assai pesante da portare.
Povera Maria Teresa! Ma se tu potesti in quei terribili momenti dubitare che egli non ti amasse, ricrediti. Lontano, desolato, infermo, egli non anelò che alla famiglia, e le sue feste furono le vostre lettere. Carattere infelice, egli solo fu la prima vittima di sé stesso. Ma dei suoi cari, di te, egli ebbe sempre nel cuore la memoria, ed una tua lettera, giuntagli l’ultimo giorno della sua vita, ei lesse e rilesse, e stringeva ancora fra mano nelle convulsioni dell’agonia.
In quel terribile frangente i figli e la nuora furono prodighi alla infelice vedova di mille amorose premure, e le stettero intorno per parecchi giorni onde distrarla; ma anche dopo un mese essa diceva che il suo dolore, invece di rallentare, cresceva.
Sorrise un momento al matrimonio del suo Ferdinando, con la principessa Elisabetta di Sassonia, ma trimonio a lei tanto gradito, perchè il padre della sposa era un appassionato cultore di Dante, il grande fiorentino, ma poi ripiombò nel suo dolore, e riprese le sue gramaglie che non abbandonò mai più.
Ogni anno, per l’anniversario della morte del marito, si raccoglieva in preghiera, e andava in pellegrinaggio a Superga ove la spoglia del martire era stata trasportata. Però il suo dolore era, come tutti i di lei sentimenti, tutto per se, né lo imponeva agli altri, ne le impediva di occuparsi dei suoi poveri e dei suoi nipotini; e lieta strinse fra le braccia la primogenita dei duchi di Genova, la graziosa Margheritina, alla quale fu madrina insieme al Re Giovanni di Sassonia, per la qual ragione la bambina ricevè pure i nomi di Maria Teresa Giovanna.
Amò come figlie le due nuore, che chiamava affettuosamente Adele ed Elisa; e anche da vedova visse sempre alla Corte del figlio, che allora stava di continuo a Moncalieri o a Stupinigi, e ciò per non separarsi dai bambini; che del resto essa, abituata per tanti anni alla pesante etichetta della Corte Sabauda, non ne vide di buon occhio l’abolizione decretata dal nuovo Re. Fu su questo punto solo e un poco sull’altro delle idee liberali manifestate dal suo Vittorio, che Maria Teresa non andò d’accordo con esso. Del resto dopo la sua vedovanza essa non comparve mai più in pubblico, né volle più ella stessa che per S. Teresa, il 15 ottobre, si facesse festa, neppure negli istituti di carità da lei presieduti, perchè la festa della Regina, ella diceva, era adesso per S. Adelaide. Nel 1851 era andata in Toscana, soggiornando per qualche tempo in una delle splendide ville di quella Corte, ma non volle mai recarsi a Firenze, quantunque sentisse immenso desiderio di visitare in S. Lorenzo la tomba del padre, per non vedere le bianche uniformi degli austriaci che vi tenevano guarnigione. Quelle bianche uniformi le risvegliavano tanti dolori, che neppure il Granduca suo fratello osò mai presentarsi a lei in assisa militare.
Più tardi rivide ancora la sua famiglia, quando si recò nel 1853 colla Regina Adelaide e coi figliuoletti di lei in Liguria, e fu felice dell’incontro. In quella gita, le due illustri viaggiatrici si compiacquero specialmente della visita di chiese e santuari, e di ammirare bellezze naturali. A Porto Venere, nel golfo di Spezia, nella grotta celebre per la memoria di Giorgio Byron, è fama che le due Regine facessero una colazione, dinanzi a quella vista unica al mondo: e su in paese, nella chiesa principale, una iscrizione modesta sopra un quadratino di cartone, situata fra le due porte d’ingresso, ne rammenta la visita.
Queste scappatine in libertà, con l’amatissima nuora, dalla quale raramente era divisa (e ben lo sa Torino, che nel Santuario della Consolata ha loro innalzato un ricordo marmoreo in quella cappella ove erano solite di recarsi insieme a pregare), non dovevano, ahimè! deliziarla a lungo.
La Regina Adelaide, sul principio del 1855, attendeva la nascita di un altro suo bambino, ed una sera, prevedendo il caso imminente, si mise in letto prima dell’ora consueta, e Maria Teresa, come soleva, la surrogò presso i figliuoletti, quando fu l’ora di coricarli. Essa era solita, quando ciò avveniva, di star lì a vederli spogliare, e a farli pregare pei genitori, eppoi tornava a dirlo alla mamma, godendo insieme di quelle dolcezze di famiglia. Quella sera invece la vedova di Carlo Alberto non comparve nella camera della Regina: si sentiva male essa pure e non lo potè: ne più si rividero in terra. L’indomani Maria Teresa non fu in grado di alzarsi, e il dì 12 di gennaio, un venerdì, come sempre lo aveva desiderato in memoria della morte di Gesù Cristo, precedeva di pochi giorni la nuora nel sepolcro.
Maria Teresa, morta a soli cinquantaquattro anni, piombò colla sua dipartita nel lutto e nella desolazione la Reggia e la famiglia, nell’afflizione l’immenso stuolo dei suoi beneficati, e strappò le prime lacrime ai nipotini diletti, che, ahi, troppo presto, e gli uni e gli altri, dovevano versarne altre più cocenti ed amare!