Lettere (Serra)/I

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I. Uno sguardo d'insieme

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I. Uno sguardo d'insieme
Avvertimento II
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I.

UNO SGUARDO D’INSIEME.

Il mercato.

Per chi guardi dal di fuori, le condizioni della letteratura d’Italia, in quest’ultima stagione, son buone; come forse non erano state mai.

Il libro, il giornale, ossia la produzione di codesta «letteratura» è diventata, anche per quel che si vede e si misura materialmente, una parte assai notevole della vita nazionale.

È inutile dar qui delle statistiche minute. Basta scorrere un poco uno di quei bollettini di case editrici, che la posta ci porta tutti i giorni, o piuttosto fermarsi un momento davanti alla vetrina di un libraio; la ricchezza, l’accrescimento, anche in confronto di pochi anni fa, salta subito all’occhio. Erano una volta pochi volumi con quei tre o quattro nomi d’autori principali che occupavano con una stabilità immemorabile, dandosi il cambio d’anno in anno, le vetrine e l’attenzione; e lì accanto qualche smilzo libretto, che tradiva fin dalla copertina e dal posto nella mostra la gioventù dell’autore e l’edizione procurata a [p. 240 modifica]sue spese; un po’ di roba illustrata, i libri scolastici, e la pila gialla dei francesi: oggi, dietro i vetri ben tersi, è un’abbondanza nuova di volumi che s’affollano, si sovrappongono, ritagliano, l’uno sull’altro, le riquadrature e i gradini e gli sfondi di una prospettiva geometricamente calcata e massiccia: bianco sul giallo, rosso sul verde, cuoio vecchio e mattone cupo, oro nuovo e nero liscio di caratteri sulle carte granulose o inamidate, costole di ogni spessore e copertine di tutti i formati, edizioni di tutti gli editori, dànno la scalata su su fino all’ultima cornice della vetrina, dove la prima riga del titolo delle cose rimaste da ieri spunta a mala pena e par che si abbatta, sfuggendo, di scorcio.

Ed è tutta roba stampata in Italia; a Milano, a Torino, a Roma, a Napoli, a Bari, in Sicilia, in Abruzzo, un po’ da per tutto. C’erano in Italia poche case editrici veramente importanti, che si dividevano tranquillamente le specialità e le regioni letterarie: accanto, nell’ombra, le rade e lente stamperie di provincia, e poche officine mezzo di contrabbando delle contraffazioni e della roba da muriccioli. Adesso è un diluvio di carta stampata che riunisce da ogni parte, moltiplicando le copertine e le etichette; gli editori nuovi sorgono accanto ai vecchi, nelle città grandi e nelle piccole, crescono; a poco a poco e si trapiantano, quasi da monte a piano, dalle provincie ai centri maggiori, e lavorano tutti quanti con una energia, con un coraggio e spesso con una serietà da far meraviglia.

Chi dice editori, dice anche autori. Gli uni non possono crescere senza gli altri.

E se accanto ai libri mettete poi i giornali, le riviste, tutti i fascicoli grandi e piccini che si [p. 241 modifica]stampano periodicamente nel paese, vi troverete davanti insieme con questo mucchio veramente enorme di carta stampata, tutto un mondo affollato e diverso di gente che in un modo o in un altro ci si muove sopra e ci vive; il nostro mondo letterario. Che non è più una categoria ristretta o appartata; è ricco di numero e d’importanza e di vita.

Poichè non si stampa soltanto, oggi, in Italia; ma si legge e, quel che più conta, si compera.

Si è parlato anche da noi di crisi libraria, che è piuttosto un fenomeno generale europeo, molto più sensibile in Francia che qui, e in ogni modo importante dal punto di vista dell’economia prima che della cultura; e anche in Italia tutti i giovani un po’ impazienti e i geni un po’ falliti si lamentano dell’ottusità del pubblico, della meschinità degli editori, della indifferenza, delle angustie di ogni genere che chiudon la strada.

In realtà, le cose son diverse. Non si dice che gli italiani abbiano per la letteratura un interesse profondo ed entusiastico; e non si vedono neanche, in Italia, quelle grandi tirature, a centinaia di migliaia di copie, che sono e sopra tutto sono state la caratteristica di certe stagioni della libreria francese e inglese negli ultimi tempi.

Ma insomma anche da noi i libri si leggono e si vendono, con una facilità ragionevole e sicura.

Le tirature non sono grandi; trecento, cinquecento copie, per un libro di novelle o di versi, costituiscono già una cifra rispettabile e mezzana. Ma i libri dei grandi scrittori si vendono a molte migliaia, anche se non siano, per il loro carattere, facili o popolari; e quando qualche cosa, anche di un giovane ignoto fino a ieri, si solleva veramente sopra il livello comune, si [p. 242 modifica]cano subito le tre e le quattromila copie. Pensate, per esempio, al successo dei Colloqui di Guido Gozzano, poche pagine di poesia pura. E come lui, quanti altri, uomini e donne, autori di versi o di novelle o di critica!

Del resto c’è un dato di fatto, a cui accennavamo prima, e che nessuno può negare; il moltiplicarsi degli editori. I quali non potrebbero avere nè il richiamo a tentare, nè le risorse per reggersi e molto spesso ingrandirsi con rapida fortuna, se non ci fosse, come una base positiva e sicura, il favore del pubblico.

Aggiungiamo che questi editori non si limitano ad opera di pura e semplice speculazione, come potrebbero essere traduzioni, ristampe, diffusione e sfruttamento abile di poche cose fortunate; ma accolgono con una certa larghezza, che indica i bisogni e il desiderio del pubblico, nomi e cose nuove, di tutti i generi; e le cercano, e le pagano anche.

Non ci sarà da scialare; ma insomma, oggi come oggi, anche le lettere danno di che vivere.

I volumi stampati a spese degli autori son sempre molti, pure assai meno che ieri; per lo più, versi e bella letteratura di provincia. Il resto è pagato: saranno quelle due-trecento lire per una traduzione, per un libro di critica o di storia; quel dieci o quindici per cento sulla vendita del volume di novelle o di saggi, di cui si spacciano cinquecento o mille copie. Non è molto. Ma non è neanche poco se si tiene conto del valore che hanno in genere queste cose. Se c’è qualcuno che si levi dalla mediocrità, che si faccia leggere veramente, le condizioni e i compensi migliorano. E poi bisogna ricordarsi che ci sono anche i giornali, tutta la stampa periodica e quotidiana, in [p. 243 modifica]cui tre quarti della nostra letteratura trovano il loro impiego. Non ci sono mai stati tanti laureati in lettere nelle redazioni, come oggi nei nostri giornali. E la letteratura da un posto a parte, la quinta colonna, ossia terza pagina; in cui ci dev’essere quasi ogni giorno il saggio critico o storico, l’articolo di varietà o la novella. Una colonna e mezzo di corpo comune si paga cinquanta, settanta, anche cento o centoventi lire; e non si trova abbastanza gente che ne produca.

Accanto ai giornali, le riviste: quelle più serie pagano poco o nulla; al più, cinque lire la pagina; ma i cosidetti magazines, aziende sorte accanto al quotidiano, dànno anche quindici o venti lire, e domandan di tutto; hanno bisogno dei versi, di una o due novelle, di varietà erudite e pittoresche.

Infine, c’è il teatro, la fabbrica dei libretti d’opera, il cinematografo, che finiscon di mettere in valore, come si suol dire, l’opera dei nostri scrittori. Per poco che uno abbia d’ingegno e di produttività, è sicuro di cavarne qualche frutto sul mercato; se vuole.

Certo, non son tutte rose. Ci son delle ingiustizie, delle eccezioni. Libri buoni che si vendono poco, scrittori di merito che rimangono nell’ombra; uomini d’ingegno che patiscon la miseria e forse la fame.1 [p. 244 modifica]

Sono episodi; e non diminuiscono la verità relativa di questa floridezza.

La statistica delle pubblicazioni italiane reca, nel 1913, 11.100 numeri nuovi (11.294 nel 1912); e poi 579 volumi di ristampe (652), e 742 periodici (587). Fra questi 308 volumi o fascicoli di poesia, 415 romanzi, 651 volumi di filologia, 1601 fra storia e belle arti, 260 di filosofia. Son dunque tremiladugentotrentacinque pubblicazioni, senza parlar dei libri scolastici e religiosi, che hanno qualche attinenza con le lettere.

Uno dei caratteri principali del momento librario è poi la utilizzazione pratica che uguaglia a poco a poco e avvicina le categorie diverse, che mi tempo dividevano i libri, quasi in caste, di cui ognuna aveva il suo pubblico e il suo esito riservato. Oggi anche quel che era proprietà o curiosità di pochi, materia di tecnici e di specialisti, si avvia a diventar letteratura; ossia libro che può esser letto da tutti, cosa d’interesse comune.

Non è necessario guardar dentro ai libri; notare come tendano a uno stile unico, che mette delle descrizioni e degli aggettivi nelle opere erudite, della poesia e dell’attualità nella storia magari della medicina antica, dell’erudizione e della filosofia nella ex-letteratura amena; basta osservarli di fuori.

Salta agli occhi la tendenza tipografica al tipo comune, più elegante, più accurato e anche più commerciale; senza più distinzioni nette di formato, di severità, ecc.; con gli stessi caratteri, gli stessi ornamenti, le stesse attrattive, per esempio, di illustrazioni e di fac-simili, quasi per tutti.

Se mai, si può fare una distinzione sola; fra due tipi di volume. Il libro di cultura e il libro, seguitiamo pur a dire, di bella letteratura. Le [p. 245 modifica]zioni Laterza e le edizioni Treves: un volume di D’Annunzio e uno di Croce. Lasciando stare le edizioni artistiche — sul tipo delle Arti Grafiche — e l’altra roba a dispense, scolastica, o popolare, tutto quello che c’interessa si può raccogliere nell’una o nell’altra di queste due classi. Che ci serviranno appunto a ordinare la nostra materia, sotto il titolo dei due scrittori che abbiamo ricordato sopra, e che si prestano quasi naturalmente, anche per l’impronta esterna e visibile delle pubblicazioni, a servir di regola a tutti gli altri.

Con che non si vuol affermare che la divisione sia molto profonda. Il tipo più netto, anche come materia tipografica, è quello del libro di cultura; che è quasi una specialità italiana di questi ultimi anni, ed è rappresentato da certi editori con una schiettezza, che ha un valore, non soltanto commerciale, ma morale. Una edizione Laterza, per esempio, offre certe garanzie di correttezza e di serietà, anche nel contenuto, a cui non posson pretendere nemmeno certe grandi collezioni straniere: l’etichetta Laterza val meglio certamente, a considerar tutto, che l’etichetta Alcan, per ricordarne una che pochi anni fa si imponeva. E accanto a Laterza sta bene Bocca, il piccolo audace volumetto di Carabba, e, in parte, Sandron; che s’allarga anche negli altri campi.

Più confusa è la fisionomia dell’altro tipo. In genere i nostri editori letterari tendono all’attualità, che li porta sempre più, col favore del pubblico, a entrar nel campo della cultura.

Editori letterari puri, che rappresentino una tradizione, si può dire che non ne abitiamo; e non ci son neanche, da noi, le edizioni legate a una rivista o a un gruppo di giovani, come ce n’è così [p. 246 modifica]importanti in Francia: è inutile far paragoni fra le cose che stampa la Nuova Antologia e la collezione del Mercure, o fra i Cahiers de la Quinzaine e i Quaderni della Voce. Ma non c’è più neanche editori come potevan essere Lemonnier o Barbèra quaranta anni fa; c’era Zanichelli, che pareva voler essere il nostro Lemerre, col suo Parnaso un po’ bolognese, ma eletto; e oggi si è accostato al modello usuale, nei fregi, nelle sincronie, e sopra tutto nella scelta della materia.

Del resto Treves e Bontempelli, Bemporad e Puccini, Peritila e Lattes e Sandron e via via, hanno tutti, press’a poco, lo stesso eclettismo. Il caso di Treves che stampava l’altro giorno la Storia del De Sanctis in concorrenza con Laterza è significativo.

Uno dei loro volumi può essere indifferentemente romanzo, poesia, critica, storia, conferenze; senza molta garanzia del contenuto: anzi, molto spesso, il lusso e le novità tipografiche ci accompagnano la roba più scadente. Ma non è tutta colpa degli editori; i quali qualche volta, hanno delle intenzioni brillanti e non trovan gli scrittori per realizzarle. Son parecchie le collezioni, come quelle di Formiggini, per es., iniziate con un certo decoro e con pretese artistiche; che vanno poco oltre la copertina. Lo stesso accade per altre collezioni di poesia, di novelle; si fermano presto, senza altra novità che i fregi e le xilografie, che il più delle volte sono anche detestabili.

Qualche edizione par che riscuota più fiducia; come Treves — la sua è quasi sempre roba che va, che si fa leggere, indipendentemente dal valore intrinseco — Baldini e Castoldi per i romanzi, e fra i nuovi Puccini. [p. 247 modifica]

Ma tutti hanno cose buone, e più ancora ne cercano.

Così stando le cose, per chi le guardi da fuori, vien fatto di domandarsi quale ne sia poi il significato e il valore, dal punto di vista non del commercio, ma dell’arte e del pensiero.

Che cosa è infine questo momento letterario, che cosa vale e che caratteri ha?

Il momento letterario: apparenze.

Non c’è bisogno di inchiesta lunga. Le risposte, più o meno precise, son sulla bocca di tutti, si colgono come una nota comune e concorde in mezzo al chiacchierio diverso che ci risuona d’intorno.

È una giornata buona, della nostra stagione letteraria; un momento di attività, di rinnovamento; su questo punto almeno van d’accordo quasi tutti, anche quelli che non lo dicon forte, anche quelli che gridano e che protestano per un particolare o per un altro, ma in fondo son persuasi di un certo progresso e avanzamento complessivo, ne mostran sulla faccia e negli atti un riflesso più lieto. E anche sopra le ragioni e i caratteri di questo miglioramento tutti sono, press’a poco, d’accordo: c’è chi bada più a una cosa, e chi a un’altra, ma in ultimo si tratta sempre e per tutti di un progresso doppio, nel senso della cultura e della riflessione e della coscienza critica da una parte; nel senso della originalità e della ricchezza e della nobiltà artistica dall’altra.

Contenuto di pensiero, profondità di critica, idealismo insomma; e poi anche novità poetica, sincerità e passione, purezza di lirismo; ed [p. 248 modifica]zamento di animo e di spiriti, allargamento di orizzonti e di conoscenze, riallacciamento alle tradizioni più grandi, cultura e classicismo e italianità, ecco le frasi e i motivi che tutti abbiamo negli orecchi e che ci rendono a primo tratto l’impressione del momento, la fisionomia e i caratteri dell’Italia letteraria d’oggi nella sua realtà; o almeno nei discorsi e nella opinione di quelli che, come autori o come lettori, la formano.

Non sono chiacchiere soltanto. Se ci fermiamo un poco a osservare, miglioramento e novità si trova da per tutto.

C’è, per esempio, solo al paragone di pochi anni fa, un miglioramento innegabile e notevole in quel che si potrebbe dire il materiale letterario: nella forma e nella tecnica dello scrivere, nel fondo comune della cultura, e in genere nel costume letterario, nell’insieme degli obblighi, degli ideali, delle convenienze accettate da tutti.

Si scrive meglio. Lasciamo stare il valore artistico di quel che si scrive, che è fortuna personale: ma quel che è uso e patrimonio comune è migliorato, ha acquistato una certa unità, un decoro e una abbondanza che sarebbero la consolazione dei nostri vecchi critici, che piangevan le sorti d’Italia su ogni errore di lingua e di grammatica.

Quello che sembrava un mito, un ideale favoloso e impossibile, perseguitato senza posa attraverso i secoli della nostra storia, l’unità della lingua e del tipo letterario, oggi comincia a essere un fatto compiuto e pacifico, tanto naturale che la gente quasi non se ne accorge. Ma è un fatto: quelle venature così profondamente diverse che variavano e sconciavano le scritture soltanto di ieri sono scomparse; non si sente più, oggi, a [p. 249 modifica]gere, se l’autore sia lombardo o piemontese o siciliano; non si trova accanto alla pagina di convenzione accademica e letterata la pagina goffamente ricalcata sul francese o confusa e incerta nel tentativo dell’espressione viva corrente; non c’è più la differenza quasi di casta fra lo scriver dei letterati e dei professori e quello del volgo e dell’uso (ricordate solo i tempi, poniamo, del Carducci; e accanto a lui, lo scriver di uno degli ultimi puristi, di un manzoniano, di un romanziere lombardo come Rovetta o vicentino come Fogazzaro, e poi via via, l’uso dei giornali, quel tipo ibrido fra la pratica burocratica e la traduzione dal francese, e gli uomini politici, e gli scrittori popolari.... una selva!).

Oggi tutti scrivono, in modi diversi, press’a poco la stessa lingua; con una certa pulizia, più che proprietà, e scelta e ricchezza di vocabolario comune, che di rado si era avuta in Italia; ed è la stessa nei professori e nei giornalisti, nella cronaca politica e nel saggio storico, nella prosa poetica e nella critica: qualche disuguaglianza o singolarità si troverà piuttosto nei versi, in alcuni; ma il resto e quasi tutta la prosa mostrano un abito unico, di elaborazione elevata sopra l’uso volgare e monda di ogni elemento impuro o barbaro, che è poi infine, a chiamarlo col suo nome, l’abito fra carducciano e dannunziano spogliato delle peculiarità personali e divenuto stampo comune dell’uso.

Ma non solo la lingua, anche le altre parti dell’educazione letteraria si sono raffinate. Dov’è più oggi quella differenza profonda fra la severità e la coscienza artistica che era il contrassegno di pochi eletti, e la volgarità ingenua trionfante tutto all’intorno: fra gli scrupoli metrici e la [p. 250 modifica]cura e la sapienza stilistica di qualcuno, e le sciatterie, le negligenze, i versi mal fatti, i periodi zoppicanti, e sopra tutto le banalità, le ingenuità, le goffaggini, che ti rivelavano a volta a volta il principiante, il seminarista, il provinciale, il dilettante ozioso o la donna romantica, e che restavano talora come un peso antico e molesto anche in opere altrimenti ricche d’ingegno?

Oggi, non che ci sia più ingegno o più arte; ma c’è una educazione più severa e più diffusa, un certo scrupolo e obbligo quasi di nobiltà, una certa sapienza e squisitezza tecnica, che si mostra nei versi e nella prosa, nelle clausole dei periodi e nella scelta degli aggettivi, e insomma in tutti gli effetti dello stile, dalla cronaca di un giornale alla canzone di D’Annunzio.

Ma più ancora che la tecnica, è il contenuto spirituale, la cultura, la riflessione e la coscienza intima che s’è arricchita nella nostra, letteratura.

La cultura, prima di tutto; non parliamo della cultura italiana in genere, che ci porterebbe troppo lontano, ma della cultura come carattere professionale del letterato, come materia e argomento o occasione del suo lavoro. E questa è senza paragone più ricca, più varia, al di fuori delle angustie retoriche che la limitavano ancora non molto tempo fa; pensate, per riprender lo stesso punto di confronto, alla cultura esclusivamente tecnica, grammaticale e letteraria, di un Carducci principiante; letteraria e storica sempre e soltanto, pur con l’apertura degli orizzonti stranieri, in lui sino alla fine, senza notizia diretta nè di musica nè di pittura e delle altre arti nè di scienza nè di filosofia. Voi sapete che tutte queste notizie, bene o male, sono diventale oggi di [p. 251 modifica]diritto, anzi d’obbligo connine; la cultura più che letteraria si potrebbe chiamare tutt’insieme artistica, concorrendovi con la stessa importanza le esperienze e l’insegnamento di tutte le arti, e via via la curiosità di tutte le età e di tutti i paesi, dall’Egitto al Giappone, da Omero al cubismo.

Da una parte si è moltiplicata la varietà, dall’altra la serietà, è cresciuta; non c’è più quasi in Italia il tipo del letterato puro, di carattere sia grammaticale sia artistico; la filosofia e la critica sono diventate una esigenza così viva della cultura, che nessuno può farne a meno; e proprio in questo è da trovare, secondo il parere di molti, il carattere definitivo del nostro momento.

Non si parla solo di una certa diffusione di conoscenze, abitudine di linguaggio più proprio, precisione di concetti e posizione di problemi, interesse più largo per i fatti e i drammi del pensiero: questo, che potrebb’essere un episodio superficiale della cultura, appare intorno a noi un principio più profondo e una qualità intima della vita letteraria. È, come dicono, il momento della critica.

Non si dice la critica in quanto erudizione e inventario storico, com’era nella generazione precedente; ma critica come esigenza e problema del pensiero, passione dell’animo e forma dell’arte.

Ed è inutile aggiunger particolari; il posto che la critica ha oggi nei giornali, nelle riviste, nell’attenzione del pubblico; l’importanza e il numero degli scritti, il valore delle persone che vi attendono, non come ad esercizio secondario dell’ingegno, ma come ad opera d’interesse pieno e primo; e poi e sopra tutto il posto che la critica ha preso negli animi, nell’intimo anche di quelli che ne sembran più lontani e più infastiditi, [p. 252 modifica]ma non si posson sottrarre a certe abitudini del linguaggio e orientamenti del pensiero.

È un senso nuovo dei problemi astratti, un bisogno di definire i valori e i limiti spirituali, una disposizione all’analisi e al ripiegamento, un abito di dubbio e di controllo interiore, che diventa inquietudine assidua della coscienza, e rende anche al lavoro dell’arte un non so che di intenso e turbato e serio.

Iva critica ha rinnovato in tutti non soltanto la conoscenza storica e teorica, ma anche il sentimento diretto dell’arte, nella sua essenza e nei suoi problemi: ha dato insomma alla nostra letteratura una coscienza, che è diventata tormento e legge del pensiero come della poesia.

È qui forse che bisogna trovar la ragione di certe qualità particolari, più intime che appariscenti, del tempo nostro; in cui a una certa sprezzatura e disinvoltura di modi, che vien dalla cultura, si accompagna una esigenza più acuta di novità, di originalità, di indipendenza, un fastidio del convenzionale e del retorico, una insofferenza sottile.

Come c’è un pensiero nuovo c’è anche un lirismo nuovo. Non compiutamente e non ugualmente espresso, forse; sentito come un bisogno e come una aspirazione più che come una gioia piena; accennato e velato perfino da certe rinunzie, abbandoni, nostalgie. Ma tutti sentono che anche lo squallore, l’assenza di colore e di orgoglio poetico, che è in molti dei cosiddetti poeti giovani, nasce da quello stesso affetto della intima vergine poesia, che appare in altri come audacia, rottura di forme e di tradizioni, impeto e scoppio immediato: è un lirismo più puro, se si può dire, che è diventato, al di fuori di ogni divi[p. 253 modifica]sione fra prosa e versi, una qualità e una legge dell’arte. Che importa se questa qualità non si trovi sempre pienamente realizzata?

Noi sappiamo che quel che importa è la coscienza; e questa è, sveglia, pronta, mobile, nuova: ironia talvolta e aridità e contrattura quasi nell’apparenza, ma schiettezza e forza e novità dentro, nella sostanza. Novità sopra tutto. Poche stagioni dànno una tale impressione, non forse di fioritura e di felicità, ma di cambiamento, di distacco e di liquidazione del passato.

Non è solo l’effetto superficiale di quel che è accaduto negli ultimi anni; come vento che svelle ad una ad una le vecchie piante e cambia l’aspetto della selva, la morte è passata nel campo della nostra letteratura e ha abbattuto uno dopo l’altro i più grandi, e via via tutti quasi i superstiti e i testimoni del passato, ha lasciato il terreno nudo e sgombro per i nuovi.

Questo è stato soltanto il simbolo, la rappresentazione visibile di ciò che accadeva più profondamente negli animi. Questa età che ha un pensiero, una critica, un senso lirico e insomma una coscienza nuova, l’ha acquistata appunto in quanto ha esaurito e superato dentro se stessa il passato. Una stanchezza vaga, velata di rispetto e di riverenza, è nella sua attitudine; e un fastidio leggero erra con un sorriso di superiorità sulle labbra di una generazione che ha composto pietosamente nel sepolcro i suoi padri, che onora i suoi maestri, ma che si sente oramai libera e tanto lontana da ogni loro influenza!

Voltiamoci per un momento indietro a considerare l’eredità spirituale degli ultimi trent’anni; la poesia del Carducci e del Pascoli, il verismo e la critica del metodo storico, la letteratura [p. 254 modifica]sociale umanitaria e l’estetismo, tutte le scuole e le mode straniere, da Anatole France ai simbolisti, da Tolstoi a Nietzsche, senza parlare degli episodi più prossimi. E ricordiamo anche dei nomi, oltre a Carducci e Pascoli; Oriani, Fogazzaro, Graf, Rapisardi, De Amicis, Ferrari, Aganoor….

Che cosa ne resta in noi, dopo i funerali e le commemorazioni? Se si toglie qualche eccezione, che poi vale fino a un certo punto, il silenzio è sordo e uguale per tutti. Come poco tempo è bastato a sommergere rumore e reliquie! Pare che l’acqua le abbia coperte, o piuttosto la sabbia che è più muta, più anonima, innumerevole e liscia, che non schiaffeggia con le onde, non combatte, non rompe, ma cresce coi piccoli grani infiniti e si posa come un velo e assorbe e ingoia nella profondità vana e deserta. Chi cerca questi libri, che ci appassionavano ieri, chi si accosta a questi uomini, per impararne ancora qualche cosa?

Qualche fedele antico, o qualche giovane che ha un libro da fare, la sua casetta da costruire, e s’attacca al morto di ieri come s’attaccherebbe a quello di trecent’anni fa: come l’ostrica allo scoglio ignoto.

Ma il resto è andato: se n’è andata più ancora che la memoria e la nominanza verbale, l’attenzione e l’interesse intimo; si ripetono ancora forse quei nomi, quando l’anniversario o l’occasione li porti, con l’accento del rispetto e dell’ammirazione, ma in fondo in fondo ognuno sa che quello è solo un tributo di pietà, ognuno sente di non aver più niente da domandare, che la loro lezione non ha più efficacia, che il loro esempio è passato di moda, che la loro arte è diventata troppo ingenua o vecchia o insufficiente per noi. [p. 255 modifica]

Diciamo pure la verità; questo par che accada a tutti, ai minori e ai maggiori, se si tolga Oriani; e anche al Carducci e anche al Pascoli.

Lasciamo stare per un momento certi obblighi di convenzione o di politica, per cui questi nomi si impongono ancora. Guardiamo all’efficacia letteraria, al senso e all’esempio dell’arte.

Allora, anche il Carducci è tramontato. Non solo nelle letture dei versi, non solo nelle discussioni e nei commenti dell’opera, non solo nell’eco sempre più breve che si desta intorno alla pubblicazione delle sue cose inedite, e massime dell’epistolario, di cui la fortuna è il segno più certo dell’interesse suscitato dall’uomo: il Carducci pare tramontato come poeta e come maestro, nella critica e nell’arte, nell’opera e negli ideali. Non c’è scolaro di liceo che non si renda conto delle angustie intellettuali della sua critica, che non si senta superiore ai pregiudizi retorici e patriottici della sua eloquenza. E anche la poesia, anche la bella e gloriosa poesia che si manda a memoria nelle scuole, ahimè, non fa più quell’effetto: si è protestato contro chi l’ha chiamata poesia di professore, ma il giudizio o almeno l’impressione, per quanto segreta e a malincuore, è rimasta: tutta quella storia appare di una ispirazione inferiore al nostro lirismo più raffinato; e poi storia, civiltà, eloquenza, polemiche sproporzionate all’oggetto, i colori e le sonorità della prosa, le rime tronche e l’uso degli epiteti, tutto il suo mondo artistico e morale ha acquistato per noi un non so che di ingenuo, nobile e rispettabile sì, ma un poco, come dire, suranné: un giovane non accetterebbe mai di potersi proporre come ideale la poesia o la prosa del Carducci, pur ammettendone le qualità. Ma [p. 256 modifica]carducciano, oggi suona in un certo modo!: quasi come dire, quarantottesco.

E così dite del Pascoli. Questo pare un po’ più vicino, più discusso ancora e più considerato dalla critica, che non ne ha risolto interamente i problemi; ma la gente non lo legge, ma le sue cose postume, anche con la giunta di tricromie e di prefazioni e il contorno obbligato di articoli sui giornali quotidiani, passano in una specie di silenzio opaco; ma tutti quegli echi dei suoi versi e della sua maniera, che risuonavano pur ieri nelle poesie dei giovani da un capo all’altro d’Italia, son cessati quasi d’improvviso, come se la gente abbia ritirato dai davanzali quelle tante gabbiette d’uccellini; ma con tutto il dire che fanno i critici sui misteri della sua arte, una noia calma e improvvisa è calata sulla sua poesia, sul sentimento, sulla politica, sul misticismo, sopra tutto quel non so che di dolce e candido e manierato e finalmente passato di moda, che la gente con una parola sola dice: pascoliano. E nessuno vuol metterci una sfumatura spregiativa, ma nessuno per altro dei nostri giovani se lo lascerebbe dir senza proteste: nessuno ammetterebbe di scriver dei versi o della prosa pascoliana, senza un sospetto lieve, non dirò di ridicolo, ma certo di debolezza e di insufficienza. Anche il Pascoli è superato.

Ma forse non accade lo stesso anche ai vivi, anche a D’Annunzio, che ha insegnato a scrivere a tutti gli italiani di oggi, anche a Croce, che ci ha rivelato il mondo del pensiero e della critica?

E inutile qui entrare in minuzie. Ma è certo che così D’Annunzio come Croce, i due autori, da una parte e dall’altra, di questo rinnovamento letterario, autori così immediati ed essenziali che [p. 257 modifica]basta metterne il nome anche soltanto qui, come titolo ed epigrafe di uno scritto sull’Italia d’oggi, per riconoscerne in tutte le pagine e in tutti i punti la impronta indimenticabile, D’Annunzio e Croce cominciano oggi a esser messi da parte. Il pubblico li legge, li segue, li cerca ancora; ma i segni della stanchezza e del distacco sono visibili. Non si parla solo della reazione, della infatuazione antidannunziana prima, anticrociana poi, che si è propagata rumorosamente fra i giovani, e che era ancora una forma di ossequio e di servitù. Il senso della stanchezza è entrato ora anche in quelli che conservano le apparenze della fedeltà, o forse non si curano nemmeno di affrontare il problema: è un senso vago e sottile non di ostilità, ma di ammirazione oramai definita e di curiosità già sazia, che avvolge le ultime opere dei maestri in un’aria chiusa di museo: la gente che passa davanti alle vetrine sa che cosa ci sia dentro, dà un’occhiata e tira via. Si sentono nei crocchi degli accenni ancora sommessi, dei dubbi ancora discreti: su quel che si possa aspettare più di nuovo dallo scrittore, che appartiene alla storia, che forse ha dato già tutto; qualcuno parla addirittura dell’uomo finito, e tutti sentono che c’è del vero; qualche cosa è finita, se non nello scrittore lontano, certo nelle coscienze nostre. Che hanno superato anche questi.

È la intensità, come dicono, e la rapidità della vita moderna, che consuma in un anno quel che bastava per un secolo ai nostri avi; o non è meglio l’attitudine divenuta prevalentemente critica della nostra coscienza letteraria, che ci obbliga a codesto travaglio assiduo di revisione e rinnovamento di tutti i valori?

Certo si è che il carattere più notevole, del [p. 258 modifica]momento, è proprio questa relativa indipendenza da ogni sorta di scuole e influenze e dominazioni spirituali; è questo consapevole desiderio di originalità, questa coscienza nuova e orgogliosa, di cui si scorge il riflesso nelle parole negli accenti nella franchezza perfino nella negligenza e nella fatica dei nostri scrittori, così come si sente sui volti e sulle cose brulicanti per le strade caliginose il riflesso del giorno ricco.

L’eredità del passato è leggera sulle spalle di questa generazione che ne ha fatto l’inventario e la stima. E la difficoltà maggiore per chi voglia abbozzare un ritratto d’insieme è appunto la mancanza dei caratteri consueti di scuole, di imitazioni, di somiglianze.

Tutti i movimenti d’arte o di pensiero che hanno agitato e impresso così profondamente di sè la fisonomia dell’ultimo trentennio, dal Carducci al Croce, sono oggi o spenti o scomparsi del tutto, come acqua che le sabbie si son bevuta; o limitati oramai e collocati entro termini definitivi. Perfino la influenza straniera, così potente a tratti sulla letteratura di ieri, è cessata o cambiata; pensate a quel che è stato per la nostra letteratura uno scrittore come Zola, poniamo, o come Anatole France, come Nietzsche; era più che una moda, un modello, un dominio, un suggello assoluto di stile e di spirito: coloro che ci dominavano ieri sono diventati oggi oggetto di studio o di curiosità, quando non siano tramontati addirittura dal nostro cielo; e se c’è ancora un po’ di moda per qualcuno, per un Barrès o per un Bergson o per un Claudel, quella è moderata e ragionevole: e quando diventa superstiziosa e troppo visibile, in qualche ingenuo, allora pare una stonatura. [p. 259 modifica]

Maestri io non ne conosco a questa generazione; se non in quanto la sua curiosità e la sua cultura si eleva a comprendere tutte le lezioni più nobili e più interessanti della storia spirituale degli uomini.

In questo senso si è delineato una sorta di classicismo nuovo: che è più della cultura che dell’arte, e senza preferenze o esclusioni. È un desiderio vasto e disinteressato di conoscenza, che abbraccia gli antichi e i moderni, gli stranieri e i nostri, richiama in mezzo a noi Goethe e Shakespeare, Cervantes e Aristofane, il Mahabarata e il Kalevala; ci obbliga a cercare i nostri modelli e i nostri insegnamenti non in un solo di questi che ci sorgon da presso e ieri pareva quasi che ci occupassero con la persona troppo dell’orizzonte, ma in tutto quanto il passato d’Italia, in tutti i morti della nostra terra, autori della nostra razza. E accanto a Dante e al Machiavelli e al Vico, tornano fra noi l’Aretino e il Folengo, i cronisti anonimi, i trattatisti laboriosi, tutti quanti. Non ci sono distinzioni di valore o di personalità artistica; un dovere comune di accrescimento spirituale allinea sullo stesso piano le collezioni nella biblioteca, e i nomi e le citazioni nella memoria: poichè, in quanto all’arte, abbiamo già detto che questo classicismo non si dimostra direttamente. È troppo vasto ed eclettico per poter lasciare impronte particolari: e del resto l’età delle imitazioni e dei ricalchi stilistici è passata da un pezzo.

Anche in quelli dei nostri scrittori che lo inalzano come una bandiera, il classicismo lui un valore piuttosto morale e politico che letterario: è tradizionalismo, è religione della razza e del suo genio, è reazione volontaria, bisogno di [p. 260 modifica]autorità e di disciplina; è anche orgoglio di cultura e intenzione di nobiltà, non mai formula o modello.

Al più si potrà vederne qualche riflesso — che per altro non si può dire effetto — nella cura e nel decoro, che abbiamo già ricordato, delle scritture; nel linguaggio più ricco e più schietto di una letteratura, che ha rigettato da sè ogni servitù straniera, e si afferma sempre più francamente italiana.

C’è un fatto, nella storia di questi anni, un grande fatto politico e nazionale che pare assuma anche per la letteratura il valore di un simbolo e di una definizione. Non importa aggiunger parole, poichè si tratta della guerra di Libia.

La nuova affermazione dell’Italia, come forza militare e unità morale, avrebbe trovato una coincidenza in quella sorta di crisi di una letteratura, a cui la liquidazione del passato dava una apparenza di devastazione e di oscurità; ma il terreno ingrato era pieno di travaglio segreto e di potenza; e il vento della fortuna e della gloria nazionale vi passava sopra rivelando la ricchezza della primavera.

Quelle che erano prima tendenze e fatiche un po’ disperse, un po’ confuse, miglioramento della cultura e accrescimento della dignità artistica, risveglio della coscienza critica e senso nuovo del lirismo, hanno acquistato, nel rinnovamento della coscienza nazionale, un suggello di orgoglio e di felicità, che è sopra tutto italianità.

Il momento letterario: particolari.

Questo è quello che dicono tutti; e che noi abbiamo registrato con la fedeltà meccanica del [p. 261 modifica]cronista, che raccoglie senza discutere tutte le voci e le illusioni e le presunzioni degli interessi. Poichè tutti lo dicono, a cominciar dai giudici più ascoltati, dev’esser vero. Non ci resterebbe altro che stringerci le mani vicendevolmente e rallegrarci con noi stessi e col destino clemente che ci ha fatto nascere in buon punto.

Ma se ci guardiamo in faccia un po’ più intentamente, ci capita di sentirci imbarazzati: facciamo le viste di ingannarci l’un l’altro, ma in fondo nessuno si lascia ingannare.

Quel che abbiamo riferito sin qui riguarda solo i caratteri generici della nostra letteratura, le tendenze e le intenzioni, che son come le etichette sui barattoli: dentro, è un’altra cosa.

Potremo dire che questa gente non è vestita male: il taglio degli abiti è buono, il figurino è nuovo; ma sotto panni, che anatomie miserabili!

Se togliamo via qualche nome, di gente già vecchia, che ha cessato di produrre o che in qualche modo è al di fuori del nostro tempo, tutto quello che ci circonda è di una mediocrità sconsolante.

Le vetrine dei librai son piene a ogni stagione di volumi di cui non si vuol dir male, di cui bisogna dir bene anzi, perchè in fondo non son cattivi, mostrano un certo ingegno, una certa probità, e poi della cultura e un monte di buone intenzioni; ma dov’è uno solo che ci piaccia, che ci interessi, uno di quei volumi che si è costretti a comperare e a portarsi via, con l’ansia e la gioia e l’irritazione delle cose veramente nuove?

C’è una infinità di gente che fa il suo mestiere in modo tollerabile: ma basta.

È migliorata la tecnica, il materiale linguistico e stilistico della gente che scrive; c’è un [p. 262 modifica]lirismo più puro, dicono, un senso ritmico più sottile nei nostri poeti; un realismo più acuto, un impressionismo più personale, una costruzione più sapiente nelle nostre novelle, nei romanzi, c’è una coscienza più sicura, una profondità e una larghezza nuova, una inquietudine più viva nei nostri critici; ma dov’è la gente che sappia scrivere, dove sono i poeti, dove sono i novellatori e i romanzieri, dove sono i critici?

Non vogliamo dei caratteri generici: vogliamo degli ingegni, dei nomi, delle persone vive.

E queste mancano. Mancano, più ancora degli ingegni, le opere felici, le cose belle, le pagine da rileggere; manca quello che ognuno di noi cerca veramente attraverso ai mucchi di carta sporca e ambiziosa, quando è solo con tutta la noia della sua vita e l’inquietudine del suo cuore, lontano dal rumore del mondo, dalle frasi fatte e dalle convenienze vane, libero da ogni imposizione di opportunità o di amicizia, solo e quieto: e allora non si parla più di letteratura, ma di forza e di consolazione.

Da tal punto di vista, pochi momenti sono più ingrati di questo.

Il miglioramento di cui ci hanno parlato è tutto meccanico. Non tocca l’intimo. È, appunto, una cosa comune, nel senso commerciale della parola.

Tutto quello che è d’uso comune è migliorato: le ricette e le ficelles, le formule e le impostature: coloro che cinquant’anni fa si sarebbero contentati di scrivere un sonetto colle rime di amore e di cuore, oggi son capaci di stamparti una novella impressionistica, un poema in prosa convulsa, e subito dopo uno studio di critica estetica. Soltanto, oggi la gente li prende un poco più [p. 263 modifica]sul serio. Li considera con rispetto, e qualche volta li legge con attenzione. E si annoia.

Si annoia largamente.

Il carattere più vero, più sincero, non confessato, di questa letteratura è il fastidio: si dice che interessa per non dover dire che piace.

Ma è sempre un eufemismo. Non c’è un vero e proprio interesse in questa roba fredda, passata per uno stesso stampo, senza carattere.

Abbiamo ricordato la mancanza di scuole e di divisioni, come un segno di indipendenza: in fondo è un segno di banalità.

Dove mancano le cosidette scuole, i gruppi letterari, i movimenti caratteristici, vuol dire che manca anche la passione e la vita, che non può stare senza esclusioni, senza ingiustizie, senza battaglie.

Non ci son divisioni oggi, di romantici e classici, o di veristi e idealisti. C’è stato un po’ di rumore ancora ieri fra dannunziani e antidannunziani, fra crociani e positivisti; ma è spento. Oggi è tutto pacifico: il tipo unico trionfa. C’è il tipo di prosa, realistico-impressionista per le descrizioni e per le novelle, e c’è il tipo di prosa letteraria, stilizzata, per le altre occasioni: son tipi così usuali che la stessa persona, che ha scritto una novella oggi in prosa nervosa è un po’ moderna, quando passa all’articolo di storia tira fuori subito il periodo carducciano: lo stesso giornalista che ha mandato una corrispondenza dall’Egeo tutta colore e armonie dattiliche, non s’accosterà al libretto di versi della mezza signorina incontrata al «Lyceum» senza chiudersi nello stile dottrinario, in cui le antitesi e le astrazioni rappresentano la critica. C’è il tipo per gli sfoghi personali, con notazioni di paese e parentesi liriche; [p. 264 modifica]c’è il tipo per la poesia provinciale, per il verso storico da teatro, per lo scritto polemico, per l’impressione pittorica, per tutto insomma.

E c’è della gente che maneggia con una certa abilità questi tipi, senza distinzion di persone o di caratteri, senza discussione e senza contrasto.

Contrasti veramente ce ne sono, ma di natura affatto personale, di valore pratico e mondano: la gente che si accapiglia non è divisa da interessi spirituali, altro che in apparenza, qualche volta; e anche allora il linguaggio, le ragioni e le formule sono identiche, da una parte e dall’altra.

C’è qualche gruppo di giovani, qualche cenacolo di eretici, che fa un po’ di rumore in disparte; ma son cose passeggere, superficiali, che s’intonano subito al concerto comune, o se mai hanno importanza per la cultura e per la pratica. Passione letteraria vera, di quella che suscita le audacie e i sacrifizi, di quella che s’irraggia dalle nature veramente originali, genio in qualcuno e fede e devozione e ardore in quelli che gli stanno intorno e vivon di lui, non ce n’è nemmeno fra i giovani: se si toglie il gruppo fiorentino, (e anche lì, l’eccezione bisognerà farla con discernimento), i movimenti degli ultimi anni niente hanno dato alla nostra letteratura. E poi, finiscono così presto; entrano così rapidamente nel seno della santa madre chiesa giornalistica, e adattano così bene le fisonomie che parevan ribelli ai quadri e ai tipi della nostra antologia eclettica. Forse che nei libri di lettura per le scuole tecniche, dove hanno già messo le corrispondenze dei giornalisti, non c’è il posto bell’e fatto per metà dei futuristi (i motori, il telegrafo senza fili, la galleria di Milano, ecc.)? [p. 265 modifica]

Non c’è passione e non c’è serietà nella nostra arte, come non c’è curiosità vera e intelligenza profonda nella nostra critica.

L’orgoglio dei nostri «superatori» è tutto sterile e nasce dalla debolezza e dall’egoismo piuttosto che dalla superiorità. Liquidazione del passato, esigenza della coscienza critica, originalità e italianità son tutte parole dell’ambizione.

I movimenti spirituali della generazione che ci ha preceduto non sono superati, ma piuttosto lasciati cadere dalla nostra volgarità, a cui i giudizi in grosso, e le categorie, per dir così, di cultura, suppliscono le impressioni dirette del gusto, le simpatie e le conversazioni intime dell’animo.

La stessa mancanza di imitazione straniera, la moderazione degli entusiasmi e delle mode, che abbiamo accettata come un segno di italianità, si riduce in fondo a mancanza di passione e di intelligenza. Certo, la stagione appare un po’ grigia, un po’ fredda, in confronto di ieri, anche di là dall’Alpi; ma questo non toglie che in Austria, in Germania, in Inghilterra, dove Meredith è morto ieri e Kipling è vivo, e nella Francia — che non è solo di Bergson e di Barrès e di Sorel e di Claudel e di Jammes, ma anche di Paul Fort e di Suarès e dei Tharaud e di Rolland, e non solo dei nuovi, ma anche dei vecchi, degli accademici degli arrivati, che non son finiti nè morti, — non ci sia tanto di vita e di ricchezza e di novità o almeno di maturità letteraria, da bastare alla gioia e all’ammirazione e all’educazione non di una, ma di dieci generazioni dei nostri letterati. E vien fatto di preferire i nostri predecessori, che copiavano, a questi d’oggi che non copiano perchè non sentono e non capiscono niente; che [p. 266 modifica]sono italiani, molto spesso, perchè non arrivano a esser francesi. Debolezza e non forza. Come verso le nostre cose di ieri, verso tutti i maestri e gli esempi che abbiamo creduto di metter da parte.

Che cos’è, per fermarsi a un punto solo, che l’Italia d’oggi ha superato nel Carducci? Non lui veramente; ma piuttosto il carduccianesimo, parte più esteriore e limitata e caduca della sua forte natura, la sola che questa nostra educazione meschina potesse intendere, imitando prima e fuggendo poi.

E quello che avevamo raccolto da lui che ci ha stancato e ci pare tramontato oggi: quello che alla nostra lettura volgare e alla nostra critica da dilettanti era sembrato essenziale in lui, la retorica sincera ma superficiale di certe ispirazioni, l’angustia di certi pregiudizi fastosi, la fattura sommaria di certi versi solenni, gli schemi oratorii della critica, i latinismi e le inversioni e il paludamento dello stile, e quel non so che di libresco e di pomposo della sua storia, della sua romanità, della sua civiltà — che erano per noi tutto il Carducci.

Non avevamo capito o imparato da lui altro che la severità della prosa — che del resto è rimasta pur con l’impronta dannunziana successiva — e l’apparato storico e retorico, che ci serve ancora per le occasioni grandi, ma che si è frustrato nell’arte e nell’uso quotidiano, e dà buon gioco alla critica, alla noia.

Ma il Carducci è così lontano da costoro! Egli vive nell’animo di chiunque può aprire il suo libro e conversare schiettamente con lui; con le qualità vergini e libere della sua natura, che paion più forti a chi ne sa intendere l’accento puro in [p. 267 modifica]mezzo alla fatica di una disciplina volontaria e forzata, inutile qualche volta e commovente nel suo errore.

La invenzione lirica, che fa eternamente verde la sua prosa e fresco e sonante il suo verso; la toscanità maschia, il realismo, la forza fantastica e lieta del gran novellatore, che rimase chiuso in una scuola; e poi l’energia, creatrice di fede, la lezione quotidiana semplice e santa del lavoro, della precisione, del gusto, dello scrupolo, della religione che arrivava fino all’umiltà e alla disperazione dell’arte; la personalità, insomma, che par così contradittoria ed è così salda, del poeta e del letterato, è sempre viva e più dritta che mai. Nè vien meno la sua scuola: chiunque è di razza buona, è dei suoi, anche se lo legga e lo ami senza far vedere. Un accento solo che risuoni dal silenzio del suo studio e delle carte lievemente rimosse («Chi è che lava i candidi cavalli Là da la fonte?») empie l’aria di maschia dolcezza e di luce. E fin che ci sian dei giovani capaci di godere e di soffrire per la poesia, disposti a lottare, a faticare, a odiare se stessi e amare gli altri, a perdersi per ritrovarsi alla fine, su un povero tavolino di legno, il Carducci sarà sempre il miglior manuale di imitazione e di formazione spirituale, la più bella e schietta e benefica storia della letteratura italiana, fatta persona e forza morale.

Così come il Pascoli sarà sempre la più profonda e la più nuova poesia del nostro tempo: l’unico che l’Italia possa mettere accanto ai Verlaine e ai Rimbaud e ai Kipling delle altre nazioni, agli inventori e ai creatori di canti.

Egli è la musica delle nostre sensazioni, la dolcezza del nostro cuore fanciullo, pieno di [p. 268 modifica]brividi, gonfio di sospiri e di silenzio, fatto solo nel solitario universo.

Chi ha detto che sentiamo noia di lui?

È finita la sua maniera; la stilizzazione artificiosa delle sue debolezze, tutta la declamazione tormentata e la illusione inquieta che l’Italia aveva secondato domandato e da ultimo quasi imposto al vecchio uomo stanco, lacrimoso, e smarrito come un bambino. Quel che è superato è l’elemento caduco della sua opera, la parte materiale e ambiziosa, che egli aveva preso dal suo tempo e il suo tempo aveva applaudito e imitato in lui, la sua filosofia e la sua estetica, la poesia ridotta a un’arte di felicità e di conciliazione universale, il sacerdozio moderno del poeta, con il nazionalismo umanitario, gli idilli eroici, il saluto dei proletari e le benedizioni del vescovo, l’epopea delle caramelle di Torino, i sorrisi da augure verso D’Annunzio, gli inni e i vaticini, con l’orecchio morbosamente intento alle lodi o alle voci dei critici: e poi i piccoli gridi, le onomatopee, le lagrimette, le false ingenuità e sopra tutto gli episodi personali, le civetterie della tristezza e della modestia, il cagnolino, il risotto, il vaso di garofani, la finestrina, la cameretta e via via: quello che per il pubblico e per la critica italiana costituiva la fisonomia del Pascoli.

È superato anche, o almeno inesso da parte, se volete, quell’altro Pascoli, di misteri, di idee, di astrazioni, di problemi oscuri e oziosi, che una certa critica s’era fabbricato.

E rimane la poesia. La qualità pura, l’accento unico di quel canto, che è incanto nel cuore; tale, che le contraddizioni e le rotture e i difetti tornano sempre a un principio musicale, che non somiglia a nessuno. [p. 269 modifica]

È la poesia nostra: non potevamo essere giusti con essa. C’era troppo di comune fra l’ebbrezza e l’inquietudine della nostra adolescenza e la sua indifesa nuda voluttà. C’è negli uomini un bisogno di esser crudeli con sè stessi, di ritrovarsi frugando e tormentando nelle cose più care e vicine. Il Pascoli è stato odiato da molti, per un istinto oscuro di conoscenza e di libertà; è stato odiato come si odiano solo le cose e le persone che amammo. E dopo la liberazione, torna la tenerezza, come la rugiada dal cielo gelato e deserto.

Ma è inutile parlare di queste cose, che ognuno, che abbia un poco di educazione e di gentilezza, sente da solo; e non ama che gli sien ripetute.

Quel che abbiamo detto del Carducci e di Pascoli, potremmo dire, con misura, degli altri morti, e dei dimenticati, e dei superati; di un Verga, poniamo, che nessuno osa disprezzare, ma che nessuno più cerca — perchè la sua arte e la sua forza schietta non hanno niente di comune con la nostra accidia; e certe parti della sua tecnica le adoperiamo ancora, ma senza sentirne il valore, come cosa banale — o di D’Annunzio e di Croce, in cui di finito e superato non c’è altro che la stilizzazione meccanica, fatta dagli imitatori senza intelligenza, delle loro qualità meno intime: lo pseudo-Croce e lo pseudo-D’Annunzio che hanno trionfato per venti o dieci anni nell’arte e nella cultura italiana.

E come gli abbandoni e le dimenticanze, così sono le risurrezioni e i ritorni.

Che cos’è per esempio il ritorno di Oriani — unica eccezione che notammo nella cosidetta liquidazione dei valori letterari di ieri: naturale [p. 270 modifica]del resto, in quanto il cadere di quelli che erano in alto può portare automaticamente il rialzo di colui che era stato con qualche ingiustizia trascurato?

Ma anche questo ritorno, di cui andiamo orgogliosi; (poichè l’opera di giustizia e d’intelligenza, promossa dai fedeli, e raccolta e allargata dalla critica, ha avuto subito consenziente, con segno di maturità e prontezza di gusto, anche il pubblico; e le opere di Oriani si ristampano e si vendono e si leggono); è troppo più una dimostrazione di insufficienza e di volgarità, che un effetto di curiosità intelligente e di interesse serio.

Oriani è tornato di moda per certe coincidenze del tutto superficiali della sua opera coi gusti e col tornaconto del momento: ma quel che si ammira e si apprezza e si fa vista di cercare in lui, è la parte più infelice, più esterna e più debole della sua personalità un po’ confusa; è un idealismo tutto quanto di terza mano e d’enfasi e di posa, o se volete di antitesi; è una religiosità teatrale e declamatoria, effetto di stile e non di coscienza, come le bestemmie e gli sputi sul viso a Cristo nella gioventù; è un nazionalismo o sia un africanismo venuto fuori come una chiusura d’articolo di giornalista, colore retorico piuttosto che idea politica; è una politica e una storia e un pensiero, accettato grossolanamente nelle sue ambizioni e nelle sue ingenuità, senza sospetto della inconsistenza e incongruenza di materia, povertà e contraddizione di principii logici, che ne sono il vizio fondamentale, e senza senso altresì delle qualità di stile, di passione, di mordacità, di acutezza psicologica e di tormento morale, che son la forza di Oriani, anche in mezzo agli errori e alle cattività. Ma questa forza, che [p. 271 modifica]è grande nello scrittore, amaramente duramente umana e quasi pura nel romanziere, lirica a tratti e commovente come il pianto di uno strumento ingrato nelle confessioni e nelle malinconie dell’uomo, sfugge quasi del tutto alla nostra lettura pretensiosa; così come sfugge il dramma intimo, quella mescolanza di bassezze e di purità, di debolezza morale e di potenza d’ingegno, di solitudine e di tumulto, di stanchezza accorata e di ostinazione temeraria, quella dialettica di passioni e di momenti contraddittori, che fa della vita di Oriani il più vario e il più ricco dei suoi romanzi. Ma noi diciamo che Oriani è un grande storico, un gran pensatore; per poco non arriviamo al martire e al profeta: quel che interessa, così ai lettori come ai critici, è il valore generico, il nome, l’inquadratura, le formule astratte, che poi, bene o male si adattano sempre: alla personalità, alla luce esatta, all’impressione sincera dei particolari, nessuno ci bada.2

Poichè questo è in fine il nostro carattere più vero, nella cultura, come nell’arte: la banalità, l’imprecisione; la grossolanità delle disposizioni generiche senza la vita e il rilievo dei particolari. È una specie di divulgazione, di livellamento democratico: che del resto è comune anche alla cosidetta aristocrazia, all’idealismo, al tradizionalismo, al classicismo: anzi! E forse la espressione più schietta di questa qualità del momento è proprio codesto classicismo, tutto d’apparato e [p. 272 modifica]d’ostentazione, o al massimo di curiosità: che unisce la gente più diversa come una moda che tutti possono seguire, poichè non tocca la forma degli spiriti.

È uno degli obblighi di questa cultura che procede per categorie; stabilisce così in grosso degli argomenti, delle cose che bisogna conoscere, dei libri che bisogna aver letto, e di cui il titolo e qualche memoria è necessaria alla conversazione mondana.

Non c’è nessuna religione letteraria in questa curiosità senza discernimento; c’è, al più, un poco di superstizione, la superstizione enciclopedica del conoscer tutto, del valore assoluto e necessario che assumono ugualmente tutte le opere di tutti i popoli e di tutti i generi, pur che sian riconosciute dalla storia, ufficiale o eretica; aggiungete che alla superstizione si mescola, in modo che può riuscir comico, un istinto di iconoclastia, un desiderio vago e intenso di portare in mezzo a noi, come roba attuale e comune, questi idoli consacrati, di abbassarli alla nostra portata, di ridurli tutti alla misura del nostro interesse, cambiando e rinnovando i valori, sostituendo alla venerazione dei nomi l’interesse delle cose.

In questa materialità delle «cose» non ci son più differenze di tempo o di razza o di genio: un classicismo eclettico comprende l’antichità e la modernità, i greci del V secolo e i tedeschi del XIX, i capolavori tradizionali e le curiosità dell’erudizione, gli originali e le traduzioni, buone o cattive: perchè ciò che importa non è la lettera, cioè la fisonomia particolare dell’opera, con le sue sfumature, le sue affinità spirituali, la sua espressione diretta e la sua conversazione intima, ma [p. 273 modifica]quel che noi chiamiamo lo spirito, cioè il contenuto, la banalità, quel che si può ridurre in formule e in aneddoti, quel che si può mostrare agli altri come una decorazione sul petto della giacca.

Non si tratta insomma di uno di quei movimenti letterari, che diventano fede e forma degli ingegni, principio di distinzione fra le famiglie spirituali naturalmente diverse. Questo è un vestito che possono indossar tutti, gli eruditi di mestiere e i dilettanti, la serietà un po’ arida di Croce e l’incompetenza rugiadosa e boriosa di Luzzatti, i giornalisti che hanno riimparato il latino e il greco sul Larousse, gli enfants terribles della modernità autodidatta, uso Papini, che voglion mostrare che anche questo territorio l’han corso e lo posson tenere magari meglio degli altri (ed è quasi vero), e i tradizionalisti che trovano di buon gusto tornare al catolicismo, in cui non credono, e all’italiano, che non sanno, e via via i politicanti, le attrici, e infine i professori veri e propri, i tecnici, i divulgatori, la gente capace di consumar la sua vita con Platone e con Virgilio, conservando la mente e il linguaggio del viaggiatore di commercio, che cerca di far concorrenza agli altri articoli «di ultima novità»: i traduttori e i commentatori, che leggono Sofocle e Aristofane, Lucrezio e Shakespeare nell’originale, ma non arrivano a parlarne se non attraverso le fantasie di Nietzsche o le trasposizioni di Pater o il bello stile di Gomperz, senza mutare in quella consuetudine una piega sola della pedanteria scolastica o del ciarlatanismo giornalistico.

Avevamo già detto, ripetendo un luogo comune, che si tratta di cultura e non di stile: a pensarci bene, in queste parole c’è tutta una definizione, che non desidera più chiose. [p. 274 modifica]

Essa dice la moralità di questo momento; a cui difficilmente si potrebbe trovare un paragone così per l’ambizione delle apparenze e per la benignità delle circostanze, come per la povertà intima dell’animo e dell’arte.

Forse non abbiamo ancor quasi sotto gli occhi l’episodio rivelatore, che raccoglie in un punto solo tutti i caratteri e le contraddizioni di questo stato di cose; la letteratura della guerra?

Un fatto d’importanza politica, nazionale ed europea, come forse non c’era stato da quarant’anni; una commozione degli animi e un cambiamento nella coscienza, una prova improvvisa e intera di tutti i nostri mezzi, dall’esercito alla stampa, dalla bravura semplice degli individui alla serietà e alla disciplina della nazione, con tutti i contrasti dell’umanità e del patriottismo, dell’interesse e dell’entusiasmo, della retorica e della verità, in tutti i campi, una esperienza critica in somma che ha assaggiato e scoperto e rimosso tutto in Italia, uomini e cose, bene e male: questo è quello che ci sta sopra, fra il 1911 e il 1913.

E che cosa se ne ritrova nella letteratura? Ahimè, li sappiamo troppo bene tutti i clichés dei corrispondenti viaggianti, diventati l’ideale e il modello di tutta la prosa e di tutta la poesia che si stampava in Italia: una vernice unica e uguale, lucida, piatta, grave, distesa su tutte le cose, una vernice di enfasi e di convenzione, di entusiasmo spropositato e di vanità monotona, di falsità letteraria e morale, di speculazione meschina, che metteva le novelle e le canzoni e perfino i libri di storia antica o di filosofia al livello, anzi al di sotto del cognac Tripoli e del lucido da scarpe Bengasi. E in tutto questo torrente di eloquenza [p. 275 modifica]e di epica, di storia e di lirica, in questo flutto immenso di commozione obbligata e di grandiosità stilizzata, non un’opera, un episodio, una pagina che si stacchi e ci richiami indietro: se togliete i documenti ufficiali, le relazioni di qualche commissione, e le lettere dei soldati e degli ufficiali — quando non facevano della letteratura — tutto il resto è confuso nella stessa oscurità opaca.

Ma basti di ciò, che infine esce dal nostro campo. Tutti questi caratteri generali, che abbiamo descritto molto sommariamente, riguardano più la moralità e il costume che non la letteratura.

Nella letteratura importa l’ingegno degli scrittori e la qualità delle opere. Vediamo dunque.

Note

  1. Di tanto in tanto ne vien fuori qualche caso; con rispettivo seguito di sottoscrizioni sui quotidiani e appello al buon cuore letterario della nazione. Ma soltanto il modo come gli appelli son fatti, e i frutti che portano, sono un segno dei tempi cambiati. E lasciamo stare se ci sia un po’ d’equivoco nelle motivazioni, in cui, invece di rispetto cresciuto per l’arte e per l’ingegno, si può trovar facilmente un difetto molto moderno di intelligenza e di delicatezza.
  2. Si potrebbe ricordare anche Dossi; al quale pure è stata resa una giustizia postuma, assai grossolana e spropositata: e più, perchè il suo disuguale valore è affatto artistico, senza le parti drammatiche e morali, che, bene o male, fanno accessibile Oriani.