Memorie inutili/Parte prima/Capitolo XXXIII
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CAPITOLO XXXIII
Necessaria informazione e necessario preambolo sull’origine e sul progresso
delle scaramuccie letterarie. Accademia granellesca.
Benché nella storia sincera dell’origine delle mie dieci fiabe sceniche, posta nel principio del primo volume de’ miei capricci teatrali usciti dalle stampe l’anno 1772, ci sia quanto basta per far sapere l’epoche e le cagioni delle nostre inutili controversie letterarie e quelle delle mie bizzarre rappresentazioni, credo di dover rammemorare alcune cose sopra a quelle, avendo esse molta relazione sopra alle mie vicende di venticinque e piú anni e colle Memorie della mia vita.
I gradini che mi condussero ad esporre delle poetiche bizzarrie in sul teatro; bizzarrie ch’io non ebbi giammai la folle ambizione d’apprezzare o di pretendere che fossero apprezzate piú di ciò che vagliono; che non ebbero, non hanno e non avranno giammai nimici i veri letterati; ch’ebbero, ch’hanno ed avranno sempre amiche le popolazioni intere; che fecero, fanno e faranno ognora arrabbiare alcuni credentisi letterati, sono i seguenti.
Ebbi la debolezza di guardare con qualche risentimento il precipizio in cui cadeva la nostra colta poesia italiana, fondata co’ suoi primi semi nel secolo milledugento; rinforzata nel milletrecento; indebolita alquanto nel millequattrocento; rinverdita e consolidata nel millecinquecento da tanti illustri scrittori; guasta nel milleseicento; riscossa nel finire di quel secolo e nel principio del nostro millesettecento sino verso la metá, e brutalmente poscia capivolta e corrotta da alcuni arditi fanatici dell’etá nostra, i quali, coll’ambizioso desiderio d’essere considerati originali scrittori, predicando per freddi e puerili tutti i benemeriti nostri padri fondatori e sostenitori, scossero la gioventú da’ colti veri metodi e dalla pregevole semplicitá, animandola a calpestare tutto ciò che ne’ scorsi secoli fu venerato come l’angelo guida di Tobia, e a scagliarsi colla mente famelica e divoratrice nell’abisso degli enti che non esistono, fecero vaneggiare e divenire energumeni un’infinitá d’intelletti attissimi per se medesimi a riuscire valenti con piú sani principi.
Ebbi l’altra debolezza di guardare con qualche risentimento la decadenza e il possesso che prendeva l’ignoranza sulla puritá della nostra favella italiana, ch’io giudicava facoltá principale, anzi pure indispensabile allo scrivere con armonica decenza litterale, a sviluppare con felicitá e a dare i veri lumi e le vere tinte a’ sentimenti nell’opere specialmente di spirito del nostro idioma.
Ebbi la terza debolezza di vedere, con qualche risentimento, estinguersi la varietá dello stile con cui si trattavano per letterario dovere le varie materie sublimi, famigliari e facete, tanto nella prosa quanto ne’ versi, e ridursi ad un solo mostruoso, quando rigonfio, quando goffo stile, tutto ciò che si andava scrivendo e stampando, dal tema piú considerabile sino al tema del viglietto giornaliere all’innamorata.
Non si creda però giammai che il mio risentimento sopra a quelle ch’io giudicava sciagure letterarie del nostro secolo, mi facesse uscire dal mio istinto risibile. Quanto scrissi scherzevolmente e quanto feci uscire dalle stampe in difesa de’ nostri maestri, del colto scrivere e della puritá della nostra favella contro agli audaci corruttori degl’ingegni dell’Italia, fa chiara e legittima fede d’un zelo gioviale e niente riscaldato.
Scevro finalmente affatto del sopraddetto risentimento, devo confessare che tutti i miei panegirici al vero, uniti a quelli di parecchi altri zelanti, le mie sferzate al falso e quelle di parecchi altri, non poterono por argine alle stravaganze, alle infiammazioni de’ cerebri, alle bestialitá fumanti credute filosofiche riforme, e che quanto al fatto della puritá litterale della nostra italiana favella, essendo sparsa sull’immensitá de’ cervelli la semina degli impostori, la quale fece credere agevolmente e quasi universalmente che il cercar di conoscerla sia un perditempo e una stitica imbecillitá, e che il non sudare ad apprenderla sia una libera virtú, devo confessare, mal mio grado, che la infermitá non ha piú rimedio e che convien commettere la guarigione agli effetti del girare de’ tempi, i quali conducono nell’opinione degli uomini con de’ mezzi sconosciuti gli andazzi, e fanno accarezzare ora il falso ora il vero ad onta di qualche umano contrasto.
Correva circa l’anno 1740, quando fu istituita dal capriccio e dal caso un’accademia in Venezia di gente allegra, versata nello studio delle belle lettere, amantissima della coltura, della semplicitá e del vero; la quale, seguendo l'orme de’ Chiabrera, de’ Redi, de’ Zeni, de’ Manfredi, de’ Lazarini, e di tanti altri benemeriti ristauratori e guaritori della enfatica, metaforica, figurata pestilenza introdotta nelle fantasie da’ secentisti, sosteneva e faceva germogliare nelle menti della gioventú l’idea dell’ottimo e l’emulazione.
La scoperta fatta da questa allegra e dotta brigatella d’un scimunito appellato Giuseppe Secchellari, il quale, ingannato dall'amor proprio e da’ circuitori burloni in traccia di divertirsi, si considerava profondo scientifico, e che empieva de’ fogli di marroni e di scempiaggini da non potere udire senza ridere sgangheratamente alla lettura, la fece determinare a eleggere principe della accademia istituita quel nuovo pesce, forse per dinotare mansuetudine letteraria.
Fu eletto tra le risa con tutti i voti, gli fu posto il nome d’arcigranellone e gli fu dato il titolo di principe dell’accademia granellesca, co’ quali titoli furono sempre chiamati il principe e l’accademia.
Seguí la solenne incoronazione di quel raro imbecille con una ghirlanda di susine, nel mezzo all’accademia radunata, e il piú bello della comica scena fu il vederlo andar superbo dell’onore di cui la brigata lo fregiava e il suo ringraziare gli accademici di forse trenta tra composizioni poetiche e cicalate a lui dirette, le quali non erano che sali ironici burleschi, schernitori un tanto principe, e ch’egli ingoiava per elogi ed esaltazioni.
Un antico seggiolone altissimo, prima di sedere sul quale quel principe, di statura nano, doveva tirare due o tre salti, era la catedra del sovrano dell’accademia, ed egli siedeva sopra quella pavoneggiandosi, perocché aveva bevuto ch’era il sedile di Pietro Bembo cardinale, celeberrimo scrittore. Un gufo con due genitali nel destro artiglio gli stava sopra ed era da lui venerato per lo stemma dell’accademia; da quell’altezza si traeva dal seno un fascio di fogli e recitava al congresso con una vociuzza falsa alcune sue spropositate fanfaluche, ch’egli chiamava dissertazioni, alle dieci righe delle quali era interrotto dal picchiare delle mani e dagli applausi degli accademici, che non ne volevano piú, ed egli superbo e persuaso di que’ plausi porgeva con maestá i suoi scartafacci al secretario della brigata, da conservare negli atti dell’accademia.
Quando la detta accademia si radunava nel bollore della state, si portavano all’assemblea de’ vassoi con sorbetti agghiacciati, ma al principe, per segnale di distinzione, si recava un gran peccherone di tè bollente sur una coppa d’argento. Se si radunava nel crudo verno, era ad ognuno del circolo dispiensato caffè, ma al principe, per segnale di distinzione, si porgeva acqua gelata freddissima. Quel venerabile arcigranellone, borioso d’essere onorato e distinto dagli altri, tracannava l’uno e l’altro calice, liquefacendosi in un sudore e tremando e abbrividendo di freddo.
Non sono annoverabili tutte le burle, e sempre nuove, dirette ad un cosí fatto principe, dalla di lui stolta ambizione ricevute per onori, le quali formavano, ogni volta che l’accademia si univa, una farsa comica antidoto alla malenconia. E perché non confessava giammai di non sapere tutto ciò che alcuno degli accademici gli chiedeva se sapesse, egli era obbligato talora a rimare alla sprovveduta, talora a cantare un’arietta in musica e persino a battersi talora nel mezzo all’accademia, spogliato in camicia, con un mastro di spada che lo fulminava di frugoni col fioretto e lo faceva girare per lo spazzo come una trattola. Tutto imprendeva con la franchezza di quell’arcigranellone ch’era, trionfante ognora tra le risa e i plausi che l’assordavano.
Un tal novello Calandrino, di cui io do soltanto un’idea in abbozzo, non era però che un zimbello di richiamo alla gioventú, sempre inclinata alla giovialitá piú che alla grave e rigida pedanteria, ond’ella venisse ad arrolarsi volentieri sotto il vessillo del gufo de’ due testicoli nel destro artiglio.
Ogni volta che l’accademia si radunava, il principe, col suo contegno sostenuto, colle sue strane dissertazioni, co’ suoi scorci arlecchineschi, colle sue non mai prevedute risposte alle interrogazioni che se gli facevano e con mille stoltezze ridicole, serviva d’introduzione e d’una breve ricreazione a’ sozi, i quali poscia, lasciando duro l’arcigranellone nella sua catedra di Pietro Bembo come ascoltatore e giudice delle cose, traevano da’ portafogli le loro composizioni in verso ed in prosa, serie e facete, sopra a’ vari temi dispensati o scelti dalle volontá, giudiziose, ragionate, leggiadre nelle frasi, armoniche nella eleganza, differenti nello stile e purgatissime sul fatto della lingua. Seguiva un’amena lettura che ricreava gli astanti per ben due ore. Ogni lettore, terminata di leggere l’opera sua, si volgeva all’arcigranellone, i di cui pareri bistorti e le di cui ragioni d’approvazione rinnovellavano l’allegro schiamazzo e le risa.
Quella serio-faceta accademia, l’istituto e la massima della quale era il tener fermo lo studio in sugli antichi maestri, ferma la semplicitá e l’armonia seduttrice dell’eloquenza sensata, e ferma scrupolosamente la puritá del nostro litterale linguaggio, aveva un grandissimo concorso di gioventú in emulazione, e non giugnevano a Venezia dotti forestieri che non cercassero d’essere in essa introdotti e non approvassero e non applaudissero la facezia che serviva d’allettamento e d’attrazione, il sapore, la eleganza, la cribrata nitidezza, le frasi e i termini scelti e propri alle composizioni che in essa udivano.
È superfluo ch’io registri il catalogo intero de’ nomi degl’infiniti sozi granelleschi; tuttavia noterò que’ pochi rimastimi nella memoria, e sono: i due fratelli Giuseppe e Daniele Farsetti, Sebastiano Grotta, Paolo Balbi, Nicolò Tron, tutti patrizi veneti eruditi ed amanti del purgato scrivere; l’abate Natale dalle Laste; il canonico... Rossi; l’abate Leonardo Marcellotto; l’abate Bartolomeo Piantoni; l’abate Carlo Testa; l’abate Giuseppe Cherubini; l’abate Giovan Antonio Deluca; l’abate... Belli; l’abate Francesco Pasinetti; l’abate Adamante Martinelli; l’abate Matteo Fieco; l’abate Giuseppe Manzoni; il signor Pietro Fabris; il signor Giorgio Brucner; i signori Giovanni, Giorgio e Sebastiano fratelli Marsili; il signor conte Guglielmo Camposampiero; il signor Marco Forcellini; il signor Sebastiano Muletti; Gasparo e Carlo fratelli Gozzi.
Potrei notare forse altri trenta e piú nomi, se mi risovvenissero. E perché i piú allegri di quel drappello amavano di far galeggiare di boria, per spassare tutti gli altri, l’arcigranellone, tingevano talora delle lettere dirette a quello, nelle quali de’ gran personaggi, mossi dalla rinomanza della di lui scienza, della di lui saggia reggenza, del di lui sublime principato, lo supplicavano a degnarsi di registrarli nel catalogo de’ suoi fortunati sudditi accademici; si troverebbero in quello registrati Federico secondo re di Prussia, il Gran Sultano, il Sofí di Persia, il Preteianni ed altri gran nomi consimili. Tutti i sozi avevano il loro nome accademico pronunziato dalla magnificaggine del principe, e mi ricordo soltanto ch’io fui nominato «il Solitario».
Da quella alleanza di spiriti assoggettati volontariamente co’ scritti loro all’esame d’una austera critica ed alla lima de’ piú esperti e maturi, uscivano giudiziose e leggiadre composizioni poetiche in ogni metro, le piú ricercate per le raccolte in costume e le piú accette e considerate dal pubblico; uscivano poemetti e poemi seri e giocosi ricercatissimi, uscivano le urbane satire morali piene di veritá, di precisione, di vivi ritratti, di sali, di stile famigliare bernesco, di stile oraziano robusto e vibrato; uscivano le orazioni piú eleganti, piú sublimi, piú geometriche, piú rettoriche, niente ampollose, per i solenni innalzamenti a doge, a proccuratore di San Marco, a gran cancelliere; uscivano le convincenti difese de’ nostri maestri scrittori antichi, e particolarmente del nostro Dante immortale; uscivano le lezioni fatte sopra a’ canti di quel vasto intelletto, che meritamente per cinque secoli s’è conservato e si conserverá per tutti i secoli venturi il soprannome di «divino», a dispetto degli impostori i quali cercarono d’annichilarlo; uscivano novelle facete comiche e nello stile e nella lingua purgatissime; uscivano modelli di lettere famigliari naturali ed ameni; uscivano motti volumi delle Congreghe de’ Pellegrini, de’ Mondi morali, degli Osservatori; uscivano elette poesie e prose latine; uscivano traduzioni de’ libri dell’estere brave nazioni, che (serbato il fondo loro) apparivano trasformatissime nel linguaggio, nelle frasi e nello stile, e con tutti i colori e la coltura del nostro idioma. Dovrò cercare testimonianze delle cose pubbliche?
Potrò agevolmente essere accusato dagl’innovatori ch’io cerchi di dar corpo a delle frivolezze. Ciò sará picciola sciagura per me, ed è ben sciagura maggiore per tutti gli altri quella del lasciarsi sedurre a credere che l’opere degl’innovatori contengano altro che frivolezze, e frivolezze strane, mal pensate, snaturate e scritte mostruosamente.
Chi averebbe immaginato che un vocabolo ridotto a un’essenza contraria al di lui vero significato, vocabolo omai reso comune persino in sulla lingua delle femmine e de’ ragazzi ad ogni proposito che loro non accomoda, dovesse rovesciare a’ tempi nostri tutte le regole fissate dalle lunghe osservazioni de’ saggi e dall’esperienza? Questo vocabolo è la ignuda parola: «pregiudizio».
Ho detto che questo vocabolo fu ridotto ad un’essenza opposta al di lui vero significato, perocché, secondo i principi miei, i quali non andranno esenti dalla vergogna d’esser chiamati «pregiudizio» dagl’innovatori, ho dovuto sempre credere con fermezza, che a ciò che non nuoce, anzi giova ed è necessario all’intera umanitá, non si possa dare il titolo di «pregiudizio»; ed è facile il dar la prova alla mia proposizione.
Dovei credere e credo ancora necessari e giovevoli alla societá ed a’ popoli i fondamenti dell’augusta religione e gli accessòri che la facevano venerare e risplendere: ma gl’innovatori filosofi chiamarono tutto ciò col vocabolo di «pregiudizio» delle menti ingannate, intimorite, lusingate, abbagliate e sedotte; e l’augusta religione, argine salutare allo sfogo di tutte quelle passioni alle quali l’umanitá è inclinata, languí facilmente intiepidita, derisa ed inoperosa.
Dovei sempre credere, e credo ancora giovevoli alla societá ed a’ popoli, i patiboli che puniscano i scellerati per dare un esempio di terrore e di renitenza a’ delitti, onde rimanesse al possibile illesa la comune salvezza; ma gl’innovatori filosofi gli chiamarono col vocabolo di «pregiudizio» tirannico, animarono la iniquitá e si moltiplicarono in venti doppi gli assassini alle strade, i ladri domestici, i sacrileghi e i notturni trucidatori.
Dovei sempre credere, e credo ancora giovevoli alla societá ed a’ popoli, l’eroismo, la probitá, la buona fede e l’equitá; ma i filosofi spregiudicatri, i quali attribuiscono la felicitá nel godere e nel possedere comunque sia, chiamarono gli accennati attributi «pregiudizi» romanzeschi; fu corrotta e venduta la giustizia con una franca impudenza, trionfò il raggiro, l’inganno, il tradimento, e pianse a lagrime di sangue oppressa e sopraffatta a torto una infinitá d’innocenti ingenui, poveri di spirito e poverelli di borsa.
Fu dipinto da «pregiudizio» muffato e barbaro il tenere astrette le femmine nelle case loro alla vigilanza sopra a’ figli, alle figlie, a’ servi, a’ lavori domestici, all’economia famigliare, e le femmine sbucarono tosto da’ loro alberghi, sfrenate come le antiche baccanti, e gridando: — Libertá, libertá! — imbrogliarono tutte le strade, scordarono figli, figlie, servi, lavori ed economia, e colla testa fumante, unicamente occupata nelle mode, nelle emulatrici frivole invenzioni, nel profondere per l’appariscenza, ne’ spassi, ne’ giuochi, negli amori, nel civettare, abbandonate a’ loro capricci, fomentati da’ lor consiglieri filosofi. I mariti non ebbero piú coraggio d’opporsi alla desolazione del loro onore, delle loro sostanze, delle loro famiglie, del mal esempio alla figliolanza, per timore d’esser macchiati dal vocabolo «pregiudizio».
Fu dato il nome di «pregiudizio» alla legge che minaccia la pena di morte alle infanticida, e la morigeratezza, il pudore e la castitá furono chiamati «pregiudizi» cagionati da’ spaventacchi de’ Leviti e da un’imbecille educazione delle femminette superstiziose, e... Mi vergogno a dire quali sieno gli infiniti vantaggi che hanno portati nelle famiglie e sulle popolazioni queste filosofiche belle scoperte e questi «pregiudizi» calpestati e fugati.
Furono beffeggiati come ignoranti, come goffi e come infermi di «pregiudizio» que’ pochi che esclamarono e risero sulle fantasticherie innumerabili delle mode caduche quasi ogni giorno, e furono giudicati stupidi, grossolani, spogli di buon gusto, di raffinatezza, di conoscimento, di penetrazione e di delicatezza nella mente e ne’ sensi. Tutte le donne e tutti gli uomini divennero tosto visionari sensatissimi. Si piccarono nel discernere e nell’inventare, e videro e trovarono infinite armonie e infinite discordanze immaginarie; infiniti agi, infiniti disagi, infiniti sapori immaginari e infinite insipidezze e depravazioni immaginarie nelle suppellettili, ne’ vestiti, ne’ colori, negli addobbi, nelle cucine, ne’ cibi, ne’ vini, nelle mense; si videro in tutti gli oggetti muti e insensati l’«eleganza» e l’«ineleganza», e sino gli orinali ed i canterelli furono degni d’essere qualificati coll’epiteto d’«eleganti». Ciò sia detto per la veritá e con quella sopportazione ch’oggi richiede il dire la veritá agl’infetti dal «pregiudizio» verace.
A tutti i sopraddetti «pregiudizi» scoperti, dileguati e atterrati da’ lumi penetrantissimi degl’innovatori, furono sostituiti i vantaggi che possono dare la irreligione, i riguardi perduti, la giustizia sovvertita, i tribunali posti in soggezione da un torrente di vizi facinorosi, i scellerati compianti ed incoraggiti, le immaginazioni riscaldate, i sensi aguzzati, il lussureggiare, lo sfogo di tutte le passioni, il lusso dominatore per una falsa necessitá infantata dalle fantasie sovvertite, le di cui conseguenze sono i violenti interminabili desidèri non bilanziati colla possibilitá, gl’inganni, i raggiri, le oppressioni, le mancanze della parola e della buona fede, le truffe, le ladrerie, i fallimenti, le angustie, gli universali turpi mercimoni della libidine, gli adultèri, i nodi maritali esacerbati e disgiunti.
Per tal modo, a forza d’usare il vocabolo «pregiudizio» verso tutto ciò che s’opponeva alle illecite voluttá, alla violenza, alle sfrenatezze, a’ garbugli, a’ sbilanci delle famiglie, a’ disordini della societá, al reale universale legittimo «pregiudizio», il genere umano s’è sommerso generalmente e volontariamente in un commiserevole «pregiudizio» che sembra irrimediabile, colla lusinga di guarire da’ «pregiudizi».
È bella cosa l’udire tutti strillare e lagnarsi degli effetti del vero «pregiudizio» in cui si sono inabissati e in cui gemono, ed è bello l’udire que’ medesimi che strillano e si lagnano della miseria che gli circonda, affettare gli atei, sostenere ostinatamente con de’ leggiadri sofismi ogni momento il vocabolo «pregiudizio» e sostenere per bene tutto ciò che cagiona quel «pregiudizio» legittimo, degli effetti del quale si lagnano, strillano e piangono.
A fronte de’ pregiudizi comuni, tanto essenziali figliuoli dell’abusata parola «pregiudizio», è cosa certamente picciola, e che non merita gran riflesso, quella cagionata nel nostro secolo dal fu padre gesuita, ora abate Saverio Bettinelli, e da alcuni altri spiriti inquieti, addottrinati abbastanza per poter danneggiare e sovvertire coll’accennato vocabolo «pregiudizio» i pacifici studi, i metodi, le scuole, il pensare, i vocabolari, il rispetto che si aveva alla puritá e al fraseggiare armonioso, alla semplicitá della nostra litterale favella e alla fissata coltura nelle belle lettere, specialmente nell’opere di spirito, e ambiziosi e arrischiati abbastanza per tentare l’incendio del tempio di Diana, per farsi ammirare come nuove stelle e orignali pensatori e scrittori.
Cotesto padre, ora abate Bettinelli, non senza ingegno, non senza facondia e non senza feconditá, ha incominciato a predicare sul pergamo del Parnaso alla gioventú, ch’era «pregiudizio» il fermarsi e l’addormentarsi a contemplare e ad imitare gli antichi nostri maestri; e deridendo Dante, Petrarca, Boccaccio e tutta la immensa schiera di quelli che ci hanno aperta, indi consolidata la via del bene immaginare, del ben pensare, del ben sviluppare le nostre idee co’ veri termini, con le vere frasi, le vere tinte, la vera semplicitá, e con una dicitura armoniosa e felice, sparse i semi del vero «pregiudizio» della poltroneria sopra a questo punto, col solo zelo di rendersi particolare e osservabile, di farsi credere originale e nuova cometa nel nostro secolo.
Quasi che i nostri maestri non sieno stati filosofi, con tutta la doviziosa filosofia che trapela dall’opere loro, il Bettinelli tuonando decantò il nostro secolo solo illuminato del vero e filosofico, e usando quel medesimo vocabolo di «pregiudizio», che ha introdotta la corruttela, pregiudicato e guasto il costume morale ed economico delle famiglie e de’ popoli, beffeggiò come «pregiudicati» tutti quelli che studiavano sul vero, chiamandoli stitici parolai perduti sopra a’ scrittori agghiacciati, languidi e sterili, accordando a Dante immortale, senza intenderlo, soltanto pochi versi e poche immagini felici nel mezzo a un immenso pelago di scurrilitá e di durezze stomachevoli.
Questo preteso innovatore, che forse aveva ragione a combattere l’uso delle raccolte di poesie che si accostumano alle monacazioni, a’ nodi maritali ed alle esaltazioni de’ Grandi, per quella noia che recano cogli assedi agli scrittori, quantunque un tal uso non sia dannoso, illustri le famiglie, tenga in un esercizio filologico e in emulazione la gioventú e faccia spargere dalla mano de’ ricchi un soccorso al vitto de’ poveri artisti, fece stampare un suo poemetto intitolato Le raccolte, per estinguere l’uso di quelle e per dare un saggio della sua fantasia originale.
Sin da quel tempo, in cui io era molto giovine, la nostra faceta assemblea granellesca vide con sguardo sorridente i fenomeni strani del signor Bettinelli e si dispose ad un passatempo gioviale per rintuzzarli.
Il signor Marco Forcellini, uomo erudito, e il signor abate dottore Natale dalle Laste, uomo dottissimo ed accuratissimo, sozi della nostra accademia, presero ad esaminare il poemetto del Bettinelli, e dibucciando i di lui marroni infiniti e svelando agli occhi del pubblico che l’autore di quell’opera, il quale voleva apparire originale poeta gigante, non era che un servile plagiario dell’Ariosto e di Boelò, posero in assetto un opuscolo critico giudizioso intitolato: Parere sopra al «Poemetto delle raccolte».
Siccome parve all’accademia nostra, il di cui istituto era lo scherzare, che quel Parere tenesse aspetto di troppa serietá, fu ordinato a me di rallegrarlo con un’epistoletta d’aggiunta scherzevole. Fui obbediente agli ordini della presidenza accademica, e scrissi quell’epistola come il mio scarso ingegno me l’ha dettata, e forse troppo audace e pungente. Quel Parere e quell’Epistola d’aggiunta furono dati alle stampe.
Mio fratello Gasparo, che vide ingiustamente vilipeso Dante, quel lume risplendentissimo non offuscabile, illustratore dell’Italia, resistente nella venerazione degl’intelletti per tanti secoli e vilipeso da chi non lo intendeva o fingeva di non intenderlo per primeggiare con una infantata originalitá, scrisse un libro intitolato Difesa di Dante, e lo fece uscire dalle stampe al pubblico. Se gli intelligenti non avessero accordato che quel libro è pieno di veritá e di bellezze rintuzzanti e vittoriose sulle arroganti puerili derisioni del signor Bettinelli, non oserei di lodare un’opera d’un mio fratello. Ella è una bell’opera.
Qual pro da queste opposizioni? Tutte le novitá, sieno o non sieno novitá, basta che ne abbiano l’aspetto, hanno il vigore di sedurre e di susurrare un numero infinito d’intelletti non conoscitori del vero, suscettibili d’un romoroso fanatismo; numero che supera in seimila doppi il numero di que’ pochi i quali, fedeli alla veritá, la seguono anche in quel pozzo in cui la impostura la sommerge.
Ebbi sempre l’ardire che hanno i politici nell’innalzare la mente e nel guardare, come da un’altezza, la bassa valle dell’umanitá, ma con questa differenza: essi guardano cotesta valle come abitata da un bulicame d’insetti da poter opprimere, costringere e dirigere come ben torna loro, né si degnano poi di piú abbassarsi alla fratellanza di quest’insetti, sino che la morte non gli affratella. Io guardo la stessa valle come popolata da’ miei simili, fo le mie osservazioni, rido de’ loro scorci, de’ lor movimenti, de’ loro divincolamenti, indi m’abbasso al mio prossimo, m’associo nuovamente con lui, e assicurandolo che siamo tutti ridicoli, proccuro di farlo ridere non meno di lui che di me nelle prove della mia proposizione.
Non ha bisogno di studiare l’astronomia per sapere se vi sieno de’ pianeti dominatori dell’umano pensare.
De’ semi naturali di leggerezza, d’incostanza, di noia, di brama di novitá, de’ quali abbiamo pregni i nostri cervelli, pullulando cambiano il pensare de’ mortali, e cagionano degli andazzi che tutte le gómone di tutti gli arzanali del mondo non frenerebbero nella estensione del loro periodo. Esaurito un andazzo, i semi sopraddetti suscitano degli altri andazzi, e senza studiare i pianeti (se non corre l’andazzo di studiarli), chi ha con perseveranza studiato l’uomo ne’ secoli avrá rilevato agevolmente che una successiva catena di questi andazzi, risvegliati da semi naturali di leggerezza, d’incostanza, di noia e di brama di cose nuove, furono e saranno sempre i dominatori dell’umana balordaggine, sempre cieca e sempre presuntuosa di possedere una vista penetrantissima. I morti avranno veduto, noi vederemo, e i nostri posteri vederanno sempre delle decadenze, degl’innalzamenti, e le opinioni generali de’ popoli ne’ tempi or tra queste or tra quell’altre zampe di pochi pensatori ambiziosi pubblicatori di cose or utili or disutili, or frivole ed or perniziose.
Per le mie osservazioni, i pensatori e propagatori delle scienze, de’ sistemi, delle scoperte, che vincono di quando in quando con un’idea che somiglia a una novitá, di cagionare per alcun tempo de’ generali andazzi periodici, non devono nemmeno lusingarsi che l’esercito de’ loro seguaci, fieri in sul garrire e in sul sostenere durante il periodo di quell’andazzo, guardi con maggior fermezza e sodezza l’andazzo rispettabile da lor cagionato, dell’andazzo che risveglia l’apritura d’una magnifica nuova bottega da caffè, o quella del Blondi scientifico inventore di mode, vera fenice degli andazzi piú considerabili e piú importanti secondo l’umana fragilitá sempre farfalla.
Quanto alle belle lettere, all’eloquenza, al puro linguaggio litterale, alla metá del nostro secolo ed all’oriente del signor Bettinelli il guasto doveva succedere.
Il giardino di puritá e di semplicitá quasi ristabilito doveva essere rovesciato, sfrondato e diserto da un novello mostruoso andazzo.
La nostra faceta accademia ebbe un bel strillare ragionatamente per trincierare gli esemplari de’ buoni maestri, la coltura, i metodi, le regolaritá, la diversitá dello stile, la nitidezza, la semplicitá, la puritá della lingua. Sostenne invano che ogni colta nazione, che ha lasciata una lingua denominata «madre lingua», ebbe la sua favella litterale, la sua favella volgare e i suoi dialetti di linguaggi corrotti, e che essendosi l’Italia tutta e le estere nazioni, per apprendere la lingua italiana litterale, riportate alla fonte del vocabolario toscano stabilito dall’Accademia della Crusca di Firenze, il qual vocabolario si sarebbe anche potuto arricchire, col trascorrere de’ tempi, d’una maggior dovizia di termini scelti e approvati da’ diligenti accademici fondatori, non si dovesse scostarsi dalla favella litterale in quel dizionario compilata e consolidata.
L’andazzo nascente di corruttela doveva far considerare stitichezze da dileggiare le sode ben fondate ragioni, e incominciammo a vedere una libertá furibonda autrice di composizioni fanatiche, sforzate, oscure, ampollose; un nembo di stiracchiati sofismi, di periodi rotondi nonnulla dicenti, di leggiadri deliri d’infermi, di sentimenti rovesciati e bistorti, che si dissero usciti da’ nostri cuori e dalle nostre anime, d’un frasario e d’un linguaggio mescuglio di tutti i vernacoli, lardellato di qualche grecismo, ma sopra tutto di termini, di modi e di parole francesi, che rendono inutili oggimai le nostre grammatiche e i nostri vocabolari. Ma che per ciò? Quest’andazzo non è fuori dalla provvidenza. Egli apparecchia dell’utilitá per un tempo a de’ novelli compilatori, e tutto è bene.
Il valente poeta francese Boelò rifletteva a’ suoi giorni che il vero merito poteva da’ cavilli della romorosa maligna impostura essere per alcun tempo oscurato ed oppresso, ma ch’egli era come un legno da una mano violente tenuto a forza sott’acqua. Un giorno o l’altro (diss’egli) abbandonato da quella mano che crede d’averlo sommerso del tutto, egli risorge a galla, si fa vedere e conoscere.
Dal canto mio lascio a’ posteri la speranza di veder galleggiare nuovamente cotesto legno.
- Testi in cui è citato Gabriello Chiabrera
- Testi in cui è citato Francesco Redi
- Testi in cui è citato Apostolo Zeno
- Testi in cui è citato Eustachio Manfredi
- Testi in cui è citato Pietro Bembo
- Testi in cui è citato Dante Alighieri
- Testi in cui è citato Saverio Bettinelli
- Testi in cui è citato Francesco Petrarca
- Testi in cui è citato Giovanni Boccaccio
- Testi in cui è citato Ludovico Ariosto
- Testi in cui è citato Nicolas Boileau
- Testi SAL 100%