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Nel deserto/Parte II/Capitolo IV

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Capitolo IV

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IV.

E le parole della serva e tutti i ricordi di quegli ultimi tempi fermentarono in lei, nei seguenti giorni di solitudine e di calma, come il seme nella terra durante l’inverno. Tutto sembra [p. 183 modifica]morto e triste, tutto è grigio e l’orizzonto sembra chiuso da un velo di lutto che nulla varrà a dissipare: ma non per questo la terra cessa di palpitare, e così il cuore umano sotto la nebbia del dolore.

Un giorno il portiere le diede due lettere: una era del pittore che le faceva una proposta per lei strana, pregandola di posare per un quadro la cui ispirazione gli era venuta appunto da lei china sul braciere ardente. Ella non avrebbe perduto invano il suo tempo; anzi l’artista la pregava di fissar lei il compenso. Lia rispose di no.

L’altra lettera era del Guidi; egli le descriveva il paese, il paesaggio, si lamentava perchè non si vedevan donne a passeggio e l’unico punto di ritrovo della piccola città era un caffè frequentato solo da uomini. Lia non rispose.

Egli scrisse di nuovo, triste e sconfortato: e la vedova non si meravigliava di queste lettere che le pareva venissero dalla sua isola. Nessuno meglio di lei poteva capire la malinconia quasi morbosa a cui si lasciava andare il giovane funzionario sbalzato a un tratto dalla capitale a un luogo d’esilio.

Ma perchè egli si rivolgeva a lei per dar sfogo alla sua nostalgia? Non conosceva altri? Perchè le scriveva frasi che a lei sembravan puerili, dicendole che «il suo pensiero volava spesso a lei» che «sovente desiderava la sua compagnia» e infine pregandola di scrivergli? [p. 184 modifica]

Un giorno le mandò dei fiori secchi: un altro un pacco di mandarini. Meno male i mandarini, che riempirono di gioia i bimbi: ma i fiori, e secchi anche? Lia cominciò a considerare il Guidi sotto un nuovo aspetto: le sembrò un uomo romantico.

Ma ella viveva ancora con la memoria del suo povero Justo, e aveva sempre l’impressione ch’egli fosse ancora vivo e dovesse tornare: e più i giorni passavano più ella idealizzava la figura di lui, rimproverandosi di non averlo amato come forse meritava. Pensare ad un altro uomo le sarebbe parso tradire la memoria del morto; d’altronde la povertà e la solitudine la circondavano come di una nebbia, attraverso la quale le figure che tentavano di avvicinarsele prendevano forme paurose.

Eppure le lettere dell’assente le davano un senso di conforto; quasi di gioia. Si accorse che pensava a lui più di quanto era necessario, e la curiosità di conoscerne il passato la punse. Un giorno incontrò il pittore che le corse incontro come un bambino e l’afferrò al braccio.

— Pensavo a lei, sa: proprio in questo momento pensavo a lei!

— M’avrà visto da lontano!

— No, no; senta. Venga al mio studio, posi per me! Ho bisogno di lei venga, venga! Non le farò perdere inutilmente il tempo! Sia buona, su! Venga adesso! [p. 185 modifica]

Le parlava carezzevole, stringendole famigliarmente il braccio e trascinandola con sè.

— Venga, venga; venga adesso.

— Ma le pare? Vado a prendere i bimbi da scuola.

Egli l’accompagnò un tratto, fino a via Puglie attaccato a lei, fermandosi e facendola fermare davanti ai bel paesaggio chiuso a sinistra da un albero rossastro, con le mura in fondo, dorate dal sole, e la sagoma violetta di una chiesa sul cielo bianco e azzurro di gennaio. Davanti alle scuole il largo marciapiede chiaro era coperto di punti gialli e neri e di scintille: bucce d’arance, scorze di castagne, pennini e pezzettini di vetro: segni del passaggio d’un formidabile esercito di eroi della penna e del cestino. L’edificio bianco al sole ronzava come un’alveare.

Lia domandò timidamente:

— Sa nulla del Guidi?

Ma al pittore non importava nulla dell’amico lontano; voleva lei, e insisteva, e la fissava in viso coi grandi occhi avidi, come un amante folle di desiderio.

— Non le ha scritto? ella insistè, più ardita. — Pare non sia contento.

— Ma se è sempre stato, scontento? Ma se ha voluto andar lui, cosa sta adesso a seccare?

— È così nervoso....

— Peggio per lui. È come i bambini, lei lo sa, [p. 186 modifica]che vogliono i giocattoli por romperli.... Dunque, viene, signora Lia?

— Mi dica.... è vero.... che il Guidi è separato dalla moglie?...

— Come, non lo sa?

Ella si volse così vivamente, coi grandi occhi spalancati, che il pittore sorrise.

— Ah, già, lui non ne parla mai: ha anche questa fissazione: la vergogna del suo passato....

— Vergogna, perchè? — domandò Lia; e la sua voce tradiva già un’ansia, un dolore segreto. Capì il giovine artista e volle profittare della curiosità non del tutto innocente di lei? La lasciò e le disse:

— Bene, venga da me e le racconterò quanto so. Altrimenti nulla. Viene?

Lia non promise: ma i giorni passarono, le arrivò un’altra lettera dell’assente, e la sua curiosità si fece acuta, quasi tormentosa come un’idea fissa.

Una mattina di febbraio, dopo aver accompagnato i bambini a scuola, andò allo studio del pittore.

Il tempo era mite, primaverile. Sopra i giardini di via Boncompagni, nuvole bianche e rosee ondulavano come bandiere di velo, e su dalla Villa delle Rose, giù in fondo, saliva sul cielo azzurro, come un’immensa coda di pavone fatta di altre nuvolette d’argento, d’oro e di rosa. Lia guardò in alto e provò un senso di gioia: ah, [p. 187 modifica]il bel tempo tornava, Dio sia lodato; i bambini stavano bene, ella si sentiva agile e sana. E va, e va, in mezzo ai gruppi di donne straniere, che pareva uscissero da un giardino, cariche di grandi mazzi di giacinti e di fiori di mandorlo. Anche lei si sentiva un po’ straniera: e se il suo modesto tailleur pareva, per l’eleganza naturale della sua persona, un vestito da inglese, il suo cappello ricordava quelli delle impavide tedesche: ma il suo viso pallido, i suoi capelli e i suoi occhi pieni di luce tradivano la sua origine, e che erano belli glielo disse sottovoce un vecchio signore in soprabito con collo di pelo, che nonostante l’ora mattutina doveva aver ben poco da fare perchè le propose anche di accompagnarla.

Ella affrettò il passo, rapida e svelta come una scolaretta a cui la mamma ha raccomandato di non fermarsi per strada. Nè le vetrine, davanti alle quali le pareva sempre di riveder lo zio Asquer, nè i bei cappelli, i bei vestiti, i merletti, i fiori, attiravano più i suoi sguardi: ella aveva talvolta l’impressione di vivere al di sopra dei livello della città, o almeno al di sopra di tutte le cose inutili e belle che par ne formino la base, poichè riempiono quasi tutti i piani terreni delle case.

Arrivata in via Margutta cominciò a cercare il numero dello studio del pittore. Il lastrico bagnato scintillava, come riflettendo l’azzurro del [p. 188 modifica]cielo e l’argento delle nuvole immobili al di sopra delle casette silenziose e dei cortili pittoreschi. Una pace di piccola città regnava nella strada deserta; operai taciturni, vestiti con lunghi camiciotti giallastri, lavoravano nell’interno delle strette officine, tra frantumi di marmo, mucchi di gesso e di creta; un gatto passava lungo i muri umidi e dai cortili usciva un odore d’erba e di terra bagnata.

Lia entrò in un vecchio portone in fondo alla strada, attraversò un androne rischiarato da un lontano sfondo di verde e d’azzurro e provò un senso di diffidenza. Il luogo era strano; a destra dell’andito, entro una specie di grotta illuminata da una fiamma rossa, una figura nera e possente d’uomo nerboruto sollevava con ambe le mani un martello infocato e lo batteva su una incudine scintillante; una scaletta nera conduceva a un giardino pensile circondato di porte, di scalinate, di terrazze, e dai cui alberi cadeva qualche goccia argentea. Lia battè ad una vetrata internamente coperta da una tenda gialla e il pittore in persona aprì.

Come sempre, ella pensò al suo Salvador, tanto il piccolo artista, col suo camiciotto scuro, la sua personcina esile, i capelli chiari rialzati sulla fronte e il riso pallido illuminato dai grandi occhi castagni rassomigliava al fanciullo.

— Buon giorno, — ella disse con semplicità, ed egli rispose: [p. 189 modifica]

— Buon giorno.

E si sorrisero come vecchi amici.

Ella entrò nello studio, vasto e pieno di luce, ma desolato e freddo; i pochi mobili sparsi qua e là, l’ottomana di ferro coperta da un drappo rosso, alcuni avanzi di vivande sul tavolo, le diedero l’impressione che l’artista fosse molto povero.

Egli l’accolse con entusiasmo, la pregò di collocarsi in fondo allo studio, poi più in qua, poi in mezzo, e le girò attorno, le passò e ripassò davanti, allontanandosi, riavvicinandosi, guardandola come una figura già dipinta.

A poco a poco, nel trovarla come egli la desiderava, s’animò, diede in esclamazioni di gioia.

Le fece togliere il cappello, le scompigliò le trecce, le avvolse attorno alla persona un drappo bianco, poi uno nero, le fece indossare un costume orientale, le mise il velo, glielo tolse, le annunziò infine che voleva fare un quadro di vaste proporzioni, con una figura di donna araba su uno sfondo di deserto. Lia sorrise con tristezza ed egli tese le mani verso il viso di lei quasi volesse fermare quel sorriso.

— Stia così; un momento! Ah, così non va! Ho bisogno della sua espressione nostalgica e triste.

Ella non sorrideva più e aveva preso un’aria disgustata, «Perchè son qui?» si domandava. Per il desiderio di parlare dell’assente e di conoscere [p. 190 modifica]qualcosa del suo passato, o per posare da modella? In tutt’e due i casi le pareva di far male, e si pentiva d’essere andata.

— Non sempre si è tristi e nostalgici, — disse, rimettendosi il cappello. — Perchè esserlo oggi che è una così bella giornata?

Egli non cessava di osservarla, coi suoi occhi chiari e lucenti come il rame: quello sguardo le faceva male, le penetrava dentro le carni, e quando l’artista chiese, come per far seguito alle parole di lei:

— E dell’amico Guidi ha notizie? — ella ebbe l’impressione che egli indovinasse anche la causa per cui era venuta e decise di non parlare dell’assente. Dopo tutto, che le importava? Se Piero Guidi le scriveva per amicizia, toccava a lui confidarle i suoi affanni: se era spinto verso di lei da un altro sentimento era meglio non occuparsi più di lui.

— No, — mentì, — da qualche tempo non ho più avuto sue notizie.

Aspettò che il pittore tenesse la sua promessa: ma egli cambiò discorso, e poichè ella aveva fretta d’andarsene, la pregò di tornare l’indomani, e di corsa le fece vedere alcuni studi ove già aveva abbozzato la figura di lei, o meglio di una faccia spettrale e livida dagli enormi occhi violetti, e un nudo che a Lia parvo il ritratto di un’annegata, tanto la figura di donna stesa su uno sfondo giallo era violacea e macabra. [p. 191 modifica]

Ella se ne andò con un’impressione penosa, perseguitata dal ricordo di quelle figure deformi: ma fuori il sole splendeva fra le nuvolette bianche, e tutto era dolce, puro e tenero; nell’aria passava un odore di violette e di arance, e dalla scalinata di piazza di Spagna scendevano, come distaccandosi da uno sfondo vellutato, figure di donne brune e ridenti. Lia respirò, ma decise di tornare dal pittore, sebbene non si fosse parlato del compenso nè dell’amico lontano.

*

Eccola dunque diventata modella. Vestita da araba, con un costume forse non perfettamente fedele, ma che le ricorda quello di certe donne della Gallura, ella posa dritta e rigida, di profilo, davanti ad un immenso cartone giallo coperto da un velo rossastro, che dovrebbe rappresentare lo sfondo del deserto. Qualche volta i piedi le fanno male, le gambe le si piegano, una stanchezza sonnolenta le invade la persona e la mente.

Il giovane artista dipinge con un lungo pennello; si allontana e si avvicina alla sua tela, guarda a destra, guarda a sinistra e sembra contento della sua opera. Egli adopera i colori più fini e in quantità enorme: la sua pittura è quasi un rilievo, e quando si tratta di raschiare egli adopera un coltello di cucina. [p. 192 modifica]

— Io non posso concepire un pittore povero, che faccia economia di colori, — disse un giorno a Lia, e aggiunse, con semplicità che meravigliò la vedova, che sua nonna, una ricca signora romagnola, gli mandava mille lire al mese.

— Ma non bastano, non bastano, sebbene io viva come un anacoreta, lei lo vede, signora Lia.

Ella accennò di sì: lo vedeva bene.

— Ah, ma a me non importa la vita esteriore, — egli riprese, come parlando alla figura che dipingeva. — L’arte mi basta. Vi sono giorni in cui mi dimentico di mangiare. Che sarebbe stato di me senza l’arte? Mi sembra che sarei diventato un beone o un libertino o magari un delinquente. Noi tutti abbiamo in noi una forza creatrice che ha bisogno di esplicarsi e, se rinchiusa, fermenta ed esplode come un gas o ci corrode come un acido velenoso. Ah, sì, io sono contento d’essere un artista e di poter esplicare questa forza divina. Io sono contento, signora Lia: mi sembra talvolta d’essere un bambino. Non ho bisogno di nulla, neppure di amore. Io non ho mai amato.

— I bambini, appunto, non amano, ma ameranno! — disse Lia, che non lo apprezzava gran che come «creatore» ma lo invidiava come uomo. Egli era giovane, sano, libero, viveva di rendita e di illusioni!

— Amare? — egli riprese, fissando con lo stesso sguardo luminoso e freddo la figura viva e [p. 193 modifica]palpitante di Lia e la morta e fredda figura della sua tela. — L’amore come noi lo sogniamo non esiste. Esiste solo l’impulso cieco, che spinge l’uomo e la donna, ad unirsi: null’altro.

E poco dopo, tentando Lia di contraddirlo, come seguendo il filo d’una sua idea egli domandò!

— Piero Guidi le ha scritto?

Lia s’irrigidì, offesa.

— Sì, ha scritto, — disse quasi irritata. — Si lamenta sempre, perchè?

— E lo domanda a me?

— Ma anch’io ne so ben poco! Egli si lamenta del presente, ma non parla mai del passato.

— Ma anch’io ne so poco.

— Mi racconti questo poco: sarà, sempre qualche cosa.

— Ecco. Egli ha sposato una cugina, ricca, figlia d’un suo zìo che dopo essere stato molti anni segretario di un industriale, a un tratto, dicono in grazia a sua moglie che era una bellissima donna, ne diventò il successore. Pare, quindi, che la figlia sia invece figlia del principale. Fatto sta che ebbe una grossa dote. Era una bella ragazza, elegante, capricciosa, e tutti si meravigliarono quando sposò Piero Guidi, che era allora un semplice segretario di Intendenza. Però stettero poco assieme: un anno o due, credo. La prima volta si separarono scandalosamente perchè credo che Piero.... (l’artista agitò il pennello, accennando a bastonate.) Ma i parenti, [p. 194 modifica]specialmente la famiglia di lui, perchè a dire il vero il padre della ragazza s’era opposto al matrimonio disuguale, s’interposero e riuscirono a rappacificare gli sposi. Stettero assieme altri due mesi, credo: poi si divisero d’accordo, ma non legalmente, e non s’incontrarono più. Essa viaggia: è una donna elegante, intellettuale, che fa anche dei versi: io, critico, preferirei l’autrice! La famiglia di Piero è anche del mio parere, o quasi, perchè non perdona al nostro amico la sua rottura con una moglie simile. Ma lui, in fondo, è un sentimentale: poesia, e bastonate se occorrono!

Lia taceva. Sentiva come un senso d’oppressione e non sapeva cosa dire, sebbene mille domande le salissero alle labbra. Sopratutto era curiosa di sapere ove la signora Guidi di solito abitava. A Roma? Non sapeva perchè, ma quest’idea le dispiaceva.

— Perchè lei disse una volta che il signor Guidi si vergogna del suo passato? — domandò infine.

— Non ho detto che si vergogna, ma che pare si vergogni. Gran differenza fra l’essere e il parere, signora Lia! Ecco, lei «è», e questa mia figura «pare». E finchè lei è qui io m’illudo di veder qualcosa di vivo anche nella «mia» Lia; è come un riflesso: ma quando son solo mi pare di aver dipinto un cadavere.... Lo guardo e mi sento triste: non mi era accaduto mai una simile cosa.... [p. 195 modifica]

— Poco fa diceva d’esser contento: si vede che il ricordo del suo amico le ha fatto cambiare umore.

— Il mio amico? E un imbecille. Sì, è vero, lo spettacolo dell’altrui stupidaggine ci rende spesso melanconici, come, non so se ha osservato, quando parliamo con balbuzienti proviamo anche noi difficoltà a pronunziar bene.

— Perchè chiama imbecille il signor Guidi?

— Per molte ragioni: non ultima quella di far la corte a lei solo adesso che è lontano....

— Come sa che mi fa la corte? — disse Lia ridendo.... E all’improvviso la sua avventura le parve una cosa frivola e comune, da riderci su.

— Oh, Dio, l’indovino da quel che mi dice lei. Un uomo si lamenta solo con le donne a cui vuol sembrare interessante. Stia attenta, signora Lia. Poesia e bastonate!

— Ma che gli importa? — si domandò Lia, guardando di sbieco l’artista; e gli occhi di lui, dorati e freddi come quelli del falco, le diedero nuovamente un senso di malessere.

Senso di malessere e di antipatia che di giorno in giorno aumentò: ella se ne accorgeva e sembrandole che ciò fosse perchè il pittore ogni volta che ne aveva l’occasione parlava apertamente male del Guidi, s’irritava contro sè stessa che non sapeva vincer la sua debolezza. Eppure provava anche un piacere doloroso quando l’artista raccontava a modo suo le avventure del suo [p. 196 modifica]amico, e quando ne difendeva la moglie, la signora bella e ricca, che «viaggiava», che passava La sua vita un po’ qua un po’ là, da Rimini a Taormina, da Roma a Venezia, come una rondine libera e padrona dello spazio. Lia si sentiva piccola e più povera del solito quando l’immagine di questa donna le passava davanti, rapida e incerta appunto come quella di una rondine a volo: e poi si accorgeva della sua umiliazione e anche di questo s’irritava

Ma cercava ancora d’illudersi sui suoi sentimenti e scacciava le immagini moleste. Le pareva che solo un senso di pietà la spingesse a pensare a quelle figure di estranei apparse a caso nella sua via. Ma era tempo di non occuparsene più. Via, via; via la figura bella e languida dell’uomo che si era seduto accanto a lei sulle alghe e l’aveva guardata con un profondo invito negli occhi: via la rondine che passa e ripassa attorno a lei, e talvolta, nell’aria crepuscolare, prende l’aspetto triste del pipistrello. Perchè pensare a gente che, dopo tutto, si crea l’infelicità, quasi per un morboso bisogno di tormento? Essi son ricchi, son giovani e sani: che altro occorre nella, vita per esser felici? L’amore non esiste, dice il pittore: e sorride guardando il viso di Lia già un po’ arso dalla fiamma di un’idea fissa.

— Adesso andiamo bene: ha ripreso l’espressione sua. Sono contento....

Una mattina però Lia lo sorpreso triste e [p. 197 modifica]cupo davanti alla tela, col coltello in mano come un delinquente pronto al delitto. Era una giornata piovosa; ed egli disse con voce rauca:

— Senta, mi dispiace di averla fatta, venire con questo tempaccio; oggi non ho voglia di lavorare.

— Su, andiamo, si faccia animo, — disse Lia maternamente; ma anche lei era, nervosa: aveva i piedi bagnati e le vesti umide.

— Ma non vede che è ridicolo? Fare un deserto, un’immensità, in una stamberga come questa? No, no, io rompo tutto e vado davvero in Egitto; ho bisogno di spazio, di verità; qui si soffoca, e l’orizzonte pare davvero di cartone....

Lia non osò dire il contrario.

— La figura poi è legnosa, è mostruosa, — egli proseguì, con accento d’odio. — Lei dice di no? Ma lei non può capire, oppure mentisce per confortarmi. Tutto è brutto, nella vita; tutto è menzogna, e noi mentiamo persino a noi stessi....

Rimasero alcuni momenti davanti al quadro, desolati entrambi; Lia vinta da un senso di pietà per l’infelice artista, egli lamentandosi di seguire una via tormentosa, che non era la sua: poscia ella se ne tornò a casa, e il sorriso ambiguo con cui il portiere le diede una lettera, finì di irritarla. Era di Piero Guidi. Ormai egli scriveva troppo spesso. Ella salì irritata le scale e lesse la lettera prima di spogliarsi, e [p. 198 modifica]nonostante i suoi buoni propositi si sentì lusingata delle frasi ch’egli le scriveva.

«Ah, signora Lia, mi permetta di dirglielo, quando penso a lei non posso liberarmi da un senso d’invidia: ella è forte, ha la grande fortuna di bastare a sè stessa, di resistere alla bufera della vita, come lo stelo che si piega al vento ma che al primo raggio di sole si rialza e rivive: io, invece, che cosa sono, io? L’albero schiantato, signora Lia! Sono un vinto, io; un tronco da cui il vento finisce di staccare le foglie inaridite».

Ma dopo il primo impulso di pietà per lui, di vanità soddisfatta per le sue lodi, ella buttò sul tavolo il foglietto e andò a cambiarsi le scarpe ed a preparare la colazione.

— Egli m’invidia! — disse a voce alta, con accento di sdegno. — Ah, miseria!

Poi si mise a cucire, accanto alla finestra, aspettando l’ora d’andare a prendere i bambini. Ogni tanto sollevava gli occhi, con la speranza di veder il cielo rasserenarsi; ma il cielo sembrava coperto di fango lucente, come la strada, come i terreni ove le graziose case in costruzione davano l’idea di rovine. Tutto era tristezza, squallore: ed ella ricordava il quadro fresco e caratteristico che si svolgeva sotto i suoi occhi, nei chiari mattini di giugno, dopo il suo arrivo in casa dello zio Asquer, e rivedeva la testina di Salvador a quella stessa finestra che ora [p. 199 modifica]inquadrava il suo melanconico viso di vedova giovane e povera. Tutto era mutato, nella strada come nella sua vita. Chi lo avrebbe detto allora, quando arrossiva nel veder da lontano la buona figura del suo Justo, che ella avrebbe dovuto servir da modella a un artista, mediocre e volgare?

Tutte le inquietudini della sua vita la riassalirono, e lagrime tristi come le gocce di pioggia che battevano sui vetri le solcarono il viso e bagnarono la tela che il suo ago continuava a trapuntare. Eppure c’era qualcuno che la invidiava! A un tratto si alzò, s’asciugò gli occhi e guardò l’ora. Era appena la mezza, e la tavola, nella saletta grigia e fredda, era già apparecchiata e la modesta colazione già pronta. Ella indossò di nuovo la giacchetta e preparò gli ombrelli, ma in attesa delle due meno un quarto, ora dell’uscita dei bambini, si mise a scrivere a Piero Guidi. Un impulso prepotente la spingeva, un bisogno quasi iroso di gridare a qualcuno la sua desolazione, di protestare contro quell’uomo annoiato che si abbassava a invidiare una creatura come lei, — la più misera delle creature.

*

Intanto il quadro era quasi finito, e ancora non si parlava di compenso. Ma Lia aveva ottenuto quello che veramente l’aveva spinta nello studio del pittore, — e d’altronde non dubitava [p. 200 modifica]della correttezza dell’artista, che diceva di spendere i suoi denari senza contarli.

Una mattina, mentr’ella stava per andarsene, entrò un uomo alto e rosso, col largo viso circondato da una barbaccia fulva. Non era uno dei tanti pittori che frequentavano lo studio e che l’artista dipingeva a Lia come altrettanti mostri d’invidia e di perfidia: si fermò in un angolo e cominciò a guardar Lia e poi la figura e poi di nuovo Lia, con gli occhi celesti ridenti, poi andò davanti alla tela, fino a toccarla con la barba, e parve fiutarla. Di nuovo s’allontanò, con le mani intrecciate sulla schiena, e disse con voce ringhiosa:

— Molto bene!

Il giovine pittore era diventato pallido e s’aggirava attorno all’uomo come un cagnolino timido e lieto.

Lia andò a spogliarsi dietro il paravento. Di solito ella sentiva gli artisti lodarsi fra di loro, e tutti trovavano quasi perfetto il quadro con la sua figura, tanto ch’ella s’era convinta di non capir nulla in fatto d’arte: questa volta, però, dopo il «molto bene» l’uomo rosso trovava difetti di disegno, di colore, di prospettiva: piano piano pareva si divertisse a raschiare il quadro. Mancava l’aria, il colore locale, la verità! La figura, poi, doveva essere meno rigida: molle, indolente, accoccolata al suolo, come snervata dal soffio ardente del deserto. [p. 201 modifica]

Lia uscì, un po’ umiliata per il pittore, e cercò di confortarlo con lo sguardo. E all’improvviso l’omone le fu addosso, la prese per le braccia, la palpò, le disse:

— Vediamo; più molle! Mettiti un po’ giù!

— Mi lasci! — ella gridò, col viso infiammato.

— Ma le pare?

L’omone si mise a ridere come un bambino, e prendendo quasi gusto alla resistenza di lei cercò di farla piegare per forza, finchè ella gridò esasperata:

— Non sono una modella, io!

E corse via senza salutare, senza volgersi indietro, presa da un’ira folle e anche da un po’ di paura. Ah, che aveva fatto! Ben le stava! Ella pagava così la sua curiosità inutile. Ma perchè? Ed ecco che all’improvviso una luce paurosa si fece in lei. Curiosità inutile? Ah, no! era una curiosità colpevole: e tutto ciò che è colpa si deve scontare come un debito, sia pure fatto contro volontà.

Ma poi si calmò. Il pittore le scrisse domandandole scusa di non averla subito presentata all’omone rosso, che era un celebre artista, e pregandola di ritornare. Aveva bisogno di lei: era così sconfortato, così avvilito. Anche lui!

Ella ritornò, e riprese il suo costume, il suo posto, la sua aria nostalgica: ma qualcosa era mutato intorno: lo studio sembrava più triste, il pittore taceva e aveva gli occhi pieni di [p. 202 modifica]melanconia. La visita del celebre artista lo aveva impressionato profondamente: un giorno Lia trovò la tela rivolta contro il muro e il pittore seduto sull’ottomana con un grande album di fotografie egiziane ed arabe sulle ginocchia.

— Parto, — le disse, — vado al Cairo e rifarò il quadro. Venga con me. Ho scritto alla nonna perchè mi mandi i denari.

Lia sedette accanto a lui e cominciò a scherzare.

— Verrei volentieri se non avessi i bambini.

— Li porta con sè. Io amo i bambini.

— Allora partiamo! Quando?

Egli sollevò gli occhi e la guardò: ed ella vide una luce nuova in quegli occhi che avevano come la trasparenza dell’acqua stagnante che il sole ha dorato e riempito di maleficio.

— Viene davvero?

Ella si chinò a guardar l’album, per sfuggire a quello sguardo che l’affascinava, ma credette innocuo continuare a scherzare.

— Prima mi faccia vedere dove andremo: ci spingeremo fino al deserto, suppongo....

Egli cominciò a sollevare i cartoni e a svolgerli come pagine pesanti. Erano figure e paesaggi noti: donne levantine dal puro tipo che quello di Lia ricordava in modo sorprendente, beduine dal viso velato, altre col petto nudo; erano le piramidi su cui i viaggiatori salgono come su montagne di macigni, e i bazar, le vie [p. 203 modifica]del Cairo, i paesaggi del Nilo, il confine del deserto, i cammelli, i beduini, le donne che lavano curve sulla fiumana con la gonna sul capo gonfiata dal vento. Qualche scena e qualche tipo ricordava a Lia la sua isola, e una dolcezza di nostalgia la vinceva.

L’artista le si era accostato fino a toccarla col braccio e le spiegava qualche particolare delle fotografie. La sua voce diventava rauca e velata e le sue mani tremavano: e pareva che le visioni lontane riprodotte da quei brani di carta lucente gli dessero un’allucinazione febbrile, il desiderio quasi delirante di quel mondo ove l’ardore è pari alla luce e la nebbia rossa della sabbia spinta dal vento è come la nuvola di sangue sollevata, davanti agli occhi dell’uomo, dalla violenza dell’amore o dell’odio.

A un tratto Lia, prima che si rendesse conto di quel che succedeva, si sentì stringere da un braccio nervoso e tenace come una corda; vide il lampo degli occhi dorati, sentì una mano convulsa piegarlo la testa e due labbra sottili e ardenti fissarsi sulle sue. Provò come l’impressione di una ferita di coltello e si mise a urlare. L’album cadde e le schiacciò i piedi.

Ma ciò che più le destò terrore e ripugnanza, nella lotta che seguì, furono le parole d’amore corrisposto ch’egli pronunziava come in delirio:

— Perchè non vuoi? Tu mi ami; tu verrai; perchè adesso vuoi fuggire?... [p. 204 modifica]

Lia era agile, era più alta di lui; ma egli dimostrava la forza convulsa dei dementi, e si era aggrappato a lei come un tralcio di rovo. Ella riuscì ad avvicinarsi alla porta, ma non a liberarsi di lui.

— Hai mentito, dunque? No, tu verrai: io sono libero; vuoi che ti sposi.... vuoi, di’, vuoi?...

— Sciocco, sciocco! — ella urlò, e lo sbattè contro la vetrata; un cristallo cadde con fracasso.

Egli trasalì, parve svegliarsi di soprassalto da un sogno; la lasciò e si buttò sull’ottomana, piangendo come un bambino bastonato.

Ed ella se n’andò via di corsa, ansando, come una povera lepre inseguita. L’androne, la scala, lo sfondo verde e azzurro, il giardino pensile, tutto le rimase impresso nella memoria come un quadro spaventoso. Eppure, scampato il pericolo, le veniva da ridere; si sentiva lusingata nella sua vanità di donna, e il pianto dell’uomo vinto le destava anche pietà.

— Egli voleva sposarmi....

Modo gentile di dichiararsi! Ella tremava ancora quando arrivò in via Boncompagni. Il cielo azzurro era sparso di nuvole argentee che il vento di marzo spingeva come vele. Ella ricordò il giorno in cui era andata la prima volta allo studio, e di nuovo ricordò la curiosità che l’aveva condotta laggiù.

— È il castigo: è il castigo! — pensò. Ma a [p. 205 modifica]un tratto la figura dell’assente le apparve come illuminata da una luce limpida, improvvisa. Egli che aveva vissuto giorni e notti accanto a lei, indifesa, non aveva mai tentato di farle del male. Eppure egli l’amava e la desiderava; ella ne era certa: ricordava il suo sguardo, in riva al mare, la sua stretta di mano una chiara mattina di novembre.... E il pensiero che egli era un uomo onesto le dava una tenerezza trepida e soave, un senso di conforto che, come il vento di primavera, spingeva via lontano le nuvole dalla sua mente....