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Orazione aeropagitica

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Isocrate Alessandro Donati Antichità XIX secolo Giacomo Leopardi Indice:Leopardi, Giacomo – Pensieri, Moralisti greci, 1932 – BEIC 1858513.djvu Orazione aeropagitica Intestazione 12 giugno 2024 100% Da definire

Questo testo fa parte della raccolta Operette morali d'Isocrate
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4.

ORAZIONE AREOPAGITICA

Io stimo che molti di voi si maraviglino, e non intendano che pensiero sia stato il mio di proporvi a deliberare della salute pubblica, non altrimenti che se la cittá fosse in pericolo o che il suo stato barcollasse, e quasi che ella non avesse per lo contrario piú che dugento galee, pace nel suo territorio la signoria del mare, non pochi confederati i quali, al bisogno, ci soccorrerebbero prontamente, e molti piú che pagano la loro parte delle contribuzioni e fanno ogni nostro comando. Per le quali cose parrebbe in veritá che a voi si convenisse stare coll’animo sicuro, come lontani da ogni pericolo, e che ai vostri nemici piuttosto si appartenesse di temere e di consultare della salute propria. Ed io so bene che voi, discorrendo tra voi medesimi in questa forma, vi ridete della mia proposta, e sperate di dovere colle vostre forze e facoltá presenti, ridurre e tenere alla vostra divozione tutta la Grecia. Ora da queste considerazioni medesime io prendo materia di temere. Perciocché io veggo quelle cittá che si pensano essere in migliore stato, peggio consigliarsi, e quelle che piú si confidano e piú baldanza hanno, essere sottoposte a maggior numero di pericoli. La cagione è che nessun bene e nessun male interviene agli uomini da sé solo; ma colla ricchezza e colla potenza è congiunta, e tien loro dietro, la follia, e con questa insieme la petulanza; colla povertá e colla bassezza dello stato vengono la costumatezza e la moderazione. Tanto che malagevolmente si può conoscere quale delle due fortune debba l’uomo piú volentieri lasciare ai figliuoli. Imperocché noi veggiamo da [p. 170 modifica]quella delle due ch’è tenuta per la peggiore, le cose mutarsi il piú delle volte in meglio, e per l’opposto da quella che mostra di essere la migliore, voltarsi in peggio. Esempi di ciò si possono raccôrre in grandissimo numero dalle cose private, dove le mutazioni sogliono essere frequentissime, ma piú manifesti e piú grandi si possono prendere da quello che si vede essere avvenuto a noi medesimi e ai lacedemoni. Imperocché noi dall’un canto, distruttaci dai barbari la cittá, per aver temuto e posto cura, conseguimmo nella Grecia il primo luogo. Dall’altro canto, poiché ci credemmo essere tanto forti da non poter essere superati, ci recammo a tale che per poco non fossimo ridotti in ischiavitú. Similmente i lacedemoni per antico, nati di terricciuole piccole e umili, vivendo modestamente e a uso di uomini di guerra, ottennero il Peloponneso. Poi leváti in troppa superbia e baldanza, e fatti signori della terra e del mare, vennero in quegli stessi pericoli che eravamo venuti noi.

Coloro per tanto i quali, comeché sappiano sí fatte grandissime mutazioni essere accadute, e grandissime potenze essere venute meno in sí piccolo spazio, pure si fidano del presente; per certo sono stolti: massime che la nostra cittá si trova oggi in molto minore stato che ella non si trovava al predetto tempo; e che la mala volontá dei greci verso di noi e la inimicizia del re di Persia, le quali allora ci vinsero, ora sono tornate in piede. Veramente io non so quale io mi debba credere delle due, o che a voi non caglia delle cose comuni né molto né poco, ovvero che quantunque elle vi sieno a cuore, voi siate ciechi e insensati di modo che non veggiate in quanto disordine sieno ora i fatti del comune. Imperocché voi siete pur quelli che avendo perdute tutte le cittá che tenevate nella Tracia, speso invano in gente d’arme forestiera piú di mille talenti, i greci pieni verso voi di mal animo, il barbaro inimico; oltre di ciò necessitati a salvare gli amici dei tebani, e perduti i vostri confederati propri; per queste sí fatte cose avete sacrificato due volte solennemente, come è l’uso per le buone novelle, e ne venite e ne state a consiglio [p. 171 modifica]con quella medesima trascuraggine che voi potreste fare quando tutte le cose vostre procedessero prosperamente.

Ma egli è ben ragione che tutto questo ci avvenga. Imperocché mai niuna cosa può procedere per acconcio modo lá dove gli uomini hanno male deliberato di tutta la forma della repubblica. E quando pure questi tali riescano a buon fine di qualche negozio o per caso o per virtú di alcuna persona, passato poco tempo, ricaggiono nelle difficoltá di prima, siccome si può vedere da quello che è avvenuto a noi medesimi. I quali, essendo, dopo la vittoria navale di Conone e di nuovo dopo le imprese condotte da Timoteo, recata alla nostra soggezione tutta la Grecia, non potemmo pure per un picciolo spazio di tempo conservare queste felicitá, ma in poco d’ora le dissipammo e perdemmo. Perocché noi non abbiamo, né anche cerchiamo di avere, uno stato di repubblica atto a bene maneggiare le cose. E per certo niuno è che non sappia come le cose prospere sogliono piú che agli altri sopravvenire e durare non mica quelli che hanno le mura piú belle e piú grandi, o che hanno la cittá piú copiosa di popolo, ma sí a quelli che meglio e piú regolatamente l’amministrano. Imperciocché l’anima delle cittá non è altro che lo stato, o vogliamo dire gli ordini della repubblica, i quali hanno tanto valore in quelle, quanto nei corpi la prudenza. Essendo che il deliberare di ciascuna cosa, e il conservare i beni e lo schifare i mali, non ad altro si appartenga che al reggimento; col quale anco è forza che si conformino le leggi, i dicitori e i privati, e che tali sieno le condizioni e tali gli andamenti di ciascheduno, quale è la forma della loro repubblica. La qual forma essendo ora qui appresso di noi pervertita e guasta, noi pure non ce ne diamo un pensiero al mondo, e non cerchiamo modo di rassettarla; anzi, se bene nelle corti e nei luoghi della ragione vituperiamo lo stato presente delle cose e diciamo che mai, sotto il reggimento del popolo, non avemmo peggior condizione di vita civile, in fatti nondimeno e in pensieri abbiamo piú in grado questa forma guasta, che non quella che ci lasciarono i nostri antichi. Della quale intendo di dover [p. 172 modifica]dire in questo ragionamento, siccome per iscritto ve la ho proposta a deliberarne.

Imperocché io trovo che a voler ovviare ai pericoli futuri e riscuoterci dai mali presenti, non ci ha se non una via, cioè se noi vorremo riporre in piede quello stato di popolo il quale fu prima ordinato e constituito da Solone, uomo popolano quanto qualsivoglia altro, poi ristabilito da quel distene discacciatore dei tiranni e restitutore del popolo, e per sé stesso è tale che noi non potremmo trovare uno stato né piú popolare né che piú conferisse al bene della cittá. Della qual cosa abbiamo un argomento grandissimo, che quelli che usarono il detto stato, condotte a fine molte ed egregie opere, e ottenuta fama e lode da tutti gli uomini, furono dai greci volontariamente esaltati alla maggioria; e quelli per lo contrario a cui piacque lo stato presente, venuti in odio all’universale, e spesso afflitti da miserie gravissime, di poco mancò che non caddero nelle ultime disavventure. E per veritá come si può egli lodare, anzi comportare, un reggimento che per addietro è stato cagione di tante calamitá, e ora d’anno in anno va peggiorando di continuo? e come non si ha egli a temere che con questo tanto peggioramento, per ultimo non ci avvenga di trovarci a piú duri partiti che non furono quelli d’allora? Ma perché voi possiate giudicare e scegliere tra l’uno stato e l’altro con distinta e particolare contezza, e non per cose dette sommariamente, io per la mia parte m’ingegnerò di esporvi, con quella brevitá che io saprò maggiore, quanto appartiene al diritto conoscimento di ambedue gli stati, e voi converrá che dal canto vostro ponghiate attenzione a quello che io sono per dire.

Coloro per tanto che a quei tempi amministrarono la repubblica, ordinarono uno stato, non mica tale che con portare un nome popolarissimo e dolce, in fatto e alla prova riuscisse molto diverso; né anche ammaestravano i cittadini in maniera che eglino si riputassero la licenza essere stato di popolo; il dispregio delle leggi libertá; la sfrenatezza del dire egualitá civile; e la facoltá di fare tutte queste cose, felicitá; ma per lo [p. 173 modifica]contrario il detto stato, odiando e gastigando chi le facesse, rendeva i cittadini migliori e piú costumati. E una cosa conferí grandissimamente alla loro prosperitá, che prendendosi la egualitá civile in due modi, l’uno per quella che dispensa con una misura a tutti, l’altro per quella da cui ciascheduno riceve secondo il merito, essi non ignorarono quale delle due veramente fosse piú per giovare, ma riprovarono la prima, come non giusta, perciò che ella tratta i buoni e i malvagi in un modo, e l’altra elessero, la quale secondo il merito premia e punisce, e questa usarono al governo della cittá, non distribuendo i magistrati per sorte a qualunque si fosse indifferentemente di tutta la cittadinanza, ma preponendo a ciascuno ufficio i migliori e piú atti. Perocché stimavano che ancora gli altri sarebbono stati tali, quali fossero quelli che reggessero le cose pubbliche. Anche pareva loro che questa cosí fatta dispensazione dei magistrati fosse piú popolare di quella che si fa per sorte; considerando che in questa giudica il caso, e può spesse volte avvenire che i magistrati tocchino agli amatori della signoria di pochi, ma nella elezione de’ piú acconci, egli è in facoltá del popolo di scegliere quelli che maggiormente amano lo stato presente.

Che tali fossero i giudizi della moltitudine, e che niuno volesse contendere per l’acquisto dei magistrati, nasceva dall’essere i cittadini assuefatti alla fatica ed alla parsimonia, non trascurare la roba propria e in un medesimo tempo uccellare all’altrui, non sostenere con le facoltá del comune le case loro, anzi delle facoltá proprie, sempre che bisognasse, sovvenire al comune; e non conoscere meglio i proventi degli uffizi civili, che quelli che ciascheduno ritraeva dalle cose sue. Ed erano per sí fatto modo astinenti da quello del pubblico, che piú malagevole era a trovare a quei tempi chi volesse ricevere i magistrati, che non è oggi a trovare chi non li voglia. Imperocché stimavano che la cura delle cose pubbliche non fosse, come a dire, un traffico, ma un servigio che la persona presta alla comunitá; e non istavano insino dal primo giorno a cercare se mai per avventura quelli che erano stati per innanzi [p. 174 modifica]nell’ufficio, avessero pretermesso qualche guadagnuzzo da poter fare, ma sí bene se eglino avessero trascurato qualche negozio il quale si convenisse espedire sollecitamente. E a dire in breve, gli uomini di quel tempo erano di opinione che al popolo si appartenesse di eleggere i magistrati, punire i delinquenti, definire i piati e le controversie, come signore e principe; e quelli che avessero ozio e possessioni da vivere, dovessero attendere al maneggio delle cose pubbliche con quella cura medesima che se elle fossero loro proprie e familiari; e portatisi dirittamente, avessero a essere lodati e tenersi contenti di questo premio; avendo male amministrato l’ufficio, dovessero, senza commiserazione o grazia veruna, severissimamente essere puniti. Ora quale altro stato di popolo si potrebbe trovare che fosse o piú giusto o piú saldo di uno il quale preponga alle amministrazioni pubbliche i piú sufficienti, e di questi medesimi constituisca signore il popolo?

L’ordine per tanto di quello stato era cosí come io vi ho detto. Dalle quali cose potete comprendere di leggeri che gli uomini di quei tempi, eziandio in ciò che apparteneva al vivere di ciascun giorno, si portavano bene e ordinatamente; imperocché ragion vuole che a quelli che hanno gittati i fondamenti buoni circa alla forma del tutto, anco le parti riescano allo stesso modo. E per cominciare (come io credo che sia ragionevole) da quello che ha riguardo agli dèi, non erano i cittadini di allora né dissomiglianti da sé medesimi né disordinati o nel culto divino o nella celebrazione delle cose sacre, né secondo la voglia e la fantasia, tal volta, ponghiamo caso, menavano a sacrificare trecento buoi, tal altra pretermettevan insino ai sacrifici propri e consueti della cittá, ovvero in alcuna festa nuova e forestiera ove si banchettasse, usavano magnificenza grande, e poi per contrario in alcun tempio de’ piú santi sacrificavano del ritratto delle allegagioni; anzi avevano solamente l’occhio, cosí a non preterire in alcuna parte la consuetudine antica della cittá, come a non aggiungervi cosa alcuna; giudicando che la pietá non si dovesse misurare dalla grandezza delle spese, ma dal niente innovare nelle costumanze trasmesse [p. 175 modifica]dagli antenati. E vedesi veramente che per simil modo il cielo dispensava loro le stagioni e le qualitá dell’anno, non iscompigliatamente e quasi alla cieca, ma opportune ed accomodate cosí alla coltivazione delle loro terre, come alle ricolte dei frutti.

Né dissimile da quello verso gli dèi si era il modo che eglino tenevano insieme tra loro. Imperciocché oltre a essere concordi nelle cose pubbliche, ancora nelle private tanta cura prendevano gli uni degli altri, quanta si conviene a ben consigliati uomini e di patria compagni. Poiché dall’una parte i piú poveri, non tanto che portassero invidia a quelli che avevano piú, ma eglino intendevano alla conservazione e alla prosperitá delle case dei grandi non meno che delle loro proprie, stimando che la ricchezza di quelli fosse quasi fonte che in loro medesimi si derivasse; e all’incontro i ricchi, non che usassero coi poveri superbamente, anzi recando a propria vergogna l’inopia dei cittadini, soccorrevano alle loro necessitá, dando a questi o a quelli terreno da coltivare per fitti ragionevoli, alcuni mandando a mercatantare, e a chi somministrando di chi potessero per altre vie procacciare di loro guadagni. E facendo questo, non temevano che dovesse loro incontrare l’una delle due cose, o di perdere il tutto, ovvero dopo molta briga ricuperare solo una parte di quello che avessero dato a usare; anzi non si tenevano meno sicuri, in quanto al prestato, che fossero in quanto a quello che eglino si serbavano riposto in casa, vedendo coloro che amministravano la ragione sopra tali materie, non fare abuso di dolcezza e benignitá, ma ubbidire alle leggi, e non si procacciare nelle cause altrui la facoltá di operare essi medesimi ingiustamente, anzi piú sdegno prendere contro quelli che frodavano i creditori, che non prendevano le stesse persone offese, e credere che da loro che falsavano la fede dei contratti, ricevessero maggior danno i poveri che i facoltosi. I quali quando si fossero rimasti dall’accomodare di loro danari o di loro roba, sarebbero privati di piccioli emolumenti; dove che i poveri, non avendo chi gli accomodasse del suo, sarebbono ridotti all’ultima necesitá. E per [p. 176 modifica]tanto egli non ci aveva persona che tenesse celate le sue ricchezze, o che di bonissimo animo non s’inducesse a fare accordi e contratti, tanto che i ricchi vedevano piú volentieri chi veniva dimandando in prestanza, che non chi rendeva il prestato. Poiché dall’accomodare altrui di loro avere, intervenivano loro a un medesimo tempo due beni i quali sarebbono avuti cari da ogni uomo di sano conoscimento; l’uno, che essi facevano benefício ai loro cittadini, l’altro, che mettevano la loro roba a guadagno. E in fine (quello che è la somma del buono e beato convivere cittadinesco) la possessione della roba a quelli che possedevano di ragione era salva e sicura, ma gli usi della medesima erano comuni indifferentemente a ogni cittadino al quale facessero di mestieri.

Ma qui potranno essere alcuni che mi riprendano che lodando io le cose e i fatti di quei tempi, io non dica altresí le cagioni perché quegli uomini usassero cosí bene insieme, e governassero la cittá per sí acconcio modo. A me pare aver giá toccato alquanto di questa materia, ma pure io vedrò di trattarla piú per isteso e piú divisatamente. Coloro dunque, in cambio di avere nella fanciullezza molti sopraccapi, e poi cosí tosto come fossero dichiarati uomini, poter fare ogni loro piacere, piú diligentemente erano sopravveduti nel fiore dell’etá che nella puerizia. Imperocché i nostri passati ebbero sí fattamente a cuore la costumatezza, che a procurarla e custodirla ordinarono il consiglio dell’Areopago, nel quale non poteva sedere chi non fosse bennato, e nei fatti e negli andamenti non avesse dato segni di molta virtú e modestia. Onde esso consiglio ragionevolmente vinse di degnitá e fama tutti gli altri che erano nella Grecia. E quale fosse egli a quei tempi, si può giudicare anco da ciò che noi veggiamo al presente. Perocché, se bene ora sono dismesse tutte le pratiche antiche circa l’elezione e le disamine di quelli che avessero ad essere del predetto consiglio, nientedimeno si vedono eziandio quelli che nel resto della loro vita sono intollerabili, come salgono all’Areopago, non si sapere indurre a usar la loro natura, e piuttosto osservare gli ordini di quel luogo, che seguitare le [p. 177 modifica]proprie tristizie. Tanto timore posero quegli antichi negli animi dei malvagi, e tal memoria lasciarono della loro virtú e modestia in quella loro sede.

Questo sí fatto consiglio dunque constituirono curatore e conservatore della costumatezza, avendo per fermo che sieno molto ingannati coloro i quali si persuadono, lá essere gli uomini migliori, dove le leggi sono piú accuratamente fatte. La quale opinione, se fosse vera, niuna cosa aver potuta impedire che i greci non fossero tutti conformi, come quelli che potevano agevolmente prendere il tenore e i vocaboli delle leggi gli uni dagli altri. Veramente non per le buone leggi, ma per gli studi e gli esercizi quotidiani, la virtú prosperare e crescere; tale di necessitá riuscendo la piú parte degli uomini, quale si fu la educazione e la instituzione loro. Di piú, la moltitudine e la minuta squisitezza delle leggi essere indizio di cittá male accostumata. La quale affaticandosi di porre argini e serragli alle colpe, necessariamente divenire la quantitá delle leggi grande. Richiedersi al buono e ordinato vivere cittadino, non le logge piene di scritte, ma la rettitudine stabilita negli animi. Non consistere esso nei bandi, ma nei costumi; e gli uomini male allevati facilmente muoversi a contraffare anco alle leggi accuratamente scritte, dove che i bene instituiti volere osservare eziandio le non bene ordinate. Per sí fatta guisa discorrendo e affermando seco medesimi, essi non si volsero a cercare prima di tutto, in che modo avessero a gastigare quelli che trasandassero nelle opere o nei costumi, ma con quali rimedi potessero conseguire che niuno s’inducesse a cosa meritevole di gastigo; questo giudicando essere ufficio loro, laddove lo ingegnarsi molto intorno alle pene, essere atto convenevole agl’inimici.

Per tanto avevano cura di tutti i cittadini, ma principalmente dei giovani, vedendo quell’etá essere piú turbolenta di qualunque altra, e piena di maggior numero di appetiti, e gli animi giovanili avere maggior bisogno di essere disciplinati nell’amore dei buoni studi e nelle fatiche non disgiunte da piaceri. Alle quali cose sole, quando eglino fossero liberalmente nutriti, ed [p. 178 modifica]accostumati all’altezza del sentimento, giudicavano che essi avrebbero voluto attendere anco per innanzi. Ora, perciocché tutti non si potevano educare negli stessi esercizi, considerata la diversitá delle fortune, essi governandosi secondo che comportavano le sostanze, chiunque di roba era poco agiato indirizzavano alla coltivazione e alla mercatura, sapendo che dalla oziositá nasce l’indigenza, e dall’indigenza procedono i maleficii. Per la qual cosa, rimovendo il principio dei mali, si pensavano ovviare ai misfatti che vengono appresso a quelli. A coloro poi che copia di beni avevano a sufficienza, assegnavano la cavalleria, gli esercizi del corpo, la caccia, la letteratura, e a queste cose gli costringevano a dare opera; vedendo che per sí fatti mezzi, alcuni riescono uomini di gran valore, altri sono tenuti lontani da infinite malvagitá.

Né si contentarono di fare cotali statuti e poi non vi porre niuna cura, ma divisa la cittá per contrade o quartieri, e il contado per villate ovvero castella, osservavano i portamenti di ciascheduno, e chiunque vedevano che disordinasse, menavanlo dinanzi al Consiglio. Il quale riprendeva gli uni, minacciava gli altri, e tali, a proporzione del merito gastigava. Imperocché sapevano bene come egli vi ha due modi che dispongono gli uomini a male operare, e due che li ritraggono dalle cattivitá. Cioè a dire che lá ove contro alle dette cose, da un lato non si fa guardia, dall’altro non è posta pena e non si procede per giudizi accuratamente, quivi anco le nature buone si guastano. Ma ove i malfattori non possono leggermente restare occulti, né scoprendogli, essere perdonati, colá i perversi costumi al tutto si spengono. Per le quali considerazioni eglino con ambedue le cose, cioè colle pene e colla vigilanza, contenevano i cittadini. E non che potesse schifar di venire alla loro notizia niuno che avesse commessa alcuna malvagia opera, ma eglino presentivano eziandio quelli che avevano pure in animo di malfare.

E per tanto a quei tempi non si vedevano i giovani per le bische, né per le case delle sonatrici di flauto, né per tali raddotti dove oggi spendono tutto il dí; ma erano intenti [p. 179 modifica]ciascheduno a quell’arte o quell’esercizio che gli era assegnato, con molta osservanza onorando e seguitando quelli che in tale esercizio ovvero arte erano eccellenti. E fuggivano il Mercato in guisa, che se per alcuna occorrenza tal volta bisognava loro passare di colá, facevanlo con segni di verecondia e di modestia grande. Contraddire ai piú vecchi, o con male parole mordergli, reputavano maggiore enormitá che non istimano adesso l’offendere i genitori. Di mangiare o di bere nelle taverne, non che altri, ancora un famiglio da bene non si sarebbe ardito. E per ultimo studiavano di essere contegnosi e gravi, e non giá di fare del buffone e del giocolare, tanto che gli uomini beffardi e motteggiatori, che oggi si chiamano ingegnosi, essi gli avevano per isciagurati.

Né si pensasse per avventura alcuno, che io fossi occupato da qualche sinistra disposizione dell’animo verso i giovani. Imperocché, oltre che io non gli stimo autori né colpevoli di quello che noi veggiamo avvenire al presente, eziandio so per cosa certa che i piú di loro non amano a modo alcuno questo sí fatto stato, per virtú del quale è lecito loro di vivere in tali scostumatezze. Di modo che essi con ragione non possono essere ripresi; ma ben convenevolmente si deono biasimare coloro che ressero la cittá poco prima di noi. Perciò che essi furono quelli che diedero principio a questa presente negligenza, e spensero l’autoritá e la forza del consiglio dell’Areopago, sotto il cui reggimento la cittá non era piena di liti, di accuse, d’imposte, di povertá, di guerre, ma tranquilla dentro e in pace al di fuori, come quella che era fida e leale ai greci, formidabile ai barbari, avendo salvati gli uni, e degli altri presa tale vendetta, che non pareva loro poco, se dai nostri fossero lasciati stare senza altra offesa. Adunque per queste cagioni vivevasi a quei tempi in una tanta sicurtá, che nelle ville si vedevano le case e le masserizie piú belle e di piú prezzo che dentro alle mura, e non pochi cittadini ci aveva che mai non venivano alla cittá, né anco per le feste, volendo innanzi stare a godersi i beni propri, che partecipare dei comuni. Perocché nello appartenente agli spettacoli, i quali avrebbero [p. 180 modifica]potuto muovere le persone a venire, si procedeva allora assennatamente, senza punto d’insolenza o di fasto; avvengaché non si misurava la felicitá dalla pompa delle processioni, né dai gareggiamenti nella sontuositá dei cori, né da altre sí fatte borie, ma dalla modestia nel comunicare insieme, e dal tenore della vita giornaliera, e dall’essere ciascun cittadino sufficientemente fornito del bisognevole, dalle quali cose si vogliono prendere i veri argomenti del buono e prospero stato e del non odioso convivere cittadino. Poiché oggi, a dir vero, io non so come possa fare niuno che buon giudizio abbia a non si attristare, considerando lo stato delle cose, e veggendo alcuni cittadini, dinanzi alle curie, trarre a sorte se essi avranno o non avranno da vivere per sé stessi, e questi medesimi volere che si conducano a soldo e si mantengano rematori greci, e certi danzare in drappi d’oro, e passare poi la vernata io non vo’ dire in che panni; e altre somiglianti contrarietá che occorrono nello stato presente, con grande ignominia pubblica. Niuna delle quali cose accadeva a tempo della signoria del consiglio. Il quale sollevava i poveri dall’inopia coi benefizi del comune, e coi sussidi che erano prestati loro dai ricchi; ritraeva i giovani dalla licenza col sopravvegliarli che faceva, e cogli studi in che gli teneva occupati; gli ufficiali della repubblica dalle ingiustizie e soperchierie co’ gastighi e con fare che tortamente operando, niuno potesse restare occulto; i vecchi dall’ignavia colle dignitá civili e colla riverenza e osservanza della gioventú. E in vero, quale altro piú bello e piú commendevole reggimento si può trovare di uno che per sí acconcio modo provvedeva a ogni cosa? Dunque dello stato di allora noi abbiamo detto il piú, e ciascuno potrá di leggeri intendere che quanto si è tralasciato di dire, fu conforme e corrispondente a quello che si è ragionato.

Ora avendomi alcune persone udito recitare le predette cose, mi diedero quelle maggiori lodi che si potevano, e dissero degni d’invidia essere i nostri antichi per avere usato questa forma di reggimento; ma in un medesimo tempo giudicarono che voi non potreste essere indótti a praticarla, ma [p. 181 modifica]che, lasciandovi guidare all’usanza, torreste di voler prima patire i danni e le incomoditá dello stato presente, che godervi con migliori ordini una vita migliore. Anche dicevano che io consigliandovi il vostro meglio, porterei pericolo di parere inimico del popolo, e darei materia di sospettare ch’io m’industriassi di ridurre la cittá sotto la signoria di pochi. Ora, se i miei ragionamenti fossero stati di cose sconosciute e nuove, e che io vi avessi confortato a eleggere consiglieri o dettatori che di quelle dovessero deliberare, nel qual modo fu spenta la potestá del popolo ai tempi addietro, io potrei ragionevolmente incorrere nelle dette imputazioni. Dove che io non ho detto cosa di cotal fatta, ma ho ragionato di un governo, non mica occulto, ma palese; il quale tutti sapete essere stato adoperato dai nostri antichi, e avere partorito innumerabili beni, non che alla nostra patria, eziandio agli altri greci; oltre di ciò essere stato prescritto e stabilito da uomini i quali è forza che ciascuno si accordi a tenere per li cittadini piú popolani che sieno stati mai. Di modo che ella sarebbe pur dura e indebita cosa che per confortarvi di ripigliare questo cosí fatto ordine di repubblica, io fossi riputato cupido di novitá. Senza che di leggeri voi potete conoscere il mio sentimento anche da questo, che nella piú parte delle aringhe e dei discorsi detti da me insino a ora, io condanno le signorie di pochi, le prepotenze, i privilegi; e lodo le ugualitá e gli stati di popolo, come che non tutti, ma solo i bene ordinati, con rettitudine e buono accorgimento, e non alla cieca. E lodogli perciocché io trovo che i nostri antichi con un sí fatto stato si avvantaggiarono di gran lunga dagli altri popoli, e che i lacedemoni hanno la piú bella repubblica che sia di questi tempi, perché si reggono piú popolarmente. E che questo sia vero, veggiamo che nella elezione dei magistrati, nell’uso del vivere quotidiano, e in qual si sia studio e instituto, seguono l’egualitá e la conformitá piú che gli altri popoli, cose combattute sempre dalle signorie di pochi, e sempre usate da quelli che si reggono per istato popolare bene acconcio. Cosí, se noi vorremo por mente alle altre cittá, riandando un poco, troveremo che [p. 182 modifica]alle grandi e piú rilevate, meglio conferiscono i reggimenti del popolo che quei di pochi. Essendo che questo medesimo stato nostro che tutti riprendono, se noi lo paragoniamo, non piú con quello che io v’ho raccontato innanzi, ma con quello che fu al tempo dei Trenta, quasi che egli ci parrá una cosa divina. Io voglio, quando anche sieno per dire che io mi dilungo alquanto dal mio soggetto, ricordare qui e dimostrare quanta differenza sia dallo stato presente a quello di allora; acciò niuno dica che io vo molto sottilmente cercando e discutendo i falli del popolo, e da altro lato se egli si trova pure che quello abbia fatta alcuna bella o nobile e degna opera, che io la passo in silenzio. Non sará questa parte del mio ragionare né troppo lunga né senza qualche profitto degli ascoltanti.

Perduto dunque che avemmo il nostro navilio nelle marine de l’Ellesponto, e venuto il comune in quelle disaventure che ne seguirono, sanno bene i piú vecchi che quelli che erano chiamati popolani o di parte di popolo, si dimostrarono apparecchiati a dover innanzi sostenere ogni peggior cosa, che ubbidire ad altri; riputando grandissima indegnitá che quel popolo che aveva avuto in mano il governo della Grecia fosse veduto sottoposto alla dominazione altrui. E che questi tali furono esclusi dall’accordo. All’incontro quelli che volevano lo stato di pochi, disfatte con pronto animo le mura, agevolmente si acconciarono alla servitú. E laddove al tempo che il reggimento era in potestá del popolo, i nostri avevano in mano le fortezze degli altri, venuta la repubblica sotto i Trenta, la nostra fortezza medesima fu in possessione degl’inimici. E sanno ancora che a quel tempo la cittá fu serva dei lacedemoni; ma poiché i fuorusciti, tornando, si ardirono a combattere per la libertá, e da Conone fu vinta quella battaglia marittima, essi lacedemoni ci mandarono per loro ambasciatori cedendo la signoria del mare. E anco de’ miei coetanei chi è che non si ricordi come lo stato popolare da un lato, con tempii e con sacrifici, rendette adorna e splendida la cittá per modo che anche al presente la foresteria che vi capita la giudica degna di comandare a tutto il mondo, non che alla Grecia; [p. 183 modifica]e dall’altro lato i Trenta spogliarono i tempii, trascurarono i sacrifici, e furono allora venduti e dati a disfare gli arsenali per tre talenti, dove che la cittá ve ne aveva spesi insino a mille? Né anche si troverá niuno che in quanto alla lode della mansuetudine, voglia anteporre al reggimento del popolo quelli di costoro. I quali, recatasi in mano per virtú di un decreto la potestá della repubblica, mille e cinquecento cittadini ammazzarono senza forme giuridiche, e piú di cinquemila sforzarono a rifuggirsi come esuli nel Pireo. I popolani in contrario, ricuperata la patria per virtú di armi e di vittorie, tolti solo di mezzo i principali autori delle calamitá passate, composero le cose intra i cittadini con tanta giustizia e onestá, che i ripatriati non istettero pure di un menomo vantaggiuzzo al di sopra di quelli che gli avevano posti in bando. Abbiamo eziandio questo sopra tutto gli altri bellissimo e grandissimo testimonio della bontá del popolo, che avendo quelli di dentro pigliato a interesse dai lacedemoni la somma di cento talenti per cagione dell’assedio del Pireo, che si teneva per gli usciti, ragunato il popolo per deliberare della restituzione di detta somma, e dicendo molti che il soddisfare ai lacedemoni si apparteneva di ragione a chi aveva improntato i danari e non agli assediati, il popolo determinò che la restituzione si facesse in comune. Con sí fatti modi ci recarono a tanta concordia e tanto avanzarono la cittá, che i lacedemoni, i quali a tempo dei Trenta ci mandavano, si può dire, ogni dí ordinando quello che piaceva loro, poi rimesso in istato il popolo, vennero chiamando mercede e pregando che non gli lasciassimo distruggere dai tebani. E per dire in somma, le intenzioni delle due parti furono cosí fatte, che quella voleva comandare ai cittadini e servire ai nemici, questa comandare agli altri, e coi cittadini serbare l’ugualitá. Queste cose mi è paruto toccare per due cagioni; prima per dare ad intendere che io non sono vago né di signorie di pochi né di prepotenze, ma di una buona e ben composta repubblica; poi per dimostrare che gli stati di popolo, eziandio se male ordinati, sono manco nocivi; e quando poi si reggono per buoni ordini, sono migliori e piú [p. 184 modifica]degni che qualunque altro, per essere piú giusti, piú accomunati, e fare la vita piú dolce.

Forse non mancheranno di quelli che si maraviglino come io vi conforti a lasciare questo reggimento, che si trova avere operato tanti e cosí begli effetti; e in iscambio di quello, prendere un altro; e come avendo ora lodato sí magnificamente lo stato di popolo, poi d’ora in ora, mutata opinione, io lo condanni e mi dolga delle cose presenti. Ora voi dovete sapere che, se io veggo anche una persona privata fare alcune poche cose bene e molte male, io la riprendo, e tengo che ella sia da manco che non si conviene: e piú, se questo tale è disceso di assai valent’uomini, e che egli sia pure un poco migliore che la schiuma degli scellerati, ma peggiore assai che gli antichi di sua famiglia, in caso tale io lo biasimo, e dandosi l’occasione, io lo consiglierei di lasciare cosí fatto essere. Con ciò sia dunque che anco delle comunitá io giudichi per gli stessi termini, stimo che a noi non si convenga troppo pregiarci né tener paghi se noi siamo stati migliori e piú leali che alcuni sciagurati e matti, ma piú presto sdegnare e avere per male se noi ci troviamo essere peggiori che i nostri passati; colla virtú dei quali e non colla malvagitá dei Trenta ci abbiamo a paragonare: massime che a noi si conviene essere primi in eccellenza fra tutti gli uomini. Io non dico ora questa cosa per la prima volta, ma io l’ho detta giá in molte occasioni e a molti, che al modo che noi veggiamo negli altri luoghi generarsi dove una dove altra qualitá di frutti, di arbori e di animali, propria di quella cotal terra e molto eccellente fra quelle che nascono nelle altre parti, cosí medesimamente il nostro terreno ha virtú di produrre e nutrire uomini, non solo di natura attissimi alle arti e opere della vita, ma di singolare disposizione eziandio per rispetto alla virilitá dell’animo e alla virtú. Si conosce questa cosa manifestamente sí per le antiche battaglie fatte dai nostri colle Amazzoni, coi Traci e con tutte le genti del Peloponneso, e sí per le guerre avute coi re di Persia, dove i nostri, ora soli e ora con quelli del Peloponneso, per terra e per mare, combattendo e vincendo, [p. 185 modifica]riportarono i premi e gli onori principali delle vittorie. Le quali cose per certo non avrebbero potute fare, se essi non fossero stati da molto piú che gli altri uomini di natura. E niuno si pensi che pervenga da ciò alcuna eziandio menoma lode a noi cittadini di oggidí; anzi per lo contrario. Perocché queste simili, sono lodi verso chi si dimostra degno della virtú degli antecessori, ma verso quelli che colla loro ignavia e cattivitá svergognano l’eccellenza della loro stirpe, elle sono riprensioni e biasimi. Siccome (vaglia il vero) facciamo noi, che si fatta natura avendo, non l’abbiamo saputa serbare, ma siamo caduti in grande ignoranza e confusione e in molte cattive cupiditá. Ma se io volessi, seguitando questa materia, mordere e accusare i fatti di questi tempi, dubito che io non dovessi trascorrere troppo lungi dal mio proposito. Però di questi fatti lasceremo stare al presente, se non che siccome io giá ne ho ragionato per addietro, cosí per l’avvenire altre volte ne ragionerò, se non mi sará venuto fatto di rivocarvi da cotesti andamenti torti e nocevoli. Ora tornando in sul proposito primo di questo ragionamento, dette che io ne avrò certe poche cose, darò luogo a quelli che volessero altresí esporre la loro sentenza sopra questa materia.

Dico adunque che se noi vorremo continuare a reggere la cittá nella forma che si usa oggi, egli non ci ha rimedio alcuno che noi possiamo fare altro che tutto giorno stare in consulte e in guerre, e vivere cosí come ora e di questi tempi addietro, e patire e operare tutti gli stessi mali. All’incontro, ripigliando la forma usata in antico, manifesto è che per la ragione medesima, quella condizione e quello andare avranno le cose nostre che ebbero quelle degli antenati. Perciocché dagli stessi ordini di repubblica necessaria cosa è che risultino i fatti o conformi o simili. Dei quali fatti prendendo i piú riguardevoli, si vuol porgli a riscontro, e cosí risolvere quali ci sia piú in acconcio di eleggere, o gli uni o gli altri. E prima veggiamo la condizione di quello e di questo reggimento verso i greci e i barbari, essendo che non piccola parte conferiscano costoro al ben essere della cittá, ogni volta che [p. 186 modifica]procedano le cose per opportuno modo tra loro e noi. I greci dunque avevano tanta fede al reggimento di quei tempi, che la piú parte di loro volontariamente si diedero nelle mani della cittá; e i barbari, non che s’impacciassero dei fatti della Grecia, ma essi non si ardivano di scorrere colle galee fin presso a Faselide, e colle genti di terra non passavano di qua dal fiume dell’Ali, e in fine attendevano a star quieti. Oggi sono ridotte le cose in sí fatti termini che quelli ci portano odio e questi dispregio. Dell’odio dei greci avete udito dalla bocca dei capitani; e il re di Persia che disposizione abbia verso di noi, bene esso lo ha dato ad intendere per le lettere che ha mandate. Oltre di ciò da quei buoni ordini erano i cittadini per cotal guisa informati a procedere virtuosamente, che essi tra loro da un lato nessuna offesa e nessuna molestia facevano gli uni agli altri, e all’incontro, se alcuno di fuori veniva con armata mano sopra il contado, essi valorosamente combattendo, sempre riuscivano vittoriosi. Noi per contrario non lasciamo passare un dí che l’un cittadino all’altro non faccia male, e da altra parte nelle cose di guerra usiamo una tanto strabocchevole negligenza, che infino alle rassegne non vogliamo andare se non pagati. Per ultimo, e questa è cosa sopra tutte di gran momento, non era a quei tempi un cittadino che avesse disagio del necessario, e che si vedesse, limosinando per le vie, fare onta e vituperio alla cittá; laddove ora sono piú i poveri che gli agiati: e bene è da perdonare a questi cotali bisognosi se eglino niuna cura hanno delle cose pubbliche, ma si vanno pure ogni dí argomentando del come trovar modo a durare insino a domani.

Tenendo io dunque che, se noi vorremo imitare gli antichi, saremo liberi da questi presenti mali, e cagione anco di salute non alla cittá solamente, anzi a tutta la Grecia, ho messa innanzi questa deliberazione e detto questo ragionamento. Voi, considerata bene ogni cosa che avete udita, fate quella risoluzione che crederete essere in maggior beneficio della cittá.