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Patria Esercito Re/Parte seconda/Dieci anni dopo

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Dieci anni dopo

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Parte seconda - Re Umberto al Chievo Parte seconda - Epilogo
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Dieci anni dopo


I.


Telegramma Reale. — I corazzieri. — Tutto pronto. — Grandine devastatrice. — Ufficiali esteri. — Corte militare. — Dopo dieci anni. — Il conte Brambilla. — Un buon parroco.


Il giorno 28 dell’agosto 1897, giunse a Bosco Chiesanuova questo telegramma:

“Sua Maestà il Re, accettando con piacere la cortese ospitalità offerta da V. S. I., la informa che domani, domenica, col treno delle 16.10, giungeranno a Verona il marchese Borea e il colonnello Greppi, con tre impiegati, per concertare circa gli alloggi. — Affettuosi saluti. — Gianotti„.

Da questo telegramma si capisce come noi, non appena si sparse la notizia che alle Grandi Manovre del 1897 sarebbe intervenuto S. M. il Re, ci s’era affrettati — e per mezzo del Sindaco, e direttamente per lettera — a far consapevole il Sovrano che, come dieci anni prima, e casa e villa e ogni cosa, erano a sua disposizione.

Se l’altra volta la venuta di S. M. riesci quasi improvvisa, questa volta, trattandosi di un più lungo soggiorno, e con un seguito più numeroso, il Re volle, con singolare bontà, darne l’avviso in tempo.

I giornali, manco dirlo, cominciarono subito a riempire le colonne della novella; e già da molte parti d’Italia piovvero al Chievo offerte di ogni [p. 326 modifica]specie. Impianti elettrici, acetilene, fuochi artificiali, prospettive a bengala, vini... liquori... e, persino, biscotti nuovissimi!... Ognuno intendeva così di ottenere poi un sospirato brevetto di fornitore della Real Casa.

Dalla data dell’avviso telegrafico a quello dell’arrivo, dovevano correre quasi quattordici giorni — il doppio, cioè, del tempo che impiegò Domineddio nella creazione del mondo. Così che, assistiti amorosamente dagli impiegati della Casa Reale — arrivati alcuni giorni prima della venuta del Re — con poca fatica, tutto fu pronto, bene o male, a riceverlo; e l’animo di chi doveva ospitarlo per la seconda volta, era alquanto più tranquillo che non lo fosse la prima.

Giacche c’era il tempo, si curarono specialmente le macchie del giardino, i tappeti verdi, i gruppi di piante: e, in genere, tutta la decorazione interna ed esterna.

I viali di ghiaja passati al crivello. I prati pettinati come una sposa al dì delle nozze.

— Uhm... meno male! — diceva fra se il proprietario — stavolta tanto, possiamo ricevere S. M. in modo meno indecente.

Neanche a farlo appostai.... Iddio volle punire quel timido atto di vanità....

II 12 settembre 1896 — non dimenticheremo mai quella data funesta, si campasse cent’anni — cioè due giorni prima dell’arrivo del Re, certe nuvolette bianche che facevano capolino su su dalla montagna, e altre scure scure che sorgevano rapide dalla parte del Lago di Garda, quasi volessero darsi fra loro amichevole convegno; più, un impetuoso vento pregno di un acre odore di tempesta, ci fecero aprire meravigliati la bocca, e inarcare le ciglia. Quel convegno di nubi da nord e da sud, era molto sospetto, annunciava qualche cosa di grosso... ma molto grosso!

In fatti, il rapido cammino di quelle nuvole non diede nemmeno il tempo di pensare alla difesa.

Difendersi?... Nel tempo che si dice un’Ave, ecco giù una grandinata secca grossa e fitta, che coperse durante dieci buoni minuti, di una strato candido come la neve, viali, prati, macchie... ogni cosa!

Il simpatico capitano Emanuel, e i suoi sessanta corazzieri, arrivati poco prima, tutti gl’impiegati della Casa Reale, che dianzi ci avevano assistiti, erano lì muti, intontiti davanti allo spettacolo di tanto disastro; e a vederli, parevano più di noi stessi sorpresi e addolorati.

L’Arena del giorno 13 così descriveva il nubifragio:

“Un uragano devastatore si scateno ieri verso le 4 sulla nostra città e Provincia.

Le campagne più ubertose, i vigneti più promettenti, ora altro non sono che steppe desolanti ed alberi sfrondati come in gennaio.

[p. 327 modifica]“Proveniva dal lago. Lembi di nuvole biancastre turbinavano sotto una distesa di nuvoloni neri.

“Un vento furioso ne annunciò l’arrivo in città, e la grandinata verso le 4.30 incominciò la sua opera di distruzione.

“A San Martino della Battaglia si scatenò in tutta la sua violenza distruggendo ogni cosa.

“A San Giorgio in Salici e Castelnuovo la tempesta grossa come uova, raggiunse l’altezza di trenta centimetri.

“Il turbine avanzò in direzione della linea ferroviaria, scatenandosi su Peschiera, Castelnuovo, San Giorgio in Salici, Oliosi, stazione di Sommacampagna, Parona, Chievo.

“Grosse piante furono divelte, e, per mero caso, non accadde un disastro al passar del diretto proveniente da Verona...

“Alla stazione di Porta Vescovo, cadendo sul coperto della tettoia, spezzò una cinquantina di vetri, e l’acqua cadde a precipizio allagando ovunque.

“Il viale della stazione fu devastato; le foglie ed i rami coprivano il suolo; e in piazza Indipendenza, in piazza Vittorio Emanuele, al Pradavalle, gli alberi furono denudati.

“Questa mattina gli spazzini e i giardinieri lavoravano a caricare sui carri le foglie ed i rami ammassati in grandi mucchi.

“Secondo i calcoli di vari possidenti convenuti a Verona, la zona della Provincia che fu più colpita dal nubifragio, avrebbe una estensione superiore ai 400 chilometri quadrati„.

Se tanto mi da tanto, figuriamoci il giardino del Chievo, che si trovò proprio nel mezzo della battaglia celeste! Qui, una volta liquefatto lo strato candido che aveva steso la grandine, e scoperta a nudo la piaga, il quadro che si presentò ai nostri occhi fu davvero desolante. Sui pochi rami che ancora rimanevano attaccati alle piante, quasi più una foglia verde! Sui viali, invece, dianzi bianchi di ghiaja, tutto quanto uno strato verde alto più di una spanna, irto dei rami caduti, di corteccie scorticate, di sterpi, e persino di nidi travolti, e uccellini uccisi dalla rabbia degli elementi...

Non parliamo dello stato miserando in cui apparvero le macchie e i gruppi di palme; i vasi frantumati, e rotolati a parecchi metri di distanza. Coleus, Arum, Muse, Latanie... una vera frittata!

Furono persino divelte, e condotte a spasso pel giardino, le tende e le baracche, ancora in via di costruzione... Insomma la fine del mondo.

E S. M. il Re doveva arrivare due giorni dopo!... E nemmeno un fiore per ornargli la tavola!

In mezzo a quel po’ po’ di disastro, una sola cosa ci consolava: il pensiero che S. M., arrivando quasi a sera, non avrebbe veduta quella frittata... illuminata dal sole. Magra consolazione!

[p. 328 modifica]Intanto, a Verona erano già arrivati il ministro della Guerra Generale Luigi Pelloux col marchese Rangoni, suo ufficiale d’ordinanza; ambedue vecchie conoscenze di Verona, ove il primo era stato comandante del V Corpo d’Armata.

A Dossobuono, invece, piantava le sue tende l’illustre dottor Postempski, col suo ospedale da campo; il quale dottore, per quanto celebre nell’arte sua, avrebbe indarno escogitato un efficace farmaco per sanarci dei mali piovuti, quel dì stesso, dal cielo.

A Verona arrivava pure il tenente generale Morra di Lavriano — comandante generale, allora, di quelle grandi manovre, e più tardi, nostro ambasciatore presso il Cesare di Russia.

Nel 1887 non si era trattato che di una ristretta manovra d’assedio; ora trattavasi di cose grosse...

Attacchi e contrattacchi, getti di ponti sul Mincio; grandi manovre, infine, che dovevano svilupparsi fra Sommacampagna, Valeggio, Monzambano, Monte Croce e Custoza.

L’azione attiva però non doveva cominciare che il 15, coll’arrivo sul posto di S. M. il Re.

Non mancavano gli addetti militari di tutto l’orbe terracqueo, nelle loro svariate uniformi: Germania, Austria, Russia, Rumania, Spagna, Svezia, Svizzera, Stati Uniti... e persino il Giappone. Non mancava che la Cina... ma sarà per un’altra volta!

Avremo, più avanti, l’occasione di fare la personale conoscenza di tutta codesta rappresentanza militare... a tavola.

S. M., colla sua Corte militare e civile, doveva giungere alla stazione di Porta Nuova alle ore 6.47 minuti; e alle 6.52, dato che il treno non fosse vittima dei soliti ritardi, doveva discendere alla fermata provvisoria del Chievo, a nord della Villa, come nel 1887. La quale fermata però, questa volta, era stata trasformata in una vera e propria stazione, con comoda piattaforma per l’imbarco e lo sbarco dei cavalli, e per lo scarico delle merci e delle vettovaglie.



Ma, giacchè siamo a parlare del seguito Reale e della sua Casa civile e militare, fermiamoci un momento sulle persone che la componevano.

Come Casa propriamente detta, nel suo numero, non era molto [p. 329 modifica]differente da quella di dieci anni prima; specie nella qualità dei pesci grossi, e di quelli mezzani. Molto più numerosa era, invece, quella dei pesci piccoli, bipedi e anche dei quadrupedi. Il tutto rallegrato dalla presenza di sessanta bei corazzieri, meraviglia degli uomini e sospiro di molte fanciulle.

Questa volta, fra villa e annessi, si calcola che dormissero non meno di dugentocinquanta persone. Pareva un mondo nuovo; era una fantasmagoria; e chi ricorda di quei giorni l’animazione, il quadro lucente per armi e ornamenti, il movimento delle carrozze e dei cavalli nella corte; lo svariato intreccio di tante divise nostrane e straniere.... e quel buon Re, là costantemente sulla soglia d’entrata, prima e dopo colazione, prima e dopo pranzo; ricorda uno dei quadri più belli che uno possa aver goduti nel corso della vita.



Al posto del tenente generale conte Raffaele Fasi, passato a migliore, — ma non so se altrettanto gloriosa — vita, era stato nominato primo aiutante di Campo, il tenente generale Ponzio Vaglia; a questi veniva dietro l’altro tenente generale conte Coriolano Ponza di S. Martino — ministro poi della guerra — un nome celebre nella storia del regno di Sardegna, il quale dovette, certo, ogni giorno rimpiangere, sul suo letto di spine della Piletta, i bei giorni passati al Chievo accanto al suo Re. — Veniva poi il maggior generale Appelius — quello stesso che, dieci anni addietro, era stato Capo di Stato Maggiore del generale Pianell — e, per ultimo, i due tenenti colonnelli di cavalleria: nobile Luigi Greppi, oggi generale, e il povero colonnello Santi — immaturamente morto dopo poco tempo. — Veniva finalmente il capitano di Corvetta conte Paolo Revel, un simpatico rampollo, [p. 330 modifica]anche lui, di una di quelle illustri famiglie piemontesi che diedero alla patria e al Re ingegno e sangue.

Della Casa civile, veniva in prima linea il conte Cesare Gianotti, prode soldato, ora prefetto di palazzo e Gran Maestro delle Cerimonie; poi il marchese Borea d’Olmo e il pacifico conte Premoli; poi il Grande Scudiere Piero Corsini. Mancava il Grande Cacciatore, conte Giulio Carminati di Brambilla, il fido amico e confidente di S. M., perchè qui egli non aveva occasione di regalare — ciò che faceva con tanta grazia — nè fagiani, nè stambecchi, e nemmeno... cinghiali, a nessun sindaco d’Italia.

Erano pure ospiti di S. M., il ministro della Guerra Pelloux e il tenente generale Saletta, che occupava il posto dell’altro illustre morto, generale garibaldino, Cosenz.


Detto ciò, torniamo nel paesello di Chievo che volle anche questa volta, come dieci anni prima, farsi onore.

Il manifesto municipale, se parlava anche oggi delle ristrettezze comunali e della impossibilità perciò di fare cose grandi, diceva tuttavia che il popolo vi avrebbe supplito colle larghezze del cuore; larghezze che più delle altre sarebbero state gradite da S. M. il Re.

Però le ristrettezze del bilancio non impedirono la comparsa dei cartellini tricolore; non impedirono ai più modesti balconi, alle più umili finestrine, di vestirsi da festa; e meno ancora, impedirono che sul campanile della Chiesa, così come nel 1887 — una a sud e l’altra a nord — sventolassero, un po’ sbiadite dagli anni, ma sempre care, le due note bandiere. Quelle due bandiere che furono causa allora di dispiaceri pel buon Simone Peruzzi, e di grande lotta intestina per l’ottimo Don Antonio Cometto, parroco del Chievo, sempre vivo e verde, per fortuna del paese e sua.

Martedì 14, S. M. doveva arrivare verso le sette; ma al Chievo s’era già raccolta una massa di gente molte ore prima. Lungo il binario della ferrovia che corre davanti al cancello del giardino, in luogo dei fiori distrutti dalla bufera, si muoveva una decorazione di enti umani: contadini, operai, artisti, braccianti, villeggianti maschi e femmine, ivi convenuti da vicino e da lontano, col cuore in palpiti e le labbra pronte a dare sfogo all’entusiasmo internamente compresso.

Ci sono, manco dirlo, le solite bande musicali; e là, sulla soglia del cancello spalancato, tutto ciò che il Comune vanta di autorità civili.... ed ecclesiastiche. Perchè il buon parroco, cui pesa ancora sul cuore il rifiuto al pranzo reale di dieci anni prima, vuole che il Sovrano sappia, che lui è sempre quello dalle due bandiere... E veste per la circostanza una tunica nuova fiammante, ch’è di tibet, ma pare di seta.

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II.


Nell’attesa. — A Porta Nuova. ― Viva il Re! — Umberto al Chievo. — Primo pranzo. — Custoza e Montecroce. — Lo Stendardo dei Savoja. — Diluvio. — Vento igienico. — Cessate il fuoco!


A Porta Nuova, intanto, più di cinquemila persone fanno ressa dentro, fuori, e intorno alla stazione. È una folla, anche questa, ansiosa di rivedere quel Re che per fascino e per bontà nessun altro uguaglia.

Anche qui, autorità... più autorevoli e più numerose... consigli comunali e provinciali, deputazioni, associazioni, circoli... non manca nessuno.

Pochi minuti dopo giunta la macchina staffetta, che prosegue da Porta Nuova dritta a Parona, ecco la cornetta che annuncia l’arrivo del treno reale.

Questi arrivi, suppergiù, si rassomigliano tutti. La macchina entra sbuffando; e, neanche a farlo apposta, va quasi sempre a fermarsi una cinquantina di metri più lontana dal gruppo, che aspetta, col cappello in mano, occhi e bocca spalancati, l'ambito saluto reale.

I distanziati, sbuffando come la macchina, divorano quei cinquanta metri e fanno, nuova corsa al pallio, a chi arriva primo all’onore della regala stretta di mano...

Qui segue tutto il solito cerimoniale, e il non men solito entusiasmo. S. M. il Re non dimentica nessuno. Affacciato allo sportello della carrozza, chiama a uno a uno, deputati, senatori, tutte le autorità maggiori e minori. Si congratula col sindaco Guglielmi di vederlo ancora, dopo dieci anni, a capo della amministrazione della sua cara Verona, e lo invita ad accompagnarlo fino alla villa.

— Viva il Re! — e il treno parte allegramente verso la mèta: il Chievo.

Vi arriva alle sette e quattro minuti. La folla prorompe in acclamazioni. La banda, anzi le due bande, ci danno dentro a doppi polmoni, e combinano insieme una dissonanza... patriottica, cui nessuno presta orecchio, perchè tutti i sensi dei presenti sono concentrati nel Re.

Questi scende dal treno con aria soddisfatta, stringe per primo la mano a chi deve per primo incontrarlo, a colui ch’egli aveva l’abitudine di [p. 332 modifica]chiamare: “il mio buon padrone di casa!„ Dopo, si avvia, salutando a destra e a sinistra i plaudenti, verso la soglia del cancello, dove lo stanno attendendo i notabili sullodati; e i primi cui S. M. dirige la parola sono il sindaco e il parroco, fra loro vicini come i due fratelli Siamesi.

— Sono contento di trovarmi ancora in mezzo a loro, dopo tanti anni — disse S. M. — Siamo un po’ invecchiati: ma almeno siamo invecchiati insieme.

— Dio conservi a lungo V. M. — sclamò il buon sacerdote — che per noi, poco importa.

— So che qui mi vogliono bene. Rammento sempre con compiacenza le dimostrazioni di affetto ch’ebbi nel 1887.

Indi si mosse, e chiamandoci vicini, chiese notizie del nubifragio di due dì innanzi.

— Si guardi intorno Maestà!... Veda in che condizioni siamo obbligati di riceverla! — e si additò gli avanzi della grandinata, qua e là accatastati in forma di montagnuole.

— Uhm! non me ne sarei accorto! — fece il Re con quella gentilezza
d’animo che incoraggia e consola. Così discorrendo, si diresse verso la villa; percorrendo a piedi tutto il viale che dieci anni addietro aveva percorso in carrozza per recarsi subito ai forti d’assedio.

Giunto all’ingresso, salì i pochi gradini che mettono nell’atrio e si volse a salutare il corteo, che intanto gli formò davanti un mezzo cerchio.

Il sole che stava tramontando, concedette all’orizzonte ancora qualche sprazzo di luce. A destra dell’entrata, stavano schierati dodici corazzieri in alta tenuta; a sinistra, dodici livree rosse; e questi e quelle incorniciavano il quadro con effetto nel suo insieme stupendo.

Alle sette e mezzo le autorità, congedate dal Sovrano, si ritirarono; e, come tutti i salmi finiscono nel modo che ognuno sa, così passata mezz’oretta — il tempo di vestirsi — ci sedemmo a pranzo. Era un pranzo, diremo così di famiglia; come [p. 333 modifica]risulta dalla unita nota dei posti e dei presenti — nota che ci permettiamo di pubblicare tal quale era ordinata e scritta sotto la direzione dal Gran Mastro delle Cerimonie conte Cesare Gianotti.

La dimane, verso le sei, con un tempaccio perfido, S. M. saliva in treno al cancello nord; e alle sei e cinquantanove minuti era giunto a Villafranca.

Tralascio di descrivere le accoglienze entusiastiche che Sindaco e autorità locali, e popolo, fecero, al suo scendere dal treno, a colui che nel 1866 — più di trent’anni prima ― ivi riceveva il battesimo del fuoco, eroicamente impavido in mezzo allo storico quadrato.

Pioveva a dirotto, ma nessuno se ne dava pensiero, tutti occupati solamente del Re; il quale dopo breve colloquio e molte strette di mano, salì a cavallo, e messosi al trotto, si recò direttamente sul colle di Custoza.

Lo attendeva Don Pivatelli: quel sacerdote patriotta cui in gran parte l’Ossario è dovuto, morto anch’esso da poco tempo e decorato dalla Croce dei SS. Maurizio e Lazzaro, di cui il bel nastro verde sfidava impavido, anch’esso, i dispetti della pioggia irriverente.

Appena giunti sul colle, un brigadiere dei Corazzieri Reali andò a piantare in terra, come segno della presenza del Sovrano, lo stendardo di Casa Savoia.

Tale segno della reale presenza veniva dal Re usato per la prima volta in quell’occasione; ed ha la sua storia. Eccola.

Quando Umberto fu alle grandi manovre di Germania ad Omburgo, vide che i corazzieri di Guglielmo portavano un piccolo stendardo con l’acquila imperiale; era affidato a un graduato che seguiva costantemente l’imperatore; lo stendardo veniva piantato come segno della presenza del Sovrano, dovunque egli si fermasse.

Umberto volle imitare l’esempio del suo alleato, e da Omburgo fece telegrafare a Roma, ordinando che lo stendardo dei Savoia venisse subito preparato.

Il desiderio del Re fu soddisfatto; lo stendardo arrivò al Chievo portato dal capitano dei corazzieri.

[p. 334 modifica]Cotesto emblema dovrebbe rammentare quello che anticamente si chiamava lo Stemma di salvezza, che s’innalzava nei campi, sui palazzi, in qualunque località venisse, anche momentaneamente, fissata la residenza sovrana: ed è non molto dissimile da quello, pure usato illo tempore dai Duchi di Savoia — imitato poi dalla bandiera che viene issata sulle navi da guerra, quando vuolsi indicare la presenza a bordo del Re.



Questo ci premeva di notare, per escludere che S. M. Umberto avesse inteso, così facendo, di copiare, sic et simpliciter, la imperiale costumanza!

Il drappo adoperato per la prima volta a Verona, è della larghezza di un metro quadrato. È trapunto in oro su seta azzurra. Campeggia nel mezzo l’aquila Sabauda, circondata dallo storico Collare dell’Annunciata. È accantonato da quattro corone.

L’asta, di velluto pure azzurro, fissata con borchie dorata, porta inciso sulla lancia lo scudo dei Savoia.

Per dire il vero, quello stendardo, veduto così a occhio e croce, fra il vento e la pioggia, artisticamente parlando non ci parve una gran bella cosa... Ma siamo sicuri che il buon gusto storico e archeologico del [p. 335 modifica]giovine nostro Sovrano, saprà dare migliore, e più artistica forma, a cotesto simbolo della sua sovranità, e della sua Casa.

Dunque pioveva e tirava vento; ma il Re fingeva non avvedersene. Rimase là per un’ora buona, seguendo tutte le mosse dei reggimenti, che si agitavano in un vero pantano. Perocchè l’acqua veniva giù a catinelle; e, ajutata dal vento, s’infiltrava anche sotto le nostre uniformi, riempiva i gambali, facendoci fare una cura Kneipp gratis, ma poco igienica.



Quel vento poi, quel vento era proprio nojoso!.. Esso, in compagnia di una pioggia minuta, insistente, ci accompagnò anche sul monte Croce; dove ripiantato lo stendardo, si rimase immobili un’altra buona oretta.

— Meno male che tira un po’ di vento! — disse il generale Ponzio Vaglia che m’era vicino. — Questo ci fa due servizi: serve ad asciugarci la bagnata di fuori, e insieme la sudata di dentro...

Confesso che di questa doppia utilità d’Eolo, che serve di essiccatoio di fuori e di dentro, era la prima volta che ne udivo a parlare. Ma chi vive impara.

Intanto scoccarono le undici. Il sole, a furia di combattimenti e di finte manovre colle nubi, si aperse fra quelle uno spiraglio momentaneo [p. 336 modifica]che diè modo alle invitabili macchine fotografiche di fare bene o male il loro mestiere. Il Re, dopo avere visitato le posizioni ed essere ancora una volta tornato sul colle, sacro ai morti per la patria, diede l’ordine di cessare il fuoco.

Il brigadiere dei corazzieri spiantò da terra l’azzurro stendardo... e noi si riprese la via del ritorno, arrivando a casa, malgrado il vento, molto bagnati di dentro e di fuori, ma in compenso molto affamati.


III.


L’appartamento del Re. — Il principe di Piemonte. — Amedeo — Torneo a Firenze. - Lombardi e Veneti. — Un eroe. — Margherita madre. — Sigarette audaci.


Nell’appartamento destinato a S. M. — lo stesso del 1887 — non vennero fatte radicali riforme: anche perchè era questo il desiderio del Re: il quale, minuto osservatore, se ne sarebbe accorto e, nella sua bontà, dispiaciuto. Non si portarono dunque che piccole modificazioni, diremo così di frangia, tanto per rimediare alle avarie che portano seco gli anni. Si credette, cioè, opportuno di decorare le stanze dell’appartamento reale con qualche memoria che a S. M. potesse almeno riuscire gradita. Alle pareti, dunque, oltre il ritratto di S. M. la regina, fatto nei giorni del suo vivere lieto, venne appeso anche il ritratto di S. A. R. Amedeo Duca d’Aosta, nel costume che indossava nel 1868 in Firenze, al torneo dato in onore del fratello [p. 337 modifica]
 
Margherita di Savoia Principessa di Piemonte - Anno 1870
Alla contessa Erminia Pullè - Margherita di Savoia. - Novembre 1870.

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Amedeo Duca d’Aosta
[p. 339 modifica]suo, principe di Piemonte, che era andato sposo a S. A. R. la principessa Margherita di Savoia.

Quel ritratto era stato donato da S. A. R. il Duca Amedeo, insieme a un giojello prezioso contenente i ritratti di Umberto e Margherita, a tutti i componenti quello storico torneo, del quale parlano ancora le ridenti Cascine di Firenze.


Ernesto Turati Leopoldo Pullè
Ernesto Turati. L’Autore.


Si sa che a quella giostra avevano preso parte moltissimi gentiluomini delle diverse provincie d’Italia, borghesi e militari. Era divisa in diverse quadriglie. La quadriglia Lombarda e la Veneta, s’erano addestrate a Milano sotto la intelligente direzione del marchese di Sartirana, antico colonnello di cavalleria.

Molti furono i volontari del 1859 che figurarono in quello splendido torneo di Firenze — preceduto dall’altro, non meno splendido, dell’antica capitale del Regno.

[p. 340 modifica]Come s’è detto, l’Alta Italia era rappresentata da due squadre: la Lombarda e la Veneta. Le quali vestivano un elegante costume, dovuto al buon gusto del marchese Lodovico Trotti Bentivoglio, già capitano di cavalleria, ufficiale d’ordinanza onorario di S. M. V. Emanuele; un altro soldato della patria di quelli antichi... e buoni.

A quella geniale festa nazionale non poteva mancare il valoroso capitano di cavalleria Malacchia Marchesi de Taddei — del quale ci siamo
 
Marchesi De Taddei.
 
da principio occupati — che aveva a Villafranca nel 1866, eroicamente difeso alla testa del suo squadrone, la vita di quel Principe amato del quale qui volle anche festeggiare le nozze.

Accanto al ritratto di S. A. il Duca d’Aosta, un altro ne spiccava: quello di un giovanetto marinaio, dai grandi occhi eloquenti e sereni, dall’ampia fronte, rivelatrice di una mente colta, equilibrata e forte, di un carattere adamantino; il ritratto di S. A. R. il Principe di Napoli, oggi Vittorio Emanuele III, Re d’Italia.

Ma ciò che a S. M. parve tornasse ancora più gradito, fu la vista del ritrattino di un bimbo, chiuso ancora nelle sue trine infantili, collocato [p. 341 modifica]
 
Vittorio Emanuele di Savoia
 
[p. 342 modifica]sullo scrittoio: il ritratto del reale suo erede, delizia e cura della giovinetta madre, il quale aveva — 27 anni addietro — fatto echeggiare lietamente della sua voce argentina le volte della fatale villa di Monza.

La vista di quel ritrattino, che S. M. prese in mano con curiosità e compiacenza, chiamò sulle sue labbra un sorriso di tenerezza.

Un’altra cosa, di natura ben diversa, fermò l’attenzione di S.M. il Re; cioè una paniera di sigarette d’ogni specie e forma, collocata lì sul tavolino, e accompagnata da tutto l’occorrente per accenderle e fumarle.



Tutti sapevano che Umberto, per ordine dei medici, da grande fumatore di sigari Virginia quale era stato, aveva da qualche anno smesso dal fumare. E fu così grande allora lo sforzo, il sagrificio da lui fatto che, in sulle prime — lo narrava egli stesso — quando vedeva un sigaro fra le labbra di un suo aiutante, gli sarebbe venuta la smania di strapparglielo di bocca, per fumarselo lui!

Se non che, dopo alcun tempo di cotesta vera privazione, il suo medico, il buon Dr. Scaglione — passato anch’egli nel numero dei più — gli aveva fatta la concessione di fumare qualche sigaretta. Ed era tanta [p. 343 modifica]l’abitudine di non farlo, che niuno ne seppe nulla; e quando il Re fumava lo faceva di nascosto, quasi stesse commettendo un delitto.

Ecco perchè la presenza di quella paniera di sigarette lo sorprese; e doveva sorprenderlo. Laonde, rivolto al padrone di casa, fra molto dolce... e un finto brusco, gli disse:

— Come ha fatto lei a sapere che io fumo sigarette?

— Non fui io, Maestà, a saperlo, è stata la polizia segreta di mia moglie.

Il Re sorrise, e per mostrare il suo gradimento, prese dalla paniera due sigarette — dovevano essere due Salonicco di contrabbando — ce ne offerse una... accese un fiammifero... fumò e ci invitò a fumare.

Questo era proprio il caso di dire:

— Maestà, questa sigaretta la fumerò per tutta la vita!


IV.


Orario di Corte. — Pranzo militare. — A Villafranca. — Giove Pluvio. — Ancora Monte Croce. — I bianchi e i neri. — Zolle cruenti. — Il pallone frenato.


Orario di Corte
Orario di Corte

Ma qui, per cullarci ancora nella dolce illusione di obbedire agli ordini del povero Re, e anche per seguire con certo ordine la storia di quelle sette giornate, che non ritorneranno mai più, procederemo dall’Orario di Corte, ordinato da S. M. e firmato, con firma autentica, dal suo Prefetto di palazzo conte Cesare Gianotti.

E, per cominciare bene, cominciamo col pranzo dato in onore degli ufficiali esteri, il giorno 15 settembre, cioè quello che seguì l’arrivo di S. M. al Chievo.

Di questo, che fu il primo, riproduciamo la pianta e la disposizione della tavola, colla nota [p. 344 modifica]che servì ai cerimonieri per mettere a posto i convitati; nota scrupolosamente studiata dal Gran Mastro delle cerimonie, per evitare — dininguardi!... — qualche delitto di precedenza!



Ed anzi, per non incappare noi pure in qualche omissione... verso il cuoco, riproduciamo altresì una delle minute ufficiali; una di quelle minute che entrano nelle tasche degli invitati per poi rendere felice qualche gentile collettrice di simili documenti; i quali, senza essere registrati nel libro Verde, hanno però sempre, e forse più di quello, la loro brava importanza!

[p. 345 modifica]Saltiamo il pranzo del giorno 16, per non darne una indigestione al lettore; e limitiamoci a dire, per la cronaca, che a questo, oltre alla solita Corte civile e militare, intervennero i generali: Cesano, Pedotti, Morra, Prielli, Avogadro, Perrucchetti, Saletta, Tournon, Mainoni e Osio. Non che tutti i colonnelli e i comandanti di Corpo.



La giornata del 17, il tempo fu più galantuomo. Uno splendido sole radioso sull’orizzonte, salutò alle sei antimeridiane la partenza di S. M. dal Chievo, che si recava col suo seguito a Villafranca. Ivi, sbarcati in fretta i cavalli, il Re inforcò il suo fido bajo balzano e ci mettemmo, un po’ al trotto, un po’ al passo, verso il terreno della finta battaglia.... finta oggi, ma reale e memoranda in tre diverse epoche: 48, 49, 59, 66.

Lungo la strada si odono i primi colpi di cannone; il pallone frenato si libra maestoso nell’aria, risplendente nell’argentea sua veste. Esso domina tutto il teatro dell’azione, mandando telegrammi informativi. L’azione dei due partiti nero e bianco si svolge fra Valeggio, Santa Lucia e Custoza. Le forze del partito nero — est — hanno iniziato il movimento dalla linea Dossobuono-Sommacampagna, fino dalle sette. Il partito bianco — ovest [p. 346 modifica]
 
 
[p. 347 modifica]— si sostiene sulle alture di Custoza e Santa Lucia, acquistate il giorno prima, e che ora il nemico tenta naturalmente di rioccupare. Quelle alture sono vivamente contrastate, ma per fortuna, morti qui non ce ne sono!

Suonano le 8 e un quarto. Spunta il corteo reale su monte Croce per assistere alla prima fase del combattimento.

Intanto pare che l’arrivo del Re abbia rinnovellato gli ardori dei combattenti; il fuoco diventa più nutrito.



Alla Cavalchina si battaglia vivacemente.

È la X Divisione — partito nero — che per Staffalo si avanza a prendere Custoza.

Dopo un accanito contrasto, i bianchi ripiegano verso la valletta, inseguiti a schioppettate dai neri.

Dal Belvedere viene allora scaglionata sulle falde una compagnia; poi un’altra di fronte a monte Croce, per proteggere la ritirata di quelli respinti a Cavalchina.

I neri intanto, precipitano addirittura da monte Croce e aggirano Custoza dalla parte di villa Pignatti; ma vengono respinti. Il combattimento [p. 348 modifica]si fa generale: si può dire che non v’ha metro quadrato di terreno da dove non si spari, e tutta la valle brulica, e crepita.

Arriva il Re di gran trotto, seguito dal suo Stato maggiore.

Egli si ferma a guardare attentamente le mosse dei combattenti, su quelle zolle più volte rese sacre dal buon sangue italiano.

La folla, fra cui una quantità di belle ed eleganti signore, lo saluta rispettosamente.

Il generale Morra galoppa ad incontrarlo.

Fotografi, artisti e dilettanti, manovrano con le loro macchine, invadendo il campo.

In questo momento lo spettacolo è magnifico. Le batterie bianche di Custoza sono costrette al silenzio, e su monte Croce si piazzano le batterie nere, che fulminano l’Ossario.

Il colle è preso d’assalto da tutte le parti.

A Custoza, la V Divisione si scagliona in catene alla Prussiana, pronta al fuoco; mentre le batterie di monte Arabico tirano contro la cavalleria che si avanza nella pianura fra Pozzo Moretto e Staffalo.

Ad un tratto, nella valle si ode un grande urlo: — Savoia! Savoia!

Sono i bersaglieri che attaccano alla baionetta.

I bianchi si ritirano in ordine, facendo fuoco.

Custoza è presa.

Le fucilate e le cannonate si fanno vive da quella parte, monte Marmaor e monte Vento sono gli ultimi ridotti dei bianchi che si ritirano in buono ordine.

A coronamento dell’opera, viene a collocarsi sul piazzale una batteria da nove, e spara allegramente....

Qui, strilli delle signore.... un fuggi fuggi generale.

La scossa dell’aria è infatti terribile.

Il Re parte con tutto il suo seguito e va a Santa Lucia, dove si riduce il centro dell’azione.

Sono le dieci.

Nel ritorno si è un po’ più contenti dei giorni indietro, incominciando a rappacificarci con Giove Pluvio; il quale però non fece veramente giudizio che il dì della rivista; commosso forse dall’arrivo di due Dee dell’Olimpo in terra: S. M. la Regina Margherita, e S. A. R. la Duchessa Elena di Francia.


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V.


Il Sindaco di Verona. — Gite improvvisate. — Pranzo politico. — G. A. Aymo.


Fin dal dì 16, il sindaco Guglielmi, accompagnato dall’assessore Segàla, erano venuti al Chievo per udire da S. M. in quale giorno avesse creduto di onorare di sua presenza Verona. Il Re che stava, al solito, passeggiando in giardino con Pelloux, appena annunciati i messi della Giunta, si diresse alla loro volta rinnovando la promessa, e fissò la giornata del diciotto.



Ciò che non escluse tuttavia, che quello stesso giorno e il giorno appresso, ordinasse prima di pranzo, improvvisamente, gli equipaggi per recarsi a visitare i lavori di difesa dell’Adige, e quella parte di città che si chiama comunemente Veronetta, accompagnato dal deputato del II Collegio. — La qual cosa non impedi il trionfo dei Socialisti nel 1900....

Ma erano improvvisate che immergevano nella desolazione il bravo [p. 350 modifica]sindaco; il quale, avvisato tardi, doveva saltare in fretta in una modesta carrozzella, la prima trovata, e mettersi così alla coda del seguito Reale.



Inutile dire che una massa di popolo, accorso a piedi, in carrozza, in bicicletta, attendeva ogni giorno l’uscita degli equipaggi reali dal cancello della villa, per rivedere a plaudire S. M. il Re.

Il giorno 17, tornati dalla seconda girata in città, assistemmo al gran [p. 351 modifica]pranzo dato alle autorità civili e politiche, al quale intervennero: il parroco di Chievo, cui venne aggiunto l’egregio parroco di S. Massimo, D. Luigi Ceschi; nonchè i tre senatori Messedaglia, Righi e Sormani Moretti, prefetto di Verona; i deputati Miniscalchi, Poggi, Danieli, Lucchini; i sindaci Guglielmi e Bottagisio; il comm. Dorigo.... e tutto il seguito reale più volte nominato.

L’alba del 17 settembre, i cittadini veronesi — quelli mattinieri — lessero incollato ai muri il seguente manifesto:

Cittadini!

Con la più viva compiacenza vi annunciamo che S. M. il Re, tenendo graziosamente l’invito, verrà domani a fare una visita alla nostra città, entrando alle ore 21.30 da Porta Nuova; e ci onorerà della Sua Augusta presenza anche in altri giorni prima della grande Rivista.

Sarà questo per noi uno dei più solenni e fausti avvenimenti, sentendoci orgogliosi di accogliere l’Augusto Monarca con tutto l’ardore del patrio entusiasmo e dell’affetto e devozione che ci irrompe dal cuore per l’amato nostro Re; poichè in Lui si compendia l’avvenire di grandezza e di gloria per la Patria.

Cittadini!

Prepariamoci ad acclamare, con la maggiore effusione dell’animo, l’amato nostro Sovrano; moviamo tutti ad incontrarlo; applaudiamo al magnanimo Figlio del gran Re Vittorio Emanuele, che con sublime eroismo espose la propria vita per far libera ed indipendente la Patria nostra.

Con separato avviso vi è dato il programma degli spettacoli per festeggiare la presenza fra noi di S. M. il Re.

Verona, 17 settembre 1897.

Il Sindaco
A. Guglielmi.„


Ecco come il giornale l’Arena salutava la venuta di S. M. fra le mura Scaligere.

“Il Re viene oggi ufficialmente a salutare i Veronesi.

L’arrivo del Re fra il popolo, è una folata di aria sana che arriva fra noi dal Paese, del quale le istituzioni affidano ancora, perchè Casa Savoia le impersona e le difende.

Gli uomini di Governo — fatte alcune e altissime eccezioni — hanno dato, nell’alterna vicenda, saggio di così poco intelletto politico, che [p. 352 modifica]le fortune dell’Italia sono rimaste la gloria del Re, e il prodotto di una robusta virtù del popolo.

Il Re e il popolo, oggi in contatto, sono dunque due onestà, due forze e due intelletti d’amore che si ritrovano. Sono lo spettacolo di due cooperazioni, una augusta e l’altra umile e immensa, che si abbracciano nell’affanno e nella tenerezza per la patria.

Ogni convegno del Re con il popolo è, non solo una festa, ma una consecrazione nazionale.

Perchè non c’è italiano il quale non senta come Casa Savoia sia tutto il rifugio della fiducia e della speranza nazionale.

Al Re dunque, ch’è il polo della fede nazionale, è il focolare di dove scaturisce l’ossigeno costantemente ravvivatore delle istituzioni — ed è la sincera anima che ascolta il paese e lo avvia al bene — il popolo mandi il saluto d’un figliuolo assistito, e gridi l’evviva che una grande famiglia di forti sofferenti manda a chi li difende giorno per giorno, e li veglia per redimerli dalle avide tirannie degli sfruttatori.

Viva il Re! Viva l’Italia!


Autore di questo articolo, che non riportiamo che in parte, era il cav. G. A. Aymo, nato a Mondovì, ma cittadino di Verona; uno dei caratteri più nobili, fieri e disinteressati di giornalista, che s’incontrino nella vita. Egli morì or sono pochi mesi, e non vi fu cittadino veronese, non penna di giornalista italiano, anche per colore e tendenze avversario, che non lo abbia affettuosamente rimpianto. G. A. Aymo era uno scrittore affatto moderno nel pensiero e nelle opere. In lui, di antico, non ardeva che un’inestinguibile fiamma: l’amore della patria. Egli era forte ed era buono. Figlio di quel Piemonte che fu nido della libertà italiana, chiuse gli occhi serenamente pensando che, se a chi muore coll’arme in pugno sono decretate le insegne dei valorosi, a chi colla penna in mano muore impavido sulla breccia, apostolo del vero, del buono, del sano e umano progresso, sarà un giorno decretato il lauro degli immortali.

Il giornalista Aymo era amato e stimato anche ne’ suoi sfoghi nervosi; perchè davanti all’ingegno e all’opera di chi scrive in buona fede, tace ogni momentaneo risentimento; e ogni anima leale si china reverente. Ecco il saluto estremo che gli porgeva un amico:

“Salma lacrimata e cara, dormi tranquilla nel tuo letto di piombo... E se pure dentro l’urna sognano i morti, e tu sogna i baci delle tue creature!„

Detta così una doverosa parola di omaggio a un’anima eletta di patriota e di scrittore, torniamo alla mattina del 18, tanto dai veronesi aspettata.

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VI.


Umberto a cavallo. — Suo metodo. — Agli accantonamenti. — A Verona. — Entusiasmo di popolo. — Affabilità regale. — Al campo. — Tempo perverso. — Messa al Chievo. — Domine salvum fac regem nostrum.


La mattina del 18, S. M. il Re, accompagnato dal generale di S. Martino, dal Grande scudiere Corsini, e da quattro corazzieri, montò a cavallo per andare a visitare gli accantonamenti nei pressi di Sommacampagna.

Sappiamo già, dall’interessante opuscolo del generale Orazio Lorenzi, che Umberto preferiva i cavalli molto alti, e che aveva un supremo disprezzo per quelli di statura bassa, per quanto fossero rari e belli.

Anche quel giorno dunque, fatta avvicinare una seggiola, inforcò, non senza fatica, un cavallo bianco, alto non meno di 1.70. Passando davanti a noi che, in posizione militare, lo salutavamo, ci disse ridendo:

Eh?!... Alto!... Molto alto! — e uscì dal cancello.

Da Sommacampagna passò a Dossobuono, dove il professore Paolo Postempski aveva il suo ospedale della Croce Rossa; e, tanto per non istare in ozio, S. M. dopo colazione si recò a visitare anche quello militare di Verona.

Finalmente, al dopo pranzo, accompagnato dal Sindaco e da tutta la Giunta, venuti a prenderlo, Umberto, così come aveva promesso, in tiraquattro alla Daumont, si diresse verso Porta Nuova per fare la sua entrata a Verona.

Ivi l’attesa era grandissima: vivo essendo il desiderio di rivedere il Re, non più veduto da dieci anni.

Le gradinate del Municipio e della Gran Guardia, erano state prese d’assalto molto tempo prima. Ovunque era possibile di arrampicarsi, la gente era salita, sostenendo una lotta accanita per conquistare un posto.

La illuminazione delle case era completa. Ad ogni fanale delle vie erano aggiunte due grandi fiaccole a magnesio, da accendersi [p. 354 modifica]simultaneamente all’ingresso di S. M. da Porta Nuova. Presso questa, la gente assiepata, era a stento tenuta in riga dai Carabinieri.

In piazza Vittorio Emanuele, le severe linee dei palazzi del Sammicheli e del Guastaverza spiccavano in tutta la loro bellezza architettonica.



Alle nove e trentacinque minuti, S. M. entra in città. D’un tratto tutte le fiaccole a magnesio si accendono producendo un effetto magico.

Lungo il percorso si cammina al passo.

Quando la carozza reale spunta sui muraglioni, la illuminazione assume proporzioni fantastiche. Un razzo dà il segnale dell’incendio; e d’un tratto, il castello S. Pietro è tutta una fiamma luminosa. La stella d’Italia spicca nel mezzo dell’edificio.

Dal Ponte Navi si abbraccia, d’un sol colpo d’occhio, tutta la illuminazione dei muraglioni e dei colli. Festoni di palloncini alla veneziana, danno una nota gaja al quadro.

L’entusiasmo del popolo raggiunge in certi momenti proporzioni immense. Le signore, dalle finestre, sventolano i fazzoletti: — Viva il Re! — è una frenesia.

Alle dieci e venti minuti, il corteo è di ritorno verso la Gran Guardia. Qui muovono incontro a S. M. i deputati della provincia, seguiti dai più eletti cittadini. Nelle sale stanno attendendolo le dame veronesi.

E lì ci sono pure le autorità giornalistiche delle grandi occasioni. Fra queste notiamo Micco Spadaro, Ugo Pesci e Edoardo Nimenes, reduce da Omburgo, dove aveva seguito il Re nella sua visita a Guglielmo.

In ogni città, grande o piccola, dove Umberto si recasse a manovre, a feste, a inaugurazioni, a disastri, a epidemie.... o a corse, egli non [p. 355 modifica]rammentava di essere il Re che per incoraggiare, beneficare e aiutare. Affabile sempre, e qualche volta persino timido, non isdegnava trattenersi egualmente in colloquio con un modesto fantino, come col primo master delle caccie, o col più o meno illustre direttore delle corse.

S. M. il Re Conte Turati ― Amerigo Ponti.

Imperocchè Re Umberto si sentiva intimo in tutti i cuori, e inspirava nelle persone che lo attorniavano, viva, infinita devozione, libera da ogni rigidità di etichetta.

Così, anche nella sala della Gran Guardia, si trovò tanto bene a [p. 356 modifica]discorrere, da dimenticare di affacciarsi al balcone, dove un uragano di acclamazioni insistentemente lo chiamava.

Non si ritirò da quel posto, e dalla sala, che al ribattere delle undici ore.

Quando la cara e desiderata persona di Umberto si presentò al sommo della gradinata, per risalire in carrozza, lo salutò un urlo assordante e simultaneo di tutta la città ivi convenuta.

Alle undici e mezzo S. M. era ritornata al Chievo.

Nemmeno la domenica 19, ultimo giorno delle manovre, Giove bisbetico volle smettere i suoi capricci. Anche stavolta si lasciò il Chievo sotto un diluvio d’acqua, e in mezzo a un vento indiavolato. Malgrado ciò, giunto a Villafranca, il Re ebbe le solite accoglienze dalla folla accorsa a riceverlo, anche in barba ai dispetti di Giove.

Da Villafranca, in una sola trottata si giunse a monte Croce, dove la battaglia, alle nove ore precise era impegnata su tutta la linea.

Il quinto e terzo Corpo avanzavano, occupando quel monte, e Custoza. Tutta la linea era protetta dall’artiglieria che copriva l’avanzata della fanteria.

Il nemico segnato si ritirava su Sommacampagna, mentre la Divisione Mobile — la quale, tanto nelle manovre quanto nello sfilamento in piazza d’armi, fu veramente ammirevole — s’ingegnava ad aggirarlo e molestarlo. Quella povera Milizia Mobile, ci pare ancora di vederla con meraviglia, diguazzare allegramente in una continua pozzanghera, come tanti ranocchi!

L’azione è vasta e distesa; ma il tempaccio continua a imperversare con una costanza.... croata. Le truppe marciano su Verona.... Ma s’è fatto tardi; e S. M. il Re, che doveva trovarsi al Chievo a mezzogiorno per ascoltare la Messa, è obbligato a telegrafare che prima del tocco non avrebbe potuto essere di ritorno.

Il tocco!.... Ciò che valeva come dire al buon Don Antonio Cornetto; — Ella è condannato a digiunare un’ora di più, oltre l’usato!

Ma possiamo affermare, senza tema di smentite, che per avere la immensa e dolce soddisfazione di pontificare davanti al suo buon Re, egli si sarebbe volontieri sottomesso.... anche ai digiuni del Succi.

E, di fatti, entrati in chiesa al tocco. Don Cometto intonò il Domine salvum fac regem nostrum, con tale e tanta inspirata energia, da dar dei punti al più noto e forte cantore del Duomo di Milano.



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VII.


XX settembre. — Cuore di Re. — La stanza della Pace. — Paolo di Revel. — Sei reggimenti di cavalleria. — Vittorio di Bernezzo. — Le Guide. — Speranza delusa. — Che peccato! — S. M. sarebbe intervenuta. — A S. Martino. — Saluto ai morti! — Tutti tacciono. — Il Re avrebbe parlato.


La mattina del XX settembre il sindaco di Verona faceva pervenire al Chievo il seguente telegramma:

“In questo giorno di festa Nazionale, Verona, orgogliosa di averlo Ospite desiderato, manda esultando all’Augusto Sovrano un caldo saluto, espressione della sua devozione e della fede nei destini della Patria, con Roma intangibile„.

Certo, nello stendere il patriottico telegramma, il Sindaco Guglielmi non si preoccupava se avrebbe, più o meno, urtato i nervi di qualche intransigente della curia vescovile....

S. M. il Re faceva rispondere:

Chievo-Reggia, 20 settembre, ore 19.30.

“Sua Maestà il Re ringrazia la cara città di Verona, che è così lieto di aver riveduto, del saluto inviatogli nella patriotica ricorrenza d’oggi, e di tutte le dimostrazioni di affetto che essa gli ha fatto in questi giorni„.

E, convinto anche il Re del proverbio, che le parole sono femmine e i fatti sono maschi — insieme alle dolci parole aggiungeva il dono, dolcissimo, di cinquemila lire, perchè fossero distribuite fra’ poverelli della città!....



Poi, siccome quel giorno di festa era anche giorno di riposo per le truppe, S. M. il Re, cui non piaceva il mestiere del disoccupato, montò a cavallo, e accompagnato dal solo Ponza di S. Martino, si recò a visitare il campo del Quadrato, presso Villafranca. Volle rivedere quelle zolle, che [p. 358 modifica]il 24 giugno 1866, avevano ammirato, nel giovane principe di Piemonte, la bontà leggendaria dei figli di Savoja. Condotto poi dal generale Morra, entrò in paese e salì nella storica cameretta di casa Gandini-Bottagisio, chiamata Stanza della Pace — essendo stato, su quel tavolino, firmato il trattato di Villafranca dallo sventurato Napoleone III, e dal non meno sventurato, Francesco Giuseppe Imperatore e Re.



L’andata di S. M. in luogo tanto lontano, e a cavallo, doveva necessariamente richiedere un’assenza di parecchie ore. Prima di mezzogiorno era impossibile che fosse di ritorno. Quel povero conte di S. Martino, tornando a pesarsi dopo la trottata, avrebbe almeno avuto la consolazione di vedersi diminuito di qualche chilo!

Ma la gita del Sovrano diede anche ai suoi aiutanti l’agio di prendersi un po’ di spasso.

Per la qual cosa, combinammo col nostro buon amico conte Paolo di Revel, una corsa in città, dove si trovavano riuniti tutti gli ufficiali dei sei reggimenti di cavalleria, che dovevano fraternamente raccogliersi a solenne banchetto nell’ampia sala del ristorante Masprone.

Accettata la proposta, attaccati i cavalli ad un legnetto leggero, eccoci sulla via di Verona.

La città Scaligera era tutta in moto. Pareva un mondo nuovo per animazione cittadina e per scintillare d’armi e di armati. Il così detto [p. 359 modifica]Listone e la piazza, dominata dal suo anfiteatro, decorata dalle opere del Sammicheli e della statua equestre del gran Re Vittorio Emanuele, formicolavano di ufficiali di ogni arma e di ogni colore. Ecco l’appariscente giallo di Genova; l’amaranto di Nizza; l’arancio di Firenze; il rosso di Lodi; il bianco di Lucca e di Vicenza. Ecco il rosso cupo dei bersaglieri piumati e, ancora: l’arancio della dotta artiglieria, e il verde vivace dei forti alpini. Insomma un caleidoscopio che innamorava gli occhi e confortava il cuore.

In mezzo a tanta vita, fermiamo la vettura. Scendiamo, e subito ci troviamo circondati da una folla di antichi camerata e di amici, che ci fanno una gran festa. Festa che accettiamo con beneficio d’inventario.... perchè dovuta, in parte, al fatto che uno dei festeggiati era l’ospite, l’altro l’aiutante di Campo di S. M. il Re.

Nè ciò diciamo con nessuna ombra di scetticismo; ma come una riprova dell’intenso affetto che l’Esercito portava al suo Capo Supremo. Affetto che anche qui sentiva il bisogno di espandersi, festeggiando coloro che, in quel momento, avevano la fortuna di avvicinare il Sovrano.

Sia comunque, volarono a questo modo due ore. All’orologio dei Portoni dei Borsari mancava un quarto a mezzodì.... Per amore o per forza, bisognava fare il ballo del ritorno.



Se non che, al momento che stiamo per risalire in carrozza, ecco il colonnello comandante Genova Cavalleria, Vicino-Pallavicino, che ci ferma con un piede su, l’altro giù.... e le redini di già in mano:

— Alto là!... Non si parte!

— È tardi.... lasciateci andare.

— Gli ufficiali di Genova vogliono con essi a banchetto il loro antico ufficiale.

Io vestivo l’uniforme di colonnello in Genova.

— Impossibile!.... S. M. ci aspetta a colazione..... Siamo già in ritardo....

Ma il padrino di S. M. il conte di Torino, teneva duro:

— Pochi discorsi!.... Viviamo in istato di guerra!.... Le armi non [p. 360 modifica]ragionano. Il comandante la Divisione di cavalleria, ed io, ti dichiariamo prigioniero in guerra.... S. M. il Re, per il primo, dirà che abbiamo fatto bene.

Io mi trovai in grande lotta con me medesimo. Di qua, la seduzione di assistere a uno di quei banchetti, quali difficilmente capitano due volte in vita: ricordi, memorie care del bel tempo antico.... preghiere di simpatici camerata.... Di là?... il posto ambito alla mensa regia, l’onore sovrano.... Che cosa fare?... il buon Revel mi tolse d’imbarazzo:

Paolo di Revel
Paolo di Revel

— Rimani a Verona. Presso S. M. ti scuserò io. Dirò al Re che hai dovuto cedere alla forza.... dell’amicizia.... che sei prigioniero di guerra al.... ristorante Masprone. Chi sa che non ci dia una capatina anche lui!

In così dire, mi tolse le redini di mano e, con molta disinvoltura, data la voce ai cavalli, si spiccò al trotto allungato verso Porta S. Zeno.



Un banchetto di sei reggimenti di cavalleria!... Ci vuol poca fantasia a immaginare che cosa dovette essere di bello, di elettrizzante.... Non si erra dicendo che questo di Verona fu uno dei meglio riusciti in mezzo secolo.

Tanta balda gioventù, tanti cuori caldi di entusiasmo per tutto ciò ch’è grande, bello, generoso.... E intorno a quelle giovani teste di tenenti e sottotenenti, abbrunate dai soli del campo, quanto dolce desìo, quanti sospiri lontani!... E chi sa che cosa avrebbero sagrificato, e ragazze da marito, e vedove.... e non vedove.... pur di poter bevere, invisibili, un sorso [p. 361 modifica]solo di champagne, dal calice del loro bel lanciere, o cavalleggero, o dragone amato!

Ma in quel momento un pensiero solo dominava la mente dei banchettanti; una sola la speranza: quella che S. M. il Re, che girava a cavallo da quelle parti, venisse a fare — come aveva sperato anche il Revel — una rapida apparizione sulla soglia di quella gran sala.

Ma S. M. si aggirava a qualche chilometro lontano; e nessuno aveva avuto la buona idea di dirgli:

— Maestà, dia una capatina al banchetto degli ufficiali!

Nessuno: perchè la sola, la vaga paura, di proporre cosa che al Re potesse anche per un momento seccare, incollava le labbra ai suoi consiglieri più vicini!

Fu dunque un bel sogno: una vana speranza, svanita come tante altre. E venuto il momento dei brindisi ci si dovette contentare dei tre urrà di prammatica, che il comandante la IV Brigata di cavalleria — temporaneamente anche comandante la Divisione militare di Verona — Marchese Asinari di Bernezzo, portò con calda e tonante parola, al Re, alla Regina e al Principe ereditario.


Il Marchese Vittorio Asinari di Bernezzo!

Ecco un altro di quei nomi davanti ai quali, con tutta la buona voglia di procedere al galoppo allungato, bisogna arrestare sulle quattro zampe il cavallo, scendere di sella e mettersi in posizione.

Vittorio di Bernezzo nacque il 3 agosto del 1842, dal marchese Giuseppe e Maria Radicati di Brozolo, a Casasco provincia di Alessandria, e circondario di quell’Asti doppiamente famoso, e per il suo vino spumante, e per aver dato i natali a un altro Vittorio — al bollente Alfieri.

Soldato volontario nell’agosto del 1859, allievo dell’Accademia militare di Torino, Bernezzo passò sottotenente nel bel reggimento Guide il 4 agosto 1860; e tre anni dopo, cioè al 12 marzo 1863, fu promosso luogotenente e nominato aiutante di campo di S. E. il generale d’Armata Ettore Gerbaix de Sonnaz.

E con questo grado che lo troviamo, con tre plotoni del suo reggimento, a Campagna Rossa, il 24 giugno 1866.

Fermiamoci qui. — Apriamo a questo punto il suo Stato di servizio, e leggiamo:

“Decorato della Croce di cavaliere dell’Ordine Militare di Savoja, per avere caricato valorosamente alla testa di tre plotoni; cadeva ferito in petto da una palla nemica, ed avendo il braccio sinistro rotto da calci di fucile, rimase prigioniero il 24 giugno 1866 a Custoza.„

Cotesta pagina fu illustrata dal quadro che qui riproduciamo.

[p. 362 modifica]Quel giovane luogotenente delle Guide che, da piedi, si trova alle prese colle baionette austriache, altri non è che lui, Vittorio di Bernezzo; lo stesso che nel 1887, trovammo a Verona comandante la IV brigata di cavalleria, ed oggi tenente generale.



La leggenda che accompagna il quadro, ripete suppergiù le parole scritte in quello Stato di servizio, con qualche variante soltanto, ma con maggiori particolari.

Essa ci dice che il 24 giugno ’66, nella località chiamata Campagna [p. 363 modifica]Rossa, si era impegnata vivissima la lotta fra il 29 fanteria, comandato dal colonnello Dezza, e la Brigata Weimar; la quale tendeva a precludere la ritirata ai nostri, stringendoli da presso, e minacciando lo stendardo, disperatamente difeso.

Visto il momento brusco, il bravo colonnello Dezza — morto or sono pochi anni tenente generale comandante un Corpo d’Armata — ordinò alla poca cavalleria che aveva sotto mano — le Guide — di affrontare il nemico e impedirgli ad ogni costo l’avanzata.

Figuratevi se Bernezzo, comandante quei tre plotoni, se lo faceva dire due volte? Per lui, e per i suoi, quell’ordine era meglio che un invito a nozze. Lo afferrò al volo, e si precipitò alla testa dello squadrone, caricando a fondo in ordine spiegato, contro le forze austriache.

Venuto a urtare contro il quarto battaglione del reggimento Baumgarten, rimase ferito, e cadde da cavallo. Gli austriaci gli furono sopra per finirlo; ma egli, rizzatosi rapidamente, con un supremo sforzo si avventò contro le loro baionette. Sforzo inutile!... Bernezzo nuovamente atterrato a calci di fucile, ricadde con un braccio rotto, il sinistro, e la spalla lussata; mentre vicino a lui cadeva fulminato da una palla in testa il suo giovane sottotenente Van-den-Hoeuven.

Furono più di trenta i cavalieri che bagnarono del loro buon sangue quelle terre, tre volte cruenti. Ma lo stendardo del 29 reggimento fu salvo!

Era, come si vede, destinato che il reggimento Guide, corpo creato specialmente pel servizio d’informazioni e trasmissione d’ordini, dovesse il 24 giugno prendere gloriosamente il posto di alcuni reggimenti di cavalleria, rimasti per la maggior parte inoperosi, non certo per causa dei loro bravi colonnelli, ma per l’ignavia di chi ne aveva il supremo comando.

Così che la brillante carica del terzo squadrone Guide, comandato dal marchese di Bernezzo, si può appaiare con quella del primo squadrone dello stesso reggimento, comandato da un altro marchese, Fernando Scarampi di Villanova — il biondo capitano del quale abbiamo altrove parlato.

Il lettore rammenterà che fu, pur troppo in quella carica, che cadde moribondo il milanese conte Camillo Dal Verme; la celeste divisa del quale è conservata fra le reliquie sacre della patria nelle sale del Museo del Risorgimento in Milano, dentro una vetrina che la ripara e dagli insulti del tempo, e da quelli ancor più dolorosi, dell’oblio.

Tempo e oblio, i due eterni alleati nella ingratitudine!

Quelle due cariche — anche pel terreno su cui vennero compiute — ricordano l’altra famosa di Genova Cavalleria, avvenuta nel 1848 a [p. 364 modifica]
 
Lemmo Rossi Scotti.
MONZANBANO, Carica del I Squadrone Guide. — Capitano di Villanova.
 
[p. 365 modifica]Volta Mantovana, poco lontano da quei terreni famosi, dove 24.000 soldati dell’armata italiana, comandati dal Vicerè Eugenio, battendosi contro 45.000 austriaci, nel 1814, cinsero di un ultimo nimbo di gloria la stella napoleonica che volgeva al tramonto!

Tutt’e tre queste cariche ebbero, come si disse, l’onore della tavolozza di tre egregi artisti; e cioè, Lemmo Rossi Scotti ch’è autore della carica delle Guide a Monzambano; F. Capponi che ritrasse quella di Campagna Rossa; Cerruti Danducco che dipinse quella di Genova Cavalleria a Volta Mantovana — e da noi riprodotte a pagina 187 di questo volume.

Vittorio di Bernezzo
Vittorio di Bernezzo

Chiediamo solamente venia al conte Rossi, se il Damaste Procuste della tipografia, fu costretto ad amputare barbaramente una piccola parte della stupenda sua tela.

Ma tornando al Bernezzo, ci resta a dire che, promosso capitano nel 1871, andò ufficiale d’ordinanza del principe di Carignano; che, più tardi, passò istruttore alla Scuola di guerra, dopo che negli studi riesciva settimo su 46 idonei, e che, professore aggiunto per l’Arte Militare nel 1877, fu promosso in Foggia. Tenente colonnello poi alla Scuola Normale di Cavalleria nel 1883, nel 1878 comandò il reggimento Umberto I.

Il resto lo sappiamo. Epperò dopo data una buona stretta di mano al nostro valoroso amico tenente generale Vittorio di Bernezzo, torniamo al Chievo.

S. M. usciva per l’appunto da colazione, e non appena mi vide si fermò, e mi chiese:

— Ebbene, signor disertore, ebbene?

— V. M. sa che fui preso come prigioniero di guerra....

— Lo so, lo so. Ma.... com’è andato il banchetto?

Io gli narrai brevemente ogni cosa ne’ suoi particolari; e quando dissi dei tre urrà, e dell’entusiasmo che quei tre gridi avevano sollevato in quella splendida riunione di ufficiali di cavalleria, il Re mi piantò i suoi [p. 366 modifica]grandi occhi in faccia, come uomo che aspetti qualche cosa ancora. Laonde io, preso il mio coraggio a due mani, e parlando a voce alta perchè gli altri mi udissero, sclamai:

— Ah!.... Maestà!.... s’Ella avesse avuto la ispirazione di dare una capatina, solo un istante, all’entrata di quella sala.... avrebbe veduto che entusiasmo!.... Certo V. M. ne sarebbe rimasta contenta!

Il buon Re Umberto fece un gesto.... un gesto che non saprei bene definire; e, prendendo quelle mie parole come un sommesso rimprovero, quasi volesse giustificarsi, rispose:

— Una capatina?!.... Ma se nessuno mi ci aveva invitato!

A me parve imprudenza l’insistere. Mi contentai perciò di barbugliare a fior di labbra, ma in modo che il Re mi udisse:

— Peccato!.... Proprio peccato!

E mi allontanai, colla certezza che se, chi gli stava vicino, avesse detto a S. M. dell’opportunità di quella visita, il Re, molto volentieri, la avrebbe fatta.



Ma questa, dirò così, involontaria omissione sovrana, me ne richiamò alla mente un’altra, ancor più stridente, avvenuta alla grande inaugurazione della Torre di S. Martino.

Presidente del Consiglio era allora l’onorevole Giolitti e ministro della Guerra il generale Luigi Pelloux.

Alla solenne inaugurazione intervennero, S. M. il Re e S. M. la Regina, il Principe di Napoli, il Duca d’Aosta, e i due presidenti della Camera e del Senato. Assistevano pure gli addetti militari colonnello De Pott per l’Austria Ungheria, e l’altro colonnello Gerard de la Pinsonniere, per la Francia. Poi, tra i valorosi superstiti del 1859, c’era anche il generale Cucchiari nella sua antica e gloriosa uniforme, un po’ sgualcita dagli anni, e mangiata dalle tarme.

Era tutto un palpito là dentro!... L’entusiasmo e la commozione si leggevano sopra ogni volto...

Il grande ambiente del banchetto — grande come una piazza d’armi — sfolgorava per la presenza di non meno di un migliaio di ufficiali, coperti il petto di medaglie e di croci, nella loro alta tenuta.

[p. 367 modifica]Prima di sedere a tavola, combinatomi a caso discorrere coi due rappresentanti militari dell’Austria e della Francia, che avevo conosciuti a Roma, uno di loro mi chiese:

— Credete che S. M. il Re, oppure il ministro della Guerra parleranno?

Era, si capisce, una domanda suggestiva, per mettersi in grado e l’uno e l’altro, di rispondere al brindisi. E, a vero dire, nel fondo del cuore avrei proprio creduto che così avvenisse. A buoni conti, chiesi io pure alla mia volta:

— Se S. M. parla, intendete rispondere?

— Eh!... di certo — disse il francese.

— Eh!... sicuramente — soggiunse l’austriaco.

— Ebbene — conclusi io — non so quello che il Re intenda di fare; ma questo posso dirvi di positivo, che se fossi io Presidente del Consiglio o ministro della Guerra, esorterei S. M. a parlare... e il Re parlerebbe!

 
Stefano Breda.

Con tale fiducia, divisa da tutti i presenti, ci sedemmo alle tavole, simmetricamente disposte sotto un immenso padiglione, disteso per quanto era lungo e largo il prato che circonda la Torre.

La tavola reale dominava la scena. Il quadro era stupendo.

L’aria, l’ora, il moto, ci avevano disposto lo stomaco. Si mangiò di buon appetito, non cessando di portare alle stelle i nomi del senatore Breda presidente, del Maluta vice presidente e del bravo segretario Legnazzi — anima questi della istituzione — morto da qualche tempo, ma sempre lagrimato e rimpianto.

Durante il banchetto io pensavo fra me stesso:

— Che bell’occasione questa per improvvisare due parole da fare scattare in piedi tutto questo bel mondo di spalline!... Dire, per esempio, che qui amici e nemici, valorosamente combattenti, confusero insieme il loro sangue... affratellati nella morte!... Che amici e nemici, hanno qui i loro resti, collo stesso amore e la stessa cura custoditi... E conchiudere:

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— “Da questi campi, palestra d’atti eroici per tutti, ma dove la fortuna sorrise alle armi nostre, manda il Re d’Italia un saluto a quei prodi, italiani e stranieri, che qui sono morti, ciascuno per l’onore della propria bandiera!...„ —

E nel pensarlo, il sangue mi bolliva come nei più bei giorni del 1859....

Ogni cuore aspettava, e sperava...

Speranza vana!... Spumano i calici... ma il labbro del Sovrano non si schiude... Ma i ministri sono muti come pesci!

A me parve un delitto.

Eppure, sarei pronto a mettere la testa nel fuoco... S. M. il Re avrebbe parlato!


VIII.


Pelloux si prepara. — La stella di Rudinì. — Felice Cavallotti. — Meglio così! — Il Re si pesa. — Il capitano Gianotti. — Tout passe, tout casse, tout lasse!


Re Umberto, prima e dopo colazione e prima del pranzo, aveva l’abitudine di fermarsi, sempre ritto sui due piedi, all’uscita dell’atrio che risponde in corte, e trattenersi lunghe ore in colloquio col ministro della Guerra generale Luigi Pelloux; il quale cominciava allora a mettere, come chi dicesse, i pali a fondo per l’edificio della sua presidenza al Consiglio dei Ministri. — Ciò che avvenne poi.

Perocchè, in quel momento, la stella di Rudinì andava impallidendo. La nomina del povero Bonfandini a Governatore dell’Eritrea — nomina fatta e disfatta con fulminea rapidità — e un po’ anche l’assunzione del povero Codronchi alla Pubblica Istruzione, avevano sollevato contro l’eroico sindaco di Palermo, un certo vento di libeccio, che non lasciava prevedere nulla di buono...

Bisogna notare che il marchese Di Rudinì, a Corte, non aveva che pochi amici. La morte del conte Visone gli avrebbe offerto forse l’occasione di nominare — come avrebbe tentato Crispi — un ministro politico di sua fiducia presso la persona del Re; ma lui, anima troppo superiore di fatalista, non pensò mai all’opportunità di coprire quel vuoto anche per evitare una noia a S. M., che non amava vedersi intorno visi nuovi.

Rudinì, a chi ripetutamente gli consigliava tale nomina, rispondeva, a propria scusa, che non si sentiva abbastanza forte per imporsi alla Corona...

E, fra una stretta di spalle e l’altra, non ne fece mai nulla.

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Certo, per Crispi sarebbe stato un altro par di maniche. Quello non aveva certi scrupoli; e, uomo forte, ardito, risoluto, magari col solo suo
 
S. M. il Re — Generale Pelloux.
 
fido Abele Damiani per seguace, avrebbe sfidato il mondo. Lo provò il fatto che, una volta giunto al potere, in due e due quattro, seppe crearsi [p. 370 modifica]nella Camera una maggioranza forte di trecento voti, sulla quale spadroneggiava come un gran cancelliere.

A Rudinì non si perdonava: dai rossi, le sue origini conservatrici; non si perdonava, dai timidi... la Sala rossa, e l’amicizia di Cavallotti.

Intorno a cotesta famosa amicizia, potremmo anche noi dire qualche cosa... molte cose; se non si temesse di entrare in una polemica intempestiva, la quale oggi non caverebbe, un ragno dal muro. Però, senza credere di mancare ai riguardi che si devono a vivi e a morti, ci sarà permesso di affermare che cotesta amicizia — tanto allora sospetta — onorava altamente così colui che l’offriva, come colui che l’accettava.

E quale portata essa avesse, sta qui a provarlo il brano di una lettera che Felice Cavallotti ci scriveva da Dagnente, il 23 febbraio 1895, nell’occasione che il marchese Di Rudinì si trovava ospite a Milano in casa nostra. Ecco quanto allora l’autore dei Pezzenti ci scriveva:

“Quando riceverai la presente, forse il marchese Di Rudinì sarà in Milano. Egli potrà dirti il perchè a te mi volgo per fargli pervenire, al giungere nella mia città natale, il mio schietto e cordiale saluto. Egli sa, e tu lo sai, che è un saluto non di convenzione, ma dettato da stima vivissima a dalla simpatia più affettuosa„.

E più avanti, alludendo alla lotta amministrativa milanese fra i nostri amici e i suoi — lotta alla quale egli non volle partecipare — soggiungeva:

“Mi duole, non per me, ma per alti interessi italiani, che stanno al di sopra delle misere divisioni di parte — e tu sai s’io viva fuori e lontano dalle lotte municipali milanesi — che l’ultima battaglia amministrativa, costì, possa aver creato equivoci per la lotta politica. Confido per iscongiurarli, nel patriottismo di chi crede superiore agli interessi di parte il rispetto a certi dogmi morali. E il marchese di Rudinì ne dà agli amici tuoi un alto esempio. Nè la lode, venendo da me, ti può parere interessata e sospetta„.

Felice Cavallotti, così di sua iniziativa scriveva, proprio in quei giorni che la maggioranza dei nostri amici politici gratificavano il marchese di Rudinì, e i suoi pochi e fidi seguaci, col diploma di traditori!

E che lotte, e che discussioni... e quante corbellerie in quei giorni!

Eppure, se vi fu uomo politico che avesse avuta, da tempo, la visione chiara, limpida, di ciò che si andava maturando nel vicino avvenire, quell’uomo fu per l’appunto il marchese di Rudinì.

Prova eloquente ch’egli allora vedeva giusto, sono gli avvenimenti del primo e triste anno del secolo che s’è spento. Sono le accoglienze entusiastiche, spontanee, colle quali fu accolta e salutata, da ogni classe di cittadini, la venuta del giovane Re nella capitale Lombarda — per quanto [p. 371 modifica]amministrata da un partito che si diceva rivoluzionario. E, sovratutto, lo prova l’atteggiamento, quella specie di tacita acquiescenza, con cui, quasi tutto quel giornalismo milanese, che si chiama forcaiolo, aveva assunto davanti alla nomina del suo primo magistrato cittadino a senatore del Regno.

Un torto solo, secondo noi, ebbe Rudinì: quello di non avere afferrato al volo, senza preoccuparsi dei timidi amici, senza titubanze, la mano che gli stendeva, nel 1895, Felice Cavallotti. E poi, il torto di non avere saputo subito approfittare della forza e dell’influenza che, sulla piazza e sul suo partito, poteva esercitare la cooperazione di lui.

Se Rudinì, in quel momento, non si fosse fermato a metà, se tratta, come suol dirsi, la spada avesse gittata la guaina, certamente il mondo politico non sarebbe stato sorpreso dalia famosa lettera giustificativa diretta a Napoleone Colajanni. Certamente si sarebbero scongiurate le dolorose giornate del maggio 1898... e — ciò che più ferì il cuore degli amici e degli avversari — si sarebbe certamente evitata la tragedia di Villa Cellere, la morte di Felice Cavallotti... nonchè il dolore dello stesso suo uccisore, al quale, nello stadio acuto, si negò persino il diritto naturale di difendere sul terreno la propria vita!

Quanti mali si sarebbero potuti allora evitare!

Ma, pur troppo, la sconfitta del gabinetto Rudinì, favorita in quel frangente dalla cecità dei suoi stessi amici, avvenne nel momento più inopportuno e più pericoloso. Avvenne nel momento che, costretto suo malgrado a ricorrere alle armi per sedare la piazza, aveva fatto sentire energica la mano del governo. Onde, esempio nuovissimo di coerenza politica, cadde per opera di coloro che, a fil di logica, avrebbero dovuto, non soltanto dividerne le responsabilità, ma lealmente appoggiarlo...

Lo si volle morto, non per quello che, secondo loro, aveva fatto di bene, ma per quello che prima — sempre secondo loro — aveva fatto di male.

Troppo tardi gli si rese giustizia, troppo tardi si disse, e si sostenne, ch’egli allora intuiva il vero... che aveva ragione... Ma — è vecchio il proverbio: — del senno di poi sono piene le fosse!

Che la caduta di Rudinì fosse prevista di lunga mano, lo proverebbe un piccolo indizio, che aveva in quel momento una certa quale significazione. Un giorno che alla tavola reale del Chievo, si parlava della venuta prossima del Presidente del Consiglio, trovandoci noi vicini a un pesce di quelli grossi, s’ebbe a mostrargli un certo dispiacere per non poter offrire anche al nostro vecchio e illustre amico una camera, e un letto. Il pesce grosso, con un certo fare che voleva essere furbo, e urtandoci col gomito, borbottò fra’ denti:

— Meglio così!... [p. 372 modifica]Quando noi credemmo dovere, non soltanto di amico, ma di uomo politico, di mettere in guardia il marchese Rudinì, egli ci guardò in viso come meravigliato della nostra ingenuità, e stringendosi nelle spalle, con un sorriso indifferente, disse:

— E chi se ne affligge?

Nessun dubbio che il generale Luigi Pelloux, preparandosi al Chievo la successione, più che alla sua personale ambizione, avrà pensato in buona fede di poter rendere un vero servizio alla Corona.... Ma sbagliò nel fare troppo a fidanza sopra energie... che gli mancarono in mano!

Ma, per carità, parliamo di cose meno ostiche, e torniamo nelle sale del Chievo.



Uno degli ultimi giorni della dimora reale al Chievo, dopo colazione, mentre S. M., come ne aveva l’abitudine, stava sulla soglia d’entrata, in istretto colloquio col futuro Presidente del Consiglio, generale Pelloux; noi, tanto per ingannare... quel grande ingannatore ch’è il tempo, profittammo di quel colloquio, che pareva più del solito interessante, per entrare, cheti cheti, in una delle vicine sale, ove in forma di poltrona, era rincantucciata, inoperosa, una bilancia.

[p. 373 modifica]Il progresso, che mise al mondo tante belle cose, e tanti tormenti — e fra questi ultimi, quel benedetto termometrografo, che segna i gradi della febbre anche quando questa non c’è — inventò pure la bilancia per pesare di giorno in giorno lo sviluppo de’ bimbi appena nati.... e altresì, per conforto, o pena, di chi, grasso, vuol dimagrare — o di chi, magro, vuol ingrassare; perocchè è destino dell’uomo — non meno che della donna — di non essere mai contenti del proprio stato... anche in fatto di carne.

Ma quella bilancia era ben lontana dal prevedere quale altro grande onore le si preparasse!

Eravamo in parecchi — quasi tutto il seguito civile e militare.

Primi in linea venivano, naturalmente, il Prefetto di palazzo conte Gianotti, il primo Aiutante di campo Ponzio-Vaglia, l’altro generale Ponza di S. Martino; e, in seconda linea, Greppi, Santi, Revel e... colui che scrive, il quale si offerse alla carica di ufficiale pesatore.

Ci si pose all’opera; ma con poca soddisfazione dei tre primi; i quali si trovarono a pesare, suppergiù, un centinaio di chilogrammi cadauno.

Anzi, uno di essi, il conte Gianotti, arrivava ai centoquattro, giusti come l’oro!...

Si pretese che io avessi pesato male... e ne nacque una discussione animata, fino a mettere in dubbio la sincerità... della bilancia...

Se non che, mentre intenti e curvi sulla macchina sospetta, si stava verificando la sua.... onestà, non ci accorgemmo che qualcheduno intanto faceva capolino dall’uscio della sala...

 
S. E. Gianotti 1897.

Quel qualcheduno era S. M. il Re!

Tableau!

S. M. era di buon umore. In luogo di pigliarsela cogli Ajutanti di campo disertori, udito il peso di ciascuno di essi, volle verificare anche il peso proprio... E montò sulla bilancia.

Re Umberto, in uniforme, sciabola, berretto, e stivali a trombino, arrivava appena appena agli ottantatre. Parve un po’ sorpreso; ma quando seppe che i due generali si avvicinavano ai cento, e il suo Gran Mastro toccava i centoquattro, non nascose la propria soddisfazione nell’essere contornato da personaggi di tanto peso... anche materiale e fisico.


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Gianotti capitano, 1863.


Ma quei benedetti centoquattro chilogrammi di S. E. il Prefetto di palazzo, risvegliarono nella mente di colui che allora pesava, un turbine di considerazioni melanconiche, intorno al disastroso lavorìo che il tempo, inesorabile, fa in qualunque più bel corpo umano!.. E crediamo che anche il conte Cesare Gianotti, ufficiale superiore nella riserva, Gran Mastro delle Cerimonie e Prefetto di palazzo del Re d’Italia, avrebbe volontieri rinunciato — potendolo — allo splendore di tanti onori; per tornare ancora ai bei tempi del suo lieto maggio giovanile; quando, meno pesante, vedeva posarsi sulle gloriose sue spalline di capitano, bello allora di una bellezza irresistibile, gli occhi bramosi, il sorriso e le grazie di tante eleganti e passionali dame della Penisola.

Ahimè! tout passe, tout casse, tout lasse!

Unico farmaco: una cristiana rassegnazione!




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IX.


All’Ospedale. — Come a Napoli e a Busca. — All’Arena. — «È meraviglioso!» — Le precedenze a tavola. — Rudinì e Pelloux. — Chassè-croisé!


Ma torniamo al XX settembre.

Verso le ore sedici, il sindaco, cui una gita al Chievo durante il soggiorno di S. M. era sempre come una festa, venne a prendere Umberto per accompagnarlo all’Ospedale Civile. Ivi stava aspettandolo il Presidente del Consiglio, marchese di Rudinì, arrivato col diretto delle quattro per abboccarsi col Sovrano.

All’ospedale, il Re s’interessò di ogni cosa; volle vedere, non solamente le sale già predisposte per riceverlo, ma anche quelle dove stanno rinchiusi gli ammalati in osservazione. Si fermò al letto dei tifosi; a quello degli scrofolosi; e, colla indifferenza abituale nel visitatore e consolatore dei colerosi di Busca e di Napoli, si sarebbe ugualmente fermato a stringere la mano anche a un appestato.

Nel partire, S. M. si congratulò vivamente coll’illustre professore Massalongo direttore dell’ospedale; poi, invitato il marchese di Rudinì a salire accanto a lui in carrozza, e seguito da una lunga coda di equipaggi, sempre in mezzo ai battimani e agli evviva, si diresse verso l’Arena.

Lo spettacolo all’Arena, che doveva aver luogo il 19, era stato rimandato al giorno 20, in causa dei soliti isterismi del tempo. Cotesto spettacolo dell’anfiteatro veronese, per quante volte si ripeta, è sempre cosa nuova, mirabile, imponente. Non occorrono giuochi olimpici, o altri divertimenti; basta vederlo stipato da una massa di popolo, come si vide anche questa volta. Dicevasi anzi che lo spettacolo offerto all’Arena in codesta occasione, superasse quelli dati in onore di Vittorio Emanuele, e di Giuseppe Garibaldi.

Le sette porte del teatro romano si spalancarono alle ore due pomeridiane: e per tre ore di seguito, veri torrenti umani penetrarono romorosi là dentro, passando pei grandi vani della platea — dai quali, sinistramente romorosi, uscivano terribili, illo tempore, le tigri, i leoni e le pantere a deliziare le matrone pagane colla vista del sangue cristiano.

Alle ore cinque, più di 50.000 persone stavano pigiate, come tante acciughe, in quell’immane tinozza; la quale, per forma e conservazione, batte in breccia lo stesso Colosseo. L’effetto di quella moltitudine assiepata sui gradini, nella platea, sugli spalti, non si narra colla penna, nè colla parola.

[p. 376 modifica]A un tratto s’ode di fuori un grande crack... Che cos’è? Uno steccato che, forzato, cade; e sono inutili le fatiche dei carabinieri per trattenere la fiumana.

Altri torrenti, altri fiumi precipitano gorgogliando entro quell’immenso mare.



Alle cinque e mezzo, reduce dall’ospedale civile, il Re si ferma all’entrata dell’Arena. Egli non si è ancora presentato al pubblico, che già un brivido anticipato corre per le vene e i polsi di quella sterminata massa umana. Centomila occhi sono là, fissi a un punto solo: allo Scalone dei Principi, da dove il Re deve apparire.

— Eccolo!... — Eccolo!...

Preceduto da due aiutanti, Umberto si presenta sulla scalea, accompagnato dal Sindaco, e da tutto il seguito.

[p. 377 modifica]Un lungo, scrosciante, interminabile evviva, erompe unisono da quei cinquantamila petti. Migliaja di bandierine tricolori, dispensate all’entrata, si agitano dalle gradinate, dagli spalti, dalla platea. Mille e mille mani si protendono verso il Re in atto di saluto. E tutto un agitarsi convulso, dinamico, che pare comunichi la sua elettricità.... persino a quegli antichi ruderi pagani!

S. M. il Re, a quella vista, si arresta. Si guarda intorno attonito, quasi trasognato. Poi, volgendosi verso di noi che lo seguivamo da presso, esclama:

— È meraviglioso!

Così dicendo, si dirige alla Loggia Reale: dove, fra un vero giardino di fiori lussureggianti e gentili, spiccano fra tutti, le giunoniche forme della bionda marchesa Carlotti, figlia di Rudinì, fattasi da poco tempo veronese, e venuta apposta dalla riviera del Garda per rendere, accanto al padre, omaggio al Sovrano.

Ma intorno a cotesto spettacolo, unico in Italia, non e’ indugiamo a dire di più — perchè troppo ci sarebbe da scrivere; e le descrizioni, noiose sempre, sono noiosissime verso la fine. Lasciamo dunque intonare nel circo l’Inno patriottico musicato dal Riva; battiamo le mani anco noi, e sbalorditi e commossi dello spettacolo immenso, riprendiamo dietro a S. M. la via del Chievo, assorti ancora come in un sogno.

Al pranzo di quel giorno, il Re invitava anche il Presidente del Consiglio; il quale venuto con noi all’Arena, non ebbe manco il tempo di vestirsi, e fu obbligato a mandarsi a prendere, lì per lì all’albergo, l’abito nero... e il piccolo Collare dell’Annunciata.

Ma la venuta improvvisa del marchese di Rudinì, scombussolò la disposizione dei posti a tavola...

Affare grosso!... Si trattava di precedenze... e che precedenze!

Il Gran Mastro dovette dunque togliere dalla destra di S. M., il ministro della guerra, e collocare al suo posto il Presidente del Consiglio.

Quando si dice delle combinazioni! — Pochi mesi dopo, era il non più ministro della guerra Pelloux, che con un Chassé-croisé.... politico, toglieva il posto al marchese di Rudinì, e diventava.... Presidente del Consiglio.



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X.


Alla Stazione. — Chi sarà? — La Legion d’Onore. — Corazze che scintillano. — Arriva la Regina. — Elena di Francia — Il conte di Parigi. — Il duca di Chartres. — Il carnevalone del 1863. — Tre oroscopi. — La rassegna. — Great attraction. — L’areostato libero. — A Porta Vescovo. — Estremo saluto.


E qui, per rompere la monotonia di questa parte del libro, rallegriamolo colla apparizione della prima Regina d’Italia, che da Venezia, dov’era andata da pochi dì, insieme alla duchessa Elena d’Aosta, veniva ad assistere alla grande rassegna militare del giorno ventuno.

S. M. doveva giungere alle otto e tre quarti, direttamente alla stazione di Porta Nuova, come quella che si trova più vicina alla piazza d’armi.

Sindaco, senatori, deputati e... tutto il resto; uno stuolo fiorito di dame e cavalieri, s’erano anticipatamente preparati alla stazione per ricevere la Sovrana.

Di fuori, tutta Verona faceva ressa intorno agli equipaggi, venuti dal Chievo per condurre S. M. il Re in piazza d’armi.

Era ancora un po’ presto; prima della Regina, il Re doveva venire a cavallo, ad incontrarla.

Intanto che si aspetta i due desiderati arrivi, la impazienza dei presenti — e fuori e dentro la stazione — è distratta dalla vista di un sottotenente di fanteria, in barba bionda — o quasi — che è fermo, come uno che aspetti davanti al portico della stazione. Esso, per essere un semplice sottotenente, è un po’ maturo, ma è ancora vegeto e robusto. Più che la barba e la persona, sono oggetto di curiosità e di ammirazione del pubblico, le croci e i crachats che gli brillano sul petto; ma, e più ancora delle croci e delle medaglie, è oggetto di grande discussione una larga fascia a tracolla di un colore scarlatto vivo, che fiammeggia un miglio lontano.

La gente ch’era dentro, e quella ch’era fuori, lo guardava e riguardava, almanaccando chi mai potesse essere quell’incognito personaggio.

— Che sia un principe del Montenegro? — uno diceva.

— Un magnate d’Ungheria — diceva un altro.

— Quel nastro scarlatto che cosa sarà?

— E quella barba?... Che sia un principe russo?

Che el sia un cardinal? — spropositava una donna nel suo dialetto, imbrogliata da tutto quel rosso.

[p. 379 modifica]Sétu mata? — rispondeva un’altra — Un cardinal con quela barba!... E pò, no te se che i cardinal, a ste feste, no i vien?

— Ma chi sarà dunque?...

E così, fra un’induzione e l’altra, per poco non lo si riteneva S. M. l’Imperatore Menelik, Re dei Re d’Etiopia, venuto dal suo Impero per assistere alle grandi manovre di Verona!

Splende un raggio su quella testa bionda. Luce è fatta!

Una voce grida:

— È il prefetto!

E tutti a ripetere:

— È il prefetto!... È il prefetto!

Quel personaggio era proprio, il conte Luigi Sormani Moretti, senatore del Regno e prefetto di Verona, vestito, per quella festa militare, dell’antica e onorata sua divisa di sottotenente delle Guardie, ch’egli aveva gloriosamente portata la giornata del 24 giugno 1859.

Fatta la luce sul nome, la curiosità popolare si concentrò tutta su quella bella e larga banda scarlatta che portava a tracolla.

Dio buono, bisognava bene ingannare il tempo con qualche cosa che attraesse... — Ed ecco aprirsi una grave discussione a fondo, anche su quella fascia.

Si sapeva già che il conte Sormani era stato segretario d’Ambasciata a Parigi, ai bei tempi del terzo Napoleone. Perciò qualcheduno argomentava che quel nastro rosso, altro non dovesse essere che il gran cordone della Legion d’Onore. Ma un vicino osservò che cotesti gran Cordoni, in Francia, sono più rari delle mosche bianche, e non si dispensano a tutto pasto come da noi!

— Che sia un Ordine turco?... — disse un tale.

— O quello di Calatrava?... — disse un altro.

— Che Calatrava d’Egitto!... Sarà il Cristo del Portogallo — entrò subito a dire un terzo che pareva ferrato in Araldica.

— Manco per sogno! — interruppe un ultimo. — L’ordine del Cristo l’ebbe mio nonno; quello porta il cuore di Gesù dentro la placca.... Ci metterei la testa che questo qui è, invece, il Gran Cordone di Francesco Giuseppe, proibito in Francia insieme al Cristo, appunto perchè si confondono col nastro rosso della Legion d’Onore.

— Però, che bell’uomo, e come gli sta bene! — esclamava una signora.

— Bell’uomo fin che si vuole! — saltò su a dire un Tizio in [p. 380 modifica]cappello a cencio, e dall’aria fremente — Ma quelle decorazioni lì, a una festa patriottica veronese, non si portano!... Ringrazi il cielo che il deputato Imbriani è morto... se no, povero lui!... Abbasso l’Austria!

— Abbasso, perchè? — chiese un ometto monco di un braccio e con una larga cicatrice che gli ornava la fronte — Abbasso perchè?... se oggi siamo costretti a rimpiangere un po’ di Radetzki per salvare l’Italia!... — Poi soggiunse con un sospiro: — Ma, pur troppo, anche gli austriaci non sono più quelli di una volta!

Poco mancò — dininguardi! — che quell’imprudente si facesse rompere le costole dai vicini scandolezzati e furiosi. Ma quando si seppe: che quel braccio l’aveva perduto a S. Martino, che quella ferita se l’era buscata a Montebello, e che a sommo del letto conservava, come trofeo patrio, le catene del galeotto di Josephstadt, sfumò l’ira, gli si fece largo intorno... e nessuno fiatò più.

Chè per buona sorte, chiose, discorsi, discussioni, diverbi, ogni cosa finì, come per incanto, colla venuta di S. M. il Re, a cavallo, seguito da un imponente Stato Maggiore.

Egli si arresta sul piazzale della stazione; scende da cavallo e accompagnato dal sottotenente delle Guardie — ormai svelato — entra nell’angusto locale della stazione, aspettando l’arrivo della reale Consorte.



Intanto di fuori, la folla pigiata come l’uva nel tino, si calma abbarbagliata dalle corazze della scorta reale scintillanti pel sole che vi saetta dentro.

Scoccano le otto e tre quarti.... Ecco il treno che conduce S. M. la Regina!...

La folla delle autorità eseguisce, anche qui, la solita manovra: una corsa forzata, per arrivare al breack reale, che si è fermato un bel tratto [p. 381 modifica]lontano! — Manovra, alla quale deve stavolta unirsi, sorridendo, anche S. M. il Re, se vuole porgere, come porge, la mano alla Regina nel suo discendere dal treno.

Questa, e la duchessa Elena d’Aosta, smontano una appresso l’altra. S. M. il Re s’inchina cavallerescamente davanti alla regale consorte, e le offre il braccio; mentre, si sa, la folla applaude.



La Sovrana è vestita in gris-perle, e porta in testa un cappellino delizioso, sotto il quale si schiude, simile a un raggio di sole fra il grigio della nebbia, quel suo abituale sorriso che sa conquidere e ammansare anche i cuori più ribelli.

La splendida figlia di Luigi Filippo d’Orleans, Elena di Francia, la segue in tutto il fulgore della gioventù e della eleganza.

Sono due apparizioni che, per la via degli occhi, si fanno largo, [p. 382 modifica]moralmente e materialmente, nella massa dei presenti, con un’infinita dolcezza.

Tanto che noi, come ci mettemmo più volte sull’attenti, davanti alla maestà del valore mascolino, ci mettiamo ora, non meno reverenti e commossi, sul guardavoi, davanti alla maestà della bellezza e della femminina bontà.


Margherita di Savoia


S. A. R. la duchessa d’Aosta, terza figlia del conte di Parigi principe ereditario di Francia, nacque da Isabella d’Orleans, figlia del duca di Montpensier; e andò sposa — come sappiamo — al primogenito di Amedeo, il principe Emanuele Filiberto duca d’Aosta, il 13 giugno 1895 — un anno dopo la morte immatura del conte di Parigi di lei padre.

S. A. R. Elena di Francia — come essa ama firmarsi — nell’alta, elegante e slanciata persona, in alcune linee del volto, nel regale portamento, nello stesso colore dei suoi capelli d’oro — fatta la debita distinzione fra uomo e donna — è quella tra i figli del conte di Parigi che più lo rammenti.

Noi conoscemmo questo principe nel fiore dei suoi venticinque anni; quando, scapolo ancora, e libero da doveri di famiglia, si trovava a Milano nel carnevale del 1863; nei giorni in cui il giovane principe di Piemonte, S. A. R. Umberto di Savoia, offriva alla cittadinanza milanese una serie [p. 383 modifica]
 
Elena di Francia. - duchessa d’Aosta. - 1901
 
[p. 384 modifica]di feste rimaste celebri, nella Villa Reale — antica dimora di Eugenio Beauharnais Vicerè d’Italia.

Insieme col conte di Parigi, era pure S. A. R. Roberto d’Orleans duca di Chartres; ed entrambi presero viva parte a tutte le feste della società milanese, non che a quelle del popolo, come se si trattasse di feste del loro stesso paese.

Louis Philippe d’Orléans
Louis Philippe d’Orléans

Perocchè il duca di Chartres, più giovane di due anni del fratello, aveva smesso soltanto in quei giorni l’uniforme di Nizza Cavalleria, nel qual reggimento aveva servito col grado di luogotenente, prima e durante la campagna del 1859; serbando, anche dopo lasciato il servizio, viva e cara memoria dei suoi camerata, in particolare; ma in generale di tutti gli ufficiali di cavalleria che in quel tempo aveva conosciuti.

Gli è in tale qualità che noi pure venimmo onorati dalle cortesie di quei due principi, diretti discendenti da Filippo d’Anjou, fratello di Luigi XIV — il Re Soleil.

Essi abitavano alcune stanze al primo piano dell’Hótel de la Ville che guardano sul Corso, e che stanno di contro al cupolone della chiesa di S. Marco.

Durante le giornate di quel carnevalone, quasi giornalmente invitati, sedevamo alla loro tavola; ed era la stessa mano del conte di Parigi, che con semplicità patriarcale, ci versava dalla bottiglia, nel calicino di vetro, lo squisito prodotto di quelle terre di Bordeaux... che avrebbero dovuto essere — per diritto divino — dominio della sua Casa e suo.

Pochi — per fortuna loro di noi meno vecchi — ricorderanno il carnevalone ambrosiano del 1863, celebre non solamente per le brillanti feste della Villa Reale, di casa Melzi e Beretta, della Società del Giardino, del Circolo degli artisti, e via dicendo; ma più specialmente famose, per quegli ultimi giorni di baldoria, regalati alla paneropoli lombarda da quel grande scismatico ch’era Sant’Ambrogio.

Correvano allora tempi felici, dove la musoneria non era ancora venuta di moda. Quando la luna di miele di una recente libertà, sospirata e acquistata col sangue, non era ancora contaminata da nessun veleno. Quando tutto rispondeva a una verginità di sentimenti, non ancora polluta dall’amplesso delle sétte.

A quei tempi, anche i principi del sangue potevano pigliarsi il matto [p. 385 modifica]gusto di partecipare a certi spettacoli popolari, senza esporsi alle palle di una rivoltella, o alla lama maledetta di un anarchico. Epperò ci venne fatto, allora, di vedere l’erede del trono d’Italia, mettersi a capo di un numeroso stuolo di giovanotti, intervenendo al corso durante il carnevale, dentro un grande carro artisticamente decorato, rappresentante — se la memoria non ci tradisce — lo Sport milanese; e prendere allegra parte al getto di fiori e dei coriandoli, mascherato come gli altri nell’elegante costume di Jockey inglese.

Dai fianchi di quel carro bellissimo, tutto messo a emblemi di caccia e di corsa, partivano formidabili — ma incruenti — le scariche della mitraglia. In mezzo alle dense nuvole sollevate dai bianchi coriandoli, cadeva giù una grandine di confetti, un diluvio di fiori, da oscurarne il cielo.

E il popolino, che si precipitava a raccogliere da terra quella dolce abbondanza, vedeva allora con vera compiacenza, anzi con gioia, quel principe italiano mescolarsi alle proprie feste, senza ombra di etichetta, e con quella piena e illimitata fiducia che — ahimè! — oggi andò perduta.

Quando il carro del principe Umberto venne a trovarsi sotto al balcone dei principi d’Orleans, fece sosta. Qui s’impegnò una vera battaglia. Quanti canestri di fiori, e di gettoni, si siano da quel balcone vuotati, uno solo avrebbe potuto dircelo: il segretario di casa d’Orleans, colui che poi era incaricato di tirare le somme! — Dal canto nostro, questo solo sappiamo, che per una quindicina di giorni dopo la celebre lotta, ne risentimmo il ricordo nel bicipite infiammato del braccio combattente.



Spente le ultime faci di quel bel carnevale, i due principi francesi dissero addio a Milano, lasciando in chi restava, e recando seco, un mondo di memorie simpatiche e care. Il giovane e brillante duca di Chartres aveva specialmente l’aria molto seccata di dover abbandonare la cupola del Duomo... Le accoglienze oneste e liete — frutto anche della riconoscenza dovuta al bel dragone di Nizza — a lui prodigate dai milanesi... e, chi sa forse, il [p. 386 modifica]dolce baleno del sorriso di donna, per quanto innocente e puro, che avesse fatto breccia nel suo cuore, gli rendevano amaro il distacco.

Partì.... ma subito non dimenticò! — Perocchè le anime gentili non consegnano alla prima stazione di ferrovia i loro ricordi. Anzi, pochi giorni dopo la partenza, S. A. R., in data del 9 marzo, da Firenze ci scriveva:

“... Ce carneval de 1863 restera historique dans ma vie, et quand nous serons vieux nous nous rappellerons avec plaisir les carrés de Lanciers que nous composions si bien.

“Mon frère part dans deux jours pour la Sardaigne et moi je retourne demain à Milan; j’y resterai un ou deux jours; j’irai en passer encor probablement un ou deux à Turin, et vers la fin de la semaine je quitterai l’Italie, emportant des souvenirs charmants, des regrets de devoir m’en aller, et la ferme volonté de revenir bientot dans un pays ou je compte tans de bons amis. Croyez-moi toujours Votre bien affectionnè

Robert d’Orleans.„

Robert d’Orleans
Robert d’Orleans

Ma, tre mesi dopo aver lasciata Milano, Roberto d’Orleans, metteva anch’esso in un cantuccio della memoria, e il cielo azzurro d’Italia, e i carrés famosi dei Lanciers, e il seducente sorriso delle beltà milanesi, attratto invece da quello di Francesca d’Orleans sua cugina, figlia del principe di Joinville, che condusse all’altare il dì 11 giugno dello stesso anno 1863.

Minor fretta del fratello, ebbe invece il conte di Parigi; questi aspettò il 30 maggio del 1864, per crearsi una famiglia; e scelse a sua sposa, un’altra cugina: Isabella, la figlia del duca di Montpensier; dalla quale ebbe poi, come terzo regalo, Elena di Francia, la principessa reale, che Casa Savoja e l’Italia sono liete di vantare come cosa loro.

Ora, tornando col pensiero a quei giorni sereni, chi avrebbe detto allora, al giovane principe ufficiale [p. 387 modifica]dei dragoni italiani, a Roberto d’Orleans, chi gli avrebbe detto che un giorno, il suo figlio primogenito avrebbe, per un errore di gioventù, dovuto scendere sul terreno, e incrociare la spada con uno dei nipoti di colui che là, dal suo balcone dell’Hòtel de la Ville aveva, nel carnevale del 1863, coperto di dolci e di fiori?...

Chi gli avrebbe detto che quel figlio suo diletto, scampato per un filo dalla lama del conte di Torino — vendicatrice di quell’esercito dove il padre suo aveva servito — dovesse poi miseramente morire, lontano dalla propria casa, senza l’estremo bacio, forse, e la benedizione dei desolati genitori?...

Oh! se questa pagina avesse mai la sorte di cadere sotto gli occhi del nostro illustre camerata di un tempo, oh! questa pagina gli dica, quanta parte noi pure abbiamo preso, al suo dolore di amico e parente, prima; al suo grave lutto di padre dopo!

E chi, altresì, avrebbe detto in quei giorni a S. A. R. il conte di Parigi:

— Monsignore! quando tu sarai marito e padre, la tua terza figlia, Elena, diverrà principessa italiana; andrà sposa a Emanuele Filiberto duca d’Aosta, figlio di Amedeo Re di Spagna, e nipote di questo Jockey brillante che sarà Re d’Italia?...

E chi? chi mai — a Milano, in tutta Italia, e nel mondo civile — chi mai avrebbe detto, quel giorno al figlio di Vittorio Emanuele:

— Sai... Umberto, quando tu sarai divenuto Re... e che avrai regnato per più di vent’anni, circondato dall’amore del tuo popolo.... spargendo a te d’intorno il bene — nient’altro che il bene... — dopo che tu avrai, per la grandezza e l’unità della patria, offerto il tuo sangue in campo.... — dopo che tu avrai pel bene della umanità, esposta la tua vita accanto al letto dei contagiosi... — che avrai firmato le leggi di una illimitata libertà, da te voluta.... e ti sarai col popolo affratellato nelle gioje e nei dolori.... — tu, re degli afflitti... tu prode, mite, generoso, buono... tu dovrai cadere assassinato, in mezzo al tuo popolo acclamante — come il più feroce dei tiranni?...

Certo, l’anima di pessimista che avesse quel giorno, tirato un così triste oroscopo, correva il rischio d’essere fatto a brani dalla furia del popolo...

Eppure...

Ma — per carità! — allontaniamo, un istante, dal nostro pensiero il truce misfatto. Immaginiamoci di svegliarci da un sogno di deliranti. Usciamo dalla stazione di Porta Nuova... rimontiamo a cavallo... e seguiamo il nostro buon Re Umberto; il quale, esuberante di vita, [p. 388 modifica]accompagna alla grande rivista S. M. la Regina e S. A. R. Elena d’Aosta, cavalcando galantemente a lato del loro equipaggio.

Al cenno Reale, quella massa piumata, inargentata e dorata, si avvia sul terreno della grande rassegna.

La quale riuscì come suppergiù riescono tutte quelle solennità militari dove interviene il Sovrano; dove, cioè, l’attenzione più viva, la great attraction, è sempre lui. Figuratevi una rassegna alla quale assisteva Margherita di Savoja, e sua nipote Elena di Francia!

La piazza d’Armi presentava uno spettacolo stupendo.

Gli addetti militari, nelle loro ricche uniformi, contribuivano a dare varietà al quadro.



La piazza era tutta uno scintillio di armi abbaglianti al sole, un brulichìo immenso di elmi e di keppì; mentre sopra tutto e sopra tutti, torreggiava
maestoso, argenteo nell’orizzonte, il pallone frenato.

L’ammasso di gente è sterminato.

Alle 10 la rivista finisce, e il Re viene a collocarsi di fronte alle tribune. Le carrozze della Regina e della duchessa d’Aosta, col seguito, si allineano lungo la fronte, formata dallo Stato Maggiore.

Le musiche dei reggimenti, giunte in faccia ai Sovrani, fanno conversione a destra e si fermano. La truppa sfila.

S. M. saluta colonnelli e stendardi. Questi si abbassano anche davanti alla Regina.

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[p. 390 modifica]Il generale Morra, poi tutti gli altri, vengono — more solito — al galoppo, a collocarsi allato di S. M., completando il quadro.

Mentre sfilasi fra le ovazioni, il pallone frenato, lasciato libero nei suoi movimenti, sale nell’aria velocemente, andando a narrare alle nubi, l’immenso godimento dei veronesi in quella indimenticabile giornata.



Al tocco delle dodici i Sovrani, finita la rivista, partirono da Porta Nuova, diretti a Venezia.

La fiumana popolare si riversò allora tutta, come un torrente che straripa, verso Porta Vescovo. Carrozze, carrozzelle, tram, biciclette, tutto si adoperò per arrivare, contemporaneamente al treno Reale, alla stazione centrale.

Il treno avanzava lentamente, perchè la folla ivi accalcata, rendeva pericoloso il procedere; era come se volesse dire al Sovrano:

“ — Noi non ti lasciamo andar via! „

E quella massa imponente di popolo, pigliandosela colla macchina che ansante e sbuffante, mostrava la sua impazienza con un sordo insistente brontolio — quella massa pareva altresì che dicesse:

— Fermati sciagurata... e taci!... Non portarcelo via. Fra queste mura [p. 391 modifica]non si affilano pugnali assassini... non si fondano palle di piombo regicide!... A Verona, col fiore del più puro affetto, fioriscono i gelsomini e le gaggie, tanto care a Margherita!... Fermati.... taci!... Non portarcelo via!...

E S. M. il Re, interprete di quel sentimento, ordinò al treno di fermarsi per poter ringraziare i cittadini di quella nuova dimostrazione.

Perocchè, in quel momento, pareva persino che popolo e Re avessero l’arcano presentimento di non doversi rivedere mai più!...

E il saluto che Re e popolo in quel momento si scambiavano, era — ahimè pur troppo! — l’estremo saluto!...