Prose (Foscolo)/V - Scritti e frammenti vari dal 1802 al 1805/I. Frammenti di un romanzo autobiografico

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I. Frammenti di un romanzo autobiografico

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I. Frammenti di un romanzo autobiografico
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I

FRAMMENTI DI UN ROMANZO

autobiografico

[1801 c. — 1805 c.]

PRIMO GRUPPO

primo frammento

Avvertimento

Il libro, che sta fra le mani del candido lettore, è il sesto tomo dell’Io, opera annunziata nel paragrafo precedente, che n’è il proemio universale.

Mando innanzi il sesto, perché gli antecedenti volumi stanno ancora nel mio calamaio, e i futuri nel non leggibile scartafaccio del fato.

Comprende questo tomo il mio anno ventesimoterzo, dai 4 maggio del 1799 sino a’ 4 maggio del 1800. Unito che sia al corpo dell’opera, lascerá il frontispizio che porta.

Né si sospetti ch’io stampi un tomo alla volta per tastare il giudizio del pubblico. Con pace della critica e del disprezzo, proseguirò sempre a scrivere ed a stampare.

Ma perché scrivi?— A ciò ho risposto nel proemio, inseritovi ad hoc. Che, se poi non avete né voluto né saputo valutare le mie ragioni, eccomi presto a darvi la risposta che di pieno iure vi si spetta. Poiché lasciate suonare il piffero a chi, volendo ingannare la sua noia, sturba i vicini, non v’adirate s’io, che non so suonare alcuno strumento, tento d’ingannare, scrivendo, i miei giorni perseguitati ed afflitti!

E perché stampi? [p. 170 modifica]

E perché compri? D’altronde si può comprare e non leggere: e qui avrei voluto chiamare in testimonio le biblioteche de’ frati e de’ vescovi; ma, poiché sono state saccheggiate dagli agenti nazionali, mi trovo forzato a far citare quelle de’ commissari, dei finanzieri, dei generali e dei nobili... e di qualche letterato. Vuoi piú? Tutta questa rispettabile ciurma potrá persuadervi ab experto che si può comprare, leggere e non intendere.

Fuor di scherzo. Vedimi ginocchione per confessarmi a’ tuoi piedi, o tollerante conoscitore dell’uomo.

Il proponimento di mostrarmi come la madre natura e la fortuna mi han fatto, fu un po’ d’ambizione. Lo so... ma... ti giuro ch’io non sono stato mai ambizioso. Ho sentito... lo dico arrossendo... ho sentito e sento — lascia prima ch’io mi copra con le mani la faccia — una febbre di gloria che m’ubbriaca perpetuamente la testa. Nella mia adolescenza le ho sacrificato la quiete della casa paterna e la certezza del pranzo giornaliero. I miei piaceri, i miei vizi, le mie passioni, il mio onore e perfino le mie speranze... ora non ho altro... sono, quand’ella il voglia, sue vittime.

È vero ch’io spoglio talvolta questo fantasma della porpora e della tromba, e allora vedo in lui uno scheletro che traballa su le ossa ammucchiate de’ cimiteri... casca, si dissolve e si confonde fra le altre reliquie della morte. Ma poi? torna a lusingarmi con la sua voce, che passa tra il fremito delle tarde generazioni e rompe co’ suoi raggi, che a me sembrano eterni, la caligine de’ secoli remoti. Tutte le mie potenze e i bisogni stessi della vita non parlano allora in me che con un rispettoso mormorio. Il solo pensiero che il mio nome sarebbe sepolto col mio cadavere mi distolse due volte dal mio vecchio proponimento di ingannare la fortuna, di liberarmi dalla noia del mondo e di contentare la umana malignitá, rendendo questa misera vita alla terra. L’ambizioso ha l’anima gonfia, non elevata. Non ho mai brigato il fumo della letteratura, né i ricamati vestimenti de’ nostri magistrati. E, piú che l’amore della virtú, il timore dell’avvilimento mi ha rattenuto sovente da quelle azioni, che la societá chiama «delitti». Ma s’io........... non forza politica umana, non [p. 171 modifica] prepotenza divina mi faranno rappresentare1 su questo mortale teatro la parte del piccolo briccone.

Da questo che ho detto avrai desunto, spero, quello che non posso dire. Bensí’... Lo dirò? Sogno talvolta di nuotare alla gloria per un mare di sangue. Or tu puoi desumere ciò ch’io non posso dire.

Un pari accesso avea, non ha guari, abbattute le mie facoltá. Io aveva esiliato dal mio ingegno le vergini muse e dal mio cuore il dolce spirito dell’amore. Addio patria, addio madre, addio cara e soave corrispondenza di pacifici affetti. Pareami di consacrare alla libertá un pugnale fumante ancora nelle viscere de’ miei congiunti, e di piantar la bandiera della vittoria sopra un monte di cadaveri. La mia fantasia scriveva frattanto il mio nome sulle vòlte dei cieli. Ma io mi sentiva rodere a un tempo dalla fame di gloria, l’ulcera sorda del supremo potere. Se non che la disperazione di conseguirlo prostrò l’anima mia, la quale giaceva, aspettando il soffio distruttore della morte.

Una notte, nell’agonia dell’infermitá, mi sono sentito asciugare il sudore del volto. Schiudendo gli occhi languenti, vidi al debile raggio di una lanterna un vecchio scarno e coperto d’un saio sdrucito; il capo calvo, la barba canuta e divisa in due liste. — Non conosci me piú? — mi disse, sedendo presso al mio capezzale...

· · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · ·

...gno. Mi stringeva anzi affettuosamente: quindi mi stese la

mano e mi confortava (?)..... il mio sonno. — Non dormo, no — diss’io, sospirando profondamente e volgendomi dal suo lato, — non dormo:... aspetto qui il sonno eterno! Ma tu che cerchi da me? —

Ed egli — O mio figliuolo! tu hai negletto la fortuna, perdute le scarse delizie della vita, consumata la gioventú; e, invece di pentirti, ti vai divorando quel poco d’ingegno che ti resta e che può solo acquistarli la gloria, il di cui cieco desiderio ti ha ridotto a questo deplorabile stato! — Il mio volto si rasserenava [p. 172 modifica] al suo dire; ma quest’ultime parole, destandomi pietá di me stesso, mi trassero una lagrima: ei l’asciugò col lembo del suo saio.

Avvedutosi ch’io mi forzava d’alzarmi su le braccia, rizzossi per aiutarmi: s’assise poscia, e, sostenendomi il capo con la palma della sua mano, proseguí: — Credimi: la fama degli uomini grandi spetta, per lo piú, tre quarti alla sorte e un quarto ai loro delitti. Il vulgo giudica, piú che dall’intento2, dalla fortuna; la utilitá fa passare in diritto la sceleraggine, spesso il terrore adula il potere (?) e l’interesse magnifica sempre l’opulenza. Vedi le lodi che si sono date alle stragi? Ma se pure ti senti bastevolmente scelerato per aspirare all’eroismo, credi che la fortuna arriderá sempre alle tue imprese? Se tu cadessi fra via, saresti deriso come un demagogo; se nel coronamento (?) dell’impresa, esecrato forse come tiranno...... [Non] si può giovar mai a un popolo senza dominarlo. Aggiungi che gli amori della moltitudine sono brevi ed infausti. Né ti sará concesso d’essere giusto impunemente. Un giovine, povero di ricchezze, ardente, ma inesperto di ingegno come sei tu, sará sempre o la vittima del forte o l’ordigno del fazioso. Tu non potrai dire schiettamente: — Amo il mio amico, aborro il mio inimico, ed amo piú la mia patria che i suoi governatori (?). — Oh! tu sarai spento dall’arma secreta della calunnia, la tua prigione sará abbandonata da’ tuoi amici e il tuo sepolcro coperto d’infamia.

....... Perché3 le antiche calamitá della tua patria e le sue presenti sventure (?) non ti hanno ancor insegnato che non si deve aspettar libertá dallo straniero, che scrive sempre le leggi col sangue.

Tutto è guerra nell’universo. Lo stesso interesse, che la trasse a liberarsi, la persuaderá (?) facilmente all’assassinio e al saccheggio. E allora? E avrai tu la forza e il coraggio...... l’uni verso cercava un amico a! popolo. [p. 173 modifica]

secondo frammento

[A PSICHE]

... E, se vi fosse concesso, amatevi eternamente. Ma questo amore perfetto se lo hanno purtroppo riserbato i numi. Ancor non è poco se due amanti, spenta la passione, non s’odiano. Prevenite gli ultimi giorni di una passione languente che cede sempre il loco alle furie della gelosia e dell’onore. La tristezza, il sospetto e il tradimento passeggiano sempre d’intorno al letto di due sposi gelosi. Non vi rapite la sacra amicizia, unico balsamo all’amarezze della vita. L’amore perfetto è una chimera: il desiderio fa beati alcuni momenti e l’amicizia conforta tutti i tempi, ed unisce tutte l’etá. Va’, mio ragazzo; te’ un bacio, non mi giurare fedeltá ch’io né la credo né la voglio.

Vi era, o Psiche, nel tempio di Venere un voto con questa iscrizione: «Non amo piú Tirsi; né prego di amarlo ancora. Dea! fa’ che Dòrilo m’ami».

Io voleva insegnarti le lezioni della mia precettrice fino dal giorno che ti ho detto: — Mi piaci. — Ma chi era sí pazza da rapire al piacere le brevi ore furtive, appena sfuggite al sospetto del tuo geloso marito? Mi scrivi pertanto ch’ei s’è corretto. Buon per lui: che il cielo e la buona fortuna gliene rendano il merito. Tu se’ giovinetta, egli vecchio. Prenda dunque da’ tuoi sedeci anni quello che può e che... per giustizia non gli viene. La natura, in fine de’ conti, si ride delle leggi ippocrite della societá. Tu l’ami come fratello, tu l’onori come padre, tu l’accarezzi come sposo; gli basti. Tu né sei né sí prodiga né sí vana da ruinare (?) gl’interessi domestici. Il mondo esige le immagini della virtú e dell’amore e tu le conservi. Poche mogli fanno altrettanto.

Io non so, piccola biricchina, s’egli fu il primo a cogliere il primo boccio di rosa della tua primavera. Sorridi? Per me, non posso giurare né per il «sí» né per il «no». [p. 174 modifica]

Ma tu, chiunque tu sia, beato mortale che l’hai còlto, inginòcchiati meco dinanzi la madre natura.

O natura! accogli quest’inno de’ tuoi figli. I mortali dovrebbero maledirti e renderti questa vita. Pianto, speranza, terrore e morte, ecco i nostri elementi. Ma tu hai creato la Bellezza! E noi, adorandola, ti rendiamo grazie anche per i nostri mali.

La preghiera è fatta.

Ora lasciati pregare e persuadere anche tu, mia fanciulla. Il bello è sì raro! Tu saresti ingrata con la natura, se non ne distribuissi a que’ mortali, che, piacendoti, acquistano il diritto di possederlo.

A questo proposito mi ricordo che Temira mi diceva sovente: — Io faccio felici gli uomini per quattro motivi:

per bisogno,
per dovere,
per capriccio,
per compassione. —

Ma a quest’ora il regno di Temira è finito. Il tempo ha sfogliato le rose della bellezza. Ella, o Psiche, ti cede il loco.


Temira! il tuo regno è finito; ma io... e non so di che amore... ma io t’amo ancora.

Il mio amore non è certo platonico.

Non è l’amore dei baci.

Non è sentimentale.

Non è di desiderio.

Non è di speranza.

Non è di gelosia.

Non è di ambizione.

Non per costume. [p. 175 modifica]

Non è per puntiglio.

Non è per progetto.

Non per cavalleria.

Non è... non è...

Chi può dirlo? Ma io so che spargerei tutto il mio sangue per te.

Che importa se il tempo ha sfogliate le rose? La fragranza rimane ancora, e l’amicizia la respira.

Le passioni, piú che l’etá, hanno oscurato nel mio sembiante il raggio della giovinezza: eccomi sventurato e filosofo. Sorridono le mie labbra, ma non il sorriso della gioia. E, se talvolta rido pazzamente, rido di me, che ho compianto la perfidia degli uomini senza avvedermi che non si può cambiar la naturi.

Se dunque, o Psiche, io ti addito il loco di Temira, non è ch’io lo faccia per me: io non ti vedrò forse piú. A me basta se tu conforti con un sospiro la memoria di quest’esule sfortunato. Che la sacra amicizia te ne ricompensi! Ella renderá serena la tua vecchiezza, come adesso l’amore fa gaio il tuo aprile.

Io scrivo... e ogni lettera ch’io traccio m’avvisa che la vita siegue con pari rapiditá la mia penna. Il tempo vola e divora il creato. Passano l’ore simili alle nuvole cacciate dagli aquiloni... Tutto cangia, tutto si perde quaggiú... tutto! Quelle trecce, che tu con tanta cura conservi... vedi vedi! ti biancheggiano fra le dita. Ogni bacio, ogni addio è il preludio di quella eterna separazione che ci aspetta!... Presto!... copriti gli occhi, fino ch’io chiuda di nuovo le cortine del futuro, aperte dalla mia mano indiscreta.


Che lunga lettera! per me vorrei che non finisse mai. Io vivo ancora con te... almen come posso. Non so che intenzioni possa avere il destino su la magra e malinconica persona del povero Lorenzo. Lasciami dunque scrivere... Forse, chi sa, questa lettera ti porterá il mio ultimo addio. [p. 176 modifica]

T’assista la fortuna, mia buona e cara fanciulla! Tu lo meriti, perché hai il cuore ben fatto. Ma... che il tuo cuore appunto non ti tradisca! Non piegarti ai primi sospiri di un amante: lo perderai per sempre! Innanzi di svelare tutti i tuoi vezzi, fa’ come la madre d’Amore, che, prima di scendere fra gli abitanti di Tempe si lasciava adorare avvolta dentro una nuvola, facendosi conoscere all’aura de’ suoi capelli profumati d’ambrosia.

I numi festeggiavano un giorno in un convito celeste il ritorno di Venere dagli oracoli d’Amatunta. Per onorare la dea, ciascuna delle altre dive ornò le Grazie del proprio pregio, cui Diana... [p. 177 modifica]

SECONDO GRUPPO

Proemio

Rispetto alla dedica del libro, io la offro a me stesso. Ed è questo, dacché mi son posto a cucire la mia odissea, l’unico pensiero veramente commodo e pronto. Non mi costa un minuto di «sì», di «no», di «ma», e mi risparmia la fatica e il rossore di scrivere una dedicatoria. Ond’io posso dal mio canto risparmiare e al mecenate e al lettore due pagine per lo meno di noia. Le cose tra me e me si passano in confidenza. D’altronde de’ miei avi, bisavi e proavi non saprei che mi dire; non li conosco. Potrei rimediare a questa ignoranza e al vuoto della carta col mio panegirico: ma non si può né si deve, e l’ipocrisia la proscrive assolutamente; e poi... chi crederebbe?... Biasimiamoci. Progetto nuovo e in salvo dalle mentite... Ecco, per altro, violate le regole, e la mia dedicatoria non sarebbe piú una dedicatoria.

Nondimeno bisogna confessare che il libro è mutilato.

Vittoria, lettore! m’alzo a mezzo il pranzo, per non lasciarmi scappare il piú bel pensiero del mondo. La dedica sará scritta o dall’editore, o dallo stampatore, o dal libraio, o da un amico, o da qualche letterato, o da... — Odore di rancidume!

Dovrete dunque sempre, vergini muse, baciare la mano della ricchezza, che offre sprezzatamente un tozzo di pane al vostro sacerdote?

Lettore, finiamola; tu m’hai fatto tastare una certa corda... ed io non ci vo’ piú pensare: non ci pensar nemmen tu.

Ma lo stampatore, per non caricarsi la conscienza del pentimento de’ compratori, che crederanno di portarsi a casa il libro con tutte le adiacenze e pertinenze, aggiunga nel frontespizio a lettere maiuscole: «Vi sará l’epigrafe, non la dedica: chi la vuole se la scriva». [p. 178 modifica]

1

Il mio cavallo andava di passo per la via dell’Apennino, e il mio cane mi seguitava.

«Addio, addio, beato paese, ove la fortuna mi avea fatto obbliare per alcun poco le miserie dei mortali!». Il mio cavallo intanto si fermava, perch’io potessi rivolgermi, e salutar da lontano i colli di Bologna, e la mia solitudine, e te, o Luigi, che forse parlavi secretamente di me...

Il nominarmi era delitto.

E te e te..., deliziosa fanciulla, che allora, chi sa? non ti accorgevi nemmen piú ch’io ti mancassi.

Ma... addio! il destino forse mi ricondurrá piú felice e piú saggio... Ma... conviene dunque ch’io beva la saviezza nel calice della sventura? Sia: quand’io sarò stanco della burrasca, il naufragio sará sempre pronto. Addio, dunque. Che, se mai, se mai non mi vedeste piú... e se...

2

Se... —

Conviene, peraltro, ch’io mi faccia conoscere a tutti quelli che non mi conoscono. Io dunque sono uno strumento fatto per ogni tuono, e appunto appunto per modulare le transazioni.

Nel momento de’ miei «addio», un reggimento di usseri trottava verso la Toscana. Il mio cavallo era normando di razza, di alta taglia, baio dorato, coda all’inglese, ampio petto, gambe snelle, orecchie ritte collo e testa marziale...; e v’era da scommettere cento contr’uno che nelle prime campagne della guerra presente egli avesse avuto il nome, le funzioni e le qualitá di Baiardo. Vero è ch’egli avea bisogno d’una valdrappa assai larga che gli coprisse la groppa; e, se si deve credere alla cronologia de’ cinque compratori che mi hanno preceduto, egli non contava che sedici anni... piú o meno. [p. 179 modifica]

Ma gli si leggeva, per altro, e nella fronte e nel portamento «Storie de’ prischi tempi e forti fatti»; onde è naturale che il trottar degli altri cavalli gli abbia ridestato la memoria delle antiche battaglie e il pizzicore di farsi apprezzare. Aggiungi la mia divisa militare, la mia lunga scimitarra e un gran pennacchio che mi ondeggiava sopra il cappello...

Insomma il mio cavallo cominciò prima a corbettare e poi a gareggiare di trotto. Lo dirò? Mi sono in un momento passate dalla testa le care e meste memorie... Io precedeva la cavalleria, arieggiando il valore di Rinaldo, non parlando piú ai colli di Bologna, i quali, ad onta de’ miei saluti patetici, non m’avrebbero mai dato risposta .. Cosí almeno credo.

Perch’io reputo meno degenerata la schiatta de’ cavalli che de’ cavalieri. I nostri eroi, stanchi delle strane avventure, movono guerra, e «vincasi per fortuna o per ingegno», all’opulenza e al piacere, ed offrono in tributo alle Dulcinee una parte della conquista. E qual Venere mai oserebbe appressarsi all’alloro, se non sentisse da lungi l’odore del mirto intrecciato e lo splendore del...

Ma voi, signor generale, m’intendete, senza ch’io vi annoi di piú, e mi credete senza ch’io giuri... Ve’ nondimeno un dubbio insolente: vi sono stati mai degli eroi?... Non vi corrucciate, vi prego: questo sia per non detto.

Un pensiero, per altro, rovescia tutte le riflessioni precedenti, le quali si potrebbe far a meno di leggere. Dico dunque che la cavalleria di quei generosi erranti non ha potuto mai esistere... se non come la sovranitá popolare... Ed eccone la ragione.

Non si legge mai ch’essi avessero dell’oro.

E non so come... non sieno stati cacciati dai castellani, dov’essi albergavano a spese dell’aria. Non v’è dunque oggetto di comparazione fra i paladini e voi, signor generale. — Ma con gli eroi di Plutarco? — Appunto appunto. Se non che la piú gran parte di que’ grand’uomini erano nati ricchi; e voi, che lo sapevate, vi siete arricchito da voi stesso...

Fra tanto e tanto, è vero egualmente. [p. 180 modifica]

Ma, cosí svagandomi, mi sono obbliato di dirti che ho veduto il tuo B... Mi accolse di buon cuore, forse perché non ha sospettato della mia trista fortuna... o forse ancora per lo stato cadaverico in cui lo aveva lasciato una febbre maligna, che non gli permetteva ancora di respirare il libero soffio dell’aria. Gli uomini non perdono l’orgoglio se non con le forze.

— Io torno dalla soglia della morte — mi disse fievolmente, porgendomi la mano tremante.

Quel giorno mi sono guardato di nominarti.

Io avrei toccato nel cuore del povero malato una corda, la di cui vibrazione non sarebbe cessata sí tosto. [p. 181 modifica]

TERZO GRUPPO

a psiche

Che fai, deliziosa fanciulla? Io credeva che il tuo cuore, volando dietro a’ piaceri, non si ricordasse piú del suo Lorenzo. Tu non sei sventurata, non4 sospiri con me la perduta felicitá. Una mesta illusione ti chiama sovente nella mia solitudine. Io ti parlo e mi faccio rispondere. Talvolta, rammentandomi le nostre ore di paradiso, ti mando de’ baci; e mi sento su le labbra una certa fresca soavitá come se tu m’avessi baciato in quel momento. E ieri io m’alzava dal letto, salutandoti: — Addio, addio, piccola deitá: tu forse non sai, né t’importa, s’io vivo. — Ma verso sera la tua lettera mi ha rimproverato i miei sospetti; ed io l’ho bagnata di lagrime riconoscenti.

Buon giorno, dunque. Che la tua bellezza e la tua gioventú sorridano sempre come l’aurora di questa mattina. Sempre?... Cielo, cielo, abbi pietá della mia giovinetta!

Che ti dirò intanto?... I miei mali?... no: la tua compassione sarebbe un balsamo, è vero, al mio povero cuore; non sará però mai ch’io voglia avvelenare la pace e la voluttá, fatte per la tua anima angelica e per la tua sacra bellezza.

Tu vuoi nondimeno ch’io ti scriva quello che ho imparato nel mio viaggio. Innocente! Gli uomini son tutti bassi con la ricchezza e orgogliosi con la povertá. Ciascuno è scellerato, quando il proprio interesse non lo strascini a offrire delle ippocrite adorazioni a quel fantasma, che la societá, cui torna d’ingannarsi e d’ingannare, chiama pomposamente «virtú». Ecco tutto. [p. 182 modifica]

Ma io scrivo a te, e non alla ippocondriaca filosofessa, che comincia finalmente a moralizzare... e ne appello ai vecchi amici di casa, tornati nella grazia di Madonna dopo l’ingrato abbandono... Cura per altro di non nimicartela. Le antiche galanti sono per lo piú di buon cuore, e cercano per le altre quello che hanno perduto con la giovinezza fuggitiva.

Ascolta. Le donne belle sono nate per amare e per essere amate. E tu forse mi dici sorridendo: — Lo so meglio di te. — Bada; ancora non t’avvedi che mille basse passioni e il cieco delirio dell’amore turbano quasi sempre le delizie del piacere. Imita la celeste Temira. A questa sacerdotessa di Venere ho consacrato le primizie della mia gioventú. Ella amava le buone qualitá delle donne, e sfuggiva senza maldicenza i lor vizi. Ammirava in taluna lo spirito, in tal altra il cuore, in questa la gioventú, in quella i vezzi, ed ammirava tutti questi doni in se stessa... Ma non n’era avara per questo. Viveva e lasciava vivere. Il mistero apriva e chiudeva le cortine del suo letto: — il mistero, intendi? — Era amante per cinque giorni, ma amica per tutta la vita.

Era un dopopranzo d’estate. Ella stava ignuda sopra il suo letto. Appoggiava il gomito sui guanciali, e la testa alla palma della mano. Io le giaceva vicino ancora anelante, e appena uscito dagli arcani ove la dea mi aveva iniziato. Mi accarezzava scherzando; ed io alzava di tratto in tratto la testa e la baciava, quasi per ringraziarla, libando dalle sue labbra i respiri, per i quali ella rinveniva a poco a poco dalla sua voluttuosa agonia. Il desiderio intanto, calmato ma non estinto, mi porgeva il nettare del piacere; ed io lo assaporava a piccoli sorsi. Le mie mani e i miei sguardi erravano qua e lá estatici su quelle bellezze, che l’impeto della passione m’avea dapprima mostrato confusamente. La sua bocca umida e socchiusa, la fisonomia passionata, gli occhi piú azzurri che mai, nuotanti in un languore voluttuoso, le guance impallidite e rugiadose di sudore, le chiome sparse in onde dorate su le braccia, su le spalle e nel petto, le poppe lievemente sommosse dai palpiti del cuore... Eterno Iddio! perché hai scolpito cosí tenacemente nella memoria la felicitá, che tu, tu... m’hai rapito per sempre? [p. 183 modifica]

Oh!... ma la mia curiositá mi teneva sospeso su le sue forme... Da quel giorno l’anima mia ha sempre filosofato sul bello, e ha sdegnato i vezzi troppo comuni di tant’altre donne...

La mia mano scorrea mollemente per le sue membra bianchissime incarnate di rosa. Ho osato... ove una fina lanugine biondeggiante...

· · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · · ·

— Piccolo birichino — disse Temira — baciandomi e sorridendo della mia ingenuitá, — m’ami tu dunque? — Io la guardai. — Fedelmente? — replicò Temira, che avea sentita tutta l’eloquenza della mia occhiata.

— S’io t’amo, s’io t’amo?— esclamai.

— Oh! in questa etá — proruppe Temira, abbracciandomi — solo in questa etá gli incensi degli uomini sono puri. Allora soltanto noi respiriamo per un momento il profumo delicato del candore e della fedeltá... Ma... un momento!

— Io — prosegui — stava tra il sí e il no sul pensiero d’offrire io medesima il tuo primo sacrificio alla natura. Temeva di aprire al tuo cuore inesperto ed impetuoso la via del dissipamento. Io giá sentiva il rimorso di sviarti dalle utili discipline e di rapirti gli amabili vaneggiamenti di un amore non ancor conosciuto... Ma d’altra parte mi parea di vederti strascinato dalla prepotenza del tuo naturale a comprare i baci da una bocca affannata, guastando la tua salute e la tua gioventú. Talvolta ti sentiva, a piedi di una superba, maladire l’amore e gemere respinto e sprezzato. Le donne virtuose nei sospiri de’ loro amanti sfortunati non altro alimentano che una perfida compiacenza... Vien’ dunque, vieni. Gli abbracciamenti d’una donna che t’ama t’ammaestrino nel vivere e t’allontanino dal vizio.

Bada!.... non innamorarti! —

(Oh! avessi creduto a Temira. Non avrei tentato di offrire a’ tuoi piedi, o Teresa, il mio cadavere senza neppure la speme di una lagrima. Ma... cosí è: ho dovuto sempre bevere la saviezza nel calice della sventura. Io ti sarò amico sino all’ultimo fiato; ma... amarti! Non piú mai! Io fuggo le memorie della tua bellezza e della tua crudeltá, simile a un’ombra lamentosa...). [p. 184 modifica]

— Cogli i favori delle belle donne, come i fiori delle stagioni.

Se il cielo ti dará una sposa, dividi con essa tutta la tua felicitá, e dividi con essa nelle disgrazie il pane e le lagrime. Amatevi, e se vi fosse concesso, amatevi eternamente5. Ma questo amore se lo hanno riserbato i numi. Ancor non è poco, se due amanti, spenta la passione, non s’odiano. Prevenite con nuovi amori gli ultimi giorni di una passione languente, che cede sempre il loco alle furie della gelosia e dell’onore. La tristezza, il sospetto e il tradimento passeggiano sempre intorno il letto di due sposi gelosi... Non vi rapite la sacra amicizia, unico balsamo all’amarezze della vita. L’amore perfetto è una chimera; il desiderio fa beati alcuni momenti, e l’amicizia conforta tutti i tempi e contenta tutte l’etá. Va’, mio ragazzo. Te’ un bacio: non mi giurar fedeltá; ch’io né lo credo né lo voglio. —

O Psiche! v’era nel tempio di Venere un voto con questa iscrizione: «Non amo piú Tirsi: né ti prego, o dea, d’amarlo ancora: fa’ che Dorilo m’ami».

Io voleva insegnarti le lezioni della mia precettrice fino dal giorno che ti ho detto: — Mi piaci. — Ma chi osava rapire al piacere le prime ore furtive appena appena sfuggite al sospetto del tuo geloso marito? Tu scrivi pertanto ch’ei s’è corretto. Buon per lui. Che il cielo e la buona fortuna gliene rendano il merito. Tu se’ giovinetta, egli vecchio: prenda dunque quello che può, e che per giustizia non gli viene: la natura, in fine de’ conti, si ride delle leggi ippocrite della societá. Basti per lui che tu conservi ancora le immagini della virtú e dell’amore. Poche mogli fanno altrettanto.

Io non so, birichina, s’egli fu il primo a cogliere il primo boccio di rosa della tua primavera. Sorridi? non vo’ saperlo; ma non potrei giurare né per il sí né per il no.

Con tutto ciò, non mi so dar pace nell’idea di andare ognora vagabondo come un arabo, portandomi tutto quello che ho sulle spalle. L’ora del mio ritorno è la piú bella ch’io segni sempre [p. 185 modifica] nel mio giornale. Conoscendo la mia e la universale scelleratezza, ho d’uopo, per guardarmi, [di] sapere le leggi che mi condannano e mi proteggono [e di avere alcune migliaia d’uomini interessate a difendermi dall’aviditá e dall’orgoglio del mio vicino]6. Ogni sventura, che mi succede in un paese straniero, mi [ricorda?] gli antichi amici, le benedizioni e gli addio della mia povera madre e il pacifico piacere di temprare, come suol dirsi, il verno al proprio foco. Chi è quell’italiano che, tornando a casa, non senta, scendendo dalle alpi, l’aria piena di vita e di salute, e non dica con lacrime di gioia: — Beato colui che possiede in questa terra un riso (?), un amico (?), una sposa e un raggio di fortuna!

Pare che la natura ci abbia costruito il corpo fisico per vivere solamente dove siamo nati.

Mi sovviene del povero svizzero.

I numi festeggiavano un giorno in un convito celeste il ritorno di Venere dagli oracoli d’Amatunta. Per onorare la dea, ciascuna dell’altre dive ornò le Grazie del proprio pregio. La Grazia, cui Diana concesse il pudore, fu adorata dai mortali come la primogenita e la piú bella.

[Lettore, se vuoi terminare la lettera, salta questo paragrafo che non c’entra.

«Immergendomi in quel laghetto, io cantava un inno alla natura ed invocava le ninfe, amabili custodi delle fontane. — Illusioni! — grida il filosofo. E non è tutto illusione? tutto! Beati gli antichi, che si credevano [degni] degli abbracciamenti delle dive, che sacrificavano alla bellezza e alle Grazie, che diffondevano lo splendore della divinitá su le imperfezioni dell’uomo, e che, accarezzando gl’idoli della lor fantasia, trovavano il bello ed il vero».

Parole dello sfortunato amico mio Iacopo Ortis. Siegue la lettera.] [p. 186 modifica]

E n’abbiamo ragionato sovente, io e l’amico mio Diogene; il quale non è poi, come si pretende, l’uomo il piú villano del mondo. Né tutta la sua eloquenza, né il suo esempio, che vale assai piú, mi hanno potuto mai fare cosmopolita nel cuore... non posso. La mia ragione, presa alle strette dagli argomenti e dalla trista veritá dell’esperienza, ha detto, scuotendo appena la testa, di sí; ma il cuore (e Diogene, che lo sa, ve ne attesti) è restato da quel di malinconico, e non ha risposto neppure un «et».

Ho dormito piú volte i miei sonni pacifici su la paglia, e ho cenato allegramente sul desco della povertá. Nelle mie meditazioni ho congedato la vita col disdegnoso sorriso di tutti gli antichi e moderni sprezzatori di morte; non eccettuato il buon Seneca, che (sia detto fra noi) si accarezzava, tremando, un fiato di vita con l’acqua ora di uno ora di un altro ruscello, e coi legumi piantati sospettosamente dalla propria mano ne’ suoi lussureggianti giardini. Ma la patria?... Il cielo non me ne ha conceduto; anzi ordinò alla fortuna di gettarmi nel mondo come un dado.

Dai precedenti tomi dell’Io che voi, madama, avete giá letto, o leggerete, o sarete per non leggerli mai (non sono ancora scritti), saprete ch’io nacqui in Grecia, ch’io trascorsi l’infanzia fra gli egiziani, la fanciullezza nell’Illiria, la giovinezza su e giú per l’Italia, la prima virilitá in Francia, come vedete, e e il resto di vita... Dio sa!

Aggiungete che mio padre mi lasciò erede del suo genio ambulatorio, ed io mi struggo di cercar nuove terre per anatomizzare sempre piú gli uomini ed adorare la madre natura. ... Ma se voi, madama, leggendo sin qui le poche pagine del mio libro, vi siete affezionata all’autore, che. . . . .

Mi son trovato rinchiuso fra due montagne nere, aride, circondate in tutta la loro altezza da orribili precipizi e da abissi profondi. Presso le loro vette le nuvole erravano lentamente fra alberi funebri... Due stavano sospese sui loro sterili rami.

O conquistatori, qui qui contemplate lo spettacolo dei stermini di cui affliggete la terra..... [p. 187 modifica]

Le brighe della malafede mercantile.


— Non conoscete persona del mondo? — dicevano a un tavolino due galantuomini ad un uomo, che avea sembianza d’essere un viaggiatore.

— No.

— E che fate qui?

— Passo il verno.

— Bel clima questo!... ma non vi divertite.

— Ho giocato e ho perduto.

— Che fate dunque?

— Passeggio.

— Tutto il giorno?

— Passeggio.

— La sera pure?

— Passeggio.

— Vi annoierete.

— Talvolta.

— E allora? — diss’io, che stava in piedi, levandomi con due mani il cappello di testa e ponendolo dispettosamente sul tavolino...7.

— E allora, fumo. —

Scuoteva intanto le ceneri della sua pipa e s’apparecchiava a riempirla di tabacco... Egli avea bisogno di fumare ed io di partire: i due genovesi restarono ad ammazzare il tempo sui loro sedili: il viaggiatore si pose a fumare, ed io sono andato dove m’è piaciuto. [p. 188 modifica]

PENSIERI E APPUNTI

Alla soave rugiada della laude la laude fiorisce come le piante alla rugiada del cielo.

Ma spetta solo agli uomini dabbene di lodar l’uomo dabbene.

La vita è un epigramma, di cui la morte è l’aculeo.

Io cerco qui il mio cuore, ma non lo trovo piú. Oh! mia giovinezza!

Onde, o mio confessore, io spero che questo libro ti desterá i pensieri destati da una lapida sepolcrale incontrata in un passeggio solitario.

Filippo domandava alla fortuna di temperare la sua felicitá con una disgrazia.

Passeggiere, va’, e di’ a Sparta che noi riposiamo qui per avere obbedito alle sue sante leggi.

Oserei definire la civiltá: la perfetta [arte] di fingere, virtú: il secreto di mascherare tutti i volti.

Ma, o tu pure che vinci, dove tu ti lusingassi di un vantaggio su l’umanitá.

O mio figlio, la natura geme al nascere di un eroe, e sorride su la sua tomba8.

Ah! ora m’avvedo che il saggio vecchio mi ha riserbato questa illusione per non calarmi ad un tratto il sipario ed affrettare cosí la mia morte9. [p. 189 modifica]

La venerabile povertá. ... I tuoi conoscenti t’incontreranno, e torceranno gli occhi per non riconoscerti.


O dolci sponde, o sacre case, o feconde campagne d’Italia echeggianti dei nostri gemiti e rosse del nostro sangue!


Guai, se tu t’abbandoni alle prime occhiate d’un amante! lo perderai per sempre.

Di coloro che spandono i loro tesori per disgustarsi di quanto v’ha di piú bello nella natura.

Quelle piccole cose che son di tanto valore, la virtú e l’amore, son parole morte; ma le loro immagini piacciono.


Ogni uomo pare che sia fatto per vivere nella sua patria, ed io... per abbandonarla.

La nostr’anirna riceve dalla divinitá, dalla quale è emanata, una debole conoscenza dell’avvenire.


Ma io sono diffidente.... lo giuro per le mie tante e sì crudeli sventure.... ch’io in questo non ho altra colpa se non d’essere stato troppo ingenuo, e d’aver dato occasione agli uomini di darmi delle lezioni, sacrificandomi alla umana malignitá e alla sociale furberia.


Il male partecipa della natura dell’infinito, e il bene del finito.


Io mi credo piú savio di tutti, poiché rispetto i misteri della natura.


L’abbondanza di idee non è che penuria.


Scienza, elezione e perseveranza, ecco la virtú e il delitto.

Prudenza, ecco tutto.


I filosofi hanno voluto gli uomini numi. [p. 190 modifica]

La virtú unisce il cielo con la terra.


La nostra vita partecipa de’ princípi comici e tragici; l’intreccio sono le nostre follie, e lo scioglimento la nostra morte.


Talete rispose a quei, che [gli domandò che] ci vuole per esser felice: — Sanitá, ingegno e fortuna. —


L’eccesso de’ piaceri è l’unico ristoro ai popoli fatti vili e infelici dalla tirannide.

  1. Le parole in corsivo appaiono cancellate nell’autografo, e non sostituite [Ed.].
  2. L’autogr. ha veramente: «piú dall’intento che dalla fortuna»; ma è un lapsus calami, la cui correzione è suggerita anche dall’Ortis (in questo vol., p. 17) [Ed.].
  3. Nell’autogr., dopo una cancellatura, par d’indovinare, prima e al disopra di «perché», le parole: «Se dal numero di tutte le insidie [vicende e?] di tutti i secoli» [Ed.].
  4. Il F. prima aveva scritto: «Le mie sventure all’opposto mi fanno sempre sospirare», ecc. Poi, correggendo, lasciò nella penna il «non» [Ed.].
  5. Per questo e pei seguenti periodi si ricordi il 2° frammento del 1° gruppo, in principio, a p. 173 [Ed.].
  6. Le parole racchiuse nelle parentesi quadre si leggono nel margine dell’autografo [Ed.].
  7. Seguono nell’autogr. alcune parole indecifrabili [Ed.].
  8. Cfr. Ultime lettere, in questo vol., pp. 17-18 [Ed.].
  9. Cfr. in questo vol., p. 171 [Ed.].