Raimondo Montecuccoli, la sua famiglia e i suoi tempi/4

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Capitolo IV. Guerra di Nonantola, episodio di quella di Castro (1642-1643)

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Capitolo IV. Guerra di Nonantola, episodio di quella di Castro (1642-1643)
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Capitolo IV

guerra di nonantola, episodio di quella di castro


Se insino ad ora i casi avemmo a narrare a Raimondo Montecuccoli in estranie contrade intervenuti, lo vedremo ora al fianco del principe suo naturale, e con autorità maggiore di quella che aveva in Germania, spender l’opera sua in pro della patria. E crederemo che a lui in tale occasione quella interiore satisfazione non sarà mancata che si accompagna al compimento di un dovere quasi filiale verso la terra che ci vide nascere: sentimento questo dell’animo molto diverso dal nobile orgoglio che prova colui al quale fu dato d’illustrarsi con magnanimi fatti in paese straniero. Delle oneste accoglienze da Raimondo ottenute in Modena dié parte egli stesso al Bolognesi, che lieto se ne mostrava nella risposta che gli fece, mentre de’ buoni uffici gli si diceva grato da lui in favor suo fatti alla corte. Ai quali buoni uffici molto probabilmente dovette il valente diplomatico la splendida donazione fattagli dal duca a quel tempo, di un’estesa possessione presso Modena del valore di sei od otto mila scudi. E l’esaudimento ancora egli otteneva di un lungo desiderio suo, quello cioè di avere un segretario od aiutante di studio che gli alleviasse le sue fatiche. Venti giorni dopo l’arrivo di Raimondo a Modena annunziava il marchese Francesco al Bolognesi partirebbe con tale incarico per Vienna un Pier Francesco Comini. Accennavamo poi dianzi ad una lettera del Bolognesi; ed ora soggiungeremo che in essa narrava egli di avere in una conversazione, alla quale intervenne, bevuto alla salute di Raimondo, dietro l’invito del colonnello Gallo, impazzito d’amore verso la sua persona, com’egli esprimevasi. Altra lettera sua al duca, della quale si fece latore Raimondo, dava conto della partecipazione da esso fatta all’imperatore della lega della [p. 141 modifica]quale tenemmo parola, contratta invero nel luglio, ma che con nuovi capitoli in favore del duca di Parma era poi stata nel settembre completata. “L’imperatore, scriveva il diplomatico nostro, ha riso assai per essersi mutata la scena con l’entrata di S. A. di Parma nello stato ecclesiastico, e che la soldatesca pontificia fosse confusa”. Faceva poi istanza il Bolognesi acciò non venisse troppo a lungo trattenuto Raimondo in Italia, “perché à abilità ed ascendenza tale che potrà col tempo giovare per mille versi”. Parlando poscia degli affari dell’impero venuti a mal termine, soggiungeva non altro riparo trovare a questi il Piccolomini che l’azzardare una battaglia, il che qualificava egli per un parlare da disperato. Una memoria presentò Raimondo al duca Francesco I circa la parte che nella guerra italica si proponeva egli di assumere, memoria che ci sembra opportuno di riportare compendiata in nota . Qui basti accennare che l’officio egli chiedeva di mastro di campo generale, come lo aveva tra i pontificii il Mattei, e come era per ottenerlo in Toscana il Borri, entrambi commilitoni suoi : ed era accompagnata la dimanda dalle ragioni di convenienza che la legittimavano. Quattro mila scudi annui se gli darebbero, oltre la casa e gli utensili alla medesima occorrenti, per due anni, dopo i quali potrebbe egli alle dette cose sopperire coi suoi danari. La qual’ultima clausola non pare che ad altro accennar voglia se non ad uno stabile servigio militare ch’egli intendesse assumere a Modena. Ma da codesto memoriale un ostacolo apparisce da lui preveduto all’esaudimento della sua dimanda: i riguardi cioè che stimasse il duca dovuti al generale delle fanterie, che era il marchese Camillo Bevilacqua, legato in parentela colla famiglia d’Este. Vediamo infatti dal Montecuccoli proposta per lui qualche speciale onorificenza, in tempo di pace singolarmente, mentre in guerra dovrebbe chicchessia al mastro di campo generale rimaner sottoposto. [p. 142 modifica]

E per questi riguardi verso il Bevilacqua, ai quali or ora accennavamo, o per altra cagione che si fosse, si sarà il duca probabilmente riservato di fare la nomina del mastro di campo generale allora che sarebbero le truppe entrate in campagna, dappoiché a Raimondo fu dato per allora il grado di generale della cavalleria; dalla qual dilazione all’esaudimento della sua dimanda tutto induce a credere che Raimondo non dovesse restare offeso.

Veniva il Montecuccoli da paesi ove da molti anni ardeva la guerra, e guerra tale che talvolta neppure i rigori della stagione bastavano ad interrompere. Natural cosa quindi è il supporre che si sarà egli figurato di ritrovare l’una a fronte dell’altra, e forse già fra loro azzuffatesi le schiere de’ contendenti italiani. Onde non scarsa meraviglia gli avrà ingenerato certo nell’animo il vedere che di guerra non v’erano se non gli apparecchi; tenendosi gli eserciti ciascuno entro le frontiere sue, salvo quello di Parma, che ritornava allora dall’escursione che dicemmo aver fatto nello stato pontificio. Vedeva egli inoltre che ad eccezione del Farnese, dalla necessità pressato di riavere il suo, e dell’Estense, che mirava a Ferrara, ed era, come scrisse il Galluzzi storico del granducato, il solo che avesse coraggio di prendere armata mano le parti di quello, non si mostrava ne’ collegati desiderio vivo di guerra; tepidi anzi e sospettosi i veneti e il granduca, né ad altro aspirando il papa, se non a conservarsi il mal tolto. Dalla qual condizione di cose un interminabile scambio di note si originava, di proposte, di trattative d’ogni sorta; cose tutte alle quali non era Raimondo né preparato né propenso, e che più mesi continuò dopo il suo arrivo in Modena. Ma sarà egli stato senza dubbio a parte dei consigli militari che allora si tennero, dopo che il marchese Tassoni ministro estense a Venezia, ebbe colà il 31 ottobre dichiarato che inutili tornando le speranze di accordi, il tempo era venuto di ottenerli mercé le armi, non potendo del rimanente sottostare più a lungo il principe suo ai dispendii che quella pace armata gli cagionava . Né senza l’approvazione di Raimondo quelle proposte [p. 143 modifica]saranno state fatte che i due duchi cognati vennero combinando in Modena, o di entrare essi soli sul territorio pontificio, non altro aiuto chiedendo alla lega se non mille fanti tra veneti e toscani, o che venisse dalla lega invaso con dieci mila uomini il bolognese e il ferrarese, mentre entrerebbero i toscani su quel di Perugia, levando anche le corazze che tenevano sul modenese, e ricevendo un aiuto di 3000 fanti e di 600 cavalli veneti. Ma né queste proposte si accolsero, né l’altra di pagare essi in comune unitamente alla Spagna i debiti del Farnese co’ montisti di Roma, per tor di mezzo il pretesto dal quale era la guerra derivata. Il granduca intanto licenziava truppe, dicendo non aver modo di mantenerle, e metteva fuori progetti utili a lui solo che la lega accettar non poteva. Ma cotal procedere de’ collegati mandava a ruina, e certo con infinito rammarico di lui, i progetti del duca di Modena, che nella speranza di poter irrompere, soccorso dai veneti, nel territorio di Ferrara operato aveva che in quella città un certo numero di uomini s’introducesse, sudditi feudali i più del marchese Francesco Montecuccoli, diretti da un fattore di lui di nome Montaguti. S’erano costoro arrolati nelle truppe pontificie con pensiero di aprir le porte della città allorché gli Estensi si avvicinassero: ma il lungo indugio portò che venisse la trama scoperta, e furono alquanti modenesi e bolognesi, che in quella avevan parte, imprigionati. Non si venne però, qual che ne fosse la cagione, forse politica, a clamoroso processo contro questi rei di tradimento e di ribellione militare, e solo furono sostenuti in carcere. Tre di costoro per altro che l’anno di poi tentarono fuggire, furono puniti di morte. Non intiepidì, ma inasprì forse questo contrattempo l’animo dei due duchi, i quali mostraronsi deliberati al tutto di entrar soli nelle terre del nemico, contentandosi che la lega, come [p. 144 modifica]si espressero, stesse a vedere, e tenesse a bada i papalini: che se questo ancora a lor si negasse, il duca di Modena, secondo che al Siri ebbe a dire il principe Luigi d’Este, “avrebbe potuto darsi al diavolo, non che gettarsi nelle braccia di chi fosse stato potente per sollevarlo”. Ma l’opposizione dichiarata della Toscana valse poi a sedare i bollori del duca Francesco I, il quale anzi si pose in allora colle sue truppe, che disse ascendere a mille trecento cavalli, a molti fanti e a tremila cinquecento uomini delle milizie, a disposizione del senato veneto. Ma supremi sforzi faceva a quel tempo la Spagna per trarre la lega ai fini suoi. Onde spedì a Modena un conte Della Rocca, che seco aveva un Pottemberg consigliere imperiale, incaricato di appoggiare le richieste che era esso per fare. Ma si tennero il duca e i veneti sulle generali, allora vie più che intesero si volesse incluso nella lega anche il papa, se in mano di arbitri consegnasse Castro, il che già sapevasi che consentito non avrebbe.

Sull’aprirsi poi del 1643, prima con una memoria nella quale esponeva il duca Francesco I le ragioni sue sopra Ferrara, alla quale altra ne contrapposero i camerali di Roma; e poscia perorando egli stesso in Venezia, nel carnevale, in pro di una pronta mossa d’armi, si adoperava a far cessare una volta quella guerra senza battaglie che era la rovina di tutti. E in ciò gli vennero i pontificii in aiuto, perché coll’impedire alle navi della repubblica il Po, col fortificare Melara e la Stellata, e col porre esercito a Castelfranco indussero i veneti a consentire che la lega da difensiva che era, si mutasse coi nuovi capitoli che nel maggio si pubblicarono, in offensiva. Ebbe essa in breve completo l’esercito suo di 18.000 fanti e 2000 cavalli, divisi in due corpi che nel giorno medesimo varcar dovevano i confini dalla Toscana, dal Po e dal Panaro: libero al duca di Parma di unire le truppe sue a quelle della lega, ed agli altri principi italiani di accedere alla medesima, la durata della quale fu fissata a dieci anni. Sarebbe ciascun corpo sotto il comando del proprio capo, e unendosi veneti ed estensi, nominerebbe Venezia il generale in capo col consenso del duca di Modena. Le terre occupate si terrebbero a garanzia della resti[p. 145 modifica]tuzione di Castro: assicurate le rive del Po, unirebbersi i veneti alle truppe estensi. Non mi è noto se di quel lungo indugio all’operare approfittasse Raimondo per visitare il feudo suo, in quelle circostanze ancora gravato, e lo notammo già, da requisizioni di grani, di fieni e di animali, come gli altri territorii estensi: quant’è agli uomini di là chiamati a militare nella guerra che si preparava, troviamo avesse il Duca a muovere lagnanze perché non era la compagnia di milizie di Montecuccolo costantemente tenuta in numero: al che il podestà Poggioli rispondeva non aversi allora più che 60 o 65 uomini ascritti a quella compagnia, una porzion de’ quali per infermità o per altro ottenuto aveva esenzione dal servizio. Ma non è improbabile che Raimondo facesse in allora una visita al suo feudo, essendoci conto andasse egli a quel tempo a Firenze, passando forse pel Frignano. E delle belle accoglienze in quella città ricevute dal suo commilitone, il principe Mattia de’ Medici, fa fede la lettera che a lui indirizzò il 12 febbraio, appena giunto in Modena. Nella quale gli dava esso notizia del disastroso suo viaggio di ritorno, essendoché la notte in che partiva da Firenze “cascò tanta la gran neve sull’Alpi, che doppo aver travagliato un pezzo per passare, et essendo dalla guida fallito il cammino, mi convenne tornar addietro a Cutigliano” . Prima d’intraprendere il detto viaggio erasi Raimondo occupato nel disporre quanto alla guerra occorreva, e nel dettare le norme colle quali regolar si dovevano le milizie de’ collegati, e più specialmente le estensi; scritture queste delle quali daremo un sunto nell’appendice, quella parte di esse intralasciando che fu introdotta più tardi da Raimondo ne’ suoi Aforismi . Singolari tra i consigli ch’ei dà è quello di ricorrere nei casi estremi all’astrologia; e l’altro per un’alleanza col turco; e il passo contro la dominazione di stranieri in Italia, da far cessare mercé una lega italica, magnanimo pensiero che non [p. 146 modifica]dubitò Raimondo di manifestare ai principi di Modena e di Toscana e al senato veneto, quantunque servitore egli della casa d’Austria strettamente congiunta ai regnanti di Spagna, che più provincie italiane dominavano. Fu questa scrittura del Montecuccoli preparata allora che, a norma de’ nuovi patti, fu forza concedere al granduca di Toscana, che dal modenese levar potesse i duemila uomini che a sussidio della lega ei vi teneva, e che altrove dovevano venire impiegati. A crescere poi di numero le truppe estensi, quelle sovratutto di cavalleria, adoperavasi al tempo stesso Raimondo. A mezzo il febbraio fece egli a tal uopo sborsare al Bolognesi le somme occorrenti ad arrolare cento uomini di cavalleria, a sessanta talleri per ciascuno; i quali, ad un luogotenente suo in Germania raccomandava fossero gente vecchia e provata nel mestiere delle armi. Ma secondo preveduto aveva il Bolognesi, neanche allora volle l’imperatore compromettersi coll’irascibile pontefice, e quelle leve non consentì. Si fermò invece un accordo con un capitano, Giovanni Zuner di Altorf, che a formare obbligavasi una compagnia di 300 svizzeri, da condurre ove il duca ordinerebbe non più tardi del 13 aprile. Si davano 1850 ducati d’argento mensilmente; più ducati 40 “per lo stato di giustizia di esso capitano”. Per gli arrolamenti e per ogni altra spesa 2600 ducati. I viveri somministrati andrebbero a conto del soldo. Un congedo in fin d’anno concederebbesi al capitano per intervenire ai parlamenti svizzeri. Nel giugno, un Nicola Van der Pellem altri 200 uomini conduceva al servigio ducale .

Col dicembre intanto spirata essendo la licenza dall’imperatore concessa a Raimondo di rimanere in Italia, aveva già ottenuto il duca gli venisse prolungata.

Il 20 gennaio commetteva Raimondo ad un Falloppio facesse uscire da Modena e avviasse al campo (forse al luogo ove alcune soldatesche erano accampate) le artiglierie, acciò più [p. 147 modifica]libere ne’ movimenti loro rimanessero le truppe. E ancora una lettera di lui ci rimane a quel tempo indirizzata al capitano di giustizia di Nonantola, rampognandolo perché contro gente al suo tribunale non sottoposta (soldati) ei procedesse. Reduce da Firenze, trovò partito il dì precedente il duca per Venezia, e colà lo raggiunse egli, seco ritornando poi in breve a Modena. Ma una trista novella non guari dopo da Vienna perveniva a Raimondo, quella cioè della mortal malattia dalla quale era gravato il conte Girolamo suo cugino; e perché del suo patrimonio aveva mostrato intenzione di lasciarlo erede, trovossi Raimondo indotto a chiedere, con lettera del 7 marzo 1643, la facoltà al duca di assentarsi, offerendosi pronto al ritorno ad ogni chiamata. Soggiungeva peraltro che se non avesse ad esser guerra in Italia, volesse concedergli di fare la campagna di Allemagna, e d’introdurre qualcuno della famiglia sua a quella scuola di guerra, com’egli esprimevasi. Rinuncierebbe frattanto ad ogni stipendio, e si sarebbe in quel tempo occupato nel cercare ufficiali per le truppe ducali. Che se guerra qui fosse, ben sapeva incombergli l’obbligo di spargere il sangue in difesa del proprio sovrano. E il duca, secondo scrisse al Bolognesi, non seppe negargli il permesso che gli chiedeva, e lo accompagnò con lettera all’imperatore, chiedente gli prorogasse ancora il tempo di poter rimanere al proprio servigio. Non giunse però Raimondo a Vienna se non dopo la morte del cugino, che non aveva poi mandato ad effetto le buone disposizioni manifestate a favore di lui; invano essendosi per mezzo del Bolognesi adoperato il marchese Francesco acciò durante la sua infermità facesse egli testamento, “perché molte volte quando s’aspetta a quest’ultimo, le mogli poi e i parenti che assistono personalmente fanno fare delle stravaganze, anche contro quello si fosse proposto prima” (Lett. del 1° feb. 1643 nell’archivio Capponi in Firenze). Scriveva allora Raimondo al duca: “Io ho trovato morto il conte Girolamo mio cugino, il quale in un testamento vecchio lasciò erede la moglie, la quale mi mostra per altro un’affezione straordinaria, e mi promette parte dell’eredità, e [p. 148 modifica]sto procurandone l’effettuazione nel miglior modo che posso”. Era la moglie di Girolamo, Barbara Concini, di famiglia oriunda senz’altro d’Italia, la quale da un precedente matrimonio con un tedesco di religione luterana aveva avuto un figlio, che vedremo più tardi aver piati con Raimondo. Quant’è alla vedova era essa insino dal precedente anno in mala condizione di salute, scrivendo il marito suo al Bolognesi essere ella “così abbattuta e debole che ogni piccolo accidente che le venga può levarla dal mondo”. Non mi è poi noto se, subito dopo la morte del marito, alcuna parte dell’eredità di Girolamo fosse da lei lasciata a Raimondo, al quale però crediamo pervenissero senza indugio le terre feudali di Sassorosso e Burgone nel Frignano, che sue erano certamente nel 1655, come da documento è provato. Facevano parte le due terre, già godute in comune da Girolamo ed Ernesto, del cospicuo feudo di Montecenere, il capoluogo del quale nella spartizione de’ beni toccò con altre terre al conte Federico, e dall’ultimo discendente di lui passò poi nel figlio del generale Raimondo. E pervenne altresì ai due fratelli cugini di Raimondo il feudo di Sassostorno, come da più documenti ne appare; ma dicemmo già essere nel 1635 passata quella terra, forse per cagion di vendita, in diretto dominio del duca di Modena, ritornando più tardi ad altro ramo de’ Montecuccoli. Al qual ramo pertenne poi sempre, sino alla generale soppressione dei feudi, facendo parte del marchesato di Montecenere toccato a quelli di loro che presero stanza in Vienna; un ramo de’ quali per altro ritornò di recente a Modena, come erede dell’ultimo discendente del ramo primogenito del marchese Francesco, più volte da noi nominato. Mentre per gli allegati motivi s’intratteneva Raimondo in Vienna, gli venne fatto, come in una lettera sua racconta il Bolognesi, d’impedire un duello al quale un conte Pequem, sergente generale di battaglia (che dicemmo stato insieme al Montecuccoli prigioniero degli svedesi), sfidato aveva il Piccolomini che di lui aveva sparlato, e ch’egli sospettava avesse contribuito a fargli perdere un reggimento che poi gli fu reso. E ancora si occupò degli affari della Mirandola; e fu per consiglio suo [p. 149 modifica]che desistette il Bolognesi dal chiedere la deposizione di quel principe. In quanto alle cose che direttamente lo riguardavano, scriveva egli al duca che il reggimento che aveva in proprio, insino allora conservatogli, gli era poi stato tolto essendoché avesse il papa minacciato di censure l’imperatore, se più oltre consentiva che contro di lui combattesse chi aveva officio militare nelle sue truppe. E qui avvertiva il Bolognesi essere ingiusta cosa, e che non aveva luogo se non in punizione di gravi mancamenti, il togliere i reggimenti ai proprietarii, che intorno ad essi molto denaro avevano a spendere: ond’è che solevano ricever compensi allorché cessavano da quell’officio. Il che però allora per Raimondo non ebbe luogo, ma forse più tardi, come avremo a congetturare. Un mezzo termine fu invece abbracciato circa la condizione militare di lui, che nessuna delle parti scontentasse; considererebbesi cioè Raimondo come non addetto all’esercito cesareo; nel quale potrebbe poi, quetate le cose in Italia, ritornare se lo chiedesse: e questa determinazione dell’imperatore fu dal Trautmannsdorf comunicata al duca di Modena. Ma prima che venisse questa vertenza definita, e lo fu solo nel giugno, richiamato Raimondo a Modena con lettera del 31 marzo, vi giungeva il 17 aprile del 1643; e forse fu allora che dal grado di generale della cavalleria estense passò a quello da lui già chiesto, di mastro di campo generale unicamente al duca sottoposto. Del qual grado lo troviamo infatti insin da quel tempo investito, benché il Muratori anche in epoca posteriore lo dica generale della cavalleria. Del nuovo incarico avuto scriveva più tardi Raimondo al Trautmannsdorf: “Verrassi a comandare trentamila uomini tra cavalli e fanti (comprese, vorrà dire, le milizie provinciali): è poi profittevole perché oltre allo stipendio annuo di duemila scudi, se n’hanno altri duemila per emolumento di ufficio”. Il Bevilacqua ridotto allora a mal termine da fieri assalti di gotta, rimaner doveva in Modena con grado equivalente a quello di ministro della guerra. Ma poiché toccammo della morte del conte Girolamo Montecuccoli, del quale alquante notizie porgemmo più addietro, [p. 150 modifica]gioverà, innanzi di procedere ad altro, tener ricordo degli ultimi fatti della onorata sua carriera. E accennerò primieramente all’acquisto ch’ei fece della signoria di Hohenegg nella bassa Austria da una contessa, del nome della quale non conosco che le iniziali C. M., al prezzo di quattromila talleri. In premio poi de’ servigi resi da Girolamo dichiarò l’imperatore quella terra “bene allodiale”, con che veniva per avventura esentata da imposizioni, privilegio valutato allora da certo legale Weinzierl 20.000 fiorini. Se non che per cotal donativo (tale il privilegio fu detto) convenne a Girolamo pagare alla camera imperiale 1000 ducati d’oro, come si ha da una lettera del Bolognesi, nella quale è quel castello erroneamente indicato col nome di Goldenek, mentre l’altro più sopra riferito gli è dato dallo stesso Girolamo, e tuttavia conserva. Tre anni rimase egli alla corte del Tirolo in Innsbruck nell’officio che dicemmo di consiglier di stato nella tutela dei figli del defunto arciduca del Tirolo, e di maggiordomo di Claudia de’ Medici loro madre, lodata allora di splendidezza, avendo anche chiamato presso di sé, come già avvertimmo, alquanti illustri italiani, tra i quali va ricordato Ferrante Montecuccoli, coppiere alla corte arciducale, che fu più tardi prevosto del duomo di Ferrara. A Girolamo diversi incarichi vennero a quel tempo così da Claudia come dall’imperatore affidati, e dal duca di Modena altresì, che di lui si valeva per pagamenti da fare in Germania, per leve di soldati e per altro. Ma finalmente sorsero gravi dissapori tra lui e l’arciduchessa Claudia, de’ quali il carteggio diplomatico del Bolognesi ci porge ragguaglio. Apparendo dal medesimo come attirato si fosse Girolamo l’avversione di Claudia perché all’ingerenza di lei nella tutela de’ figli si opponeva; inoltre per essersi mostrato avverso alla lega colla Spagna, che diceva riprovata dall’imperatore e detestata dai popoli ; e perché contrario esso ai [p. 151 modifica]gesuiti, potenti in quella corte; uno de’ quali, il padre Pagano, venne da Claudia il 5 agosto del 1639 mandato a Vienna: dove con acerbe parole dichiarò all’imperatore volere l’arciduchessa tolto dal suo servizio il conte Girolamo, tacendo le ragioni vere che a quel passo la inducevano. Né certo gli manifestò il gesuita che lo zelo di Girolamo pel servigio imperiale riesciva di soverchio incomodo all’arciduchessa, vogliosa di fare da sé nelle cose spettanti al Tirolo, laddove Girolamo doveva pur molto ingerirsene per desiderio dell’imperatore. Furono invece addotti pretesti ad onestare la risoluzione di Claudia; un dissenso, tra gli altri, manifestatosi fra il Montecuccoli e un cortigiano di lei. Dissimulava essa frattanto ciò che covava nell’animo, secondo lo stesso Girolamo diceva; avendo anzi scritto all’imperatore in lode e in favore di lui, il che non parrebbe credibile se non si supponesse aver essa voluto con questo procurargli altro officio che da lei onorevolmente lo allontanasse. Avvedutosi però Girolamo di quanto contro sé si tramava, e temendo anche, come ebbe a confessare, per la sua vita, trasse a Vienna; e colà lo trattenne l’imperatore, senza permettergli da prima di rinunziare, come voleva, il carico di maggiordomo alla corte d’Innsbruck. Se non che insistendo egli, l’imperatore con una lettera, della quale trasse copia il Gregori, che è del 31 ottobre di quell’anno 1639, esponeva a Claudia aver ceduto alle preghiere di Girolamo, esonerandolo per quanto a sé apparteneva dall’officio che esercitava, “sebbene” così proseguiva l’imperatore “non dubiti che ancora per l’avvenire avria potuto nella tutela prestare buoni e amichevoli servizi”. Le chiedeva poscia si compiacesse di concedere al Montecuccoli la licenza “da lui tanto desiderata”, e tenesse poi ricordo dei fedeli ed utili servigi che prestati aveva nella tutela. Indirizzava al tempo stesso a Girolamo un rescritto onorevolissimo, in italiano, che ci piace riportare in nota , assegnandogli una pensione annua di mille fiorini. Che nondimeno l’ingratitudine di Claudia tornasse acerbissima al conte ritrar si può da due lettere del marchese [p. 152 modifica]Francesco al Bolognesi, le quali si conservano tra i manoscritti del marchese Capponi in Firenze: e per favore di quell’illustre italiano ebbi agio di esaminarle. Dice in esse il marchese Francesco che avendo Girolamo giustificate “le proprie azioni, e venendo conosciuta la malignità e presunzione di altri non doveva pigliarsene quel travaglio che fa... e doveva con animo proprio della sua prudenza tollerare gli accidenti” (Lettere del 14 e del 24 novembre 1639). Dimorò poscia Girolamo in Vienna, e più spesso nel suo castello di Hohenegg: e in Vienna morì egli il 24 marzo dell’anno 1643. Rifacendoci ora alle cose in Italia a quel tempo accadute, diremo essersi il 26 maggio sottoscritto dal duca di Modena il terzo trattato di lega da noi più addietro ricordato. E venne allora posto a capo dell’esercito veneto il principe Luigi d’Este, zio del duca; la qual nomina se onorava la famiglia ducale, non le apportava però tutto quel giovamento che da essa si sarebbe potuto aspettare, essendoché avessero i generali dei diversi corpi veneti ad obbedire agli ordini che loro venivano dal senato, o dai provveditori speciali. Era Raimondo Montecuccoli intento allora a scrivere una memoria sul modo di congiungere alle venete le truppe estensi; ma non la riproduciamo, avendola già nel suo Mercurio inserita Vittorio Siri. Nella quale memoria egli rifiutando la congiunzione ad Ostiglia, che lascerebbe scoperto il territorio modenese; consiglia invece l’assalimento per parte della cavalleria e dei dragoni ducali di Bondeno o della Stellata, mentre in aiuto loro verrebbero dal Finale sopra barconi i veneti: impresa che riescì poi di felice esito ad altri, come siamo per dire; ma ch’egli proponeva ai colleghi di compiere il 25 di maggio. Secondo gli accordi presi vennero intanto in Modena, come commissari veneti, il cavalier Corraro, che delle loro truppe ausiliari aveva il comando in queste parti, e Bertuccio Valier; mentre a Venezia stava come commissario estense il conte Ippolito Tassoni, e in Toscana andava allora il marchese Fortunato Rangoni. Ma già cinque giorni innanzi, cioè il 21 maggio, a perturbare i disegni della lega, era di nuovo entrato sul ter[p. 153 modifica]ritorio pontificio il duca di Parma, che, secondo scriveva Raimondo, non si lasciava più trattenere né da persuasioni né da trattative. E seguitando il consiglio del suo ministro in Venezia occupò egli quelle terre del Bondeno e della Stellata ove Raimondo, come or ora dicevamo, disegnava condurre le truppe estensi. Onde caddero allora in potere del Farnese le larghe provvigioni, che, come in luogo sicuro, avevano i comandanti pontificii ragunate entro le mura di quelle terre, dove colle cose loro rifugiati si erano anche gli abitatori del paese all’intorno. Da quell’esempio incitati s’avanzarono i veneti altresì, e occuparono Figherolo, Trecenta e Lagoscuro. L’audace procedere del duca di Parma dietro gli richiamò le truppe pontificie; talché il Corraro, il quale con 3000 fanti e 300 cavalli era a guardia del Finale, non reputandosi più sicuro colà, faceva vivissime istanze al duca Francesco acciò colle genti sue venisse senza indugio a rafforzarlo. E il duca, al quale stava a cuore di trattenere almeno per qualche tempo ancora i toscani nel suo dominio (ma non gli venne fatto) fece apparire anche maggiore di quel che era il bisogno di loro presenza nel ducato quando egli si fosse allontanato da Modena: quindi deliberò di accettare l’invito del Corraro, per poscia entrare insieme con lui nel territorio nemico. E confidava che per tal modo gli verrebbe fatto d’indurre il provveditor Pesaro a passare dal Polesine nel ferrarese, la qual cosa, per la mala intelligenza ch’era tra questo e il Corraro,, non gli era insino allora riuscito di conseguire. Lasciate pertanto le milizie paesane e alquanti soldati a guardia di Modena e de’ luoghi di maggiore importanza, s’avviò il 7 giugno col Montecuccoli verso il Po, seguitato da 3500 fanti, 1000 cavalli, 300 dragoni, con sei pezzi di artiglieria grossa e altrettanti di minor calibro . [p. 154 modifica]

Congiuntosi poi al finale co’ veneti, pose i quartieri a Chiesa rossa, tra Finale e Bondeno (altri disse a Scortichino, che è pure fra quelle due terre, la prima delle quali è ora città) ivi aspettando il Pesaro, che poi non venne, e mandò invece il francese Lavalette con alquanti soldati. I pontificii allora si raccolsero in Cento, che il duca propose di assalire; ma non avendo i veneti pronti i viveri e le munizioni, convenne astenersene. Né guari andò che al duca medesimo fu mestieri prendere altri partiti, allora cioè che gli pervennero gravi notizie dalle colline modenesi. Ritiratisi infatti di là i toscani, il Mattei, con 300 fanti e 1500 cavalli, era improvvisamente piombato su quelle terre, avendo già occupato anche San Cesario, che i nostri neppure in seguito poterono ricuperare. Non potuto aver Savignano , luogo forte e ben difeso, passò su quel di Spilamberto, di Vignola e di Guiglia, male comportandosi le milizie di quei luoghi, occupate più che d’altro nel raccogliere e nel mettere in salvo le messi; ond’è che sovrastava pericolo anche a Sassuolo ed a Modena altresì. Da Guiglia scriveva il marchese Francesco Montecuccoli il 13 giugno, che un capobanda, di nome Barbazza aveva messo in ordine 3000 uomini per assalire il castello di Montetortore, già dal 1635 infeudato ad esso marchese, e per quella parte infestava la montagna; e finalmente che altre genti miravano a Montese, forte rocca del conte Massimiliano figlio di Luigi Montecuccoli . Quantunque poi, secondo ei diceva, si fosse allora il nemico ritirato da Vignola, gravi tuttavia erano i pericoli che minacciavano quel territorio; ond’è che egli chiedeva poter rimanere qualche giorno ancora a Guiglia per provvedere alle difese. E da Sestola mandava notizia il commissario del Frignano avere colà [p. 155 modifica]radunato gente ad impedire quanto tentar volessero i pontificii ingrossatisi a Rocca Corneta, e tenere in ordine cento uomini da spedire ove il bisogno lo richiedesse: stavano poi sull’avviso i varii capitani di milizie, e per mezzo di spie si cercavano novelle da Porretta. Il commissario aggiungeva essere urgente gli si mandasse un sussidio di milizie feudali (lettera del 9 giugno). Nulla tuttavia accadde pel momento in quelle parti, come da successive lettere s’apprende, forse perché le milizie de’ Montecuccoli e di altri feudatarii formarono colà un grosso di gente bastevole alle difese, quantunque se ne fossero disposte anche al piano, e dovesse ciascun feudatario pensare a difendere il proprio castello.

L’invasione del Mattei indusse il duca di Modena a fare formale proposta ai comandanti veneti di accorrere con lui a difesa de’ popoli suoi; poiché il duca di Parma, che non s’affidava a rimaner solo da quelle parti, tenne saldo contro questo partito, il duca di Modena dovette rimanere colà, inviando al soccorso de’ suoi solamente cinquecento fanti, cento dragoni e duecento corazze. Intanto in un congresso tenuto al Bondeno si stabiliva che si farebbe l’impresa di Cento, dal duca di Parma ritenuta di esito sicuro, nonostante la contraria e più ragionevole sentenza, espressa dal Lavalette. E in effetto, mandato quest’ultimo a riconoscere la città, se da prima poté cacciar dinanzi a sé un piccolo corpo di pontificii, ed anche come narra il Brusoni, battere alcune compagnie di cavalli coll’opera della cavalleria estense comandata dal Sittoni; fu poi esso Lavalette, dall’esercito pontificio sconfitto: colpa, forse, del Farnese, che se non avesse negato al Montecuccoli quel richiesto sussidio di 500 uomini, avrebbe potuto per avventura mutare in meglio le sorti di quella giornata. Singolar uomo quel principe, più funesto talora a chi in pro di lui combatteva, che non agli stessi nemici che gli avevano tolto il dominio di Castro. Non dissimile da questa ora detta fu la ripulsa che da lui ebbe in altra circostanza il Montecuccoli ito al Finale per concertare con lui altre mosse di truppe. Questo fallito assalto di Cento fu rappresen[p. 156 modifica]tato in una stampa, che è nell’archivio estense, da un Bartolommeo Luccarelli che dedicolla al cardinal Dondi. Nella spiegazione della medesima si legge, come 4 compagnie di corazze della lega fossero venute per assalire i quartieri dei pontificii, mentre al ponte dell’Aquilone altrettante compagnie di moschettieri trovavansi imboscate, contro le quali irrompendo i capitani Bedetti, Fodrone e Ferretti, le fugarono uccidendone molti, ed altri facendone prigionieri. Il Priorato afferma che questi ultimi furono dugento, e tra gli uccisi nota anche un colonnello chiamato Vimes. Di un’altra fazione, riuscita pur essa in danno degli estensi, fa parimente parola l’autor medesimo, e la dice avvenuta in un luogo che egli chiama la Cava; ma di ciò non trovo notizie altrove. Un altro congresso si tenne allora a Bomporto; al quale, secondo narra il Brusoni, intervenne il duca Francesco e con lui Camillo Gonzaga generale delle artiglierie venete, il Lavalette, il principe Luigi d’Este ed altri capitani; e fu convenuto si assalirebbe Crevalcore, come in effetto si fece. Ma perché a cotale impresa si posero i collegati, senza quelle previe esplorazioni tanto ne’ suoi Aforismi dal Montecuccoli raccomandate; e perché i veneti che ne avevano la direzione, non la usarono a dovere, venne questa, come il Siri afferma, apertamente dal duca Francesco biasimata. Diremo dunque, seguitando lo storico ora citato, che avendo i pontificii, condotti dal cardinale Antonio Barberini e dal Valencé sorprese le corazze venete, queste non tennero il fermo, ma, fuggendo, lasciarono scoperte le fanterie estensi ch’erano schierate in battaglia, e che in quell’impreveduto accidente il meglio che poterono si comportarono . Mentre poi il Montecuccoli e il Gonzaga dispo[p. 157 modifica]nevansi ad andare a riconoscere la terra, per vedere se modo vi fosse di penetrare in essa per altra parte, il segnale della ritirata dato dai veneti venne a por fine al combattimento. E qui narra il Vedriani di un cannone degli estensi che i soldati, non avendo modo di trarre con loro, seppellirono sotto terra, e dai pontificii che lo scoprirono, venne in trionfo portato a Bologna. Ebbe il Lavalette uno de’ suoi capitani e 200 soldati uccisi. Una stampa che è nell’archivio estense, lavoro di Floriano del Bono, la quale da G. B. Fontanelli venne dedicata al senatore Nicolò Tanari, raffigura la fuga della cavalleria veneta, mentre si vede giungere quella del papa. Gli estensi da una colombaia e con un loro cannone collocato dietro a barili fanno fuoco contro Crevalcore; un manipolo di fanti riparati da fascine, e un altro dentro un macero da canapa sparano pur essi gli archibugi contro la gente del papa. Spesseggiavano in questo mentre le tristi novelle dai paesi che dicemmo invasi dai pontificii; ond’è che finalmente gli alleati consentirono al duca che le forze comuni a quelle parti si volgessero: e si posero il 20 di giugno parte al Finale e parte a Bomporto; nel qual ultimo paese trovandosi il Montecuccoli, vi ricevé dal principe primogenito del duca una lettera che si conserva tra le carte dell’archivio, chiedente gli mandasse alquanti ufficiali che gli occorrevano. Badavano intanto le genti pontificie a devastare le terre occupate “stimando il papa, come scrive lo storico Brusoni, la ruina di quello stato (l’estense) la stabilità della propria fortuna”; e dalla Porretta e da Rocca Corneta designavano invadere il Frignano per interporsi tra Modena e la Toscana, meditando anzi il belligero pontefice di assalire entrambi quegli stati ad un tempo medesimo, e il veneto altresì. Trovavasi egli a tal uopo ben fornito di milizie: la sola Marca, la quale numerava allora, secondo dice il Siri, 353.000 abitanti, non computando i 50.000 cittadini di Ancona, gli aveva fornito 19.000 fanti condotti da 75 capitani, e 1900 cavalli. Erano spartite le truppe ecclesiastiche in tre campi, il maggiore dei quali stanziava a Castelfranco che minacciava ad un tempo Modena [p. 158 modifica]e il Finale, contro cui potevasi ancora rivolgere l’assalto delle truppe che combattevano nel Polesine. Intanto il Barbazza da noi più sopra nominato, il quale dalla Porretta con tremila uomini minacciava la montagna modenese, dopo battute il 22 giugno alcune milizie de’ Montecuccoli e di altri feudatarii, era riescito di penetrare in Festà, forzando con mille cavalli, secondo è detto in una relazione del podestà di Montefiorino, le difese di quella terra. Saccheggiò poi egli il territorio di Guiglia, non però il castello che validamente venne difeso dal marchese Francesco Montecuccoli; senonché avendo egli dovuto allontanarsi, poterono per breve tempo, ma senza recar danni, impadronirsene i nemici. Il Mattei, che a stornare le forze de’ collegati dallo stato pontificio era pur esso entrato nel modenese, occupò a quel tempo con altri tremila uomini Montetortore, minacciando la podesteria di Montefiorino, così sprovvista di difensori, come il suo podestà scriveva, che quindici uomini sarebbero bastati a conquistarla. Erano state le milizie sue improvvidamente chiamate a Modena e a Sassuolo, e parte di esse anche a Pievepelago agli ordini del conte Giulio Montecuccoli. La poca gente rimasta fuggiva ne’ boschi o nel lucchese. Delle rovine cagionate poi ad altre terre dell’alta collina modenese dai pontificii fece ricordo don Giuseppe Giusti nella sua descrizione del comune di Trebbio ov’era parroco. Io ne posseggo copia: e vi si legge, che in quella sua chiesa e in quelle di Roccamalatina e di altre terre rubarono que’ soldati tutti gli argenti, le reliquie e quant’altro capitò loro davanti, persino le campane. Tra le case arse allora, contò anche la sua lo scrittore di quelle memorie. Ma que’ predoni, che avevano a capo un marchese Marsigli di Bologna, assaliti e rotti dagli estensi, lasciarono sul campo molti de’ loro, e una gran parte del fatto bottino.

Ruppe allora il duca gl’indugi; e quantunque non altro ottener potesse dai veneti se non 1500 moschettieri comandati dal Gonzaga, e la promessa che verrebbero occupati da loro i luoghi che da lui venissero abbandonati, andò a porsi colle [p. 159 modifica]truppe a San Lazzaro presso Modena; donde, saputo il sacco dato al territorio di Guiglia, procedeva a Castelnovo-Rangone. Da quella terra spedì egli a riconoscere il nemico il commissario della sua cavalleria ch’era, come dicemmo, il colonnello Matteo Sittoni; il quale, ritornato a Castelnovo con 100 soldati fatti prigionieri1, riferì essersi il Barbazza ritirato di là dal Panaro. E fu a quel tempo per avventura che venne presa una terra nominata Colloda, ove molti pontificii rimasero prigionieri (i cento forse ora ricordati), come trovo indicato in una relazione letta nel senato veneto dal Bonvicini segretario del duca Francesco e suo residente a Venezia, nella quale è detto altresì di prede fatte sul nemico dal presidio di Savignano.

Voleva il duca tener dietro sul bolognese ai pontificii che si ritiravano; ma a questo non solamente il Corraro si oppose, ma ancora richiamò que’ moschettieri da noi più sopra nominati. Pertanto l’Estense, che scarso di forze correa pericolo di vedersi da un ritorno offensivo de’ pontificii impedita la via per Modena, fu costretto, con che livore per la speranza fallitagli è agevole l’immaginare, di far ritorno a San Lazzaro, ove giunse il dì 27 di giugno, e d’onde continuò egli a vegliare alla difesa del territorio liberato. Appena giunto Raimondo a San Lazzaro, diè conto al principe Mattia de’ Medici di quanto era avvenuto nella passata spedizione, colla lettera della quale torna bene riportare il seguente brano: «Come entrassimo nel paese, l’anima de’ nemici fu talmente invasa dall’oppinione delle nostre forze, che lasciarono tutti que’ posti delle montagne e que’ castelli che teneano occupati su questo Stato; e se marciando a mezza notte come havevamo disegnato, havessimo attaccato il nemico alla punta del giorno, sicuramente havressimo disfatti que’ 4m huomini ch’erano avanzati su lo Stato, e che sarebbono stati giustamente colti nella ritirata. Ma li signori veneziani fecero difficultà d’avanzarsi senza un ordine del signor Cornaro, che per esso havria forse mandato a Venezia. Così perdonsi le congiunture, che come V. A. sa, non [p. 160 modifica]sono che punti et ore. Felice l’A. V. che può operare da per sé, e le cui risolutioni non pendono che da loro, e non sono suggette alle dilazioni”. Diceva poscia trovarsi allora le truppe estensi accampate davanti a Modena insieme con 2000 veneti comandati da don Camillo Gonzaga. Sino dal 24 di giugno aveva il Montecuccoli ordinato al Colombi, colonnello di milizie , il quale era allora a Castelnovo-Rangone, di mettere presidio a Guiglia, e d’impedire, mercé ancora qualche opera di fortificazione, vi ritornassero i pontificii; e inviavagli munizioni all’uopo. Gli commise poco di poi, cioè il 27 e il 30 di giugno, di porre soldati a Vignola e a Montetortore, confidando, secondo scrivevagli, che se a quelle parti si presentasse il nemico, l’avrebbero quegli uomini “da soldati onorati combattuto”. E qui è da dire che Vignola, per essere feudo del bolognese Buoncompagni, dai pontificii, che vi avevano dentro segreti fautori, era già stata una volta occupata, ponendo il territorio suo a ferro e a fuoco; dal che si desistette poi per comando del cardinal Barberini, per riverenza specialmente, secondo diceva, delle cose sacre e divine, e allegando essere “le armi ecclesiastiche temprate al fuoco della pietà”; asserzione codesta dai fatti che allora accadevano, smentita. E perché male que’ popoli si acconciavano al nuovo governo, si vide astretto il cardinale a promettere esenzione da imposte a chi si sottomettesse. Ma breve durata ebbe quell’invasione, e ancora ci rimangono gli ordini emanati da Raimondo per l’arresto del podestà di Vignola e di quello di Spilamberto, che era un capitano Giulio Tedeschi di quella terra, vecchio di 75 anni; il quale, processato poscia in Modena, a sua difesa allegò, avere dai pontificii accettato quell’officio per timore, e per evitare nuove rovine alle sue sostanze, già danneggiate per opera di soldati estensi e pontificii di oltre 300 ducati. Quant’è poi al podestà di Vignola, un cavaliere Stradella, o piacentino come alcuni lo dissero, o suddito, secondo altri, del papa, dovevasi ritenere ancor più colpevole dell’altro, perché [p. 161 modifica]a lui che aveva sufficiente numero di soldati, sarebbe spettato di respinger il nemico, tanto più che munita di nuove fortificazioni trovavasi la terra, e aveva in quella vece continuato sotto i nuovi venuti il precedente suo officio. Ma di lui non si poté trarre vendetta, fuggito essendo col Mattei, il quale seco condusse tre ostaggi per assicurarsi da quel paese il pagamento di un balzello che gli era mancato il tempo di raccogliere intero. Nessuno però si dié pensiero di portare a quei capitani fuggitivi quanto ei chiedevano, e ciò aveva anche espressamente vietato Raimondo, avvertendo i nemici che degli ostaggi gli stavano garanti i prigionieri loro; onde fu forza a que’ mal capitati, tra i quali era un ebreo, se racquistar vollero la libertà, di riscattarsi a danaro vendendo le sostanze loro. Impose Raimondo che altresì venissero carcerati tutti quelli che avevano dal nemico accettato altri uffizii, e specialmente patenti di comandi militari; e più innanzi procedendo ordinava s’avessero “a sequestrare e imprigionare le persone sospette, e devote probabilmente al partito contrario”. La qual sentenza è veramente eccessiva, perché sarebbe bastato allontanare di là i sospetti d’intelligenza col nemico, come prescrisse poi egli stesso negli Aforismi, ove dice delle difese. Vero è però che crudeli necessità porta seco la guerra, e che una precauzione che si trascuri, conduce talvolta a ruina gli stati, mutandosi il danno di pochi in quello di tutti. D’egual maniera si procedé a Spilamberto, dove con settanta moschettieri e alquanta cavalleria andò il capitano Pincetti; il quale aveva eziandio l’incarico di far rimettere in corso le acque sviate dal nemico, e di difendere i lavoratori delle terre e quelli che attendevano alle opere di fortificazione, e all’atterramento di molti edificii per cotal cagione allora ordinato presso Vignola, ove andava con cinquanta corazze un capitano Spirito. La famiglia Montecuccoli, che cento uomini aveva già somministrato per la difesa delle alpi, altri cento cinquanta ne mandava allora alla guardia di Modena; e tra questi erano ventisette sudditi di Raimondo, non altri trovandosene allora disponibili. Ed oltre agli uomini si ricercavano cavalli dai feuda[p. 162 modifica]tarii, e tre somministrar ne dovette Montecuccolo; ma a questo tributo si rifiutarono le terre della montagna non infeudate, “perché, come scriveva il commissario del Frignano, qui nessuno obbedisce, e mancano birri a costringerli”. Si ebbero più tardi ventisei cavalli, ma da altri feudi de’ Montecuccoli. E furono codeste gravezze onerose e pericolose per le genti di que’ luoghi che non avrebbero potuto, sguerniti com’erano di difensori, reggere ai subiti assalti ed alle invasioni. Sestola nondimeno, come fortezza e sede del governo del Frignano, ebbe presidio allora di soldati venuti da Modena, che avevano il soldo dalla provincia, quantunque pagasse questa ben 1000 lire annue per andar esente da presidio militare: ma non poteva cotal privilegio trovar luogo in tempo di guerra.

Ritornando ora sui provvedimenti che andava prendendo il generale Raimondo circa Vignola, ove alcuni rimestatori bolognesi (e il clero forse) sobbillavano la gente, prescriveva egli che un duecento uomini delle milizie locali, quantunque sprovveduti di armi, di là si mandassero a Modena, “non volendo lasciar paesani a guardare i proprii luoghi”. Opera di costoro innanzi che partissero, io vado pensando che fosse un mal tiro fatto allora a certi soldati di un capitano Perego; de’ quali trovo notato in altra lettera, che essendo a foraggiare per quelle campagne, vennero assaliti dai villici che loro tolsero i cavalli. A guardia di Vignola condusse allora il colonnello Colombi milizie de’ Montecuccoli. Cercavansi a quel tempo per ogni dove soldati affinché tenessero lontane novelle invasioni, e prendessero ne’ colli il luogo delle corazze del capitano Spirito e della compagnia del conte Alfonso Montecuccoli che volevansi a Modena; ove furono chiamate infatti il 26 di luglio . Si fece allora il duca a chieder denaro ai veneti per far leve in Francia, essendo stato così al Borri che ne chiedeva per Toscana, come al Montecuccoli, vie[p. 163 modifica]tato di farne in Allemagna. E diceva il duca che mercé il denaro veneto avrebbe egli potuto ritrar soldati dallo stesso campo pontificio, d’onde frequentissime erano le diserzioni. Proponeva d’altra parte di fare scendere dalla Garfagnana quattro mila uomini (forse in gran parte di milizie, e forse non tanti) de’ quali non era più mestieri in quella provincia, perocché i pontificii s’erano rivolti in altra parte, nel perugino cioè, ove erano entrati il principe Mattia de’ Medici e il Borri, e già vi avevano occupato alcune terre. Ottenne allora il duca, mercé il principe Luigi d’Este, che gli pagherebbero i veneti il soldo di duemila uomini.

Nel mentre che codesti progetti si stavano meditando, pensavano i pontificii ad un colpo di mano sopra Modena, e se ne parlava senza mistero dagli ufficiali a Bologna e a Castelfranco, secondo che scriveva un Torricelli, capitano di ragione a Nonantola; ma volevasi per avventura, mercé un finto assalto, impedire che dalla città partissero soldati in soccorso delle altre terre. Abbiamo adunque da una relazione, che è nell’archivio di stato, come nel luglio (circa il 16) alquante compagnie loro di cavalli fossero venute alla Fossalta, tre chilometri e mezzo da Modena, con animo di trarre in un’imboscata i nostri che erano, come dicemmo, a San Lazzaro. Se non che n’ebbe spia il Montecuccoli mastro di campo del duca , e con cinque compagnie tra corazze e dragoni accorse colà; e dopo una gagliarda scaramuccia durata insino a mezzo giorno, mercé l’opera ancora di due piccoli cannoni riescì a porre in fuga i nemici. Un capitano di corazze lasciarono essi sul campo, un alfiere, due sergenti e molti soldati tra morti e feriti, secondo al senato veneto riferì il Buonvicini già nominato. Non si poté tuttavia liberare San Cesario come il duca bramava, perché difeso da un grosso drappello di soldati del campo di Forturbano e perché essendo il terreno tutto all’intorno ingombro di molti alberi atterrati per rendere malagevoli gli assalti, non era dato senza troppa perdita di uomini accostarsi alle sue mura. Anche [p. 164 modifica]l’imperversare delle pioggie, se crediamo al Vedriani, s’aggiunse allora ad impedire agli estensi l’acquisto di San Cesario. Correva poi voce che il conte Luigi Boschetti, feudatario di quella terra, operasse d’intelligenza col comandante di Forturbano; e forse la colpa di lui fu poscia provata, imperocché al termine della guerra il duca lo fece porre in carcere, d’onde non uscì più vivo, secondo che il Lazzarelli narra nelle sue “Informazioni sul monastero di San Pietro” (ms. nella biblioteca estense). Come è da credere, il mal riescito tentativo dei pontificii era collegato col progetto del general Mattei, che consisteva nell’interporsi fra le truppe che erano nel modenese, e i veneti, occupando Nonantola e poscia Modena; nel quale intendimento si rimase anche dopo il fatto della Fossalta. In effetto il Mattei non guari dopo commise al Valencé di andare con buon nerbo di truppe sotto Nonantola ad intimarle la resa, mentre che egli, ad impedir la venuta di soccorsi da Modena, incaricava il commissario della sua cavalleria, Cesare Degli Oddi, di occupare il ponte di Navicello. Se non che costui, appena giunto, fu assalito e sbaragliato dal commendator Panzetti, colonnello dei dragoni, e già distintosi nelle guerra in Garfagnana; il quale, come dice una relazione manoscritta, de’ fatti d’arme di Nonantola che è nell’archivio di stato, piombò a testa bassa sui pontificii, tre volte urtando coll’unica sua le quattro compagnie de’ loro cavalli . Giunse poscia il Montecuccoli mandato dal duca con altri cavalli, con dragoni e con piccoli pezzi d’artiglieria, e compié la vittoria. Toccò l’Oddi in quel fatto una grave ferita della quale morì; e i soldati di lui, ponendosi in salvo colla fuga, lasciarono libero il passo al duca di Mo[p. 165 modifica]dena che coll’artiglierie gravi e colle fanterie si avanzava sulla via di Nonantola. Colà il dì precedente il Valencé, come gli era stato commesso dal Mattei, aveva intimato la resa al cavalier Fontana che vi comandava i soldati estensi, e al signore di Saint Martin, un altro avventuriere francese che era a capo di seicento soldati veneti. Da entrambi ebbe rifiuto; e aveva incominciato a colpir la terra colle artiglierie , quando gli fu sopra improvviso il generale Montecuccoli colle sue genti, alle quali s’erano uniti trecento uomini di quelli del duca. E fu strana sorpresa pel Valencé che non aveva reputato possibile né che quegli potesse forzar il passo di Navicello che credeva dal Mattei assicurato con numerose truppe, né che sarebbero gli estensi venuti in luogo ove da due eserciti potevano esser accerchiati senza che fosse loro lasciato alcun adito per la ritirata. Audace era infatti l’impresa che per salvare Nonantola si erano assunta il duca e Montecuccoli, e tale da riescire soltanto mercé la sollecitudine nelle marcie e la ferma volontà di non ceder terreno al nemico che aveva forze molto maggiori e su quel medesimo luogo e a Forturbano. Diremo intanto che acremente fu nel campo pontificio biasimato il Mattei per non essere andato di persona e con più gente che non vi mandò, al ponte di Navicello. Né gli si sarà menata buona la scusa da lui addotta, di aver reputato troppo lieve cosa il prendere un ponte alla guardia del quale non erano più che cinquanta uomini; con che mostrava egli di non aver tenuto conto dei soccorsi che questi ricever potevano. L’arrivo di Raimondo sotto Nonantola, come ingenerò sbigottimento ne’ soldati del papa, così crebbe ardire agli assediati; i quali si tennero sicuri, quando lo videro dar opera sollecita alla liberazion loro colla buona disposizione ch’egli dava [p. 166 modifica]alle truppe che man mano giungevano sul luogo. Né tardò poi a provocare gli assedianti alla pugna, contro di loro mandando per iniziarla il Sittoni a capo della cavalleria; con che distraendo le forze avversarie, porse agio al duca d’introdur fresche truppe in Nonantola, alle quali altre ne aggiunse l’Altemburg generale dei veneti. Giungeva tutto trafelato alla riscossa il porporato nipote del papa, ma per cader tosto in un’imboscata, per la quale ai dragoni estensi rimasero bersaglio le sue cinque compagnie di cavalli. Anche la fanteria, che lo stesso Mattei conduceva, e che fu in parte da lui allogata nelle case circostanti dalle quali faceva fuoco sugli estensi, non poté far lunga resistenza, fulminata com’era da due pezzi d’artiglieria. Il cardinale, che con altri pochi era rimasto insino allora sul campo, poiché gli fu ucciso sotto il cavallo, quanto più velocemente poté, fuggissene a piedi . Spettacolo invero più doloroso che ridevole, vedere un uomo in cotale arnese ecclesiastico, confuso tra gente di non altro curante che di mettersi in salvo. E più grave facevasi lo scandalo per questo, che i nonantolani, contro i quali con tanto strepito egli era proceduto, erano a lui spiritualmente soggetti, essendo egli stato creato sino dal 1632 abate commendatario di Nonantola; e non certo per fare strazio de’ corpi, ma pel buon governo delle anime. Il mal talento di lui verso quel suo gregge era già stato precedentemente da esso medesimo espresso con queste parole che furono riferite dal Torricelli, capitano di ragione in Nonantola, il quale, valendosi di spie, poteva allora somministrare al duca molte e sicure notizie; egli dunque aveva detto: “Io non voleva molestar Nonantola per esser cosa mia, ma sono necessitato mandarla a saccheggiare affatto, e voglio farlo quanto prima”. Ma non essendogli ciò riescito, venne allora il suo vicario espulso non solo da Nonantola, ma dallo stato estense. La civiltà, via via progredendo, levò già di mano (salvo che in Ispagna) al clero le armi che brandiva in battaglia, e gli tolse podestà civile: [p. 167 modifica]essa lo toglierà ancora alle lotte dei partiti, e lo restituirà purificato agli altari. Ecco ora la relazione che di questi fatti d’arme mandò il Montecuccoli al principe Mattia de’ Medici:

Ser.mo Principe, mio Sig.re Padron Col.mo
Rendo infinite humilissime grazie alla benignità di V. A. Ser.ma, che s’è degnata honorarmi degli avvisi di cotesti successi, e mi rallegro di cuore delle prosperità delle sue armi. Iddio Signore ha parimente favorito quelle del Duca mio Signore, quando avanti hieri il nemico attaccò Nonantola; e battendola dalla punta del giorno con due grossi pezzi di cannone, teneva per fermo di espugnarla senza difficultà, poiché l’armata Veneta era divisa da noi, né havevamo qui se non mille fanti della Repubblica; e quando fussimo andati al soccorso, l’armata di Castelfranco ci poteva attaccare in coda. In ogni modo il Signor Duca risolse di soccorrere la piazza per le grandi conseguenze che ne venivano, e per riparare a tutti gl’inconvenienti giudicò unico rimedio la celerità con la quale ci portassimo a batter Valencé che con quattro mila huomini havea attaccato Nonantola; dentro il qual luogo introducessimo il soccorso, poi ci rivoltassimo sopra l’armata di Mattei di sette mila huomini, che ci havea attaccati in coda, e rompendo anche quella cavalleria, ci ritirassimo al nostro Campo. Assicuro V. A. che questa fu una delle belle e bizzarre occasioni ch’io abbia visto di lungo tempo, perché combattessimo da 8 ore continue uno contro a cinque, havendo sempre il nimico in testa, in coda e ne’ fianchi. E per la grazia di Dio noi non abbiamo perduto più di 20 o 25 huomini, dove al nimico è rimasta disfatta buona parte e la migliore della sua cavalleria, lasciando su ‘l campo più di 800 morti e da 200 prigioni, e perdendo fra le persone Generali, Gonzaga, Oddi, Fanfanelli e molti altri uffiziali. Non mando all’A. V. la distinta relazione di questo successo, perché non ho il tempo di scriverla e la manderò un’altra volta; ma le giuro che si è combattuto da Paladini di Francia, ciascheduno de’ quali n’accettava sei e sette [p. 168 modifica]alla zuffa. Gli effetti di questa rotta data al nimico si vedranno presto, perché ad ognuno de’ nostri è cresciuto l’animo et è scemato talmente ne’ nimici che si è risoluto hoggi d’operare unitamente e senza perdere minuto di tempo, d’andare ad accamparsi rimpetto al nemico per stringerlo a battaglia, o togliendoli i viveri dalla parte di Bologna, forzarlo a levare il campo et aprirci qualche buona congiuntura di batterlo. Domani a sera sarà qui giunta a noi l’armata Veneta e postdimani, piacendo a Dio, marcieremo tutti unitamente verso Piumazzo per angustiare il campo di Castelfranco. Con queste vive operazioni spero che l’A. V. avrà anch’ella campo costà di seguitare nelle sue gloriose imprese, e di far vedere a’ Preti che non si conviene loro il far guerra. Et a V. A. humilmente m’inchino.
Dal Campo a Modona, li 22 luglio 1643.
Di V. A. Ser.ma Humilis.mo divotis.mo Servit.re
Raimondo Montecuccoli

Gualdo Priorato, il Vedriani, Vittorio Siri, il Brusoni, storici contemporanei, concordano nel celebrare quella vittoria che le truppe estensi da soli mille veneti coadiuvate riportarono; vittoria con più o meno parole ricordata dagli storici successivi, e della quale, come rilevasi dalla lettera che riferimmo, sembra che assai si compiacesse Raimondo. E invero prese egli molto a cuore questa guerra, e ne fan prova anche le lettere che a quel tempo scriveva, e nelle quali si allontanò da quella concisione che in tutte le altre sue si ritrova. Meritarono encomio i vincitori per la celerità delle mosse, per l’inferiorità delle forze, colla felice disposizion loro dissimulata al nemico, come notò il Brusoni, per l’uso efficace delle artiglierie, e pel vantaggio che colla preservazione di quella terra apportarono allo stato estense. Con queste enfatiche parole è poi la fazione nonantolana celebrata in una “Relazione dei fatti d’armi successi ne’ confini del bolognese” che manoscritta, con altre consimili, si conserva nell’archivio di stato in Modena. “... Con [p. 169 modifica]incredibil ferocia di spirito dal S.r Duca di Modena, e con celerità cesariana eseguita, un piccolo esercito colto in mezzo da due truppe maggiori poté forzare l’opposizione dell’uno, scioglier l’assedio dell’altro, soccorrer il primo e lasciare in tutti i luoghi di que’ combattimenti ingombrata la campagna di cadaveri nemici, con tanta gloria di chi operò le prefate cose, che la fama ne sarà memorabile a tutti i secoli avvenire”. E segue poi dicendo, come da Nonantola partisse, a dir così, una scintilla ad infiammare i deboli spiriti della lega, che infatti si fece più salda e più concorde ad osare maggiori imprese, per quanto lo potesse la proverbiale prudenza de’ veneti consentire. In altra relazione leggesi, come il duca Francesco ringraziasse gli ufficiali e i soldati suoi che con tanto valore avevano combattuto per otto ore continue uno contro cinque, com’è detto anche nella lettera di Raimondo; ed assaliti da varie parti, non mai perdersi d’animo, né confonder gli ordini, né abbandonare i posti: che sono quasi le testuali parole di quella relazione, la quale si direbbe scritta dal Montecuccoli stesso. E vi troviamo ancora le lodi del duca Francesco I che, quantunque convalescente di patita infermità, valorosamente si diportò. Maggiore sarebbe stata la rovina dei nemici se avessero potuto nella disordinata lor fuga inseguirli gli estensi, e toglier loro anche le artiglierie che avevano lasciate pei campi, od almeno impedire ad essi di tornare a riprenderle; ma agli estensi era necessità l’assicurarsi che dalle truppe stanziate a Forturbano non fosse loro preclusa la via pel ritorno a Modena. Che molti fossero i pontificii rimasti o morti, o feriti, o prigionieri, concordemente lo asseriscono gli scrittori contemporanei. Vedemmo nella lettera del Montecuccoli indicati ottocento morti e duecento prigionieri; a lui s’accosta il Galluzzi, storico del granducato, che disse settecento i primi, trecento i secondi. Altri a minor numero determinò i morti, come il Priorato, che di questo fatto d’arme scriveva non esser mancato “se non un maggior teatro per farlo risapere alla pubblica fama come una delle maggiori prodezze di fortuna e di valor militare”. Si accordano poi col Montecuccoli tutti gli [p. 170 modifica]storici nell’annoverare tra i morti in battaglia don Francesco Gonzaga, soldato, come disse Vittorio Siri, di egregio e sperimentato valore, l’Oddi e il sergente maggiore di battaglia Fanfanelli, che aveva acquistato nome di prode militando in Fiandra sotto il principe Tomaso di Savoia , e che venne ucciso, come si ha da una carta archiviale, dal nonantolano Giovanni Saltini. Quanto al primo di essi, che era mastro di campo generale de’ pontificii, un altro documento dell’archivio estense racconta, che mentre sul campo di battaglia un cappellano attendeva ad acconciarlo dell’anima, colpito, da una palla di cannone, giacque ucciso presso il morente: onorevol morte codesta di un prete, del quale persino il nome ci è ignoto, e che fa nobil contrasto colla mala condotta alla quale accennammo, del cardinal Barberini. Leggiamo ancora nel documento medesimo, essere stati alla gente del papa di molto nocumento i Mansfeldi, soldati tedeschi, i quali, forse, dallo avere militato nel paese loro sotto gli ordini dell’avventuriere Mannsfeld, ebbero mantenuto quel nome.

Tra coloro che in que’ fatti d’arme, come in altri di quell’epoca, ebbero a distinguersi, nominerò, oltre il Panzetti, un Ippolito Pegolotti, del quale in un attestato rilasciatogli dal Montecuccoli nel 1666 è detto che bene in quella guerra si diportasse, essendo capitano di corazze nell’esercito da esso Raimondo comandato come Mastro di campo del duca di Modena. Allorché questo attestato fu scritto, era il Pegolotti colonnello nelle truppe ducali, diverso perciò dall’altro Pegolotti che il Vedriani dice morto nel 1647 con grado di sergente generale di battaglia.

Una memoria nell’archivio estense ricorda una stampa incisa in rame in foglio grande traversale, raffigurante la battaglia di Nonantola, opera di un Mario Federici Cimador da Carpi, come egli si sottoscrive . [p. 171 modifica]

Né nell’archivio di Stato né altrove, ch’io mi sappia, si trova codesta stampa; sono invece nell’archivio alcuni rozzi sgorbi a penna, ne’ quali forse s’intese rappresentare la battaglia di Nonantola, e copiare alla meglio quell’incisione. “In essa si vedevano” dice il documento che seguitiamo, “le truppe ecclesiastiche in rotta perseguitate dalle Modenesi; al centro delle quali era il Duca, alla destra il conte Raimondo che con tanto valore costrinse l’inimico così numeroso a fuggire alla volta di Castelfranco: alla sinistra poi il generale di cavalleria Modenese Sittoni che inseguiva l’altra partita di nemici che ritiravasi verso San Giovanni”. Era la stampa preceduta da una dedica nell’ampolloso stile della letteratura di quel tempo, che, per la sua singolarità, amiamo riprodurre in nota . La data apposta a quella dedica, posteriore di sei giorni soltanto alla battaglia di Nonantola, e il luogo stesso ove fu scritta, ci fanno scorti tuttavia, che non già finita, ma solo incominciata fosse allora quell’incisione, se incisone può dirsi. Nel medesimo archivio sono due sonetti satirici del Testi, uno sulla vittoria nonantolana, l’altro su quella di Mongiovine, ove i toscani sconfissero i pontificii. Scriveva poi nel successivo anno Ippolito Tassoni, ito a Roma per incarichi avuti dal duca, che, trovatosi col cardinal Mattei, ebbe questi a confessargli, che se gli estensi avessero inseguito i pontificii, li avrebbero, senz’altro, tagliati a pezzi; e facendogli notare il Tassoni che troppo scarse erano le milizie ducali perché potessero mettersi a quell’impresa, con pericolo ancora di cadere in un’imboscata, [p. 172 modifica]il cardinale soggiunse, che quelle genti erano così spaventate, che non avrebbero fatta resistenza di sorta. Era frattanto giunta notizia in Vienna de’ precedenti casi di quella guerra, dell’invasione delle colline modenesi e dei mal riesciti tentativi su Cento e Crevalcore; e da chi avea suo pro nell’esagerare i vantaggi riportati dagli ecclesiastici, andavasi dicendo, secondo il Bolognesi scriveva, ridotte a mal termine le cose del duca per esser stato malamente rotto il Montecuccoli, e solo per opera di Camillo Gonzaga riposte in meglio le condizioni di lui; e anche si scriveva di un Tedeum col quale dai pontificii era stata celebrata quella vittoria. Colse pertanto con gioia il marchese Francesco Montecuccoli l’occasione della vittoria di Nonantola, per ribattere, scrivendo al Bolognesi, codeste esagerazioni. “Gli ecclesiastici” così egli rispondevagli, “non hanno fatto finora cosa alcuna di considerazione, da qualche scorreria in poi, e non hanno presi alcuni luoghi forti, o se n’hanno occupato qualcheduno, non gli hanno però tenuti: laddove i progressi della Lega sono molto ben noti a tutti: ed ultimamente anche a Nonantola è seguita una fazione tra l’armata sola di Sua Altezza e quella dei signori Barberini (essendo allora tutta la Veneta verso il Finale ritirata) con gran profitto e vantaggio dell’Altezza Sua che vi si trovò in persona. PS – Nella fazione di Nonantola e rotta data all’inimico, il signor conte Raimondo nostro ha fatti propriamente, coll’aiuto divino, miracoli; poiché non poteva qualsisia capitano antico o moderno mostrar più prudenza e militare esperienza, né più bravura, coraggio e valore in attaccare e combattere l’inimico con risoluta generosità ”. Dopo la ritirata de’ pontificii, si pose mano ad alcune opere di fortificazione a Nonantola; della quali dice Raimondo in una sua lettera, che furon fatti i disegni da un ingegnere di nome

[p. 173 modifica]Tensini . Ed altre se ne venivano preparando a Modena, circa le quali esprimeva egli al principe Cesare la soddisfazion sua, potendosi così con maggior quiete attendere alle cose di guerra. Avevano i veneti, poiché giunse loro la notizia dell’attacco di Nonantola, levato il campo dal Finale, trasportandolo, per esser più pronti al soccorso, a Bomporto: ma ogni romor d’arme essendo cessato, il Corraro lor capo trasse ad Albareto, ove in una casa de’ Cortesi era il duca; e là si tenne consiglio sul modo migliore di trar vantaggio dallo sbigottimento del nemico, che era tale, secondo scrisse il Torricelli già citato, che la falsa voce corsa muovessero gli estensi verso Castelfranco, bastò a far sì che i pontificii, accampati intorno quel castello, entro il medesimo si ritraessero, e i bolognesi pensassero a mandare ambasceria al papa per sollecitarlo a fare la pace . Ad Albareto fu chi propose l’impresa di Cento, o quella di San Cesario, ed altri che si tenesse l’esercito a Nonantola di fronte al nemico. Sostenne invece Francesco I, doversi procedere contro Bologna, da poche truppe presidiata, e ridestata, per quel che a lui ne sembrava, all’antico amore di libertà. Leverebbersi allora senz’altro i pontificii da Castelfranco, e terrebbero i collegati la via che dai colli modenesi mette a Bologna. A questo partito, molto lodato dal Grifoni commissario toscano, apertamente si oppose il Corraro, come si ha da una lettera che il Montecuccoli scrisse da Spilamberto il 27 di luglio. Ché anzi ne sorse fiera disputa tra esso Corraro e il duca, il quale affermava bastargli l’animo di entrare anche senza di lui nel territorio nemico. S’interpose il principe Luigi d’Este, al quale venne fatto d’indurre il Corraro a procedere intanto col duca alla collina. Provveduto alle comunicazioni col territorio veneto mercé un forte presidio al Finale, seguitò egli dunque a Modena il duca, che vi adunò un altro consiglio di [p. 174 modifica]guerra, al quale intervenne il cardinal d’Este, nominato allora reggente dello stato. Mossero poscia gli alleati verso Spilamberto, e ci vien veduto in una relazione già per noi citata che, qual ne fosse la cagione, non si tenne la via maestra, ma un’altra laterale lungo il Panaro; nella quale gravi incagli trovarono le artiglierie e le salmerie, che solo con molt’opera de’ soldati, adoperandovisi il duca stesso, poterono venir tratte d’impaccio, non senza però che si giungesse a Spilamberto un giorno dopo le fanterie. Questo indugio, come in quella relazione si legge, intiepidì l’ardore delle milizie, e, come il Montecuccoli aggiunge, rincorò alquanto i pontificii, che una diversione infatti operarono dal lato di San Cesario. Ma il Montecuccoli, uso a ben altre contrarietà di eventi, non che sgomentarsi per questo, si pose con più animo a secondare i disegni del principe suo. E vedendo che i veneti, sempre troppo cauti, anche ora proponevano non si procedesse più oltre di Spilamberto, dettò una memoria che è nell’archivio di stato, nella quale calorosamente insisteva, non si desse tempo ai pontificii di riprender coraggio, s’entrasse nel territorio loro, e s’occupasse Piumazzo. Con questa mossa si proteggerebbe da un lato l’esercito, e s’avrebbe modo di far correrie sino alle porte di Bologna, alla qual città si torrebbero i viveri, provvedendone invece i proprii soldati: i quali invero, peggio che da nemici, avevano disertato il modenese dal Finale a Vignola . Né era da temere che quel nemico medesimo, il quale a Nonantola era già stato battuto dai pochi estensi con soli mille veneti ed in aperta campagna, avrebbe ora ardito di assalire i nostri, rafforzati in luoghi vantaggiosi. Prigionieri e disertori concordi attestavano in che timore si vivesse a Castelfranco, ove ai più veloci cavalli non mai levavasi la sella per averli pronti alla fuga. E furono certo codeste ragioni di Raimondo che indussero il Corraro a consentire si facesse l’impresa di Piumazzo; [p. 175 modifica]ed a tal uopo chiamò presso di sé que’ soldati veneti che erano a Nonantola, ove andarono invece uomini delle milizie estensi che levaronsi da Sassuolo. Come poi l’occupazione di Piumazzo accadesse, l’abbiamo da una lettera che al principe Cesare, fratello del duca, scriveva da Spilamberto il Montecuccoli in data del 27 di luglio. In questa, dopo aver dato contezza di soldati giunti la sera precedente colà, ove pensava chiamare quelli ancora ch’erano a Monfestino, accusava d’ignavia, di viltà, d’ignoranza i soldati del papa che non s’opponevano allora a cosa alcune ch’egli tentasse; ond’era accaduto che dinanzi a seicento fanti e a cento cavalli suoi si fossero essi ritirati, lasciando occupare Piumazzo al Sittoni. Le quali parole contraddicono a quanto scrissero il Siri e il Brusoni; il primo de’ quali, traendo senz’altro la notizia dalla relazione poc’anzi da noi citata, asserì aver avuti con sé il Sittoni duecento cavalli e trecento moschettieri, e il secondo “quattrocento cavalli ingroppati d’altrettanti fanti”. Ancora, avvertiremo l’errore del Muratori che narrò la conquista di Piumazzo accaduta il 29 luglio, laddove la lettera di Raimondo è del 27. In questa accennava poscia a scorrerie fatte sul bolognese, ove a forza venne preso Confortino, ch’era un palazzo di Vincenzo Malvezzi, e furono tagliati a pezzi i villani che vi si erano fortificati. Per queste scorrerie volevasi costringere il nemico ad indebolire il presidio di Castelfranco, inviando soccorsi alla minacciata Bologna. A questa città poi Raimondo disegnava togliere le acque pe’ mulini, facendo deviare il Reno allorché tutto l’esercito si avanzasse da Piumazzo; ovvero affamare il presidio di Castelfranco, impedendo che da Crespellano gli giungessero vettovaglie. Ma a ciò bisognava l’aiuto dei veneti, ed egli non lo sperava gran fatto, perché, al solito, troppo guardinghi. Il giorno stesso che scriveva questa lettera, commetteva Raimondo al capitano Prospero Forni di pigliar seco una squadra di cavalli e di dragoni ed alquanta infanteria, ed impadronirsi della terra di Serravalle; e andava dopo due dì egli stesso a Piumazzo, ove si stavano alzando fortificazioni. Di là, a parer [p. 176 modifica]suo, dovevano i collegati procedere sul bolognese, e non da Spilamberto come il Corraro proponeva, sostenendo l’opinion di lui il Gonzaga con una memoria ch’ei distese, alla quale altra ne contrappose Raimondo, che lo storico Siri recò compendiata nel suo Mercurio. In questa da lui singolarmente inculcavasi, doversi levar l’acqua a Bologna facendo saltare con mine le chiuse di Casalecchio, e correr poscia sulla città innanzi che vi giungessero i papalini. Più libere di là sarebbero state le scorrerie sul bolognese, e più spavento ne avrebbero avuto i nemici, che già s’erano ritratti da San Cesario dopo averlo rovinato. E di nuovo insisteva acciò dal modenese si levassero i soldati della lega, che con più disciplina procederebbero se fossero sul territorio nemico, mentre le opere loro al presente erano da ladroni. E tuttavia troviamo che i capitani veneti rimproveravano ai soldati estensi violazioni di chiese e di donne sul bolognese ed incendii di edificii con dispersione ancora de’ viveri necessari all’esercito. Il medesimo crederemo facesse il Degenfels, quando a capo di seicento cavalli veneti scorse buon tratto del piano bolognese con gran terrore della città, ove perciò si distribuirono le armi a settemila de’ suoi abitanti. Asprissime parole corsero allora tra i capitani veneti e il duca, che questa volta ancora si offeriva di agire da solo, contentandosi che stessero i veneti a vedere i pericoli ch’egli incontrasse. Fosse per questo risoluto procedere del duca, o per ordini venuti da Venezia, certa cosa è che non tardò guari il Corraro ad accondiscendere ai desideri dell’Estense. E qui, ad onore del vero, osserveremo che, quantunque le eccessive cautele de’ veneti tornassero sovente d’impaccio al Montecuccoli, ebbe però egli in una lettera sua al principe Cesare ad oppugnare l’opinione manifestata dal duca di Parma che vili e dappoco fossero le truppe loro, e singolarmente i capi. Eccedevano a suo avviso nella circospezione, ma quando si trovavano provveduti del bisognevole, col debito vigore assalivano i nemici: giudizio questo del Montecuccoli che dagli storici ancora si trova confermato. Il 29 di luglio, mentre Raimondo, secondo dicevamo, si trovava a Piumazzo, avendo fatto il duca il dì precedente una [p. 177 modifica]corsa a Modena, si levò l’esercito da Spilamberto colla cavalleria estense alla antiguardia e la veneta alla retroguardia, intanto che altri cavalieri scorrevano il territorio dal lato di Castelfranco ad evitare sorprese del nemico, che si provò infatti a qualche scaramuccia di poco momento. Nessun corpo di truppe trovandosi sul territorio percorso dai veneto-estensi, si detter questi a far prede, non risparmiando i mobili ed i quadri ne’ casini di villa de’ bolognesi; finché il duca non pose freno a questi disordini, e non vietò ancora, che senza un permesso in iscritto potessero i soldati allontanarsi dai compagni. A questo non solo per militare prudenza inducevasi il duca, ma per salvare altresì da certa ruina i miseri coloni di quelle terre, che quasi tutti fuggivano allora verso Bologna. Assalito Bazzano, i duecento uomini che v’erano a guardia, dopo due ore di resistenza si arresero, ottenendo che agli abitanti fosse conceduto di portar con loro le masserizie delle case: ma quelli che tentarono sottrar polvere da fuoco, vennero ritenuti prigionieri di guerra. Diverse piccole terre non opposero altra resistenza, se non quella che far potevano gli abitanti, non essendosi mosso da Forturbano per soccorrerle il Mattei: e tanto i drappelli mandati innanzi si avanzarono, che dalle torri e dalle mura di Bologna si vedevano gl’incendii da essi suscitati per le campagne circostanti.

Il cardinal Barberini intanto, a stornare il pericolo che a Bologna sovrastava, ordinò si facesse una punta nel Polesine dal lato di Lagoscuro; con che gli venne fatto di spaventare i veneti, i quali tosto richiamarono le truppe loro ch’eran col duca. Invano si sforzò egli di dimostrare che un assalto a Bologna avrebbe senz’alcun dubbio fatto retrocedere dal Polesine il nemico: la quale opinione fu dinanzi al senato sostenuta dal Tassoni, ministro estense a Venezia, uomo che, avendo militato in Fiandra, avea pratica di guerre, e però potea far meglio valere le ragioni medesime che il Borri veniva esponendo per lettera. Diverse proposte si fecero poscia, quella tra l’altre, di correr tutti difilati verso Roma; ma dai veneti fu rifiutato ogni partito, e le truppe loro avviaronsi perciò verso il Po[p. 178 modifica]lesine, non lasciando al duca se non quattrocento de’ loro, e trecento a guardia del Finale. Un’altra diversione fu dal Valencé opportunamente fatta al tempo medesimo verso la Toscana, che aveva allora l’esercito sul perugino; ond’è che, a difendere le provincie sue dal lato opposto, il granduca chiamasse soccorso dall’Estense. Né questi tardò molto a contentarlo, dopo che dai veneti ebbe ottenuto, come dicevamo aver egli chiesto, il denaro per arrolare, se non i quattromila che bramava, almeno duemila uomini, e che gli pagassero alquante compagnie di soldati suoi, una delle quali, come scrisse Raimondo, di garfagnini. Pel momento però, ridotto com’era alle sole sue forze, dovette abbandonare le terre occupate nel bolognese, e si ritrasse da prima presso Modena, per vedere ciò che da Castelfranco volesse tentare il Mattei: ma poiché lo seppe avviato verso Ferrara, egli, non senza pericolo di venire assalito di fianco, in un giorno e mezzo andò al Finale per unire le sue truppe ai veneti. Questa risoluzione fu per avventura disapprovata dal Montecuccoli, come argomentar si potrebbe da una sua lettera del 6 di agosto scritta da Spilamberto al duca; nella quale cercava mostrar esser deboli le forze del nemico da quella parte, come diverse induzioni gli facevano credere. Avrebbe voluto si ripigliassero invece, con qualche aiuto che dessero i veneti, le terre abbandonate nel bolognese. Mandava egli intanto a difesa di Vignola una compagnia di corazze del capitano Luca Bernovich, e a Spilamberto l’altra del capitano Reichowich, due alemanni da lui stesso, forse, presi al soldo in Germania. Ito poi a Modena, di là scriveva al colonnello Colombi, acciò impedisse il corso delle acque che da Savignano andavano a Castelfranco, e al tempo medesimo lo tenesse informato dei disegni e delle operazioni del nemico. Non avendo potuto mutare il duca i piani concertati coi veneti, due giorni dopo scritta quella lettera trovavasi Raimondo stesso tra Camposanto e il Finale, e scriveva lungo la via al cardinal d’Este, perché mandasse a raggiungerlo con qualche drappello di soldati il commendator Panzetti, il quale lasciar doveva venti uomini a guardia del ponte di Navicello: al [p. 179 modifica]Finale poi starebbe sull’avviso, se mai fossero i pontificii per tentar qualche cosa contro la Mirandola. Ma al Finale, ove col duca di Modena convenne quello di Parma che già s’era il dì precedente trovato seco tra il Bondeno e Ferrara, nuove contese sorgevano tra que’ poco concordi alleati, vieppiù esacerbate dalle pretensioni del Farnese di avere il comando nel meditato assalto di Lagoscuro. Tutti poi movean lamento sulle titubanze dei veneti, e più Raimondo, il quale scriveva che “quel mostro adriatico che ha tante teste... può difficilmente risolvere per la moltiplicità dei capi, e se risolve non risolve a tempo, e se risolve a tempo, non fa eseguire in tempo”. Giungevano intanto rimproveri al senato per parte del granduca, offesosi per l’abbandono di Piumazzo e delle altre terre che, in mano della lega, erano antemurale alla Toscana, per la quale i pericoli si accrescerebbero ancora, se per la ritirata dei veneti venisse dai pontificii invaso il modenese. Queste rimostranze, alle quali si unirono quelle del duca Francesco I timoroso di perdere la sua capitale, indussero il senato a promettere al duca che, se pericolo insorgesse, tre mila fanti e quattrocento cavalli veneti comandati dal Lavalette si porrebbero agli ordini di lui. Con che si quetò egli; e divisando seguitar la guerra da quella parte, poiché ebbe fatto rafforzare da Raimondo con milizie della sua famiglia i presidii di Montese e di Montetortore che parevano in qualche pericolo, fece esso duca venire altra artiglieria da Modena, e al Montecuccoli stesso commise di riconoscere il forte Bentivoglio nel ferrarese; nella qual circostanza fu questi assalito gagliardamente dalla cavalleria pontificia che ivi era comandata dal conte Vittman. Un’accanita zuffa ne nacque, ed un pezzo di artiglieria de’ modenesi menò strage di nemici, mentre ad un tenente Mazza riesciva di penetrare nelle fortificazioni per levarne il disegno. Il Montecuccoli stesso tanto a quel forte si accostò, che uno del suo seguito uccise una sentinella che era sugli spaldi, come al senato riferì poi il duca. Più lettere di Raimondo si riferiscono all’impresa di Lagoscuro che, dopo qualche esitazione da lui lamentata, far dovevano [p. 180 modifica]i veneziani da un lato, e, da lui guidati, gli estensi da un altro. Ma nuovo impedimento nacque dalla gara fra i duchi per la suprema direzione dell’impresa, e dalla mutazione nel comando delle truppe venete, essendo stato al Pesaro sostituito un Giustiniani, molto desideroso di acquistar rinomanza operando da solo . Il 23 di agosto dava conto Raimondo di un congresso a Figarolo tra il duca e i veneti; i quali tosto dopo assalirono il forte di Lagoscuro di là dal Po, senza punto mandare al duca i duemila uomini che dovevano coadiuvare, secondo il convenuto, gli estensi nell’assalto d’altro forte di qua dal Po; al quale scopo, dice Montecuccoli avesse in pronto il duca “otto pezzi di cannone grosso, guastatori, ponti d’assalto ed altre macchine”. E sopra i soldati ducali, così abbandonati, potevano, se fossero stati battuti i veneti, piombare improvvisi i pontificii. Irritatissimo era perciò Raimondo contro i veneziani, come apparisce da ciò che in quella circostanza ebbe a scrivere in biasimo della mal condotta impresa di Lagoscuro. Ed aggiungeva egli in quella lettera: “Se noi potessimo qui operare da soli, daressimo anche noi materia di scrivere e di parlare; ma soli siam pochi, e accompagnati manchiamo dell’autorità di poter disporre a modo nostro, ma qualche santo ci aiuterà”. E in altra sua lagnavasi che nessun sussidio di truppe volessero dare i veneti per tentar qualche altro acquisto, e non lasciare in ozio i soldati; e perché nulla era a sperare dal Giustiniani, si ricorse al senato; e finiva dicendo: “Beato chi può fare da sé senza farsi aitare!” alludendo con ciò ai toscani, più liberi nei movimenti loro. A crescer noie e molestie al duca, ad ogni tratto giungevangli novelle di danni recati ai sudditi suoi dai nemici. Già sino dal dì 19 di agosto scrivevagli da Guiglia il marchese Francesco Montecuccoli, che i pontificii, da prima ributtati dagli uomini di quel suo feudo, vi erano finalmente penetrati, ed interamente devastatolo, miravano allora a Montetortore. Apparirà poi singolare che non potesse esimersi esso marchese [p. 181 modifica]neppure allora dal mandare una porzione delle milizie sue al duca, che le voleva adoperar nelle fortificazioni di Vignola. Altre devastazioni ed incendii accaddero in quelle parti, e sin presso Modena, per opera delle truppe del Mattei; per le quali barbarie sdegnato il duca, indirizzò una protesta al reggimento di Bologna, che, scritta dal suo ministro Testi, fu pubblicata tra le opere di lui. In questa, che è in data del 4 di settembre dal Finale, minacciava egli di rappresaglia i bolognesi, se da quelle devastazioni non si desistesse, notando che cinquanta soldati a cavallo bastano a bruciare un paese per grande che sia. Era veramente estraneo il comune di Bologna a quanto operar potessero i soldati, come notò anche Raimondo in una lettera sua, ma tornò opportuno l’avviso, giacché fece istanza allora quel reggimento (come lo dicevano) ai capi militari, e con buon esito, acciò da que’ ladroneggi cessassero. E con ciò ebbe campo il duca di attendere con animo meno preoccupato alla guerra del Polesine. Se non che questa procedeva confusamente per la poca concordia tra gli alleati, a segno tale, da far dichiarare al Montecuccoli che i cattivi consigli impedivano di conseguire, come potevasi, progressi meravigliosi; aggiungendo, avere i veneti “perduto i sensi e le potenze dell’intelletto, della memoria e della volontà” (Lettera al principe Cesare). Si vide allora astretto il duca a mandare al senato una giustificazion sua contro le imputazioni che i generali veneti gli davano, anche si riferiva ad una sua esagerata richiesta in iscritto di viveri e di munizioni, dettata dal duca di Parma, che poi fece dichiarare a Venezia esser cosa dell’Estense, e nulla richiedere egli per sé: intorno al qual fatto aspre parole corsero poi tra il Montecuccoli e il Giustiniani. Più gravi sembra che fossero i dissidii seguiti tra il Montecuccoli stesso e Camillo Gonzaga generale delle truppe venete, se di questi giunse notizia anche a Vienna, come di là il 10 ottobre scriveva il Bolognesi. Egli li reputava sorti da reciproche pretensioni di preminenza, e da dispute circa dottrine militari, e circa l’imputazione data al Gonzaga, di aver mandata a vuoto l’impresa di Lagoscuro, non concedendo le truppe al duca Francesco per la di[p. 182 modifica]versione progettata. Così egli: né altro intorno a ciò pervenne a mia notizia. Il granduca, che in questo mentre con buona fortuna procedeva contro i pontificii nel perugino (e molte lodi ne aveva ricevute dal Montecuccoli il principe Mattia, capo dell’esercito toscano) non era poi, come dicemmo, senza pensiero per quella parte degli stati suoi che confinava col bolognese. Chiedeva perciò che di là lo assicurassero soldati della lega: e n’ebbe in fatti da Venezia e dal duca di Modena; il quale gli mandò una compagnia di corazze sotto un capitano di nome Alberino, e dispose poscia che verso Toscana movessero duemila fanti e trecento cavalli . Instò parimente a Venezia, per una diversione sul bolognese, come più volte aveva progettato anche il duca di Modena. A cotale dimanda annuendo i veneti, concessero al duca duemila cinquecento fanti e trecento cavalli, gente in gran parte oltramontana, condotta da Sebastiano Venier, che prese il luogo del Corraro, caduto infermo, e del Lavalette . Lasciato adunque l’Estense il disegno che allora stava meditando di assalir Cento ove aveva qualche segreto fautore, l’otto di ottobre dal Finale, suo quartier generale, andò invece a San Felice e di là a Spilamberto. Il giorno medesimo spediva ordini Raimondo, acciò si crescesse di una compagnia, condotta dal capitano Attilio Cima, il presidio ch’era a guardia di Fanano, terra che poteva dai pontificii, se movessero per Toscana, patir molestie. Questa mossa concertata col principe Mattia de’ Medici, come si ha da una lettera che è tra quelle edite dal Testi, riesciva opportunissima alla Toscana, avendo a quel tempo il Valencé con rapida marcia occupato con tremila uomini il paese intorno a Pistoia e tentato l’assalto della città, d’onde quel popolo, incuorato dall’esempio del senator Capponi che l’aveva in guardia, validamente combattendo lo ributtò. Il principe Mattia si avanzava in[p. 183 modifica]tanto contro di lui, che aveva a tergo gli estensi; ond’è che altro partito non rimanesse al Valencé se non quello di ritirarsi ai monti, dove poi i toscani e i modenesi neppure gli permisero di sostare, e lo costrinsero a ripassare sul territorio bolognese. Né agevole gli riescì questa ritirata, perché colle milizie di Garfagnana il colonnello Colombi, governator di Vignola, assai molestie gli diede, ed occupò anche Rocca Corneta ; e già aveva aiutato il principe Mattia de’ Medici ad impadronirsi del castello di Sambuca. Molto in cotali imprese si giovò il Colombi delle milizie dei Montecuccoli, guidate dal conte Alfonso e dal conte Giulio, sotto il qual ultimo militava Carlo, suo figlio, venuto dalla Germania. Degli incarichi che ebbe allora Raimondo, diè conto egli medesimo al principe toscano nella lettera che segue:

Ser.mo Principe mio signore e Padron Colendissimo. Il serenissimo duca mio signore, per guadagnar tempo nel disegno di separare l’armate nemiche d’insieme e poi dare alle spalle di quella che è su’ confini della Toscana, m’ha mandato innanzi con una quantità di cavalleria e di dragoni , per riconoscere i passi, et occuparli se si può, e prevenire il nimico; e se bene la strada è pessima né si può avanzare strada, e qui mi viene riferito che ‘l cardinal Antonio sia giunto al Vergato, luogo che da 15 giorni in qua li papalini fortifi[p. 184 modifica]cano in ogni modo, m’avanzerò ancor hoggi a quella volta, e se non sono impedito fra strada, vi sarò domattina, di dove darò poi più sicuro ragguaglio all’A. V. Il serenissimo Duca mio signore è a Vignola, et hoggi dovea arrivarvi tutta l’armata. Se ci avviene di separare il nimico, potremo fargli un bel torno. E con questo humilmente a V. A. m’inchino. Da Montetortore, li 13 ottobre alle 21 hore, 1643. Di V. A. S.ma Humiliss.mo e devotiss.mo servitore Raimondo Montecuccoli

Per non dar posa al nemico, mentre il Colombi s’affrettava verso Fanano, ove gli riuscì di battere un corpo di pontificii, procedeva Raimondo, come si era proposto, ad assalire Vergato ove erano a guardia dugento fanti e seicento cavalli comandati dal colonnello Riccardi. Ma più di costoro, furono gli abitanti delle circostanti montagne, gente armigera ed esperta de’ luoghi, che, secondo egli scrisse, gli resero difficile l’accostarsi a quella terra e l’espugnarla; il che tuttavia gli venne fatto in corto spazio di tempo, nel giorno successivo a quello segnato nella lettera da Montetortore da noi riferita . Raimondo annunziò aver colà raccolto i suoi soldati largo bottino di bestiami, seta, cera ed altro. Rimasero col Riccardi prigionieri di guerra i soldati del presidio, cento cinquanta dei quali con tre capitani inviò egli a Modena, raccomandando che col maggior riguardo venissero trattati; e alcuni di essi, infermi o feriti, mandò a Montetortore e a Vignola, ed altri che accettarono, aggregò alle truppe ducali. Dal Vergato tagliavasi la strada ai pontificii se mai pensassero tornare ai danni della Toscana; ma in breve fu chiaro che a questo pensar non potevano, e il Montecuccoli fu richiamato di là, “non lasciandosi, com’egli scrisse, presidio al Vergato, perché egli era totalmente fuori di soccorso, essendo molto avanzato dai confini dello Stato del signor duca per montagne difficilissime, che non solo impedito [p. 185 modifica]avrebbono la condotta de’ viveri, ma anche la marcia della gente, né le truppe della serenissima Repubblica aderivano a far la guerra ne’ monti, come quelle che non facilmente s’accomodano a patimenti”. Per trar fuori i pontificii da Castelfranco, d’onde minacciavano la pianura modenese, cercò il duca di chiamarli verso Bazzano, che fece assalire dal Montecuccoli. V’erano a guardia duecento soldati di fortuna ed alquanti villani armati che “bravamente, dice il Montecuccoli, per tre o quattro ore si difesero senza mai volere intendere d’accordo; sin tanto che, havendo il cannone fatto qualche apertura nel muro, si entrò per forza, e si tagliarono tutti a pezzi”. Colà fu ferito Raimondo, che fece scrivere al principe Mattia: “una palla di spingarda qui sotto Bazzano m’ha strisciato i due diti più piccoli della mano destra et la pancia, m’ha fatto gonfiare tutta la mano in modo, che per ora non posso adoperarla”. Ma fu danno passeggero. Venne nella notte seguente mandato il sergente generale Formica ad occupare Monteveglio, fabbricato in luogo difficile sopra di un monte; e prigioniera vi rimase la guarnigione. Dal sergente maggiore Barozzi colà spedito si cominciò anche a fortificarlo, ma la mancanza d’acqua e la necessità di non disperdere in tanti luoghi le truppe indussero poi Raimondo ad abbandonarlo ; e così fu abbandonata anche Serravalle che pure si era arresa; luoghi questi, diceva in una sua lettera, più facili a conquistare che a conservare. In altra lettera lamentava egli che non lasciasse il nemico “conforme al costume d’abbruggiare qualche villaggio su lo Stato di S. A. mio signore quand’ei può, né terrebbe che a noi il rendergliene la pariglia, ma in questo punto la pietà di S. A. surmonta la ferità degli altri”. Il che quanto agli incendii era vero; ma era vero altresì che saccheggiavano a man salva anche gli estensi. Di alcuni lor capitani, dice poi il Montecuccoli che “sviavano i soldati veneti”; che forse vorrà dire s’adoperassero ad iscriverli nelle loro compagnie. [p. 186 modifica]

Scorrevano intanto i veneti la pianura di Bologna fin sotto le mura della città, e il Panzetti col Bernovich quella verso Crevalcuore, lodati perciò questi ultimi dal duca di Modena; e Raimondo dice, che in una di coteste scorrerie fu fatto prigioniero un gentiluomo di gran conto, capitano de’ pontificii, e pronipote del gran mastro di campo. Mentre queste cose accadevano, il marchese Francesco Montecuccoli era in Roma a tentare un’ultima prova per indurre il papa a pacificarsi col duca di Parma; il che non essendogli venuto fatto, ritornò a Modena, d’onde ottimi consigli mandava al duca circa le trattative iniziate per la pace. Io non so se dall’ostinazione dei Barberini nel voler continuare la guerra il Testi traesse argomento a quella sua poesia che incomincia colle parole: “Ruscelletto orgoglioso”, ed è in biasimo dei grandi superbi; la quale il Tiraboschi, riportando un brano di lettera di Francesco Mantovani al Testi, provò essere stata diretta contro il cardinal Antonio Barberini, cui predisse le sventure che colpirono lui e i suoi sotto il successivo pontificato. Certo è nondimeno che essa fu scritta circa il tempo del quale ci occupiamo, e dedicata dal poeta a Raimondo mastro di campo generale del duca di Modena. Maggiore poi doveva esser lo sdegno del Testi contro i Barberini, i quali avversavano la pace, allora appunto che a questa incominciava ad inclinare lo stesso duca di Modena, insino allora il più tenace, con quel di Parma, nell’avversarla. Aveva in fatti l’Estense avuto modo di convincersi che non avrebbe da quella guerra potuto conseguire il bramato ampliamento dei suoi stati, poiché nessuno, e i veneziani men che gli altri alleati, mostravasi disposti a prestargli favore. E perché neppure a qualche nuova impresa che Raimondo proponeva, vollero consentire i veneti, allegando che già si era conseguito lo scopo di allontanare i pontificii dalla Toscana; si vide astretto il duca, anche per la difficoltà di tener fuori coll’incrudire della stagione le truppe, ad abbandonare, come dicevamo, le terre conquistate in quel di Bologna. Riprese allora la via pel Finale; e ad allontanare da quella terra il nemico, si usò lo stratagemma, come Montecuccoli [p. 187 modifica]racconta, di un finto tentativo di passare il Panaro a Bomporto. Sarà stato nell’esecuzione di quella finta mossa o circa quel tempo, secondo stimo, che accadde il fatto, del quale è parola nella seguente lettera da Mario Carandini indirizzata al principe Cesare d’Este: “Il signor conte Raimondo ha corso borasca d’essere fatto prigione dalli Bolognesi, poiché, havendo passato i confini con una truppa di cavalli che l’accompagnavano, insospettì la fortezza Urbana (Forturbano), quale mandò due compagnie di cavalli che stettero in agguato per farlo prigione. Ma avvisato da una spia, ritornò per altra via a Modena”. La copia di questa lettera che io ebbi alle mani, reca la data del 25 di novembre 1642; ma io sospetto che il copista, in errore incorresse e che in quel luogo s’abbia a leggere 1643, non altre ostilità essendovi state nel primo di quegli anni, se non l’invasione delle terre pontificie per opera del duca di Parma. Fervendo tuttavia a quel tempo i preparativi militari, non è al tutto impossibile che quel fatto anche allora potesse essere accaduto. Raimondo in fatti era giunto a Modena men che un mese innanzi al 22 di novembre di quell’anno.

Arrivato il duca al Finale, ricusò a sua volta di prender parte ad un altro tentativo de’ veneti contro Pontelagoscuro, e di proprio moto ordinò al commendatore Panzetti d’impadronirsi di Crevalcuore; come gli venne fatto di eseguire, quantunque non avesse egli più che trecento fanti e duecento cavalli, comandati questi ultimi dal capitano Pegolotti, lodato per valentia dal Montecuccoli. Bastò allora che si desse la scalata alle mura di quella terra per conseguirne la resa. Mille furono i prigioni caduti in potere degli estensi ; ma pochi essendo questi, come dicevamo, né avendo modo di mandare que’ prigionieri a Modena, furon costretti a lasciarli andare, con lor danno, a crescer forze al nemico. [p. 188 modifica]

Sfogossi in Crevalcuore con otto ore di saccheggio (secondo narra lo storico Brusoni) l’intemperanza de’ vincitori, che forse volevano vendicar la sconfitta altra volta colà patita. E di questo parla il Torricelli altresì, e narra di un vecchio decrepito ucciso dai soldati mentre suonava la campana da morto per un’altra vittima loro; e soggiunge che da Navicello furono mandati dragoni a punire que’ facinorosi, “gente così poco discreta, dice un documento archiviale, che pone tutti in pericolo”. E’ però da dire che il medesimo facevano i papalini, grandi spogliatori di chiese; e i veneti rubavano pur essi a quando a quando.

Stava in molta trepidazion d’animo il Panzetti per timore non giungessero soccorsi a’ suoi uomini, disordinati e insufficienti a difender la terra: ne offersero i veneti, mentre pel fortunato evento mandavano congratulazioni al duca; ma non giunsero essi in tempo, essendo d’improvviso piombati sopra quel castello i pontificii comandati da un Cedré de Monpensier. Trovavano essi gli estensi sparsi per le campagne a porle a ruba, pochi soltanto di loro essendo rimasti presso il Panzetti. Si difesero questi arditamente e ributtarono gli assalitori; ma ecco che la cavalleria, pensando che altro non rimanesse a fare, s’avviò alla volta del campo estense per porvi in salvo le prede, neppur dandosi pensiero di chiudere la porta per la quale usciva. Coloro de’ pontificii che erano restati in agguato, ne avvisarono i compagni che si ritiravano; tornarono questi sui passi loro, ed entrarono in Crevalcuore, ove passarono a fil di spada un capitano di corazze e cinquanta soldati essendo gli altri riusciti a fuggire. Restò lor prigioniero il Panzetti, al quale venne poi fatto di fuggire da Bologna ove lo avevan condotto. Diversamente racconta questo riacquisto di Crevalcuore il Brusoni, narrando avere il presidio schiusa la porta ai compagni che tornavano onusti di prede; della qual cosa avvedutisi i nemici, si fecer sopra agli uni e agli altri, e commisti con loro entrarono nella terra . Ecco ora la lettera colla [p. 189 modifica]quale di questo avvenimento dava contezza Montecuccoli al principe Mattia de’ Medici:

Ser.mo Principe mio Sig.re e Padron Col.mo Avisai alli giorni passati a V. A. Ser.ma la felice sorpresa che haveano fatto li nostri di Crevalcuore, luogo che reccaria molte buone conseguenze a gl’interessi communi. Ma siccome contro alla forza aperta che l’inimico avesse potuto usare per ricuperarlo, s’era a bastanza provisto con l’havere disposti gli soccorsi nei luoghi opportuni e col havere concertati gli segni che in un istante faceano muovere tutta l’armata, così contro la forza occulta e furtiva del nemico fu troppo grande la trascuraggine del nostro presidio, che vi era dentro; il quale, parte per negligere le guardie e la vigilanza, parte per la dissensione che nacque fra le diverse nationi e maggiormente per cagione del bottino, che tenne applicato l’animo di tutti, fu dall’inimico parimente sorpreso, doppo l’esservi stato dentro due giorni e una notte. Ma perché il nemico non attaccò se non da una parte, i nostri quando viddero il nemico dentro, apersero la porta dal lato opposto, onde si sono salvati la maggior parte, e quelli che non si sono salvati sono rimasti prigioni, che con facilità si permuteranno, havendone noi tanti de’ Barberini che non sappiamo che farne. Hanno gli nemici spinta qua molta gente dalla Marca e dalla Romagna e si sono ingrossati a Castelfranco e a Crevalcore. Invigileremo alle loro attioni per rompere i loro dissegni. Intanto augurando nuova prosperità alle gloriose arme di V. A., riverente me le inchino.
Di Modena li 12 di novembre 1643.
Di V. A. Ser.ma Humiliss.mo devotiss.mo Servit.re Raimondo Montecuccoli

Così, infelicemente per gli estensi, cessavano le fazioni di guerra, l’inoltrata stagione avendo costretto i belligeranti a [p. 190 modifica]prendere i quartieri d’inverno. Qualche avvisaglia ebbe ancor luogo nel Polesine, ma solo il granduca, che aveva avuto più favorevole la fortuna delle armi, seguitò a tenere il campo, poco mostrandosi propenso a prender parte alle trattative che s’iniziavano per la pace. Andava invece il duca di Modena a Venezia per vedere se gli si offerisse qualche modo di far valere le sue ragioni sopra Ferrara. Erano con lui il Testi e il Tassoni, il primo de’ quali, più che l’altro, tenne fermo nel propugnare le pretensioni del principe suo, finché esso con lettera sua al senato veneto non dichiarò di rimettersi al parere dei collegati; il che non gl’impedì tuttavia d’invocare più tardi un giudicio di arbitri. Chiedeva al tempo medesimo gli si pagasse quanto gli era dovuto per leve fatte, e per due mila svizzeri che stavano per giungere in Italia. Papa Urbano a quel tempo, per consolare il suo generale Valencé delle sconfitte patite a Nonantola e a Pistoia, si lasciò indurre dal nipote cardinal Barberini a conferirgli il cappello cardinalizio; “il che, dice Brusoni, diede, forse a torto, grande occasione di favellare e di scrivere a’ Novellanti sopra le azioni dei Prencipi”, e di questo si ha la prova nel Mercurio del Siri. Non era per questo terminata ancora la guerra, ma solo per allora sospesa, e si continuava il lavoro delle fortificazioni qua e colà incominciate. A quelle di Spilamberto presiedeva il celebre architetto Vigarani, con poca fortuna nondimeno, perché i soldati veneziani usavano a far fuoco di tutti i legnami raccolti per quei lavori, e gli operai non potendo reggere al freddo, fuggivano. Non si desisteva parimente da una parte e dall’altra da incendii e da devastazioni, conseguenza inevitabile delle guerre di quel tempo. Aveva Raimondo accompagnato il duca Francesco a Venezia; e là ottenne di poter fare una corsa a Vienna, ove lo chiamava la malferma salute della vedova del conte Girolamo suo cugino, e il timore che a qualcuno venisse fatto, durante l’assenza sua, di stornarla dai buoni propositi manifestatigli circa l’uso che farebbe delle proprie sostanze. Lettere commendatizie del duca a persone potenti gli dovevano agevolare il conseguimento de’ suoi desideri. Aveva indicato egli stesso [p. 191 modifica]al duca, con sua lettera del 13 di dicembre, come persona alla quale desiderava venir raccomandato, il generale de’ gesuiti che avrebbe potuto insinuare al padre Wilpenhoff, uomo di grande autorità presso la contessa, che s’adoperasse a farlo dichiarare erede; e desiderava facesse il duca comprendere a quel generale de’ gesuiti che se ciò non accadeva, sarebbero quelle sostanze passate ad un luterano, tale essendo il figlio di lei. E il duca non solo di questo lo compiacque, ma ad altri due gesuiti si rivolse, acciò dessero opera a far condiscendere al desiderio di Raimondo il loro capo. E queste lettere a nome del duca scritte dal Testi fra quelle di lui si hanno alle stampe insieme con alcune indirizzate per egual motivo all’arciduca Leopoldo, e ad altri. Notabile tra queste lettere quella pel conte Nich, ove si leggono queste parole: “Egli mi ha prestato qui un servizio di fede, prudenza e valore straordinario; onde per gratitudine son tenuto a procurargli ogni vantaggio e comodo maggiore” .

In cotal circostanza il duca scriveva al Bolognesi, che solo l’affetto che sentiva per Raimondo, lo aveva indotto a permettergli una breve assenza, non volendo recargli pregiudicio negli affari suoi, e singolarmente in ciò che si riferiva all’eredità della contessa. Soggiungeva poi che, quantunque l’esattezza di Raimondo nell’adempiere agli impegni assunti, non lasciasse luogo a dubbio, doveva nondimeno il Bolognesi ricordargli che lo aspettava a Modena entro il venturo gennaio: per Raimondo si adoperasse poi il Bolognesi, come se si trattasse di affari proprii di esso duca. Furono queste lettere scritte dopo che il 4 di dicembre partì Raimondo insieme col duca per Venezia . [p. 192 modifica]

Il giorno 15 dicembre era Raimondo a Trieste; e di là continuò la sua via per Vienna, ove era aspettato dal Bolognesi, che lo aveva sollecitato ad intraprendere quel viaggio . Nome di prode, di gentile e di dotto cavaliere lasciava di sé Raimondo in patria; e di ciò sembra che pubblica testimonianza volesse fargli un Paolo Ferraroni, il quale, stampando a quel tempo in Modena una sua Orazione in morte di don Marino Bolizza da Cattaro maestro di rettorica nel collegio di san Carlo, a lui, come credo, alludeva, lodando un guerriero valente colle armi e colla penna, che in giovane età oltrepassava la fama de’ più vecchi e più lungamente sperimentati capitani. Da Vienna scriveva Raimondo al duca in data del 26 di quel mese, avere già coll’imperatore e coll’arciduca Leopoldo compiuti quegli offici de’ quali lo aveva incaricato, e che consistevano nel raccomandare ad essi le cose del duca e del suo stato in occasione della prossima pace, e nel presentare un memoriale ove si tesseva la storia de’ passati avvenimenti. Si attribuivano questi al mal animo del papa verso la casa d’Este, e alle pretensioni sue sopra Modena e Reggio feudi imperiali, pretensioni che, per ben ricordarle, teneva scritte sopra una carta, la quale aveva poi sempre sul suo scrittoio. Non era pertanto da stimare sicura la pace; ond’è che il duca dovesse rinnovare le istanze per poter far leve fra le truppe imperiali, e per aver libero il passo per due mila o cosacchi o polacchi che pensava prendere al suo servigio. Alle quali dimande, cui l’imperatore non poteva consentire senza segni di nimicizia verso il papa, è probabile che si sarà risposto o col rifiuto o con parole inconcludenti. E ciò prevedeva Raimondo allorché scriveva che, se a lui si fosse conceduto di far leve, altrettanto si avrebbe avuto a permettere al papa. Del resto aveva il residente veneto a Vienna sconsigliato il duca dal fare quel passo per non mostrar debolezza. Raimondo era altresì incaricato dal duca [p. 193 modifica]di trovargli un buon generale per le artiglierie: trista condizione de’ piccoli stati l’andar mendicando soccorsi qua e colà, e l’incontrar sovente o noncuranza o rifiuti. Non erano vani però i timori per la continuazione della guerra: scriveva lo stesso Raimondo al principe Borso d’Este il 4 di gennaio del 1644, esser prudente il tenere in ordine le truppe, quantunque in Italia tutti si mostrassero inclinati alla pace; la quale non ebbe luogo infatti se non qualche tempo dopo, e non senza nuovo spargimento di sangue, perocché alcune scaramuccie venivano accadendo tuttavia fra le truppe che si stavano a fronte.

Qualche pericolo aveva già incorso Guiglia, com’ebbe a scrivere il marchese Francesco Montecuccoli, e da Spilamberto tentò poscia il Lavalette di sorprendere i pontificii facendo tragittare il Panaro a seicento fanti, mentre a guado lo passavano ottocento cavalli suoi: se non che il luccicar delle torcie con che a quella gente, essendo notte, s’indicava la via, pose il nemico sull’avviso; ond’è che il nuovo cardinal Valencé spingendo i suoi soldati contro il Lavalette, l’astringesse a ritirarsi. Meglio tornò ai veneti l’assalto che dettero di nuovo a Lagoscuro, essendo colà rimasti sconfitti i pontificii, ed a stento salvandosi con una fuga, che fece il paio con quella di Nonantola, il cardinale Antonio Barberini, poco innanzi uscito da Ferrara. L’infermità sopravvenuta a papa Urbano sulla fine del gennaio del 1644, accresceva le speranze della pace che si stava trattando: ordinava pertanto il duca al Montecuccoli, che senza troncare le pratiche iniziate per leve ed altro, le tenesse in sospeso. E già il Montecuccoli stesso, come si ha da una lettera sua del 30 di gennaio, era stato in procinto di partire per Modena , allorché la morte della contessa sua cugina, e gli affari ai quali, come diremo, dovette attendere, lo astrinsero a deporre il pensiero di lasciar Vienna. Ma di là egli seguiva quanto accadeva in Italia, lo svolgersi dei trattati diplomatici; durante [p. 194 modifica]i quali il duca tenevasi preparato ad ogni possibile evento, e crebbe anche il presidio alla sua capitale, ove furono altresì chiamate allora le milizie feudali di Raimondo. Procedettero però a bene le cose; e il 20 di febbraio, scrivendo il duca al Montecuccoli, disdicevagli ogni commissione per leve, quelle tra l’altre da farsi in Amburgo, avendosi già per sicura la pace, che fu poi dal duca sottoscritta il 5 dell’aprile successivo .

Così terminava quella guerra, nella quale era egli entrato con tanta speranza di trovar adito a racquistare qualche parte almeno delle terre degli avi suoi, e dalla quale usciva con delusioni molte e con danno notabile. E invero, l’essersi conseguito lo scopo pel quale si era combattuto, la restituzione cioè di Castro al duca di Parma , che tanti fastidii aveva dato a quelli che per lui avevano prese le armi, sarà al duca Francesco sembrata cosa di poco momento verso le molte speranze fallite, la ruina di gran parte del suo stato, e l’impoverimento così del suo erario come de’ popoli suoi, sottoposti ad oneri gravissimi per cosa di nessuna utilità. Ché anzi, per sanare le piaghe lasciate aperte dalla guerra, fu necessario di porre su di essi in quell’anno medesimo in che questa cessava, una nuova qualità d’imposizione, quella cioè della macina; che era di un mezzo ducatone modenese per ogni sacco di grano condotto al mulino, da pagarsi da coloro altresì che avessero ottenuto facoltà di farlo macinare fuori dello stato, venendo per ogni altro caso vietata l’introduzione della farina e del pane.

Notabile tuttavia fu codesta guerra, e perché sostenuta da principi italiani senza intervento di stranieri (salvo gli arrolati negli eserciti loro), e perché una lega italica rintuzzava ad un tempo i desiderii di conquista del papa e le ingerenze forestiere nelle cose nostre, ed impediva ancora al duca di Parma di porre, secondo divisava di fare, le ragioni sue in mano dei francesi, se nessuno si prestasse a soccorrerlo. Francia per[p. 195 modifica]tanto non poté più che entrare nelle negoziazioni diplomatiche, delle quali ebbe incarico il cardinal Bichi toscano. D’altra parte questa guerra pose a nudo le gelosie che ciascun principe italiano nudriva contro del suo vicino, e la smania in essi tutti dei parziali vantaggi, ed il nessun pensiero di far prevalere al bene privato il bene comune. Umori letali codesti, che serpeggiando nel corpo della nazione la rendevano discorde, impotente, e però sempre facile acquisto ai forestieri. E ancora apparve in questa guerra l’imperfezione de’ sistemi militari in uso tra noi a quel tempo. Componevansi in gran parte gli eserciti di gente raccogliticcia così nostrale come straniera, talvolta con corpi speciali di facinorosi sui quali, perché adusati alle armi e al sangue, gran fondamento si faceva. Il maggior nucleo però de’ combattenti apparteneva alle milizie rurali, uomini levati, anche colla forza, dalle lor case, ove lasciavano in miseria le famiglie loro, che spesso, per le continue requisizioni di grani e di fieno, mancavano del necessario a non perir di fame esse e i bestiami, quelli cioè che in servigio delle truppe non erano a loro stati tolti. Disertavano pertanto i militi a frotte, e si davano a far bottino per recarlo alle famiglie. Di cotali fughe sono piene le carte relative alla guerra di che tenemmo ragionamento, e non poche imprese commesse a capitani furono dovute per manco di uomini lasciare incompiute. Facevano poi anche difetto a que’ soldati non di rado le paghe; ed anzi pe’ primi tre giorni dopo la chiamata dovevano essi militare a lor spese: ond’è che si prendesse talora il partito di rimandarli dopo tre dì alle lor case, per richiamarli poco di poi. Largamente intorno ai conflitti allora accaduti si distese nel suo Mercurio veridico Vittorio Siri, cui venivano dai confederati spediti i documenti opportuni. Ci rimane una lettera, colla quale il 30 di settembre del 1644 chiedeva il duca di Modena a Raimondo che gli mandasse delle note sulla passata guerra per comunicarle a quello storico; al che rispondeva egli, aver lasciate quelle che già aveva messo insieme, al priore del monastero di San Pietro, al quale le avrà poi il duca richieste. Riuscì l’esito di questa guerra così do[p. 196 modifica]loroso a papa Urbano, il quale vedeva mancate le sue speranze di accrescere i propri dominii di alcune zolle di terra spettanti ad altri, che n’ebbe, secondo più storici affermano, accelerata la morte, accaduta il 29 di luglio di quell’anno 1644. Lui fortunato, nota il Brusoni, se fosse morto innanzi quella guerra, che, esorbitantemente gravando i popoli, lo fece segno d’odii infiniti; ond’è che Pasquino gli facesse questo epitaffio: “Orbem bellis, urbem gabellis implevit”. Di lui narrava al conte Martinitz il cardinal Leslie, secondo che al duca scriveva il Bolognesi, essere stato detto in Roma allorché fu eletto: questo pontificato sarà lungo, ma finirà rabbiosamente . Pago di avere compiuto il debito suo di suddito e di feudatario, nulla, in premio di quanto aveva operato, richiese Raimondo al suo sovrano; e poiché nulla gli fu dato, non trovo che di questo a chicchessia egli mai si lagnasse. All’ingeneroso oblio del duca, che pure fu sempre largo donatore a’ suoi cortigiani, e che i maggiori uffizi dello stato avrebbe certo conferiti a Raimondo se fosse rimasto in Modena, allude il marchese Francesco Montecuccoli in una lettera che il 7 di aprile di quell’anno indirizzò al [p. 197 modifica]Bolognesi, là dove voleva consigliasse a Raimondo di fare una corsa a Modena, “per aggiustare le cose sue, com’anche perché potria essere che il serenissimo Padrone lo onorasse di qualche mercede che potesse essere e che convenisse al merito del signor conte” e, come aggiunge in altra lettera, “pel buon servigio resole” che vedemmo già dallo stesso duca attestato nella lettera sua all’imperatore. Né si può questo luogo interpretare nel senso di un uffizio stabile o in corte o nella milizia, avendo poco innanzi lo stesso marchese approvato il parere del Bolognesi, ch’egli avesse cioè a restare per allora in Germania. Ma questo non desiderava il duca, che in cuor suo non aveva rinunziato a riprendere le armi, se l’occasione gli si presentasse, e desiderava perciò non gli si scostasse dal fianco un uomo del quale aveva sperimentato il senno e il valore. E questo io tengo per fermo che fosse il motivo, pel quale si riserbasse egli a mostrare più palesemente a Raimondo la gratitudine sua al tempo in che gli bisognasse valersi nuovamente dell’opera sua. In ogni modo, Raimondo si mantenne sempre devoto al duca Francesco, al quale attestava in una lettera sua il Bolognesi che sarebbe egli pronto in ogni tempo a sacrificare ogni interesse suo (Lett. del 26 febbraio 1644). E tale ebbe infatti lo stesso Raimondo a dichiararsi: non diverso in questo dagli altri della sua famiglia, che da lontane contrade ancora accorsero a prestar l’opera loro, ove ne fosse mestieri, alla casa d’Este e alla patria.

Ma se nulla al principe suo egli richiese, non si peritò tuttavia di rappresentare all’imperatore i diritti che gli competevano ad un compenso per 17 anni spesi in servigio dell’impero, e pei danni pecuniarii derivatigli, come dicevamo, dall’essergli stato, mentre era a Modena, tolto il reggimento suo, col quale aveva un credito di 3000 fiorini. E perché dalla risposta avuta “era entrato in gelosia” secondo si esprime “che altri abbia potuto stimare la sua richiesta prosuntuosa” venne egli enumerando in un Memoriale, che il Tiraboschi pubblicò , le [p. 198 modifica]battaglie nelle quali ebbe campo di distinguersi, e che già furono da noi ricordate, le due prigionie sofferte, l’avere tre volte armato il reggimento a sue spese, e come non avesse avuto i quartieri d’inverno se non una volta; e con ciò, soggiungeva, “trovo haver consumate tutte le sostanze della mia casa”. Né tace degli studi fatti e de’ servigi resi all’impero dai parenti suoi: chiedeva finalmente un’attestazione onorevole di quanto insino allora aveva operato. Trovavasi egli ancora al servigio del duca di Modena, né si era risoluto per anche su quello che far dovesse dopo la pace, e non mostravasi neppure alieno dal prendere stabile dimora in Modena, come dalle lettere del Bolognesi e del marchese Francesco si ritrae; onde terminava col dire: “io, dovunque sia, procurerò sempre di rendermene degno” cioè della grazia imperiale. Quell’attestato da lui richiesto, l’ebbe egli amplissimo in un diploma imperiale in lingua latina aulica (che noi diremmo maccheronica), nel quale le imprese militari di lui erano ricordate secondo le tracce da esso date nel Memoriale. Vi si diceva poscia, nudrirsi fiducia che, fatta la pace in Italia, riprenderebbe il servigio intralasciato: gli destinava intanto l’imperatore una ricompensa di 30 mila fiorini su certi redditi erariali nella Stiria, per compenso, crediamo, dei danni patiti, secondo aveva egli annunziato, e in premio altresì de’ servigi da lui resi. Seguiva dicendo che, se mai tornasse all’esercito imperiale, sarebbe trattato in maniera da averne dimostrazione della benevolenza sovrana. Gli veniva al tempo medesimo dato incarico, quando fosse andato, come si proponeva (e come poi non fece) in Italia, di arrolare, dopo fatta la pace, quanti più soldati potesse tra quelli che venissero licenziati, fanterie sopra tutto. Se poi gli venisse fatto di arrolare soldati di cavalleria da completare i vecchi reggimenti imperiali, uno di questi, [p. 199 modifica]alla prima vacanza che si presentasse, a lui verrebbe dato. Molto onorevole riesciva per Raimondo questo diploma, pel desiderio specialmente che vi si mostrava di riaverlo, appena fosse libero, nell’esercito; e gli sarà tornato molto opportuno quel compenso de’ trentamila fiorini pei casi che non tarderemo ad esporre. Vero è però che della imperiale largizione non gli fu dato di fruire interamente con quella sollecitudine che all’uopo suo sarebbe occorsa.

Né meno magnifici furono gli elogi che di Raimondo, come riferì il Bolognesi, udivansi fare da molti, dal Lobkowitz tra gli altri e dal Trautmannsdorf. L’imperatore medesimo con sé lo volle alle caccie, e di lui parlando col Bolognesi, non rifiniva di esaltarne il senno e il valore “non potendosi trovare” soggiungeva il diplomatico stesso “nell’esercito altro militare che accumulasse tante e sì rare qualità”.

Era stato il Bolognesi assicurato dal Trautmannsdorf, che, appena avesse luogo la pace in Italia, sarebbe senz’altro riammesso Raimondo al servigio cesareo; ché anzi l’imperatore aveva detto al padre Quiroga, dal quale gli era esposto il desiderio del re d’Ungheria e del Piccolomini, di averlo nelle truppe a loro sottoposte, e la intenzione del Montecuccoli di accettare, che di questo si levassero il pensiero, perché lo avrebbe egli tenuto presso di sé. Nondimeno allora Raimondo si considerava come vincolato al servigio del duca, non essendo ancora concluse le trattative della pace, promulgata solo il 1° di maggio di quell’anno 1644; e dava opera, come dicevamo, a far leve pel duca in Amburgo e altrove, e ad ottenere libero il passo negli stati imperiali agli arrolati . Similmente, nel gennaio il Bolognesi avvisava il duca, non attendere Raimondo se non un cenno per muovere alla volta di Modena; d’onde riceveva intanto congratulazioni dal duca per le onoranze che a lui si facevano a Vienna, poiché già da molti si presagiva, secondo [p. 200 modifica]scriveva il Bolognesi, che avrebbe conseguito un giorno il primo grado negli eserciti imperiali, come poi si avverò. Chiedeva nondimeno a quel tempo Raimondo con un secondo Memoriale, ricordato in una lettera del diplomatico estense, il suo congedo, la facoltà cioè. siccome ci pare doversi intendere, di partire da Vienna; “ma S. M. gli parlò in modo da fargli comprendere che lo voleva contentare, ritenendolo al suo servigio”. E già s’era trattato della sua promozione a grado più elevato. Intorno a codeste probabilità scriveva non pertanto al marchese Francesco il Bolognesi, che “il vedere la poca ventura che in codeste parti (in Vienna) hanno incontrato i soggetti italiani, ci fa per amor suo restare in non poca perplessità, e credere che meglio per lui fosse un mediocre ma sicuro vantaggio (in Modena), che una grande ma incerta speranza”: opinione anche da Fulvio Testi, come dicemmo, espressa al Montecuccoli, ma che non fu sempre, come più sopra accennammo, quella del Bolognesi. Ci conviene ora far ritorno a quanto si riferisce agli affari particolari del conte Raimondo; il che faremo nel capitolo seguente.

Capitolo V


penultimo stadio della guerra dei trent’anni


Dicemmo nel precedente capitolo, come fosse distolto Raimondo dal ritornare a Modena dalla morte, avvenuta nel gennaio, della cugina sua, vedova del conte Girolamo. Soggiungeremo ora, essere egli stato da lei istituito erede di tutte, o di gran parte delle sostanze che le provenivano dal marito. Ma per codesta eredità ebbe egli non poche molestie, cagionategli dal figlio di lei, che nominammo; dalle quali non senza molto dispendio, tardi si liberò. Si attenne egli allora al consiglio dell’amico marchese Francesco Montecuccoli, che diceva, non do-

  1. Di questi prigionieri fa menzione il Montecuccoli in una lettera sua al cardinal d’Este