Ricordi di viaggio in Italia nel 1786-87/Parte I/Da Verona a Venezia

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Da Verona a Venezia

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Parte I - Dal Brennero a Verona Parte I - Venezia
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DA VERONA A VENEZIA




Verona, il 16 Settembre.

Questo anfiteatro si è pertanto il primo monumento ragguardevole dell’antichità che io abbia visto, ed in quale stato di conservazione! Allorquando vi entrai, e più ancora quando giravo in alto sulla somità, mi faceva l’effetto singolare di parermi ad un tempo grandioso, senza che comparisse propriamente tale. È vero altresì che non lo si vuole vedere vuoto, ma bensì pieno zeppo di persone, quale si presentò non ha guari ad onore di Giuseppe I. e di Pio VI. L’imperatore, il quale era però assuefatto alle grande riunioni di persone, dovette tuttavia provarne stupore. Se non che, nel tempo antico unicamente, doveva produrre tutto il suo effetto, imperocchè in allora il popolo era ben più popolo, di quanto non sia oggidì. Diffatti, vero scopo di un anfiteatro, si è che il popolo vi serva di spettacolo a sè stesso, procuri a sè stesso soddisfazione.

Allorquando in una pianura succede qualcosa di straordinario, e tutti corrono a volerlo contemplare, gli ultimi arrivati cercano sollevarsi in ogni modo più in alto di quelli che vennero primi; si sale sui banchi, si conducono sul luogo carri, vi si fanno rotolare botti, che quindi si rizzano in piedi, vi si allogano sopra tavole, si sale sulle colline in vicinanza, e presto si forma uno spazio circolare, vuoto, a foggia di cratere di un volcano.

Se lo spettacolo si deve riprodurre frequentemente nello stesso luogo, non si frappone indugio a costrurre [p. 37 modifica]palchi leggieri per quelli i quali possono pagare; gli altri si aggiustano in quel modo che possono migliore, e sorge allora il compito dell’architetto, trovare mezzo cioè di dare soddisfazione a quel bisogno generale. Egli forma coll’arte un tale cratère quanto può più semplice perchè il popolo stesso ne debba formare l’ornamento. E quando lo vidde pieno di popolo dovette provare egli stesso stupore, scorgendo a vece della confusione, del disordine al quale era avezzo, a vece di tutti quelle teste vaganti quà e là, oscillanti; un tutto ordinato, riunito, che forma un complesso unico, ed il quale si sarebbe potuto dire animato da un solo spirito, ed avente vita propria. La semplicità dell’elisse è facilmente accessibile a qualunque occhio; ogni testa serve in quello al complesso, giova a formare un tutto, una cosa sola. Ora nel vedere un anfiteatro vuoto, non si ha misura per giudicarne la capacità, si ignora se sia vasto o ristretto.

I Veronesi meritano encomio per la buona conservazione di questo loro monumento. È costrutto di una specie di marmo rossiccio, il quale si degrada sotto l’influenza del tempo, e perciò è mestieri ristaurare quà e là di tempo in tempo i gradini, e poco per volta pare siano stati rinnovati tutti. Un iscrizione fa menzione di un Geronimo Maurigeno, e della diligenza somma da esso impiegata nella conservazione di questo monumento. Non si scorge più che una parte delle mura esteriori, ed io dubito sieno mai state ultimate. Le volte sotteranee, le quali sono aderenti alla grande piazza denominata il Brà vennero date in affitto ad artieri, ed è curioso vederli uscire fuori da quegli antri, ora popolati di bel nuovo.


Verona, il 16 Settembre.

La porta più bella della città sempre chiusa, ha nome di Porta Stupa, ovvero del Pallio. Vista da lontano quale porta, uso a cui non serve, non produce grande effetto; è d’uopo avvicinarvisi per riconoscerne il pregio [p. 38 modifica]architettonico. Si danno molte ragioni per ispiegare il motivo, per il quale sia rimasta sempre chiusa. Io ho fatta una conghiettura; ritenuto sia stata intenzione dell’architetto promuovere colla costruzione di quella porta una rettificazione del corso, imperocchè attualmente non si trova punto in direzione di quello. A sinistra esistono varie catapecchie, e sull’asse del centro della porta sorge un convento di monache, il quale fuor di dubbio nell’intenzione dell’architetto, era destinato ad essere atterrato. Si scorge ciò con evidenza, ed è pur anche possibile, che le persone ricche e distinte, non abbiano voluto venire fabbricare in questo quartiere, lontano dal centro della città.


Verona, il 16 Settembre.

Il peristilio del teatro, con sei colonne grandiose, d’ordine ionico, fa abbastanza buona figura. Appare quindi altrettanto più meschino il busto di grandezza naturale del marchese Maffei, con una grossa parrucca, il quale si vede superiormente, in una nicchia sostenuta da due colonne d’ordine corinzio. Il posto assegnato al busto è fuor di dubbio onorevole, ma perchè corrispondesse questo alla grandiosità ed all’imponenza delle colonne, avrebbe dovuto essere di proporzioni colossali. Quale ora si scorge, sopportato da una piccola mensola, appare meschino, e stuona con il complesso della facciata.

Parimenti la galleria la quale circonda il cortile anteriore è meschina, e le piccole colonne ioniche scanellate di quella, fanno una povera figura vicino a quelle ioniche, gigantesche e lisce. Si può però perdonare questo particolare, tenendo conto dell’uso convenientissimo che si seppe fare di quel porticato a colonne. Si allogarono ivi gli oggetti antichi, rinvenuti per la maggior parte a Verona, e ne’ suoi dintorni, ed anzi taluni vennero dissotterrati nell’anfiteatro stesso. Appartengono ai tempi degli Etruschi, dei Greci, dei Romani, al Medio evo, ed alcuni pure ai tempi moderni. I bassi rilievi sono incastrati [p. 39 modifica]nelle pareti, e portano il numero sotto il quale vennero descritti dal Maffei nella sua opera Verona illustrata. Sonvi altari, frammenti di colonne, ed altre antichità di tal natura; vi si scorge pure uno stupendo tripode in marmo, ornato di genii cogli attributi delle varie divinità. Rafaello lo prese ad imitare nelle pitture della Farnesina.

L’aura che spira delle tombe degli antichi è soave, quanto il profumo che emana da una collina piantata di rose. L’aspetto di quelle tombe non è mai cupo; spesse volte è commovente, e sempre poi pieno di vita. Ora si vede un uomo con sua moglie, i quali vi contemplano da una nicchia, quasi stessero alla finestra. Ora si vedono padre, madre, e fra mezzo a loro un figliuolo, i quali si stanno contemplando a vicenda, con naturalezza inarrivabile. Ora si scorgono marito e moglie, i quali si porgono la mano. Ora si vede un padre sdraiato sul suo letticiuolo, il quale sembra dare ascolto alla famiglia. Provai una vera soddisfazione a contemplare in vicinanza quelle sculture. Appartengono in buona parte alla decadenza dell’arte, ma sono semplici, e dotate di grandissima espressione. In una si scorge un uomo armato di tutto punto, inginocchiato, il quale attende la sua risurrezione con aspetto sereno. Quegli artisti riprodussero con maggiore o minore abilità l’aspetto delle persone, continuando l’esistenza di queste, e rendendola evidente. Tutte quelle figure non stendono le mani, non volgono gli sguardi al cielo, stanno colà quali furono, quali sono. Si direbbe che prendono interessamento le une alle altre, che si amano; e questi sentimenti sono rappresentati in quei sassi, con una certa abilità di mestiere. Uno stipite in marmo riccamente ornato, mi diede pure idee nuove.

Per quanto sia pregevole quella raccolta, si scorge però che non si attende a conservarla con quell’amore che presiedette al suo ordinamento. Il tripode pregevolissimo minaccia di andare in rovina per trovarsi isolato, ed esposto alle intemperie da ponente. Con un semplice riparo [p. 40 modifica]in legno, sarebbe facile assecurare la conservazione di quel capo lavoro artistico.

Il palazzo del provveditore, al quale si è posto mano, sarebbe, qualora lo si ultimasse, edificio di pregevole architettura. Continuano del resto i nobili a fabbricare; ma pur troppo ognuno sull’area dove sorgevano le antiche loro case, e pertanto spesse volte in vie anguste, ed anche attualmente si stà innalzando una facciata stupenda di un seminario, in una stradicciuola remota di un sobborgo.

Mentre stavo girando colla mia guida, passai davanti alla porta grande e di aspetto cupo di un edificio imponente, ed il mio cicerone mi domandò se non volessi entrare per un istante nella corte. Era quello il palazzo di giustizia, e per la grande altezza delle pareti la corte appariva ristrettissima. Il mio cicerone mi disse che ivi si custodivano tutti i malfattori, e gl’individui sospetti. Guardai attorno, e viddi le porte di molte stanze, le quali si aprivano su corridoi, chiusi da cancellate in ferro. Il carcerato, quando esce dalla sua cella per essere portato al tribunale, passa all’aria libera, ma si trova esposto agli sguardi di tutti gli altri; essendo poi quella ora nella quale sedeva il tribunale, si udiva ad ogni piano il romore delle catene. Era romore tutt’altro che piacevole, e confesso che non avrei quivi potuto mantenere l’allegria colla quale scrissi i miei uccelli.

Verso sera salii in cima all’anfiteatro, per godervi la bella vista della città, e dei dintorni. Mi trovavo colassù affatto solo, ed al basso, sull’ampia piazza del Brà, stavano passeggiando moltissime persone, uomini di tutte le condizioni, e donne del ceto medio. Queste, incapucciate nelle loro mantiglie nere, contemplate di lassù a vista d’uccello, avevano propriamente l’aspetto di tante mummie.

Il zendado del resto, è la veste che compongono tutta quanta la guardaroba delle donne da quelle classi, si è tal foggia di vestire la più appropriata ad una popolazione, la quale non si dà sempre pensiero della pulizia, [p. 41 modifica]e che deve comparire di frequente in pubblico, sia nelle chiese, sia a passeggio. La veste è una gonella di seta nera, che si sovrapone alle altre gonelle. Se quella di sotto è pulita, la donna sa benissimo rialzare da una parte la gonella nera. Questa è legata alla cintura, in modo da ricoprire le estremità inferiori del busto, il quale può essere di qualsiasi colore. Il zendado è un ampia cappa con lembi lunghi; la si fissa in cima al capo con uno spillone, ed i lembi si fanno girare a modo di una sciarpa attorno alla vita, in guisa che le loro estremità ricadano da tergo.


Verona, il 16 Settembre.

Allorquando tornavo questa sera dell’arena, trovai a poca distanza da quella uno spettacolo moderno. Quattro gentiluomini veronesi stavano giuocando al pallone, contro quattro gentiluomini vicentini. Dessi praticano quest’esercizio fra loro tutto l’anno, per due ore circa prima della notte, ma questa sera la presenza dei Vicentini, aveva radunata quantità grande di persone. Vi potevano essere da un quattro a cinque mille spettatori, però non viddi nessuna donna. Ho già descritto altra volta l’anfiteatro naturale che si va formando allorquando una folla è mossa del desiderio di vedere qualcosa, e prima di giungere sul sito, udivo i battimani col quale si faceva plauso ad ogni bel colpo. Il giuoco ha luogo in questo modo. Alla debita distanza sono collocati due leggieri tavolati in dolce pendenza. Colui il quale deve colpire il pallone, sta sulla estremità superiore del tavolato, colla destra armata di un bracciale in legno, a punte. Nel mentre un altro del suo partito gli caccia il pallone, egli si lancia con impeto contro questo, accrescendo per tal guisa la forza del suo colpo. Gli avversari tentano ricacciare il pallone, e così si fà in fino a tanto il pallone cade a terra. Si producono in quell’esercizio movenze, attitudini bellissime, meritevoli di essere scolpite in marmo. E siccome i giuocatori [p. 42 modifica]sono tutti giovani arditi, vigorosi, vestiti tutti ugualmente in corto ed interamente di bianco, portano, per distinguere i due campi combattenti, un segnale di colore. E singolarmente bella l’attitudine che prende il giuocatore, quando si lancia a corpo inclinato contro il pallone per colpirlo; ricorda in allora il gladiatore del museo Borghese.

Mi fece senso però il vedere questo giuoco in vicinanza di un antico muro della città, dove non vi era nessun comodo di sorta per gli spettatori, specialmente se persone distinte; perchè non si fa tal giuoco nell’anfiteatro, il quale vi si presterebbe pure cotanto?


Verona, il 17 Settembre.

Voglio far parola in breve dei quadri che ho visti, ed aggiungere alcune osservazioni. Ho intrapreso questo viaggio meraviglioso, non già per illudermi, ma bensì per la mia istruzione, e confesso sinceramente che poco conosco dell’arte, dello stile, della maniera dei pittori. La mia attenzione, la mia contemplazione, non possono essere dirette altro, che alla parte pratica, al soggetto in generale delle opere d’arte, ed al modo col quale furono quelli trattati.

La galleria di S. Giorgio contiene buoni quadri, quasi tutti pale d’altare, non già di uguale merito, però tutte pregevoli. Se non che, poveri artisti! Quali argomenti dovevano dessi trattare, e per chi! Una pioggia della manna, della lunguezza forse di trenta piedi e dell’altezza di venti. Il miracolo della moltiplicazione dei pani. Che cosa potevano dessi fare con tali argomenti? uomini affamati, i quali piombano sopra piccoli mucchi di grano; una turba sterminata, alla quale si porgono i pani. Gli artisti dovevano porre il loro ingegno alla tortura per rappresenture tali argomenti compassionevoli. Eppure il loro genio, spronato dalla necessità, riuscì a produrre opere pregevoli. Un artista il quale dovette rappresentare [p. 43 modifica]S. Orsola colle undici mille vergini, seppe cavarsi con molta abilità dalla difficoltà di quell’argomento. Si vede la santa sul davanti, in atto di trionfo, quasi si fosse impossessata di quella contrada. Essa è di aspetto nobile, più di amazzone, che fregiato di grazia giovanile di donna; in lontananza si vedono dipinte in piccole proporzioni le schiere delle vergini, le quali sbarcano dalle navi, e si avviano quasi processionalmente. L’Assunta del Tiziano nel duomo, è molto annerita dal tempo, però il pensiero è molto lodevole, imperocchè la Vergine non volge già lo sguardo al cielo, ma bensì verso la terra, sopra suoi divoti.

Nella galleria Gherardini ho trovato dipinti bellissimi dell’Orbetto, ed imparai ivi per la prima volta a conoscere quel maestro. Nei paesi lontani non si conoscono che i primi artisti, e spesse volte poco più del loro nome: nello avvicinarsi però a questi grandi luminari, si vedono brillare pure quelli di secondo e di terz’ordine; si ha l’aspetto di tutto il firmamento, si penetra appieno nel mondo dell’arte. Voglio lodare ora il pensiero di un quadro, il quale non presenta che due mezze figure. Si vede Sansone addormentato in grembo a Dalila, e questa, volgendosi alquanto in addietro, stende la mano verso un paio di forbici, le quali stanno sopra un tavolo, vicine ad una lampada. L’esecuzione è accuratissima. Nel palazzo Canossa vidi una bella Danae.

Nel palazzo Bevilacqua pure, si vedono quadri bellissimi. Un così detto paradiso del Tintoretto, il quale in sostanza però rappresenta l’incoronazione della Vergine, quale regina del cielo, circondata dai patriarchi, dai profeti, dagli apostoli, dai santi, dagli angioli, argomento atto allo sviluppo di un grande genio. La leggerezza del pennello, la vivacità e la varietà delle espressioni, sono meravigliose, producono la più grande soddisfazione. Sorge il desiderio di possedere quel quadro, per averlo di continuo sott’occhio. Quella tela porge idea dell’infinito, e le ultime teste stesse degli angioli, le quali si perdono [p. 44 modifica]nella gloria, hanno tutt’ora carattere. Le figure le più alte possono avere un piede di altezza; quelle dalla Vergine, e di Cristo, il quale pone in capo alla Madre la corona, sono dell’altezza di quattro piedi all’incirca. L’Eva si è la più bella figura di donna che si possa vedere, benchè forse di tipo alquanto sensuale.

Due ritratti di Paolo Veronese accrebbero di molto la mia stima per questo pittore. La collezione delle antichità poi è stupenda; vi si vedono la statua bellissima di uno dei figliuoli di Niobe steso a terra, parecchi busti, i quali, ad onta dei loro nasi ristaurati, porgono molto interesse, fra i quali un Augusto colla corona civica, un Caligola, ed altri.

È consentaneo alla mia indole ammirare tutto quanto è grandioso, bello; il provarne soddisfazione; ed il potere godere di questa nella contemplazione di oggetti pregevoli in ogni giorno, in ogni ora, costituisce a mio avviso il migliore di tutti i piaceri.

In una contrada dove si gode lungo la giornata, e specialmente durante le ore di del pomeriggio, diventa momento di grande importanza quello in cui scende la notte. Allora cessa il lavoro, si fa ritorno da passeggio, il padre vuole essere accertato che la sua ragazza è rientrata in casa; il giorno è finito; mentre noi, abitatori delle regioni settentrionali, sappiamo a mala pena che cosa propriamente sia il giorno. Immersi di continuo nell’oscurità e nella nebbia, ci è pressochè indifferente sii giorno o notte, imperocchè per quanto tempo possiamo noi prenderci spasso all’aperto cielo, all’aria libera? Qui per contro, quando scende la notte è finito il giorno, il quale consta del mattino, e della sera; suonarono le ventiquattro, si comincia una nuova numerazione delle ore; suonano le campane, si recita il rosario, la fantesca entra nella stanza colla lampada accesa, e vi augura la felicissima notte! Questo momento cangia in ogni stagione dell’anno, e l’uomo che qui vive, non può cadere in errore al riguardo, imperocchè ogni soddisfazione della sua esistenza [p. 45 modifica]non è regolata già delle ore, ma bensì dalla luce del giorno. Se si volesse costringere questo popolo a contare le ore alla nostra foggia lo si caccerebbe nella confusione, imperocchè il suo metodo è pienamente consentaneo alla sua natura. All’una e mezza, un ora prima della notte, comincia la nobiltà ad uscire a passeggio in carozza; vanno sul Brà, quindi per la lunga strada che conduce alla porta nuova escono di città, fanno un giro, ed allorquando scende la notte tornano a casa. Gli uni vanno nelle chiese dove si recitano le preghiere dell’Ave maria della sera; gli altri si portano sul Brà; i cavalieri si accostano alle carrozze, e si stanno intrattenendo per alcun tempo colle dame; io però non ho mai aspettato il fine di questa passeggiata o trattenimento, il quale si protrae anche a notte inoltrata. Oggi era caduta tanta pioggia che bastasse a smorzare la polvere, e la vista di quella riunione, era piacevolissima.

Per agevolarmi il mezzo d’impratichirmi del modo qui in uso di contare le ore, mi sono ideato un metodo pratico, come potrete ricavare dalla figura o disegno che unisco a questo foglio, e dalle dilucidazioni colle quali ho procurato di chiarirne il concetto.


Verona, il 17 Settembre.

È grande qui la frequenza, ed il movimento di popolo, specialmente in alcune strade, dove le botteghe di mercatanti, gli opifizi di artieri sono molti, e si seguono gli uni agli altri. Le porte di questi e di quelle sono continuamente aperte, e lo sguardo può penetrare liberamente nell’interno. Si vedono intenti al loro lavoro i sarti, i calzolai, ed anzi occupano dessi parte della strada, ridotta a laboratorio; alla sera poi, allorquando si accendono i lumi, lo spettacolo riesce propriamente animato.

Nei giorni di mercato la folla sulla piazza è grandissima, e l’occhio si può rallegrare alla vista di vere montagne di frutta, di legumi, di aglio, di cipolle. Tutti [p. 46 modifica]gridano, cantano, scherzano tutta quanta la giornata; si spingono, si urtano, fanno strepito, e ridono senza posa. Il clima temperato, il tenue prezzo delle derrate rendono la vita facile, e tutto ciò succede all’aria libera.

Il rumore ed i canti non cessano neppure del tutto, durante la notte. Si sente cantare in ogni strada la canzone di Marlborough, si odono, ora un salterio, ora un violino. Sanno imitare con un fischietto il canto di tutti gli uccelli; si sentono dovunque suoni, voci, meravigliose talvolta queste e quelli. La mitezza del clima consente questi spassi anche ai poveri, e l’aspetto del popolo vi guadagna.

Per altra parte poi, non possono a meno di recare stupore la sporcizia incredibile, la mancanza totale di ogni comodo nelle loro case; sono sempre fuori, e, trascuranti per natura, non pensano a nulla. Il popolo in fondo è buono, si contenta di poco; gl’individui del ceto medio vivono dessi pure alla giornata; i ricchi e le persone distinte si restringono a curare le loro abitazioni, le quali però sono lontane anche queste, di offerire i comodi dei paesi settentrionali. Le loro riunioni hanno luogo per lo più nei siti pubblici. Le corti, gli atri, le scale sono ripiene di sporcizie, e non vi si bada nè punto nè poco. Il popolo si ritiene dovunque a casa sua. Il ricco può essere ricco quanto vuole, può costrurre palazzi; il nobile può avere parte al governo, ma allorquando innalza un porticato, un peristilio, il popolo tosto se ne vale per ogni suo bisogno, e non ha altra premura che prenderne possesso al più presto e valersi con frequenza, di quello che ritiene suo diritto. Se taluno non lo vuole tollerare, allora non deve atteggiarsi a gran signore, vale a dire, deve rinunciare a che la sua proprietà abbia carattere pubblico, deve chiudere la sua porta, e nessuno vi trova a ridire. Il popolo continua ad esercitare suoi diritti negli edifici pubblici, e sono generali le lagnanze a questo riguardo dei forestieri in Italia.

Oggi osservavo nelle strade sotto vari aspetti il modo [p. 47 modifica]di vestire, ed il contegno degli individui specialmente del ceto medio, i quali erano numerosi e parevano occupatissimi. Muovevano tutti ambe le braccia nel camminare. Le persone di condizione distinta per contro, le quali in certe occasioni portano la spada, muovevano il solo braccio destro, siccome quelle che sono assuefatte a tener fermo il sinistro.

Tuttochè il popolo sia non curante ne’ suoi affari, ed in ogni cosa sua, tiene però aperto l’occhio sui forastieri. Potei osservare a cagion d’esempio che nei primi giorni tutti facevano attenzione a miei stivali, dacchè di questi, siccome calzatura troppo costosa, si fa uso qui durante l’inverno soltanto. Ora che esco di casa con scarpe e calze, nessuno più bada a me. Stamane poi per tempo, mi ha stupito che mentre tutti venivano dal mercato portando in mano un ricordo di quello, o fiori, o legumi, od aglio, tutti volgessero lo sguardo ad un ramoscello di cipresso, che portavo in mano, dal quale pendevano i frutti a foggia di quelli del pino. Inoltre, avevo alcune pianticelle di capperi in fiore. Tutti mi guardavano, uomini donne, ragazzi, e parevano trovare la cosa strana.

Avevo tolto quei rami nel giardino Giusti, il quale giace in un amena posizione, e dove sorgono cipressi giganteschi, a grande altezza, a forma di piramide. È probabile che nei tassi tagliati artificialmente in punta dei giardini del settentrione, si sia voluto imitare quest’albero stupendo, i cui rami tutti, giovani e vecchi, dalla base al vertice si drizzarno tutti verso il cielo. Desso vive non meno di tre secoli e si può pertanto dire meritevole di venerazione; giudicandoli dal tempo in cui fù piantato il giardino Giusti, questi avrebbero di già raggiunta quell’età rispettabile.


Vicenza, il 19 Settembre.

La strada che da Verona porta in questa città è molto amena. Si cammina verso i monti in direzione di [p. 48 modifica]settentrione e levante, lungo i contrafforti di quelli che si hanno costantemente a sinistra, formati di sabbie, di terre calcari ed argillose; su quelle colline sorgono villaggi, case, castelli, ed a destra si stende ampia e vasta la pianura. La strada bella, ampia, e stupendamente mantenuta corre a traverso fertili terreni, ne’ quali in mezzo a filari di piante corrono e ricadono in festoni i tralci delle viti, i quali in questi giorni piegano sotto il peso dei grappoli, oramai maturi. La strada ribocca di persone, di veicoli, e fra questi mi allietavo specialmente a rimirare i carri con ruote basse, piene, tirati da quattro buoi, i quali in grandi cassoni portavano le uve ai tini, dove queste si pestano, e si lasciano fermentare. Fra i filari degli alberi che servono di sostegno alla vite, il terreno è coltivato con ogni sorta di cereali, e specialmente a gran turco ed a sorgo.

Nello avvicinarsi a Vicenza le colline volgono di bel nuovo da tramontana a mezzogiorno; sono di natura volcanica a quanto mi si assicurò, e chiudono la pianura. Vicenza giace ai piedi quelle, e si potrebbe dire quasi in un seno, formato dalle stesse.


Vicenza, il 19 Settembre.

Sono qui giunto da quattro ore, ed ho percorso di già la città, e visti il teatro olimpico, e gli edifici del Palladio. Si è pubblicata ad uso e per comodo dei forastieri una piccola guida con incisioni, e con un testo scritto con gusto in materia d’arte. Nel contemplare quegli edifici si riconosce tosto il loro pregio, imperocchè traggono a sè l’attenzione per la loro grandezza e per la loro imponenza, e soddisfano ad un tempo lo sguardo, per la perfetta armonia delle loro dimensioni, nonchè per la prospettiva delle sporgenze, e delle parti rientranti. Intendo parlare degli edifici del Palladio, che qui si scorge ad evidenza essere stato propriamente uomo distinto. La più grande difficoltà colla quale egli ebbe a lottare, al pari di tutti gli architetti moderni, si fù il retto impiego [p. 49 modifica]degli ordini di colonne nell’architettura civile, imperocchè riunire mura e colonne, sarà pur sempre una contraddizione. Con quanta abilità non seppe egli superare cotale difficoltà! quanto non impone l’aspetto delle sue opere, e come si dimentica, ch’egli non ebbe altro in mira se non il farvi illusione! Si scorge veramente un non so che di divino nelle sue linee, armoniche quanto i versi di un gran poeta, il quale dalla verità e dalla menzogna sa trarre un terzo elemento affatto nuovo, il quale incanta, rapisce!

Il teatro olimpico si è il teatro degli antichi, ridotto a minime proporzioni, ma pur sempre d’inarrivabile bellezza; paragonato ai teatri moderni, direi fare quello la figura di un giovane di buona famiglia, ricco, stupendamente educato, a fronte d’uomo maturo d’anni, di origine meno distinta, meno ricco, meno colto, ma che sà meglio del primo quanto possa ottenere con i suoi mezzi.

Quando si considerano qui sul sito gli edifici stupendi eretti da quel genio, e che si scorge in quale stato li abbiano ridotti il sudiciume e la trascuranza, e come i progetti fossero spesse volte superiori alle forze di coloro i quali li intraprendevano, e come i monumenti di quell’ingegno eletto, poco corrispondessero alla vita usuale, allora si scorge che avvenne al Palladio pure, quanto avvenne ad altri, vale a dire che si ottiene poca gratitudine dagli uomini, quando si accrescono le loro pretese, quando si mira ad ispirare loro idea grande di sè stessi, a far loro comprendere la bellezza di una esistenza veramente nobile. Ma quando s’illudono gl’insulsi, quando loro si narrano favole, quando si cerca corromperli un giorno più dell’altro, allora si è grandi, allora si ottiene favore; e questa si è la cagione per la quale si scorgono cotanti sconci nell’età presente. Non dico questo già per fare torto a miei contemporanei; dico unicamente che sono tali, e che non havvi punto a maravigliarsi, se le cose tutte, vanno come vanno.

Non vorrei dovere esprimere come la basilica del [p. 50 modifica]Palladio sia un edificio quasi a foggia di castello, sopracarico di finestre disuguali, di cui non si riesce a comprendere il motivo, e debbo unicamente conchiudere, che anche qui pur troppo, trovo quanto io fuggo, e quanto io ricerco, l’uno accanto all’altro.


Il 20 Settembre.

Ieri sera sono stato all’opera, la quale durò fin dopo la mezzanotte, ed io non vedevo l’ora di venire a riposare. Tre sultane, ed il loro rapimento dal serraglio fornirono l’argomento di un libretto mediocrissimo. La musica non era cattiva, ma probabilmente di un dilettante; non vi ho trovato un motivo nuovo, il quale mi abbia colpito. Il ballo per contro era bello, e la prima coppia danzante ballò un’alemanna, propriamente graziosa.

Il teatro è bello, nuovo, di aspetto gaio, ornato con parsimonia, e tutto uniforme, quale si conviene ad una città di provincia: ogni palco ha le sue tende dello stesso colore tutte, e quelle sole del palco del Capitano Grande, sono alquanto più ricche.

La prima donna, la quale gode il favore del pubblico, è accolta con applausi ridicolmente esagerati, tutte le volte che compare sulla scena, e tutti quegl’imbecilli vanno fuori di sè per la gioia, ogni qualvolta la diva emette una bella nota, la qual cosa per dir vero, succede abbastanza frequentemente. Quella giovane ha naturalezza, fisionomia graziosa e piacevole, bella voce, contegno poi decentissimo; solo si potrebbe desiderare in lei maggiore grazia nel muovere le braccia. Del resto non tornerò più a vederla, ed a sentirla, che forse finirei per diventare imbecille io pure a mia volta, come tutti quegli altri.


Il 21 Settembre.

Oggi sono stato far visita al dottore Tura; egli si era occupato durante cinque anni con passione di botanica, radunando un erbario, della Flora italica. Coll’appoggio [p. 51 modifica]dell’ultimo vescovo, aveva cominciato a fondare un orto botanico; se non chè, di tutto ciò non rimane più traccia. L’esercizio pratico della medicina, ha distolto il bravo dottore da suoi studii di storia naturale; l’erbario trovasi abbandonato ai topi; il vescovo è morto, e l’orto botanico si scorge piantato di bel nuovo come di ragione, a cavoli ed aglio.

Il dottore Tura è propriamente uomo distinto; mi narrò con tutta semplicità e sincerità, e con pari modestia le sue vicende, esprimendosi con modi convenientissimi, ma non volle aderire al mio desiderio di aprirmi le sue scanzie, probabilmente per trovarsi queste in istato poco presentabile. La conversazione non tardò guari a languire.


Il 21 Settembre a sera.

Sono stato dal vecchio architetto Scamozzi, artista di vaglia, ed imaginoso, il quale ha pubblicata la raccolta delle opere del Palladio. Soddisfatto di scorgere il pregio in cui tenevo questi, mi fu cortese di alcune informazioni. Fra gli edifici innalzati dal Palladio, havvene uno per il quale egli nudriva predilezione, e che vuolsi fosse la sua abitazione, il quale visto da vicino, fa migliore figura di molto, di quanto non appaia nel disegno. Vorrei averlo potuto disegnare, e rappresentarlo colla tinta che gli hanno data la qualità dei materiali impiegati, ed il tempo. Non si deve già pensare che il grande architetto si fosse costrutto un palazzo per proprio uso. Si contentò di una casa modestissima, la quale ha soltanto due finestre, che si aprono in un largo campo, dove si scorge nel centro una terza finestra finta. Se la si volesse disegnare, con verrebbe aggiungervi le due altre case fra le quali sorge, e se ne potrebbe fare un quadro piacevolissimo, degno di essere dipinto dal pennello del Canaletto.

Oggi sono stato a visitare lo stupendo edificio denominato la Rotonda, il quale sorge sur una amena collina a mezz’ora di distanza dalla città. È di forma quadrata alla [p. 52 modifica]base, con una sala circolare nel centro, la quale riceve luce dall’alto. Vi si sale dalle quattro parti per mezzo di ampie gradinate, le quali portano ad altrettanti peristili, formati da sei colonne di ordine corinzio. Lo spazio occupato dalle gradinate, e dai peristili è maggiore di quello del resto dell’edificio, il quale, in tutti quattro i lati porge l’aspetto di un tempio. Nell’interno questo a tutto rigore si potrebbe dire abitabile, non però fatto per essere abitato. La sala è delle più belle proporzioni, come parimenti le stanze; ma il tutto basterebbe a stento per residenza estiva di una famiglia distinta. È grande la varietà di aspetto che porge il complesso dell’edificio, colle tre colonne sul primo piano; si gode da quell’altura vista stupenda delle contrade circostanti, ed il fondatore dell’edificio, il quale volle ad un tempo istituire un fedecomesso, ed un ricordo visibile della sua sostanza, raggiunse pienamente il suo scopo. E nella stessa guisa che oggi la Rotonda appare in tutta la sua splendidezza, da ogni punto delle campagne fra cui sorge, si gode da quella, vista piacevolissima di queste. Si scorgono il corso del Bacchiglione, le barche le quali scendendo da Verona si avviano verso la Brenta, e le ampie possessioni che il marchese Capra volle rendere inalienabili nella sua famiglia. L’iscrizione dei frontoni dei quattro lati, che forma un complesso, merita per dir vero di essere riprodotta

Marcus Capra Gabrielis filius
qui ædes has
arctissimo primogenituræ gradui subiecit
una cum ommnibus
censibus agris vallibus et collibus
citra viam magnam
memoria perpetua mandans hæc
dum sustinet ac abstinet.

La chiusa è abbastanza curiosa; un uomo possessore di cotanto larga sostanza, esprime l’idea che deve pure [p. 53 modifica]soffrire, ed essere sottoposto a privazioni. Si può imparare questa verità a minor prezzo.


Il 22 Settembre.

Questa sera sono stato ad una radunanza dell’accademia Olimpica. È questo un trattenimento, ma di buon gusto, e che mantiene tuttora alquanto di brio, e di vita nella città. Trovavansi radunati in una grande sala, vicina al teatro del Palladio, convenientemente illuminata, il capitano grande, molti nobili, parecchi membri del clero, ed un pubblico di persone colte, in complesso cinquecento persone all’incirca.

La quistone posta in discussione dal presidente per la seduta di questa sera era la seguente: quale avesse giovato maggiormente alle arti belle, e l’imaginazione, ovvero l’imitazione? Il tema era abbastanza felice, imperocchè, volendosi addentrare in quella quistione, e svolgerla sotto tutti i suoi aspetti, vi sarebbe materia a discorrere per degli anni; ed i signori accademici la trattarono a dovere, leggendo molte prose, e molti versi, fra cui vi erano parecchi scritti pregevoli.

Il pubblico prendeva viva parte alle letture, applaudiva, batteva le mani, sorrideva. Quanto non è del resto piacevole il potere comparire per tal guisa davanti ai propri concittadini. Ognuno dà per iscritto quanto sa di meglio; ognuno si adagia nel suo cantuccio, ed ivi rode quello che può.

Il nome del Palladio siccome era naturale, veniva ricordato ad ogni momento, sia che si trattasse d’imaginazione ovvero d’imitazione. Per ultimo dovendosi porre fine, siccome d’ordinario, alla seduta con un lavoro di genere giocoso, uno fra gli accademici ebbe l’idea felice di dire che gli altri avendo preso per sè il Palladio, egli voleva per contro lodare il Franceschini, il grande fabbricante di seterie. Cominciò a dimostrare come quel valent’uomo avesse preso ad imitare le stoffe di Lione e di Firenze, procacciando per tal guisa grande utile alla città di [p. 54 modifica]Vicenza; togliendo quindi da queste premesse a dimostrare la superiorità dell’imitazione sull’imaginazione, seppe svolgere l’argomento con tanta festività, da provocare un ilarità generale e costante. In complesso poi, incontrarono maggiore approvazione coloro i quali parlarono in favore dell’imaginazione, esprimendo pensieri ed idee più facilmente accessibili alla generalità degli uomini. Ed una volta il pubblico applaudì nel modo il più clamoroso un sofisma del tutto volgare, mentre lasciò passare inosservate, senza comprenderle, cose ottime, dette in favore dell’imaginazione. In fin del conto rimasi soddisfatto di avere assistito a quella seduta, e sovra tutto mi fece piacere sommo, lo scorgere venerato ed onorato, tuttora dopo tanti anni, il nome del Palladio, nella sua città natia.


Il 22 Settembre.

Arrivai stamane ancora per tempo a Tiene, il quale giace verso i monti, in direzione di settentrione, dove si stà restaurando un nuovo edificio secondo il disegno antico, del quale rimanevano poche traccie. Per tal guisa dura in queste contrade il culto del passato, e si ha senno bastante per innalzare un edificio nuovo, secondo un disegno antico. Il castello giace in bella posizione in una vasta pianura, e vi sorgono a tergo i monti, senza colline di sorta, nello spazio intermedio. Partendo dal castello in linea retta la strada è fiancheggiata da due canali di acqua corrente, che forniscono l’irrigazione ai campi che si stendono a destra ed a sinistra, coltivati a riso.

Non ho viste finora che due città italiane, e non ho parlato ancora con molte persone; però ritengo di conoscere già abbastanza gl’Italiani. Sono uomini cortesi, i quali ritengono essere il primo popolo del mondo, e che sanno menar vanto e trarre partito di certi pregi, che per dir vero, non si possono loro negare. In complesso poi gl’Italiani mi paiono una buona nazione; basta porre mente ai ragazzi ed alle persone del popolo, colle quali [p. 55 modifica]mi trovo di continuo a contatto, e che non manco mai di osservare attentamente. Quale bellezza poi, e quale nobiltà di fisionomie!

Devo fare particolare encomio poi delle Vicentine, presso le quali s’incontrano i pregi delle abitatrici di una grande città. Non badano a voi, per quanto facciate per fissare la loro attenzione; ma se loro indirizzate la parola, vi rispondono con grazia e cortesia, le donne maritate sovratutto. Non voglio però far torto alle Veronesi, sono ben fatte di corpo, ed hanno un profilo caratteristico, sono in generale pallide ed il zendalo non giova a farle comparire, imperocchè anche sotto il migliore costume, si cerca qualcosa di seducente. Qui poi ho trovato figure bellissime, e fra le altre, una brunetta ricciuta, la quale mi ha ispirato un interesse particolare. Vidi pure una bella bionda, ma non mi andò altrettanto a genio.


Padova, il 26 Settembre a sera.

Sono arrivato qui oggi da Vicenza in quattro ore, in un legnetto ad un posto solo, a cui danno nome di sediolo, senz’altra compagnia che la mia persona. Si può percorrere facilmente la strada in tre ore e mezza, ma volendo godermi all’aperta campagna una giornata stupenda, non feci ressa al vetturino, perchè mantenesse i suoi impegni. Si cammina in una pianura fertilissima, sempre in direzione di mezzogiorno e levante, fra siepi ed alberi, senz’altra vista, in fino a tanto poi sorgono a diritta monti bellissimi, i quali corrono da mezzodì a levante. La quantità di piante di frutta fra le siepi, sui muri, sotto gli alberi, non si può descrivere. Si vedono zucche le quali opprimono i tetti del loro peso, e cocomeri meravigliosi, i quali pendono dalle travi e dalle spalliere.

Dall’osservatorio ho potuto farmi un’idea della bellissima posizione della città. Sorgono a settentrione i monti del Tirolo, che si vedevano oggi confusamente, perduti in parte nelle nebbie, ai quali si uniscono i monti di [p. 56 modifica]Vicenza, e per ultimo si vedono a ponente i monti di Este, dei quali compaiono distinte le forme, e le valli. Fra mezzodì e levante si stende un mare di verzura, senza la minima eminenza del suolo; gli alberi succedono agli alberi; le piante alle piante, le siepi alle siepi; ed emergono solo da quell’oceano di verzura case biancheggianti, villaggi, e chiese. Vidi distintamente all’orizzonte la torre di San Marco di Venezia, ed altre torri e campanili di minore altezza.


Padova, il 27 Settembre.

Finalmente ho potuto trovare le opere del Palladio, non già l’edizione originale che avevo visto a Vicenza colle tavole incise sul legno, ma bensì una nuova edizione, anzi un fac simile della prima colle incisioni in rame, pubblicata per cura di un valent’uomo, il signor Smith, già console d’Inghilterra a Venezia. Convien pur dirlo, che gl’Inglesi da buona pezza sanno apprezzare il buono, ed il bello, e lo sanno pure diffondere in modo grandioso.

Per acquistare questo libro entrai in una bottega di libraio, le quali porgono in Italia un aspetto loro proprio. Tutti i libri trovansi disposti all’intorno, non legati, ma in brochure semplicemente, e nella bottega si trova tutto il giorno buona compagnia. Vi si radunano nobili, sacerdoti, artisti, tutti coloro in una parola, i quali prendono in qualsiasi maniera interessamento alla letteratura. Si domanda un libro, lo si rimette al suo posto, se ne vanno svolgendo i fogli, vi si fa la conversazione. Nell’entrare colà vi trovai un cinque o sei persone le quali tosto volsero tutte sopra di me i loro sguardi, allorquando udirono che io aveva fatta domanda delle opere del Palladio. E nel mentre il libraio stava cercando il libro, si volsero a me, mi diedero conto dell’edizione originale, di quella che cercavo, e mi parvero tutti al corrente dell’opere e dei pregi dell’autore, e ritenendomi per un architetto, mi lodarono di cercare a studiare di preferenza di [p. 57 modifica]ogni altro quel grande maestro, soggiungendo ne avrei ricavato maggior profitto che dallo studio dello stesso Vitruvio, imperocchè l’architetto vicentino aveva fatto studio profondo degli antichi e delle antichità, e cercato di adattarne i precetti ai bisogni dei tempi moderni. Mi trattenni a lungo con quei signori cortesissimi, dai quali ebbi varie informazioni intorno alle cose notevoli della loro città, quindi presi da essi congedo.

Dal momento che si costrussero le chiese, e che si dedicarono ai santi, si trovò in quelle adatta stanza per gli uomini distinti. Il busto del cardinale Bembo, di figura espressiva, meditabonda, con una folta barba, trovasi collocato fra due colonne di ordine ionico, e si legge sotto la seguente iscrizione:

Petri Bembi Card. imaginem hier. Guarinus ismeni f. in pubblico ponendam curavit ut cuius ingenii monumenta aterna sint, eus corporis quoque, memoria ne a posteritate desideretur.

L’edificio dell’università mi ha quasi spaventato, ad onta della forma di quella, colla sua imponenza, e mi rallegro di non avervi dovuto fare i miei studii. Non si può imaginare una tale ristrettezza di scuole quando si fu studente in un’accademia di Germania, tuttochè si abbia pure dovuto stare a disagio, sui banchi di quella. Il teatro anatomico specialmente, si può dire un modello dell’arte di pigiare gli scolari, gli uni contro gli altri. Gli uditori sono collocati gli uni sopra gli altri in una specie d’imbuto profondo, e ristretto. Devono gettare dall’alto i loro sguardi sullo spazio ristretto dove sorge la tavola, priva di luce, in guisa che il professore deve fare le sue dimostrazioni al lume di una lampada. L’orto botanico per contro, è grazioso, e di aspetto ameno. Molte piante vi possono stare all’aria aperta anche durante l’inverno, purchè si abbia la precauzione di collocarle contro un muro, od in vicinanza di questo, che le protegga dal soffio della tramontana. Si lavora all’aria aperta fino al fine di ottobre, e si fa fuoco per poche mesi nelle stufe. La è cosa piacevele ed [p. 58 modifica]istruttiva ad un tempo, il potersi aggirare fra mezzo ad una vegetazione affatto nuova, e sconosciuta. Nel vedere le piante, come tutti gli altri oggetti che si conoscono da buona pezza, non si pensa; e che cosa si è la contemplazione, senza il pensare? Qui, fra mezzo a tutta questa varietà, il pensiero trovasi in continuo esercizio, e sorge l’idea che tutte le varie specie di piante, possono pure aver avuta origine da una specie sola. Partendo da questo principio soltanto, rimane possibile determinare logicamente le varie specie, le varie famiglie, nella qual parte mi sembra per dir vero, abbia fin qui prevalso troppo l’arbitrio. Io mi sono impuntato in questo assioma della mia filosofia botanica, e non iscorgo modo di potermene francare. Questa scienza è altrettanto vasta, quanto profonda.

La piazza maggiore della città denominato Prato della Valle, è ampissima, ed ivi nel mese di giugno si tiene la fiera. Vi sono per dir vero nel centro catapecchie in legno, di tutt’altro che bello aspetto; se non che mi si assicurò, che fra poco verrà ivi costrutta una fiera in muratura come quella di Verona, e già si scorgono attorno alla piazza le fondazioni di portici, i quali promettono far buonissima figura.

Si scorge in quella uno spazio di forma elittica, circondato da statue d’uomini illustri, i quali, o nacquero a Padova o coprirono una cattedra nell’università di questa. È permesso a qualunque cittadino padovano o straniero, innalzare in quella località una statua di una certa altezza prestabilita, ad un congiunto o connazionale; basta che sia provato il merito della persona, non che lo avere dessa appartenuta all’università locale. Quello spazio elittico è circondato da un fossato ripieno d’acqua, e sui quattro ponti sovraposti a questo sorgono statue colossali di Papi o di dogi; le altre di proporzioni minori, furono eretti da corporazioni, da stranieri, e da privati. Il re di Svezia vi fece allogare la statua di Gustavo Adolfo, a motivo dell’avere questi, a quanto si assicura, ascoltata una [p. 59 modifica]volta una lezione nell’università di Padova. Il gran duca Leopoldo vi eresse le due statue di Petrarca e di Galileo. Tutte quelle statue sono opere pregevoli di scultori moderni, alcune forse alquanto manierate, improntate però di molta naturalezza, tutte poi nel costume del tempo a cui appartengono, non che colle insegne delle dignità sostenute dalle persone che rappresentano. Anche le inscrizioni sono in generale degne d’encomio; nulla vi si rinviene di esagerato, o di puerile.

Questo pensiero sarebbe stato felice in qualsiasi università; in questa poi si deve dire felicissimo, imperocchè la si può gloriare di uno splendido passato. In complesso, questa piazza sarà bellissima, allorquando vi si saranno atterrate le catapecchie in legno che la deturpano, e vi si sarà sostituita la fiera progettata in muratura.

Nell’oratorio di una confraternità la quale ha S. Antonio per patrono, esistono quadri antichi, i quali ricordano l’antica scuola tedesca, e vi si vedono pure alcuni dipinti del Tiziano, nei quali si possono già riconoscere i progressi fatti dalla pittura, dei quali non è possibile avere idea, a chi non ha varcate le alpi. Vidi pure colà alcuni quadri moderni, e se i loro autori non seppero raggiungere nelle loro opere il sublime, valsero però a dare loro una certa grazia. La decapitazione di San Giovanni del Piazzetta, quando si voglia ammettere la maniera di quel maestro, si può dire in quel senso un capo lavoro. Il santo è rappresentato curvo, col ginocchio diritto che posa sopra un sasso, e colle mani giunte. Il suo sguardo è rivolto al cielo. Il manigoldo, il quale lo tiene legato da tergo, si piega, e guarda il santo nella fisionomia, quasi attonito della rassegnazione di questi. Più in alto sta un altro manigoldo, destinato a portare il colpo, il quale però non tiene ancora la scure, ma fa colla mano il gesto di provare prima il colpo. Un terzo manigoldo, estrae la sciabola dal fodero. L’idea del quadro è felice, quantunque non si possa dire grandiosa, ed in complesso, il dipinto colpisce. [p. 60 modifica]

Nella chiesa degli Eremitani viddi alcuni quadri del Mantegna, uno dei più antichi pittori, i quali mi recarono propriamente meraviglia. Non si può dire quanta evidenza, quanta verità vi sia in quei dipinti! Da questa verità, la quale nulla ha di apparente, di convenzionale, ma che parla soltanto all’imaginazione tuttochè sotto forme alquanto dure, stecchite, le quali hanno per avventura un non so che di stentato, trassero le loro origini i pittori che vennero dopo, quali io li avevo veduti già nelle opere del Tiziano, ed allora la forza del loro genio, l’energia della loro natura, illuminate dal genio dei loro predecessori, sostenute dalle loro proprie forze, valsero a sollevarli a grado a grado dalla terra, ed a renderli capaci di produrre figure propriamente celestiali. Tale si fù lo sviluppo dell’arte in Italia dopo i tempi della barbarie.

La sala d’udienza del palazzo municipale, denominata a buon diritto il salone, si è lo spazio chiuso il più vasto che si possa imaginare, e tale, che è duopo averlo visto, per potersene formare un idea. E lungo trecento piedi, largo cento, e l’altezza della volta nel centro è parimenti di cento piedi. Queste popolazioni sono talmente assuefatte a vivere all’aria libera, che l’architetto ideò di chiudere e di coprire una piazza, la quale potrebbe servire per tenervi un mercato. E fuor di dubbio che questa immensità produce grandissimo effetto. Si accosta all’idea dell’infinito, la quale è consentanea all’uomo, quanto quella del firmamento. Questa ci fa uscire dalla nostra cerchia, quella dolcemente vi ci respinge. Mi trattenni pure volontieri nella chiesa di S. Giustina, della lunghezza di quattrocento ottanta piedi, larga ed alta in proporzione, di bella e semplice architettura. Questa sera mi collocai in un angolo di quella, ed ebbi campo di abbandonarmi alla più tranquilla meditazione, trovandomi totalmente solo, imperocchè nessuna persona al mondo, la quale per avventura avesse pensato me in quell’istante, non avrebbe mai imaginato per certo, trovarmi colà.

Ed ora convien pensare a disporre la mia partenza, che [p. 61 modifica]domattina, di buonissima ora, mi devo imbarcare sulla Brenta. Oggi qui ha piovuto, ma il tempo si è rasserenato, ed io spero di potere contemplare le lagune, la signora e sposa del mare alla luce di uno splendido sole, e mandare d’in grembo a quello, un saluto di cuore a miei amici.