Saggi critici/Le «Contemplazioni» di Victor Hugo

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Le «Contemplazioni» di Victor Hugo

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Le «Contemplazioni» di Victor Hugo
La «Fedra» di Racine A' miei giovani. Prolusione letta nell'Istituto politecnico di Zurigo
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LE «CONTEMPLAZIONI»

di Victor Hugo.


— Francesi, lasciate la Borsa e le feste, abbandonate la vostra tumultuosa Parigi, e seguitemi: io vi menerò meco in campagna. Udiamo il canto degli uccelli, lo stormir delle fronde, il mormorare delle acque, le cento voci della natura: o, se vi piace meglio, rientriamo nelle nostre case e rifacciamoci fanciulli; riafferriamo i cari momenti cosí presto fuggiti del nostro passato, contempliamoci quali fummo ne’ nostri figliuoli e dilettiamoci de’ loro diletti; cogliamo un fiore, diamo la caccia alle farfalle; parliamo con gli uccelli...— Che cosa vuole da noi questo poeta? La poesia è morta, — mormora ciascuno, e ciascuno lo segue. Gran mago ch’è questo Victor Hugo! — Affacciatevi: passa Canrobert. — Lasciatelo passare; io leggo «Rosa1»; questa paginetta vale tutta la guerra di Crimea.

— Non andiamo quest’oggi al battesimo? Vi saranno ottanta vescovi con le loro mitre gemmate, co’ loro ornamenti di oro.

— Lasciatemi stare, amico mio; vescovi, cardinali, non valgono per me i raggi di questa margherita2 «Et moi, j’ ai de rayons aussi!» — «Vive l’Empereur!» — Ed io griderei: Viva il «Maestro del villaggio3»!; la corona, onde lo ha cinto il poeta, luce piú che tutte le corone imperiali. — Che hai, Teresa, [p. 24 modifica]che non puoi prender sonno? — Ohimè, «Chiara4» mi toglie il sonno. — Sei matta, Virginia; perché piangi? — Quel povero Charles Vacquerie!5- — Madre, a che pensi? — Penso al Revenant6. — Giovinetto, cosa cerchi con l’occhio? — Cerco mademoiselle Lise7 — E tu, che cosa ti passa pel capo, con quel tuo volto di cimitero? — «Oh! que le gouffre est noir et que l’œil est débile!8» — Gustavo Planche, perché cosí irritato?

— Chiamare Victor Hugo il Pindaro francese! — Che ti è avvenuto, Luigi Veuillot, che hai la faccia verde? qualche articolo contro il re di Napoli, o la nota al Papa? — Hai letto le Contemplazioni, mio caro? Bestemmie ed eresie. E quarantamila esemplari venduti! È la fine del mondo! — Marchese, ebbene?

— Chi avrebbe creduto che il poeta della Vandea dovesse mettersi cosí sotto i calcagni re e marchesi! il mondo finisce, mio caro. — Ponsard, questa mattina sei di una gravitá piú che accademica! — Contemplazioni di qua, Contemplazioni di lá! Mai quest’uomo non si è messo tanto sotto i piedi il dizionario e la grammatica e il buon gusto e i buoni principii. Oh! il mondo se ne va! —

In mezzo a tanto sonno di anime, se alcuno con ghigno ironico domandi: — Dov’è la Francia? — , un francese potrá gettargli in viso le Contemplazioni, e dirgli: — Guarda! noi siamo vivi ancora! — . Generoso nemico, Victor Hugo ha preso sotto la sua protezione il regno di Luigi Napoleone, e lo ha irradiato della sua luce. E in veritá, quando lo storico futuro andrá cercando in quel fondo nero qualche punto luminoso, il gioiello ch’egli troverá intorno alla imperiale corona, sará non il Due Dicembre, non Roma, non Sebastopoli, ma le Contemplazioni.

Questo libro mi è giunto nella mia solitudine, e, non so, ma mi è parso il mio libro, la mia voce interiore, giunta ad un’altra [p. 25 modifica]anima e rimandatami piú bella, musica, di cielo. «Ma mère morte, ma fille morte...». Ohimè! quale di noi, infortunata generazione, non potrebbe, crollando il capo, ritrovare nella sua memoria questa funebre lista? Mia madre morta, mia sorella morta. E dove sei tu, o Luigi9? E chi mi ti rende, o Fedele10? Giovanezza, amore, gioia, sono per molti una memoria, e per taluni, piú felici ancora, un desiderio senza speranza. Il ’48 ha imbianchite le teste dei giovani, ed ha loro detto: — Il libro del vostro avvenire è chiuso; vivete di memorie, vecchi a trent’anni: in un anno solo io ve ne ho raccolte tante, quante nessuno ne troverá in tutta la sua vita. — E quando, dispersi per la terra e attirati da nuovi oggetti, vorrete farvi da capo crearvi una vita nuova, io mi attaccherò a voi e vi griderò: — Indietro! voi siete uomini morti; voi non avete domani — . In questo libro le nostre anime si lamentano; di tanti dolori, di tanti ignorati martini qui è l’eco sonora; dai l’ergastolo, dalle prigioni, dai patibolo, dall’esilio partono mille lugubri suoni, che qui si raccolgono, funebre musica11.

Indietro dunque! accettiamo le consolazioni che il poeta offre a sé, e ad altrui, e viviamo di memorie. «Autrefois!». Di rimembranza in rimembranza, di dolore in dolore, giungiamo alla nostra etá fiorita, quando per noi il cielo era ancora azzurro ed il prato ancor verde: a ciascuna pagina di queste poesie è attaccata una nostra memoria, un fantasma, che ci si leva ritto dinanzi, e ci dice: — Ti ricordi? — . E noi benediciamo la poesia, che con un tratto di penna ci apre il regno della morte ed evoca le ombre de’ nostri cari.

La poesia! — Ella è morta, si mormora intorno. Su tutta la superficie del globo non trovi piú un popolo poetico. Dov’è la poesia? Il tempio è crollato; la casa è abbandonata; la cittá è un mercato; ciascuna idea, che ha fatto palpitare i nostri padri, è crocifissa dagli oppressori e negata dagli oppressi; i pochi [p. 26 modifica]credenti sputacchiati; chi li chiama bambini e chi matti; a poco a poco dubitano anche essi e dicono: — Libertá, virtú, Dio, popolo, scienza, poesia; sarebbe forse un’illusione? avremmo noi ragione, quando tutto il mondo ci grida: avete torto? — ; e negano anch’essi, e Lamartine, lo stesso Lamartine, nega la poesia. Che cosa fará il poeta, rimaso solitario e senza eco? dove incarnerá i suoi fantasmi? quale forma è restata intatta? Alcuni ci si ostinano, e addentrano le mani in questo putridume, stracciando le viscere di un Prometeo morto. Gl’inganna il simulacro di vita; gli occhi sono aperti ancora, ma ne è partita l’anima: Prometeo è ben morto. Ne’ loro versi vi è tempio, ma senza Dio; vi è la cittá, ma senza idea; vi è la famiglia, ma senza sentimento; vi è il sole, ma senza luce; al di sotto de’ versi sonori vi è Mefistofele, che risponde con un lungo riso. Se vogliamo incontrare ancora un poeta, rifacciamo il cammino dell’umanitá, e di forma in forma, di tomba in tomba, giungeremo a quei formidabili inizii, quando Venere non era ancora uscita dal grembo della natura, quando la forma non era ancor nata; lá troveremo l’uomo faccia a faccia con l’infinito, nudo e solitario anch’esso; lá incontreremo Leopardi, Goethe e Byron; lá incontreremo Victor Hugo.

L’infinito è il motto del poeta moderno; è la parola con la quale ricomincia ogni nuova Gerusalemme, il Verbo di Mosé e di Dante, il «potere ascoso» del Leopardi:

                     Le muet Infini, sotnbre mer ignorée12.                     

Victor Hugo lo chiama «Jéhovah», lo sconosciuto, il silenzioso, l’Enigma posto come enigma: queste sette lettere sono:

                     Les sept astres géants du noir septentrion13.                     
[p. 27 modifica]«Je veux voir Jéhovah», domanda il poeta di Patmos:
                                         Enfin, Jean arriva;
Il vit l’endroit sans nom dont nul archange n’ose
               Traverser le milieu,
Et ce lieu redoutable était plein d’ombre, á cause
               De la grandeur de Dieu14.
                    
Dio apparisce a Dante in mezzo ad un oceano di luce; apparisce a Victor Hugo in mezzo ad un oceano d’ombra. L’umanitá di Dante era giá nata; quella di Victor Hugo è ancora un enigma, è ancora «Jéhovah», è l’Apocalisse.

Al di sotto di «Jéhovah» si svolge la creazione, mistero anch’essa. La natura è mistero, l’uomo è mistero.

                     La chose est pour la chose ici-bas un problème.
L’être pour l’être est sphinx. L’aube au jour paraît blême;
          L’éclair est noir pour le rayon...

La cendre ne sait pas ce que pense le marbré;
L’écueil écoute en vain le tíot; la branche d’arbre
          Ne sait pas ce que dit le vent...

Toujours la nuit! jamais l’azur! jamais l’aurore!
Nous marchons. Nous n’avons point fait un pas encore!
          Nous râvons ce qu’ Adam rêva;

La création flotte et fuit, des vents battue;
Nous distinguons dans Tombre une immense statue
          Et nous lui disons: Jéhovah15.
               

Che cosa è questo mistero? È la contraddizione eterna, la coesistenza inesplicabile del bene e del male, della luce e delle tenebre, dello spirito e della carne; è l’eterno Giobbe, che rinnova [p. 28 modifica]il suo lamento nei momenti di dolore dell’umanitá o degl’individui. Il mistero chiude al di dentro di sé un’antitesi, il cui termine superiore conciliativo è «Jéhovah», «une immense statue dans l’ombre», anch’esso un enigma.

                                    Oui, mon malheur irréparable,
C’est de pendre aux deux éléments,
C’est d’avoir en moi, misérable,
De la fange et des firmaments!

Hélas! hélas! c’est d’être un homme;
C’est de songer que j’ étais beau,
D’ignorer comment je me nomine,
D’être un ciel et d’étre un tombeau16!
                              
                          L’être éternellement montre sa face doublé,
               Mal et bien, giace et feu;
L’homme sent á la fois, âme pure et chair sombre,
La morsure du ver de terre au fond de l’ombre
               Et le baiser de Dieu.
                    

Fango e firmamento, cielo e tomba, ecco l’antitesi riprodotta dal poeta sotto mille forme.

Victor Hugo non è giunto di un salto a questo genere di poesia: il dolore è stato la sua musa, e gliene ha dato la piena coscienza.

Il dolore, come ritempra l’animo, cosí rinfresca l’ingegno. Ogni giorno di vita toglie un fiore al nostro mondo poetico, insino a che inaridisce. Il poeta allora esausto ripete sé stesso; non gli si presentano piú innanzi le cose, ma frasi e parole, e nasce la maniera. Le anime piú ricche sentono il bisogno di rinfrescare le loro impressioni, di ringiovanire il loro mondo interiore.

Il dolore è il Colombo che apre al poeta un mondo nuovo. Egli gitta l’anima in una diversa situazione, e le muta gli occhi, [p. 29 modifica]si che ella vegga le stesse cose sotto nuove forme o nuovi colori. Nelle supreme sventure l’uomo vede come scomparire il suo antico me, dal tumulto del mondo esteriore si ritira in sé stesso. Che cosa sono gli uomini, quando in mezzo a loro non trovo i miei cari? che cosa è il cielo quando non veggo ridere in esso il mio cielo, il cielo del mio paese? L’universo è vuoto; il cuore è un sepolcro; e le immagini, con le quali io mi domestico, sono le tenebre e la morte e l’eternitá e l’infinito: l’enigma della vita mi s’affaccia in tutta la sua serietá. O Victor Hugo, io ti comprendo.

La vita di Victor Hugo è stata tutta esteriore; la sua anima erasi versata al di fuori con abbandono; amava il tumulto e lo spettacolo; egli era nato per vivere a Parigi. Mobile, battagliero, irrequieto, cercatore di lotte, vago di commozioni; e tutto sparve! Ed eccolo lá, solitario su di uno scoglio, circondarsi anch’egli di spettri e di ombre, e interrogare il Destino: — Che cosa è la vita? che cosa è la morte? onde veniamo? dove andiamo? — . Quando il dolore lo ha percosso, egli ha sentito fremersi al di dentro l’anima di Giacomo Leopardi; ed il voluttuoso poeta delle Orientali è divenuto il poeta dell’infinito. Certo, nelle sue antiche poesie bene incontriamo qua e lá come lampi le stesse immagini, ma sono fantasmi fuggevoli, fantocci coi quali il poeta scherza un momento per rigettarsi nel tumulto della vita; l’eternitá si affaccia appena, e giá si ritira di mezzo al mondo mobile delle passioni, dove il poeta si obblia. Ora tutte le corde si sono spezzate, ed è rimasa una sola, malinconico ritornello, che fa di tutto l’universo il suo eco:

                          Nous avons devant nous le silence immobile.
Qui sommes-nous? ou sommes-nous?
                    

D’oú viens-tu?— Je ne sais.— Oú vas-tu? — Je l’ignore.

L’homme est lancé. Par qui? vers qui? Dans l’ínvisible17. [p. 30 modifica]Il poeta non rimane però nell’angoscia del mistero. La preghiera, candido fantasma, gli edifica il ponte, sul quale dee passare nell’abisso del muto infinito:

                          Qui n’a pas de rivage et qui n’a pas de cime18;                     
ed ei vi si gitta ardito sulle ali della fede, dell’amore, della libertá, della giustizia, per rubare alla natura il suo segreto.
                                    L’homme en cette époque agitée.
     Sombre océan,
Doit faire comme Prométhée
     Et comme Adam.

Il doit ravir au ciel austère
     L’étemel feu;
Conquérir son propre mystère,
     Et voler Dieu.

Les lois de nos destins sur terre,
     Dieu les écrit;
Et, si ces lois sont le mystère,
     Je suis l’esprit.

J’irai lire la grande bible;
     J’entrerai nu
Jusqu’au tabernacle terrible
     De l’inconnu19.
                              
Nel primo entrare tutto è tenebre: è l’inferno dantesco. Il mistero si leva giá, e n’esce fuori il lugubre grido: «Pulvis el umbra».
                          Sais-tu pourquoi tu vis? sais-tu porquoi tu meurs?..                     
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                          L’homme est á peine né, qu’ il est déjá passé,
Et c’est d’avoir fini que d’avoir commencé.
Derrière le mur blanc, parmi les herbes vertes,
La fosse obscure attend l’homme, lèvres ouverts20.
                    
Il quadro si fa sempre piú fosco. L’ira del Signore scoppia sulle colpe umane.
                          — ... Seigneur, jugez oú nous en sommes.
Considérez la terre et regardez les hommes.
Ils brisent tous les noeuds qui devaient les unir — .
Et Dieu m’a répondu: — Certes, je vais venir — 21.
                    
Al cospetto dell’Infinito che cosa è l’uomo? «Fange et pournture! — Nous sommes le néant! Orgueil! Vanité!» ecc.22
                          Nous voulons durer, vivre, être éternels. O cendre!
Oú donc est la fourmi qu’on appelle Alexandre?
     Oú donc le ver César?...

A l’istant oú l’on dit: Vivons! tout se déchire.
Les pleurs subitement descendent sur le rire23.
                    
Questo lamento funebre sulla morte delle cose umane e sul mistero del mondo accompagna il poeta in mezzo alle tombe, ai cimiteri, ai cadaveri, agli abissi dell’eternitá, con tutti gli accessorii, insino a che le immagini si raddolciscono intorno alla fronte di Chiara, fanciulla che viene di cielo e torna in cielo. Il dubbio, la disperazione e la bestemmia scompariscono innanzi a questa morta; il sepolcro si trasforma in eden, il cielo si rasserena; la morte diviene il principio della vita.
                     Quand nous en irons-nous? quand nous en irons-nous?                
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                     Quand nous en irons-nous, oú sont l’aube et la foudre?
Quand verrons-nous, déja libres, hommes encor,
Notre chair ténébreuse en rayons se dissoudre,
Et nos pieds faits de nuit éclore en ailes d’or24?
               
La fantasia alza il poeta fra mondi celesti; altre stelle, altri soli gli folgorano avanti25; a poco a poco si sente riconciliare con la terra; tutto è vita e amore26; il buio si dissolve; il cadavere sorride, e dalla morta carne spunta la vita27; ed ecco Beatrice 28, la Beatrice velata del Purgatorio; il mistero si comincia a intravvedere, la Beatrice non è ancora intelligenza, ma è giá sentimento, amore.
                                    Mais tu ne veux pas qu’on te voie;
Tu viens et tu fuis tour-á-tour;
Tu ne veux pas te nommer joie,
Ayant dit: Je m’appelle amour.
                              
Alla lunga bestemmia dello scettico29, il poeta contrappone la rassegnazione, la religione e la speranza30; l’uomo cammina nel buio, ma sente che cammina verso l’azzurro31; una «énorme obscurité... enveloppe... les morts et les vivants»; ma il sapiente dall’alto della collina guarda un punto bianco verso l’orizzonte, e
                          Dit en montrant ce point vague et lointain qui nuit:
Cette blancheur est plus que toute cette nuit32!
                    
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L’enigma avanti al sapiente si squarcia, prete, genio, pontefice33.

                          Ainsi s’entassent les conquêtes,
Les songeurs sont les inventeurs...

Le genre humain marche en avant;
Il marche sur la terre; il passe,
Il va, dans la nuit, dans l’espace,
Dans l’infini, dans le borné,
Dans l’azur, dans Tonde irritée,
A la lueur de Prométhée,
Le libérateur enchaine!
                    

Succede la rivelazione; i misteri dell’infinito si aprono innanzi all’intelligenza; il poeta vi vede al di dentro una specie di metempsicosi compiuta dalla palingenesi universale34.

Tale è il disegno. Hai dapprima le ingenue gioie della prima etá, gli ardori della giovinezza, festa nell’anima, festa nella natura (lib. I e II). Succedono le lotte e le passioni dell’etá virile; la realtá comincia a pesarci addosso, ma raddolcita ancora dagli amabili sogni della resistente fantasia (lib. III, Luttes et rêves). E viene il tempo della sventura e del disinganno; l’anima atterrita si ripiega sui giorni che non sono piú care rimembranze, e si abbandona a’ piú teneri lamenti (lib. IV). Ma le lagrime inaridiscono; gittiamo da noi ogni conforto, ogni speranza; il dubbio germoglia nel cuore; la bestemmia spunta sulle labbra; tenebre nell’anima; tenebre nella natura (lib. V). La vita cosí rappresentata è un’antitesi misteriosa, bene e male, riso e pianto, vita e morte. L’antitesi o il mistero si pone con una coscienza straziante nel libro VI, e si allarga alle universe cose; il dolore geme nell’albero, la lagrima stilla dalla pietra; la natura terrena è una sola anima in diverse forme, che mette dappertutto lo stesso lamento; in ogni essere vi è dell’uomo. Fra tanto buio l’intelligenza intrawede lontano lontano un [p. 34 modifica]punto bianco sull’orizzonte; un raggio dell’avvenire illumina la miseria presente; la fantasia, dalla terra, da questo luogo del castigo e dell’espiazione, si alza alla contemplazione dei cieli; in ogni astro trema un nostro desiderio; in ogni sole brilla una nostra speranza; ed il poeta vede l’enigma dissolversi in quelle miriadi di luci, e vagheggia la gloriosa trasfigurazione delle anime dopo la lunga trasmigrazione.

Con questa tragedia dell’umanitá, il poeta ha innestata la sua tragedia. Non leggi tranquille meditazioni; sotto a ciascun pensiero vi è una lagrima; da ogni verso gronda sangue. Sulla prima pagina trovi: À ma fille; sull’ultima: À celle qui est restée en France. Il pensiero che anima tutta la poesia è fatto persona in costei. Noi ce la vediamo crescere avanti agli occhi, e ci affezioniamo a questa cara fanciulla, che diviene la nostra fanciulla. E se ne’ primi libri il mondo ci pare una festa, gli è perché regina della festa è costei; se tutto è «joie, innocence, espoir, bonheur, bonté»; se

                     Tout regorge de sève et de vie et de bruit,
De rameaux verts d’azur frissonnant, d’eau qui luit35,
               
gli è perché ci sta accanto «la grande soeur et la petite soeur»; ed elle ridono e il mondo ride con loro. E se il mondo ci si annebbia, gli è perché siamo rimasti soli; e se dentro di noi ci è qualche cosa che piange, e se ci pare che tutto pianga con noi, gli è ch’ella ci ha lasciati, gli è che cerchiamo e non ritroviamo piú la nostra fanciulla. Ella si porta seco nella tomba la nostra giovinezza, le nostre gioie, il nostro universo, il nostro cuore. È lei il vero protagonista di questa Divina Commedia.

Ma il poeta ha un bel fare! Un bel parlare di angeli e di «Jéhovah» e di trasfigurazione e di cieli! Vi è qualche cosa qui che ci tiene fitti in terra; vi è una vena di pianto inesausto, senza consolazione: vi domina lo sconforto e il mistero. La sfinge vinta in Grecia e in Roma risorge piú oscura; invano il [p. 35 modifica]poeta prende un’aria rassegnata e si affida alla preghiera; invano passeggia di astro in astro con mentita gioia, con simulato lirico entusismo; la Musa cosí liberale di pianto gli è avara di conforti; gli è come un dormente che sogna di fuggire e le gambe gli negano il correre; il riso rimane sulle labbra, il cuore piange al di dentro. Ben la fantasia mette le ah e spicca il volo verso i mondi della luce; ma qualche cosa di pesante sta attaccato a quelle ah che le tira giú in terra, in mezzo alle nostre tenebre; e la sfinge, nuovo Anteo, tocca appena la terra, ripiglia le sue forze seguita dal dolore, dal dubbio e dalla disperazione. Tale è l’impressione generale di questo libro. Il sentimento lotta col concetto. Il filosofo dice: — Rassereniamoci, consoliamoci, guardiamo il cielo — ; il poeta seguita a piangere e guarda un cadavere.

Gli è che l’occhio vede piú deha ragione. L’occhio sta fiso in un cadavere, e la ragione, nelle sue contemplazioni, spaziando pe’ cieli, è accompagnata da una voce che le dice: — Tutto questo è «réverie» — . Non vi è fede, non vi è unione, e non vi è convinzione. Se leggete pochi versi del Leopardi, vi sentite subito invadere da un fremito, qualche cosa di freddo vi corre per le ossa: il che nasce dalla terribile serenitá della sua convinzione.

In mezzo al vuoto in che è caduto lo spirito umano, il poeta ha sentito il bisogno di crearsi una filosofia provvisoria. Non l’ha attinta da’ libri, non dalle speculazioni de’ filosofi. Si è abbandonato al suo buon senso, alla sua ragione, aggiuntovi un grande lavoro di fantasia. E ne è uscito quello che dovea uscirne: una strana e anarchica mescolanza, dove si vede l’uomo di questo secolo, il francese e Victor Hugo; il cattolicismo sotto il braccio del panteismo e «Jéhovah» che porge la mano ad Hegel; un Dio personale che fa atto di presenza e vi sta per cerimonia, con di sotto a lui la Natura che regna e governa in sua vece, eterna trasmigratrice, onnipresente. Sono tutte le idee che fermentano da sessantanni in qua ne’ cervelli umani, accozzate insieme dal poeta, ma non ben fuse, senza intima coesione.

E che importa! Oggi non trovi due poeti che partano da uno [p. 36 modifica]stesso pensiero filosofico. Siamo in perfetta anarchia. Ciascuno si fabbrica un Dio ed un mondo a suo modo: testimonio a’ futuri de’ dubbii e delle angosce di questo tempo.

Poco importa l’esattezza e la veritá del contenuto, dico la veritá filosofica. La poesia è la ragione messa in musica. Abbiamo un cattivo libretto; ma la musica? Il poeta dee trarre le idee dalla loro astrazione e realizzarle, farle cosa viva. Il nostro poeta, confusa eco di tutto ciò che al presente si agita ne’ nostri petti, non le ha colte tutte, né bene; ma vivono elle almeno in forme imperiture? Rendono suoni armoniosi? Il suo mondo non è logico, ma vi spira per entro la vita, la giovinezza, l’amore, la primavera? Le sue idee sono inconsistenti; sia: ma scendono elle nel cuore? operano sulla fantasia? risuonano al di dentro di noi?

Volendo guardare al semplice contenuto, questo libro ha pure il suo valore. È la poesia che, in luogo di gittarsi perdutamente in grembo alla negazione, se la pone dirimpetto come sua nemica, e sforzasi di soverchiarla, non rifacendo unicamente il passato, come altri poeti, ma con oscuri presentimenti di un avvenire non definito, non definibile ancora. Ci si vede un bisogno di fede; un desiderio di affermare, se non fosse altro, fantasticando e sognando; un presente oscuro ancora, ma con un punto «vague et lointain qui luit». Il poeta vi concede il presente, ma si riserba l’avvenire.

Il concetto è intrinsecamente debole: Victor Hugo non ha né la sintesi possente di Dante, né la chiara intuizione del Leopardi: è ciò una imperfezione. Ma, lo ripeto, ha saputo egli ringiovanire il nostro mondo poetico, rimettervi nuovo sangue? In mezzo a tanto disfacimento e putridume di forme, ha potuto egli crearsi un mondo nuovo? Ha potuto egli dire: — Voi affermate morta la poesia: guardate, questa è poesia. — ?

Quando Victor Hugo incontra nel suo cammino le forme ordinarie della societá, le caccia via senza misericordia. Nessuno è tanto nemico del comune, del volgare, del consueto: ciò che è stato, egli lo condanna appunto perché è stato. Fin dalle prime sue orme nel mondo poetico, vedete in lui un istintivo [p. 37 modifica]bisogno della novitá, dello straordinario, anche a pericolo di cadere nell’esagerato, nell’assurdo. Il vecchio mondo poetico gli si sfascia innanzi: pensieri, sentimenti, immagini, stile e lingua: il suo spirito dissolve tutto.

Che cosa lo costringe dunque a dipartirsi dalla via ordinaria? Cattivo gusto? Amore del falso o dello strano? Ciò affermano i pedanti.

Victor Hugo rigettò tutte le forme ordinarie, perché non significavano piú che sé stesse. Una forma cessa di essere cosa viva, quando gl’intendenti vi veggono una pura forma, fatta vacua del suo contenuto; e gl’ignoranti la scambiano con esso il contenuto; la plebe romana credeva sotto Augusto di essere ancora in repubblica!

Victor Hugo ha sprigionato il contenuto da tutte le forme comuni e vecchie e lo ha fatto valere per sé stesso. Nessuno ha piú potentemente cooperato al lavoro dissolvente de’ nostri tempi; nessuno ha con piú conscia audacia spazzato il mondo poetico di tutto questo inutile ingombro. Camminiamo con lui nel mondo dello spirito, ci avvezziamo a vedere nella forma un altro, che se ne può staccare, e, se la forma ha per noi perduto il suo valore, non rimaniamo nel vuoto, non diciamo tutto è finito; ci affrettiamo a cavare di lá quell’altro, ed abbiamo ancora a chi inginocchiarci, chi amare. Il Manzoni ha fatto qualche cosa di miracoloso; ha accolto sotto la sua protezione le forme incalzate dallo scherno e dalla ironia, e, risoffiandovi dentro l’antico spirito, le ha riverginate: bene egli ci mostra la cocolla e la lunga barba del cappuccino, ma vi fa battere al di dentro il cuore del padre Cristoforo. Ambedue per diversa via riescono allo stesso. Manzoni vi dice: — Non guardate alla cocolla, non ridete, vi prego; guardate che cosa vi sta al di sotto — . Victor Hugo vi dice: — Poiché la cocolla vi spiace, lasciamola stare; non è necessaria la cocolla al padre Cristoforo, io ve lo mostrerò sotto tutti gli abiti e sotto tutte le forme — .

Il contenuto può vivere sotto tutte le forme; le forme sono indifferenti: ecco la base del mondo poetico di Victor Hugo. Ed ha cominciato dal ritirare il contenuto da tutte le forme [p. 38 modifica]nelle quali il volgo lo contempla, confondendolo con esse. Dio si è ritirato dalla chiesa, l’amore si è separato dal matrimonio, il prete ha messo giú la sottana, i magi hanno gittate via la corona, il pontefice si ha tolto la tiara. È una ribellione generale. L’idea non vuol piú calare nelle usate immagini; il sentimento non vuol piú contenersi negli antichi limiti; la lingua non vuol piú chiudersi nelle parole consacrate. E che cosa muove a ciò il poeta? Insorge egli per il puro piacere d’insorgere? Calpesta tutte le regole e le forme ammesse con quel puerile capriccio, col quale la sua bambina imbratta o sgualcisce le sue carte36? Certo, questo rimprovero si può fare a molti suoi seguaci, e talora a lui pure. Trasportato dall’ardore della lotta e dal sistema, qualche volta fa a dispetto e porta la sua disubbidienza fino al contrasto, fino alla contraddizione; rotto il limite, si compiace di vagare nell’illimitato prima di crearsene un altro. Ma spesso non infrange una regola, se non per ubbidire ad una regola superiore; non gitta via una forma se non per farvi meglio brillare dinanzi il suo contenuto. L’idea attira piú la vostra attenzione, quando si scioglie dalla usata cadenza del verso con sapiente disarmonia; il sentimento non si arresta dinanzi alla parola per domandarle: — Onde vieni? e chi sei?, ma corre diritto e divampa lá dove piú trova sé stesso; tra il pensiero e l’espressione tutto ciò che vi ha messo di mezzo la pedanteria cade giú; hai l’idea e la parola in immediata comunione. Non è tutto armonia, né misura in questo mondo cosí violentemente uscito alla luce in mezzo al fragore ed alle passioni della lotta; trovi qua e lá non so che di aspro, di crudo, di non ben digrossato: talora la superficie è scabra, ma al disotto vi è sempre qualche cosa che si muove.

Questo non è che il lato negativo della poesia. Voi mi avete sprigionato l’idea dalle forme sociali, come d’un corpo logoro, e togliete via il fango per mostrarmi nudo il diamante. La vostra poesia può dirsi cosí la restaurazione dell’ideale o dello spirito. Ma il vostro ideale fatto libero non appartiene piú alla poesia; [p. 39 modifica]distrutte le forme che erano il suo corpo, voi rimanete nel regno delle astrazioni, fuori dell’arte. Che cosa mettete voi in luogo di quello che avete distrutto? La poesia non è il vostro «Jéhovah», essere solitario al di sopra della creazione; la poesia è la creazione.

Alcuno potrebbe rispondere: — Non importa! perita la forma, rimane il sentimento. L’idea nella sua semplice astrattezza può ben far battere il vostro cuore. L’arte in Victor Hugo è musica piú che poesia — .

Si è molto abusato di questa teoria. Spieghiamoci bene. Il suono musicale può generare in voi un senso indefinito di dolore, di malinconia, di gioia, ma non vi porge alcuna idea; se voi vi attaccate una idea, gli è che avete innanzi il libretto, la parola. La poesia non è solo un accordo di suoni melodiosi; la parola prima di essere suono è idea. Potete voi amare una idea senza vederla, senza darle una faccia? Spiritualizzate quanto volete la forma: riducetemela, se vi piace, a pura luce; ma se mi togliete la luce, è impossibile il paradiso dantesco, il piú musicale di tutt’i mondi poetici. Certo, ci sono momenti storici, nei quali l’idea e l’immagine isterilite non sono piú il sostanziale, e servono volontarie alla musica; nei quali lavorano non per sé, ma per il sentimento; e quando svegliano un insolito moto nel cuore, scompariscono e vanno a trasformarsi ed a compiersi in puri suoni musicali. La forma può essere subordinata al sentimento, ma ci dee essere. Dite a Psiche: — Tu amerai, ma tu non vedrai il tuo amante — ; ed ella se ne figurerá uno con la fantasia.

La domanda dunque ritorna tutta intera: non basta l’amore, vi dee esser pure Cupido; non basta il sentimento, vi dee esser pure il fantasma. Victor Hugo ha volte le spalle al vecchio mondo, e, se talora guarda indietro, lo fa per gittargli in viso l’ironia e il sarcasmo: che cosa ci ha egli sostituito? qual è il suo mondo poetico?

Egli ha spogliato l’uomo delle sue forme e ne ha vestito la natura; l’uomo ringiovanisce negli uccelli, negli alberi, nelle pietre. Il contenuto stava chiuso in questa o quella forma; egli [p. 40 modifica]ne lo ha tolto e lo ha calato, non nella tale o tale altra, ma in tutto l’universo, ora qua ora lá, a suo talento. La natura presso i Greci è Dio; presso Victor Hugo è uomo. Né questo è giá una semplice metafora, come ne’ poeti; egli ne ha fatto una teoria filosofica: tutto ciò che vive ha coscienza; la metafora è qui realtá.

Gli uccelli fanno all’amore con linguaggio umano; il cielo ascolta «comme une oreille immense»; il globo diviene «un oeil énorme»; il monte dice la messa «sous sa mitre de granit» all’abisso; la violetta fa «sa toilette»; nessun poeta ha si arditamente vestito la natura di tutto ciò che è umano in tutt’i suoi accessorii e particolari. Il canto d’amore dalla bocca umana passa nella gola del rosignuolo37; le passere, le querce predicano o censurano38 troviamo affibbiati agli animali qualitá e sentimenti che prima ignoravano. Adduciamone un esempio. Tutto ciò che vediamo in una chiesa, l’autore ce lo mostra nella natura39:

                          — L’église, c’est l’azur, lui dis-je; et quant au prêtre...—
          En ce moment le ciel blanchit.

La lune à l’horizon montait, hostie énorme;
Tout avait le frisson, le pin, le cèdre et Torme,
          Le loup, et l’aigle, et Talcyon;
Lui montrant l’astre d’or sur la terre obscurcie,
Je lui dis: — Courbe-toi. Dieu même officie,
          Et voici l’élévation.
               

Il poeta di malincuore rimane in cittá, e, se talora vi si ferma, gli è per girare intorno uno sguardo nemico. La cittá desta la sua collera e gli versa nell’anima il fiele di Archiloco. Lá egli trova i pedanti, tormenti de’ suoi primi anni, che alla sua volta egli sferza e flagella40; lá incontra i suoi critici, botoli ringhiosi, [p. 41 modifica]che gli si attaccano a’ piedi e ch’egli fa gemere sotto il suo tallone41. Rimane in cittá per ricacciare l’ingiuria in gola al marchese, attonito e scontento che il fanciullo senza sua licenza sia divenuto uomo, e per dirgli, ergendosi al disopra di lui di tutto il suo ingegno: — «J’ ai grandi42» — . Rimane in citta per contemplare lo spettacolo delle miserie ed ingiustizie sociali, o vituperare con l’eloquenza dell’indegnazione l’opera corruttrice dell’uomo43. Ma vi rimane mal volentieri; e corre ne’ campi a spogliarsi dell’odio, dell’ira, a inebbriarsi di odori, di aria, di luce, ad attingervi placide ispirazioni:

                     Si nous pouvions quitter ce Paris triste et fou,
Nous, fuirions; nous irions quelque part, n’importe oú.
Chercher!oin des vains bruits, loin des haines jalouses,
Un coin oú nous aurions des arbres, des pelouses;
Une maison petite avec des fleurs, un peu
De solitude, un peu de silence, un ciel bleu,
La chanson d’un oiseau, qui sur le toit se pose.
De l’ombre; — et quel besoin avons-nous d’autre chose44?
               

In Victor Hugo adunque, come in tutti 1 grandi poeti, è un vero, un profondo amore della natura: la cittá egli la trasporta ne: campi, la chiesa la vede ne’ cieli, l’uomo lo vede fantasticare e amare negli uccelli e nei fiori; le sue figliuole non gli paion si belle, che quando le contempla

                          Dans le frais clair-obscur du soir charmant qui tombe,
.       .       .       .       .       .       .       .       .       .       .       .       .
.  .  .  .  assises au seuil du jardin, et sur elles
Un bouquet d’oeillets blancs aux longues tiges frèles,
.       .       .       .       .       .       .       .       .       .       .       .       .
Se penche  .  .  .  .45.
               
[p. 42 modifica]Guarda la natura quasi con occhio d’invidia, gli par più della che l’uomo:
                                         Près de vous, aile bénie,
          Lys enchanté,
Qu’est-ce, hélas! que le génie
          Et la beauté?

Fleur pure, alouette agile,
          À vous le prix!
Toi, tu dépasses Virgile;
          Toi, Lycoris46!
                                   
In questa specie di panteismo poetico tutto s’incatena: il poeta umanizza la natura e innatura l’uomo. Cosi «le coeur est plein d’étoiles»;
                          Le dévouement, rayonnant sur l’obstacle,
Vaut bien Vénus qui brille sur les monts, ecc.47.
               

La natura considerata poeticamente è l’uomo messo in musica; ivi i nostri sentimenti e impressioni e qualitá sono generalizzate e spiritualizzate. La parola nell’onda diviene mormorio; l’amore nell’uccello diviene melodia; il riso nella serenitá del cielo diviene luce; e in questo senso diciamo che l’onda o l’uccello parla e che il cielo ride. Nella natura vi è l’uomo scompagnato di ogni determinazione; vi è come musica, non come parola. Se vogliamo rappresentar tutto l’uomo, dobbiamo rappresentarlo direttamente: in sé solo egli trova tutto sé stesso. E parimente, se vogliamo rappresentar la natura nel suo particolare, dobbiamo contemplarla in lei; e, dopo di aver detto che il cielo ride, dobbiamo aggiungere immagini che si riferiscano propriamente al cielo. La poesia dee veder dell’uomo nella natura: Victor Hugo vi pone dell’uomo fino ad un segno che passa la [p. 43 modifica]misura ordinaria dell’immaginazione. L’onda non mormora sola, ma parla; l’uccello non canta solo, ma ti fa un ragionamento; il cielo non ride solo, ma sente e pensa; e fin la stupida pietra rivela ne’ suoi spaventi una coscienza d’uomo48, ed ha occhi e vede

                          .       .       .       .       les vers de terre
Sortir des yeux des morts.
               
Diciamo comunemente: — La natura è un libro, leggere nel libro della natura, ecc. — . E restiamo qui, e non trasformiamo la natura in un abecedario, non compitiamo i fili di erba. Victor Hugo non si arresta che non abbia letta la natura in tutti i modi proprii dell’uomo:
                          Platon       .       .       .       .       .       .       .       .       .
Lisait les vers d’Homère, et moi les fleurs de Dieu.
J’épèle les buissons, les brins d’herbe, les sources.
.       .       .       .       .       .       .       .       .
.  .  .  J’étudie á fond le texte, et je me penche
Cherchant á déchiffrer la corolle et la branche.
.       .       .       .       .       .       .       .       .       Je traduis
.       .       .       .       .       .       en syllabes les bruits.
.       .       .       .       .       .       Feuilleter la nature.
.  .  .  la terre       .       .       .       .       .       .       .       .
A pour versets les bois et pour strophes les monts.
.  .  .  Les prés sont autant de phrases.  .  .  .  .  49.
               

Che cosa è questo? È una dissoluzione instancabile delle forme, mescolandole, traendo all’una ciò che è dell’altra; un distruggere l’individualitá. Il poeta non rappresenta l’idea se non quando con un’amorosa intuizione la coglie in una forma, e in questa si compiace, né l’abbandona con lo sguardo, che prima non l’abbia veduta crescere, individuarsi, fissarsi nel marmo, nella tela, nella parola, nel suono musicale. Questa [p. 44 modifica]intuizione diretta della cosa, effetto spontaneo dell’ispirazione, è pregio de’ sommi poeti. Ma Victor Hugo di rado ti coglie la forma a primo sguardo e nel suo centro, nel quale convergano tanti altri accessorii sottintesi, che si presentino alla fantasia del lettore ed integrino l’immagine. Victor Hugo gira intorno alla forma; la prende da varie parti, accumula gli accessorii, sciupa i colori, stanca la memoria e la fantasia del lettore. È un torrente straripato che non sa piú arrestarsi. Scegliamo un esempio. Vuol egli dire:

                          .       .       .       .       .       Est-ce que les Cambyses
               .  .  .  les Nérons,
.       .       .       .       .       .       .       .       .       .       .
Seraient, dans cette nuit, d’hommes devenus spectres,
               Et pierres de tyrans
.       .       .       .       .       .       .       .       .       .       .
Après avoir tenu les peuples dans leur serre?
               
L’idea rinchiusa nella prima fase è amplificata in quattro strofe, ed in altre quattro l’altra idea50. Un uomo che non trova il vocabolo proprio, si smarrisce in un laberinto di perifrasi, e dice spesso: — Avete capito? — , conscio di non essersi fatto capire. Uno scienziato, che non coglie subito la veritá, s’inviluppa in concetti acuti e sottili. Victor Hugo non intuisce sempre la veritá poetica, la quale folgora innanzi all’artista come visione venuta dal cielo, senza ch’egli vi pensi. Non la trova e la cerca, e, quanto piú moltiplica gli accessorii, piú gli sfugge. Perché, volendo raggiungere col pensiero quello che non ha potuto con la intuizione, combina, paragona, mette in contrasto, raffina, assottiglia, e si distrae sempre piú dalla cosa.

E si vuol distrarre. Il suo spirito non sa stare rinchiuso in un’immagine, e corre ad un’altra e poi ad un’altra; hai frammenti, anzi che forme. È un Dio capriccioso, che spezza il suo mondo nell’atto che si forma, per cominciarne un altro e per [p. 45 modifica]spezzarlo alla sua volta. In questa sua maniera di poesia Victor Hugo non ti presenta mai una creatura poetica perfetta. Ti trovi nel soggiorno delle ombre; sono apparizioni fuggevoli che ondeggiano e passano; è una fermentazione universale, senza che mente venga a compimento. Gli è come in un sogno: vediamo una stanza e la stanza si trasforma in un campo, ma i contorni sono cosí indeterminati, che non sappiamo proprio se sia stanza o campo, quando vediamo uscirne una terza cosa, che ci par cielo, e il cielo si trasforma in uomo, né siamo ben sicuri che quell’uomo resti uomo. La realtá in queste poesie ci vacilla innanzi, in un continuo stato di trasformazione. L’arte rimane nelle basse regioni della immaginazione, senza sublimarsi a fantasia; ci dá delle immagini, non il fantasma. Ma che immagini! Hai tutti i colori dell’arco-baleno; mille raggi tremolanti che entrano gli uni negli altri e ti abbagliano; mille forme danzanti che t’inondano di luce e spariscono; piove oro da tutte le parti; l’onnipotente immaginazione del poeta lussureggia in tutta la sua ricchezza. Innanzi a questa danza perenne senza musica che la regoli, innanzi a questo mondo mobile senza un centro queto intorno a cui si limiti, noi rimaniamo come ubbriachi, parendoci di avere un capogiro, e che le mura della stanza si movano e che il suolo ci tremi sotto i piedi. Non possiamo abbracciare tutte le forme; non possiamo fermarci in alcuna, incalzati dalle sopravvegnenti, e le ci fuggono tutte. Hai i colori senza la faccia, i raggi senza il sole, la pioggia d’oro senza Giove.

È questa la tendenza romantica portata fino alla sua ultima punta, fino all’umore. Le forme vaniscono come vapori, ed il poeta gioca con esse. Quello che fa, egli lo vuole: è il suo fine. L’ultima conclusione di questa poesia è T indifferenza delle forme, la loro unitá nell’unitá dell’essere, la loro uguaglianza innanzi al poeta, che spira in tutte la stess’anima. Voi credete che l’idea stia in questa forma? ed egli ve la spezza e fonde nuovi metalli e vi fa brillare al di dentro la stessa idea, componendo una specie di naturalismo poetico, nel quale al di sotto della pietra fa palpitare il cuore di un uomo. Eppure, innanzi a questi [p. 46 modifica]embrioni luccicanti, che non vengono mai a maturitá, e destinati ciascuno a morire per dar vita all’altro, voi non potete dire: — Il poeta è umorista; egli fa dell’umore — . Perché questo gioco di forme non è che apparente, rimane sulla superficie; perché al di sotto vi è un’idea seria che il poeta rispetta e a cui immola le forme.

Che cosa vi rimane di una bella poesia? Una immagine ben netta, che non dimenticate piú, reale quanto e più che la realtá. Le belle poesie sono come certe persone simpatiche, che appena vedete amate giá, e dite tra voi: — Ecco una vecchia conoscenza! — Quell’immagine non vi pare al tutto nuova: vi sembra di averla talora intraveduta ne’ vostri sogni, di averla giá conosciuta altra volta, e non vi ricordate dove e quando, ed ora che il poeta ve la fa brillare davanti, voi la ravvisate e dite: — È dessa! — . La teoria platonica della reminiscenza, spogliata del suo lato mitico, ha un profondo senso. Una poesia che vi lascia vuoto, che non arricchisce la immaginazione di una nuova creatura, è giá condannata a morte. Che cosa vi rimane delle poesie di Victor Hugo, appartenenti a questa maniera? Un flutto d’immagini che vi lampeggiano davanti, oceani fuggitivi di luce che voi non potete cogliere nel loro passaggio; e di mezzo ad esse una cosa che voi potete in ultimo fissare ed appropriarvi, l’idea che in quel mutabile mondo ha voluto esprimere il poeta. Piú le forme vi fuggono e piú l’idea vi si avvicina; piú i colori si cangiano e piú l’idea si fissa nel vostro spirito: perché il significato dell’idea è appunto in quella mutabilitá delle forme. Per alcuni la poesia è l’idea nella forma; per Victor Hugo è l’idea nelle forme: l’individuo vanisce nella specie. Ha trovato egli le singole forme esauste, invecchiate, e le ha ringiovanite, rituffandole nella comun fonte battesimale della natura, mescolandole, soffiando in tutte lo stesso Dio. L’orizzonte del suo mondo poetico ha preso le proporzioni dell’universo; le immagini escono dalla loro classica solitudine, trovano sé stesse in altre sorelle ignorate o disprezzate, e s’imprestano amicamente i loro colori e le loro bellezze: niuna è se e solo sé; ciascuna ha qualche còsa di un’altra; in ciascuna vedi [p. 47 modifica]trasparire meno la sua anima che l’anima universale, la comune idea. La quale, appunto perché comune, non accarezza l’una piú che l’altra, non s’impronta, non s’individua in nessuna; passa in tutte e non si ferma in alcuna. È il principio cristiano e romantico nelle sue ultime conseguenze. Le forme sono un semplice velo; il corpo è un’ombra; l’idea vi sta al di sotto, conscia e libera, non imprigionata in alcuna; e se ne spicca a posta, eterna peregrina. Cosi il contenuto, avvilito in una data forma, logora dal tempo, dalla superstizione, dal ridicolo, la spezza e se ne sviluppa bello di sé stesso, e va a rinsanguarsi in un’altra; e ciò che voi deridete in chiesa, adorate nel raggio del sole, e ciò che voi profanate nell’uomo, rispettate nel gorgheggio dell’usignuolo.

Poiché dunque l’idea non rimane in alcuna forma, ella si rivela meno in questa o quella immagine, che in un rapporto tra le forme, di somiglianza e di contrasto: ond’è che l’espressione naturale di questa maniera di poesia è la metafora e l’antitesi. La quale espressione non è solamente la forma generale del concetto, ma s’insinua nei minimi accessorii e costituisce il genere di Victor Hugo sotto il suo lato più apparente e piú accessibile alla critica volgare. Ci ha di quelli, i quali fanno di berretto a Victor Hugo e lo salutano poeta, ma sotto beneficio d’inventario; accettano la sua poesia, ma rifiutano le sue metafore e le sue antitesi. Non sanno essi comprendere come i cadaveri possano sentir freddo, come il legno parli, come neroneggi la pietra. Gli è che il cadavere, il legno e la pietra non sono per Victor Hugo cose reali, ma semplici forme, variamente accozzate, dove egli suggella il pensiero: di modo che la loro realtá poetica è non in quell’inviluppo esteriore, che fa dell’una un cadavere e dell’altra una pietra, ma nell’anima o nel contenuto che il poeta vi ha messo. Per godere della poesia bisogna alzarsi dalla nuda realtá e ricordarsi che il regno delle muse è il regno delle ombre, e che la realtá è data in balia del poeta per disfarla e ricrearla in nuove combinazioni: ciascuna poesia è un nuovo «fiat». Il lettore poetico sa bene che ciò che il poeta vi presenta non è il reale, ma il vero; e comprende [p. 48 modifica]perché Goethe fa parlare i fiori, e perché Victor Hugo gitta al di dentro della pietra l’anima di Nerone. Ho inteso alcuni critici francesi, stringendosi nelle spalle, dire: — Ecco qua, sempre lo stesso: ah quelle metafore! ah quelle antitesi! — . Vorrebbero il loro Victor Hugo: egli è si grande, che non osano piú di dirgli: — Vattene lá — ; lo vorrebbero, ma a patto che divenisse un po’ piú giudizioso, che scrivesse con un po’ piú di buon gusto: insomma vorrebbero in quel cervello mettere un po’ del loro cervello. La metafora e l’antitesi non sono giá forme accidentali, che si possono togliere o mitigare, come si fa nella composizione di un collegiale. Qui sono, come in Shakespeare51, la faccia del concetto. Il quale non risulta dall’individuo, ma dalla specie; non dal proprio delle forme, ma dal simile, dalla loro fusione, presentandoci, come ultimo motto della poesia, l’unitá o il contrasto della idea nell’indifferenza delle forme ora concordanti, ora cozzanti, Dio o il cieco fato, la veritá o l’enigma, l’affermazione o la negazione, la metafora o l’antitesi. Si presenta per esempio innanzi a Victor Hugo la «marguerite». Il poeta non si oblia nella contemplazione di questo fiore tanto gentile, l’astrologo degli amanti, ma trova subito un rapporto tra le fogliettine candide ond’è incoronato e i raggi del sole; e la margheritina esclama: «Et, moi, j’ ai des rayons aussi!»52. Il sostanziale non è qui in nessuna delle due forme, come due individui distinti, ma nella somiglianza tra «la petite fleur et le grand astre», ed il significato è nel titolo della poesia: Unité! Una volgare metafora, i raggi della margheritina, è qui alzata a significare l’armonia universale. In un’altra poesia53 l’autore ci dipinge le ignobili risse ed infami tra un marito ed una moglie: — «Silence, assassin! — Tais-toi, prostituée!» — . Indi soggiunge: [p. 49 modifica]

                          Un beau soleil couchant, empourprant le taudis,
Embrassait la fenètre et le plafond, tandis
Que ce couple hideux, que rend deux fois infâme
La misère du coeur et la laideur de l’âme,
Étalait son ulcère et ses difformités
Sans honte, et sans pudeur montrait ses nudités.
Et leur vitre, oú pendait un vieux haillon de toile,
Était, grâce au soleil, une éclatante étoile.
Qui, dans ce même instant, vive et pure lueur,
Ébiouissait au loin quelque passant rêveur!
               

Qui le antitesi sono accumulate negli accessorii, perché il concetto stesso riposa su di un’antitesi, sul contrasto delle due forme. È la bella natura in antitesi con la perversitá dell’uomo; onde pullulano varie forme accessorie in contrasto: il vetro fatto una stella ed un cencio di tela; nella stessa stanza il sole che imporpora, e l’uomo che bestemmia: al di dentro «le couple hideux», al di fuori «le passant rêveur!».

Tali sono i lineamenti generali di questa maniera di poesia. Ella ha per fine un’idea che si sviluppa dalle forme e si apprende in ultimo nella sua generalitá. La forma si perde nelle forme e le forme si perdono nella idea. È la forma ridotta a leggiero vapore che ti vanisce nelle mani. Ma vanisce in mezzo alla pompa ed al lusso: il poeta profonde intorno alla sua tomba i piú delicati fiori.

Eppure gli è un bel dire: — le forme muoiono; la poesia è morta; il corpo è ombra; lo spirito solo è; lo spirito dissolve la forma; la scienza uccide la poesia — . Ci è qualche cosa al di dentro di noi, che resiste a queste teorie, che dice: — No; la poesia è eterna come eterna è la fede, la scienza, la libertá, Dio. Uccidete dunque prima il cuore e la fantasia. La poesia voi me la scacciate dalla chiesa ed ella brilla nella patria, e, se fugge dalla patria, ripara nella famiglia, trova un asilo ne’ campi — . E se in bocca al poeta francese si evapora, in bocca al poeta polacco o magiaro si rincarna. Ma che dico io in bocca al poeta francese? Vedete qui. Quest’uomo, perpetuo mago, innanzi a [p. 50 modifica]cui un mostro si trasforma in angelo54, che vede «dans la sérenité formidable des morts» il riso dell’anima e la gioia terribile del corpo,

                .       .       .       .       .       .       .       .       .       .       .       l’ineffable chant
De l’âme et de la bête á la fin se lâchant55.
          
che cosa è quest’uomo innanzi al cadavere della figlia? Ditegli dunque: — La forma è accidente; il corpo è ombra — ; la sua anima rimane attaccata a quell’accidente, la sua vita rimane legata a quell’ombra; il suo cuore protesta contro la sua teoria. Con una di quelle contraddizioni, con le quali il genio si salva dalle dottrine ostili e dalla sua propria dottrina, quando Victor Hugo esce dal fantasticare, quando ha innanzi qualche cosa di reale che lo commuove, vi si oblia lui e la sua idea, e non ha piú innanzi a sé che quella forma, quel sorriso, quello sguardo, quei gesti. La forma allora ripiglia i suoi diritti; e la poesia ride nella sua anima col riso schietto e ingenuo della prima etá. Allora anch’egli popola il mondo poetico delle sue creature; e vediamo spuntare sull’orizzonte bellissime fanciulle, non dimenticabili mai. Rosa, Lisa, Chiara, astro solitario del libro sesto. Mettete innanzi a Victor Hugo una situazione drammatica, una azione, una persona in certe condizioni determinate, e l’idea rimprigionasi nelle forme, le forme si obliano nella forma: qua dentro si raccoglie tutto il mondo. Questa forma non ha piú bisogno di collegarsi con altre, basta a sé stessa: con amorosa intuizione il poeta la conduce all’ultima finitezza, né sa da lei svolger lo sguardo. Dove sono piú le metafore? dove le antitesi? o i concetti? o le amplificazioni? o le nebbie luccicanti, ma nebbie? Victor Hugo si pone di un salto accanto ai sommi poeti. Dategli l’universo, ed egli fluttua nel vago; dategli un piccolo mondo e ben terminato, ed il vaporoso e fantastico poeta ha la mano ferma e precisa di uno scultore greco. Quanta veritá, quanta grazia in quei fanciulli che gli fanno cerchio, e pendono [p. 51 modifica]dal suo labbro! com’egli conosce bene i fanciulli56! È una delle più perfette poesie, ch’io abbia mai studiate, perfette di semplicitá, di candore, di veritá. Dimandatemi qual è l’idea di questa poesia. Non la so, né Victor Hugo la sa. £ la natura colta in uno dei suoi atti; è la veritá fatta carne e sangue: profondatasi ed obliatasi nella forma. Di tal genere sono Lise, Le mâitre d’études, Vieille chanson du jeune temps, Le poëme éploré se lamente, e sopratutto Le revenant per novitá di concetto, per finitezza e delicatezza di forme, per freschezza di vita, destinata a fare il giro del mondo ed a svegliar palpiti, dovunque ci è una famiglia. Non parlo delle poesie intorno alla figlia, nelle quali è tanto affetto in tanta semplicitá: il padre ha li ispirato il poeta. Abbandonarsi alle più care rimembranze, rifarsela viva innanzi, e conchiudere:
                          Toutes ces choses sont passées
Comme l’ombre et comme le vent57!
               
E conchiudere:
                          Et dire qu’elle est morte! hélas! que Dieu m’assiste!
Je n’étais jamais gai quand je la sentais triste;
J’étais morne au milieu du bai le plus joyeux
Si j’avais, en partant, vu quelque ombre en ses yeux.
               

     Quanta sobrietá in questo dolore si vero! Ma fate che il poeta abbia a esprimere il suo dolore per la morte delle umane cose, e ritorna a galla la prima maniera:

                          Hélas! tout est sépulcre. On en sort, on y tombe:
La nuit est la muraille immense de la tombe.
          Les astres, dont luit la clarté,
Orion, Syrius, Mars, Jupiter, Mercure,
Sont les cailloux qu’on voit dans ta tranchée obscure,
          O sombre fosse Éternité58!
               
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     Innanzi alla figlia morta non fantastica egli giá; non dice che la notte è la muraglia della tomba, gli astri le pietre e l’eternitá la fossa. Lá egli vede e sente; qui fantastica e medita; lá svolge l’occhio da tutte le cose per concentrarlo in una sola; qui la fantasia si smarrisce nella universalitá delle cose; il primo «hélas!» è una lagrima, il secondo è un vapore che va a perdersi fra le nubi.

     Queste due maniere di poesia rispondono talmente alle due corde della sua anima, che spesso le incontri amicate in una sola poesia; e citerò a esempio l’ultima: À celle qui est restée en France. Quando egli abbraccia il mondo, puoi metterti l’occhialino e discernere le macchie; quando si affissa o si oblia in alcuna cosa, inchinati, o critico, e voi piegate le ginocchia, o popoli: avete innanzi il primo poeta vivente. I poeti della vecchia generazione dormono: quelli della nuova sono ancora la legione della speranza.

[Nella «Rivista contemporanea», a. IV, i856, vol. VII, pp. 225-49.]

  1. Vieille chanson du jeune temps [lib. I, XIX].
  2. Unité [lib. I, XXV].
  3. Le maitre d’études [lib. Ili, XVI].
  4. Claire [lib. VI, VIII].
  5. Charles Vacquerie [lib. IV, XVII].
  6. Le revenant [lib. III, XXIII],
  7. Lise [lib. I, XI].
  8. Horror [lib. VI. XVI].
  9. Luigi Lavista.
  10. Fedele Amante, morto mentre l’autore era in prigione.
  11. Scritto a Zurigo i856.
  12. A la fenêtre pendant la nuit, 1. VI, IX, XI.
  13. Nomen, Numen. Lumen, 1. VI, XXV.
  14. Un jour, le morne esprit, le prophíte sublime, 1. VI, VII.
  15. ''Horror, 1. VI [XVI].
  16. A celle qui est voilèe, 1. VI [XVI], — Vedi ancora Pleurs dans la nuit, 1. VI [VI].
  17. Horror, 1. VI [XVI]
  18. Le pont, 1. VI.
  19. Ibo, 1. [VI].
  20. Une spectre, 1. VI [III].
  21. Ecoutez. Je suis Jean, 1. VI [IV].
  22. Croire; mais pas en nous, 1. VI [V].
  23. Pleurs dans la nuit, 1. VI [VI].
  24. Claire, 1. VI [VIII]
  25. À la fenétre pendant la nuit, 1. VI [IX].
  26. Èclaircie, 1. VI [X].
  27. Cadaver [1. VI, XIII]. — Ce que c’est que la mort [1. VI, XXII].
  28. À celle qut est voilée [1. VI, XV]
  29. Horror [1. VI. XVI].
  30. Dolor, Religio, Spes [1. VI, XVII, XX, XXI].
  31. Voyage de nuit [1. VI, XIX].
  32. Spes [1. VI. XXI].
  33. Les Mages [1. VI, XXIII].
  34. Ce que dit la bouche d’ombre, 1. VI [XXVI].
  35. Lib. I, IV.
  36. L. IV, V.
  37. En écoulant les oiseaux, 1. II, IX.
  38. Les oiseaux, 1. I [XVIII]. — La Nature, 1. III [XXIX].
  39. Religio, 1. VI [XXJ.
  40. À prolbos d’Horace, 1. I [XIII].
  41. Réponse á un acte d’accusation, 1. I [VII].
  42. Écrit en i846 [1. V, III], — Écrit en i855 [1. V],
  43. Melancholia, 1. III [II]. — Chose vue un jcur de Printemps, 1. III, XVII.
  44. Il lui disait, 1. II, XXI.
  45. Mes deux filles, 1. I [III].
  46. N’envions rien, 1. II [XIX].
  47. Un soie que je regardais le ciel, 1. II [XXVIII]
  48. Pleurs dans la nuit, 1. VI [VI].
  49. Je lisais Que lisais-je, 1. III [VIII].
  50. Pleurs dans la nuit, 1. III.
  51. Con la debita differenza. La metafora e l’antitesi di Shakespeare non hanno la loro esistenza in un rapporto estrinseco, costruito «a priori» e talora arbitrario, com’è in Victor Hugo, ma vivono nel seno stesso delle cose. Sotto quasi la stessa apparenza è un’altra maniera di poesia.
  52. Unité, 1. I [XXV].
  53. Intérieur, 1. III [XVIII], Vedi pure la Nichée sous le portail. 1. II, XXVII.
  54. Ce que c’est que la mort, 1. VI [XXII].
  55. Cadaver, 1. VI [XIII].
  56. Elle avait pris de pli dans son âge enfantin, 1. IV [V].
  57. Quand nous habitions, tous ensemble, 1. IV, VI.
  58. Hélas! tout est sépulcre, 1. VI [XVIII].