Storia degli antichi popoli italiani/Capitolo I

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Capitolo I - Dei primi abitatori o coltivatori d'Italia

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Capitolo I - Dei primi abitatori o coltivatori d'Italia
Prefazione dell'autore Capitolo II


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STORIA

degli

ANTICHI POPOLI ITALIANI




CAPO I.


Dei primi abitatori o coltivatori d’Italia.


Se la filosofia dell’istoria avesse riportato a’ suoi principj la difficil questione degl’Itali primitivi, non si sarebbero divolgate per l’innanzi tante ipotesi tra se contraddicenti, e sempre più imaginarie, che ci fan rivolgere da una lontana regione all’altra per rinvenire di fuori, anzichè in casa propria, le tracce de’ nostri padri. L’oscurità e la totale incertezza di secoli affatto isolati nelle storie narrate, furono favorevoli a tutte le opinioni, ma la nostra ignoranza è la stessa. Alla scienza critica della presente età, principal sussidio d’ogni vero, si vuol nondimeno concedere tentar nuova via, e di risalire, quanto è possibile, più direttamente al primo stato sociale de’ popoli di una stessa radice italiana, per muover da questo a rintracciare meno dubbiamente le cagioni naturali, e il [p. 14 modifica]fondamento dell’antica loro civiltà. Oggimai l’istoria naturale dell’uomo, gli studi più universali delle lingue, e le grandi scoperte de’ moderni viaggiatori, che han già corso e veduto più mondo che non fece in tanti secoli tutta l’antichità, bastano ad accertare, senza distinzione di patria, che la generazione umana, variatissima nelle sue razze, ha dovuto crescere e propagarsi non difficilmente in ogni contrada e in ogni clima. Perchè l’uomo naturalmente appartiene a tutta l’abitabile terra, che Dio gli ha dato qual suo proprio dominio, e per sede perpetua delle sue vicende.

Invano la nostra curiosità da gran tempo si consuma per faticosi e inutili sforzi nell’investigare l’origine delle nazioni. In qualunque maniera gli uomini sien pervenuti a discuoprire e ad occupare le variate regioni del globo, noi li ritroviamo ugualmente stanziati nei più ardenti climi, e nelle terre australi, sotto l’influenza del cielo natio. Ma se di poi consideriamo, che ogni origine è posta al di là delle nostre idee, le quali altro non comprendono fuorchè sviluppo e progresso; e se, limitando le indagini, vorremo pure contenerle con misura ne’ termini delle nostre facoltà, natura stessa ne addita, che i paesi più felici, ove il clima somministra largamente mezzi di nutrimento all’uomo, dovettero essere con maggior facilità popolati. La virtù delle cause fisiche si fa quivi sentire con duplicata forza, imprimendo alla libera propagazione della specie più vigore e fecondità, ed alle potenze vegetabili ed animali più qualità produttive: onde, [p. 15 modifica]senza tema d’ingannarci, possiamo francamente ammettere per fondamentale principio di popolazione che là, dove una spontanea fertilità porgeva con meno fatica all’uomo maggior copia di beni, ivi dovesse più agevolmente prosperare e moltiplicarsi.

Se di sistema in sistema non avesse vaghezza ciascuno a dir cose nuove, piuttosto che vere, potrebbe per avventura parer istrano, che gli eruditi, i quali trattarono delle nostre antichità, abbiano posto grandissimo studio in far provenire da regioni straniere e lontanissime, come la più facil cosa al mondo, i primi abitatori di questa già deserta Italia, e quasi niuna ricerca abbian fatto di quelli che ivi stessi vivevano. Come se il nostro cielo non avesse da natura, quanto altra latitudine, virtù ed efficacia a nutrir suo popolo, ed a portare o maturare da per se i frutti del viver civile. Le grandi vestigie di fisiche rivoluzioni, visibili per tutta Italia, dimostrano non di meno orrende catastrofi, e fan presupporre una lunga serie di secoli affatto impossibili a rintracciarsi ne’ nostri documenti istorici. Ma come lo stato delle nascenti società umane è pur sempre dipendente da cause e accidenti naturali e locali, così non potremmo ragionevolmente procedere in queste ricerche senza considerare gli ostacoli, che per la qualità del suolo, e per tanti maravigliosi sconvolgimenti della penisola, dapprima s’opposero alla propagazione e stabilità de’ suoi abitatori paesani. Il tremendo fenomeno, che, per violenta incursione [p. 16 modifica]del mare, divise un tempo la Sicilia dalla Calabria1, dovette al certo lasciare ne’ posteri una profonda impressione di spavento e terrore. Uomini ancora selvaggi, e vie più timidi per le rinnovanti rovine di vulcani ardenti, e per gli spessi danni di furiose inondazioni, non ardivano allontanarsi da’ luoghi eminenti, dove avean nido e salvezza: altrove, intere popolazioni, nulla meno atterrite per l’orrore di terremoti e d’aprimenti della terra, abbandonavano le sue dimore rifuggendo a stanze più sicure. E non pertanto la frequenza stessa di queste rivoluzioni fisiche ne rendeva lo spettacolo men funesto: gli uomini cessarono grado a grado di temere, e poterono anche in processo di tempo fermarsi su que’ medesimi terreni, che il ritiramento delle acque, e la lenta dissoluzione delle lave, avean lasciato più maggiormente fecondi. Così l’esperienza dei secoli ha confermato tra noi con qual sorprendente facilità le forze della natura e dell’uomo concorrano insieme, sotto in clima benefico, a riparare ai danni di questi distruttori fenomeni.

Le generazioni susseguenti ristrette insieme, e meglio distribuite nelle sue dimore dalle Alpi sino al mare siciliano, trovarono indi appresso mezzi agevoli e copiosi a sostentarsi. Cento poeti, oratori e istorici de’ tempi antichi, che l’hanno in più maniere descritta, [p. 17 modifica] celebrano a gara le lodi dell’Italia, e la grande abbondanza delle sue proprie naturali ricchezze: sì che, a dir di loro, quivi aveansi largamente tutte le cose, che servir possono al bisogno ed a’ comodi della vita, senza aver ricorso a beni stranieri. Il più utile e salutare nutrimento dell’uomo era tenuto per un dono spontaneo del clima italiano o siciliano2 : tradizione non pure ammessa dal primo pittor delle memorie antiche3, ma consacrata sotto il misterioso mito di Cerere4: favola antichissima, la qual non dubbiamente discende dalle primitive religioni di numi campestri.

Or questa fertilità e copia di beni, perpetuo dono del cielo, fu mezzo potentissimo a moltiplicare le razze indigene, ed a facilitar loro le vie di conseguire i vantaggi della vita civile. L’origine d’un primitivo popolo italiano si confuse di buon’ora colle favole. Da ciò i poeti e mitologi, primi storici, presero motivo di fingere la stirpe umana quivi dalla terra ingenerata5: opinione certamente repugnante alla buona fisica, ma che, sotto il velo dell’allegoria, celava il concetto della impenetrabile antichità del popolo [p. 18 modifica] italico6. E in questo senso medesimo Virgilio, grandemente inteso dalle memorie patrie, alludendo ai primi rozzi abitatori del Lazio, li disse, con maniera e frase poetica, ivi nati dai tronchi e dalle querce 7.

Questa universal tradizione di un popolo originario, del quale altra derivazione non si sapeva, vedesi conservata ne’ tempi istorici, e quindi confermata dagli scrittori romani più autorevoli, che davano senza esitazione agli antenati il nome generico di Aborigeni, il cui meno controverso significato era quello d’indigeni, o di gente paesana 8. Nella qual voce comune, grammaticalmente e istoricamente intesa da ogni latino, abbiamo pure una manifestazione del buon senso degli antichi; dove che i dotti della letteratura moderna s’affaticano ancora inutilmente a ricercare chi fossero, e donde originassero i nostri progenitori. Incoli primi d’un paese sono certamente coloro, che anteriori ad ogni altro nel possesso non abbiamo come provare, nè per attenenza di stirpe aliena, nè per autorità di storie, che sien venuti di fuori. E tale senza dubbio è lo stipite indigeno e natìo degl’Itali primitivi, da cui discendono l’un dopo l’altro gli originali popoli, che indi acquistaronsi nome e grado distinto nella comune patria: quei popoli in somma che gli stranieri, e massimamente [p. 19 modifica] i Greci, ritrovarono di già congregati in tribù o nazioni allora che passarono in questa nostra terra, e che pur sempre vi riconobbero di sangue dal loro diverso, con la sprezzante nota di barbari. Nell’opinione istessa degli antichi dicevansi gli Aborigeni nati in Italia9, dacchè per l’ignoranza dell’origine tutti credevano essere di quella terra che abitavano10. Nè solamente i prischi Latini, ma le nostre nazioni più copiose e grandi si pregiavano a un modo di porre le antichissime famiglie degli Aborigeni di fronte ai loro annali, e di riconoscere anzi da quelle i principj stessi della civile unione 11. Di tal forma gli Umbri, i Volsci, i Sabini, e generalmente i popoli di stirpe osca, appariscono tutti ugualmente Aborigeni nella prima loro epoca sociale. E ciò è sì vero, che come tosto incomincia a farsi più chiara l’istoria spariscono dovunque gli Aborigeni dell’età prima, per dar luogo a comunità di popoli più certi, aventi proprio essere e qualificato nome. Quindi può ammettersi [p. 20 modifica]con giusta critica, e forse con tutta verità, un punto di storia fondamentale indispensabile a rintracciare, quanto almeno è possibile sopra un terreno sì scabroso, la natural cognazione dei popoli, primi abitatori e coltivatori d’Italia: ciò è, che l’appellativo stesso di Aborigeni, comunemente adoperato nel buon secolo della letteratura latina, non si limitava già a denotare una razza particolare, nè di origini straniera posata soltanto ne’ luoghi intorno al Tevere, siccome narravano taluni cronisti di Roma, ma sì bene, con appropriata significazione generica, valea quanto dire l’università delle genti natie in istato ancor mobile o semibarbaro di colleganza12.

Non altro concetto ebbero gli antichi de’ loro padri Aborigeni, che quello appunto di popol selvaggio, a cui attribuivano una vita dura agreste e faticosa. E in questo veggiamo, che i ragionatori filosofi dell’antichità speculavano niente meno acutamente che i moderni sopra il natural progresso dell’uomo dalla sua ferina salvatichezza a stato civile. Al giudizio di loro le vaste boscaglie, che ricoprivano l’incolto suolo, sovvenivano al nutrimento con l’annua riproduzione de’ frutti della querce13 e di altri pochi vegetabili: in quella guisa, che molte genti della zona torrida e delle temperate, da alcune piante indigene traggono il bisognevole alla [p. 21 modifica]vita. Sparsi qua e là per le montagne, non tenevano gli Aborigeni abitazioni certe; e pe’ truci costumi mostravano ovunque l’original ferocia, o indomito genio di vita silvestre. Perciò il filosofico Sallustio, considerandoli nello stato che impropriamente dicesi di natura, gli rappresenta come uomini incolti, senza leggi, senza governo, liberissimi e sciolti14: ma, essendo pur sorte comune di tutte le nazioni l’aver costumi efferati e barbari prima de’ civili, sì fatte speculazioni si appartengono più drittamente alla storia generale dell’uomo, che non a quella d’una popolo particolare.

Pure la fisica costituzione delle nostre province volgea naturalmente gli abitatori a’ robusti esercizj della vita nomade o pastorale, che aperse la via a quella di agricoltori, e pose irrevocabilmente uno stato più fermo di società. Così gl’Itali, frenati nella licenza selvaggia, diventarono assai per tempo una nazione di pastori sedentari e di lavoratori, quali furono verisimilmente le tribù de’ Greci all’epoca della guerra troiana. Nel suo grado di maggior semplicità l’uso e l’opra della sementa presuppone sempre uno stato di società permanente, e l’esercizio d’arti manuali sconosciute od inutili a’ popoli vaganti, quali si rinvengono ancora per le foreste d’America settentrionale, e ne’ deserti della Tartaria o dell’Arabia. Pastori e agricoltori furono di fatto Opici, Sabini, Latini, Sanniti, [p. 22 modifica] unitamente con tutti i popoli di loro stirpe da un lato all’altro della penisola fin dalla prima loro unione: e in tale stato villesco li ritrovarono pure allevati quegli stranieri di vario nome, che secondo le leggende medesime dei Greci si dicevano approdati in Italia diciassette generazioni avanti l’era troiana15. Tanto che già stretti innanzi al suolo che coltivavano, e ridotti a dimore ferme, ed a stabili matrimoni, non può nè meno dubitarsi che i paesani non consentissero insieme ai doveri d’una comune legge.

Se però le facoltà fisiche e morali concorrono da per se alla formazione della società civile, e tendono con giusta forza al suo incremento, dobbiamo tuttavia confessare che per le relazioni di viaggiatori in tante incognite terre, non abbiamo nè pure un esempio d’alcun popolo tenuto per selvaggio, il qual siasi avanzato a civili usanze, senza che cause straordinarie non abbiano operato su di quello per facilitarne il progresso morale col vigor d’instituti ed arti; che sono bisogno al vivere umano. Certamente l’agricoltura, madre feconda di copiosi beni, e gli ordini salutari che per essa all’universale derivano, posero i veri e più naturali fondamenti della civiltà nelle nostre contrade; in quella forma che le Missioni, con iscopo più divino, alla luce evangelica congiungono tuttodì l’insegnamento di cotest’arte proficua a mansuefare i più riposti selvaggi indiani del Missouri e d’altre parti [p. 23 modifica]dell’America settentrionale. E così fatti abiti di vita stabilmente ordinata furono anche pe’ nostri padri, come porta la tradizione, opera della persuasione, anzichè della forza. Sotto giustissima figura d’allegoria Giano e Saturno, tenuti insieme per numi e regi degli Aborigeni, erano pure venerati quali istitutori del viver civile per mezzo dell’agricoltura e delle leggi16. Numi talmente concetti nostrali d’origine, e proprj di questa terra, che giusto al mito primitivo Giano, abbondantissimo donatore, di cui tutta Grecia mai ebbe l’uguale17, passava egli stesso per indigeno, e per primo padre de’ figli della patria18. Siccome nati della stirpe medesima di Saturno agricoltore dicevansi a un pari i nostri primi coltivatori19. I poeti chiamano secol d’oro quella prisca età, abbellita per loro di molte leggiadre finzioni, da che la nazional religione ebbe collocato in cielo il nome di costesti benefattori e maestri della umanità, che cominciarono a legare con più stretti nodi turbe selvagge ed impetuose. Sicchè dal senso medesimo che traluce in tutto questo italico mito, narrazione epica ed allegorica dell’incivilimento universale che ne venne appresso, par non si possa dubitare esservi stata primieramente in Italia una stabile dominazione sacerdotale, i cui membri sottoposero buon’ora le tribù nomadi indigene alla [p. 24 modifica]tutela d’un culto religioso, e le volsero di passo in passo a costruirsi abitazioni fisse, e ad attendere in comune all’agricoltura: causa insieme ed effetto della legislazione: di che ne venne loro convitto e unione e società civile. Benefizj grandissimi pe’ quali si servò pur sempre tra le generazioni paesane la consolatoria tradizione d’un secolo felice per migliorati costumi20. Il nome stesso di Saturnia, che portava nel tempo mitico Italia, o soltanto una porzione di quella, nome sacro, come dice Dionisio, già mentovato negli oracoli sibillini, può aversi per un documento della più alta antichità. Ugual denominazione consacrata posero i padri a’ luoghi stessi primitivi di lor dimora per siti montuosi e forti21. In rozzi versi saturnj erano di più religiosamente cantati nel Lazio i sacri carmi vetusti, non meno che i rustici ed i guerrieri. E la domestica solennità dei Saturnali, di molto anteriori a Roma 22, serba anch’ella simbolicamente vera memoria di cose tutte nazionali; nè meglio, per avventura, poteasi rappresentare l’immagine d’un primo stato franco di concordia civile sotto esprimente allegoria.

[p. 25 modifica]La coltura morale incominciò per ogni popolo con la religione, e lungamente si avanzò per virtù di quella. Ma di qual modo siasi fondata in queste terre una stirpe sacerdotale dominante è al tutto ignoto, e debb’esserlo istoricamente: poichè la dottrina stessa de’ misteri occultava gelosamente al popolo qualunque celata memoria concernente a questa prima epoca sociale. Per la qualità bensì del governo teocratico, vera semenza della civiltà italiana, si può credere fondatamente che dalle regioni dell’Oriente o dall’Egitto ci fossero nell’adolescenza della nazione qua recati, come altrove in Grecia, buoni insegnamenti d’una vita più raffrenata e migliore, sia che questo avvenisse per migrazioni di famiglie, sia per esteso comechè tacito commercio di sacerdoti da un paese all’altro. Soli mezzi per cui il popolo o più maggiormente o di più lunga mano incivilito poteva in allora spandere lontano la luce. Così di fatto uniformi instituti di sapienza e di civiltà migliorata s’introdussero anche tra noi: benchè nel proseguimento di queste storie vedremo, che tutto l’ordine civile conformatosi al bisogno delle italiane genti vi tolse gradualmente l’impronta della natura locale, e in certo modo del genio innato dell’Occidente. Dove più variabili gli animi, come il cielo, nè tolleranti quanto gli Asiatici o gli Egizj uno stato immutabile di società, temperarono a luogo e tempo la severità della prima legge religiosa, e serbandone, come si vede, il fondo, ordinarono, mediante forme nuove, quasi una nuova società. Con gran senno i [p. 26 modifica]nostri insegnatori, rivestiti delle divise del sacerdozio, in porgendo al popolo, sotto il velame de’ miti e de’ simboli, documenti divini ed umani, adoperarono anch’essi acconciamente linguaggio metaforico, come il più atto a muovere il grosso intelletto de’ mortali poveri di favella: in guisa che, poetando e favoleggiando, que’ savi maestri insegnarono alle genti con forti immagini e con salutiferi precetti a viver sana e lieta vita, trasformando la loro rustichezza in mansueti costumi. Chè dove cotesti retti ammaestramenti son mancati al mondo, quivi il popolo ha vegetato senza alcun rimedio nella salvatichezza. Non è perciò maraviglia che talune delle più importanti memorie de’ prischi tempi ci si presentino tutt’ora innanzi sotto emblemi ingegnosi, drittamente chiamati da Bacone la sapienza degli antichi. Nè senza istorica verità son per certo i miti soprammentovati, posti come in mezzo tra le cose distrutte e conservate, mostrandone, con figurato linguaggio, per quali vie i nostri padri dalla vita silvestre del cacciatore e del pastore, si condussero alla vita regolata del coltivatore, e da poi al fermo stato d’unione cittadinesca. Considereremo adesso com’essi crebbero in vigore, e si formò un più accomodato ordine civile tra i principali popoli italiani.

Note

  1. La separazione della Sicilia dalla terra ferma era un fatto accettato da tutta l’antichità: e lo confermano sì la figura, come la struttura interna de’ monti Nettunni ed Appennini, divisi dal Faro di Messina.
  2. Diodor. v. 2; Auctor. de Mirab, pag. 1157, ed. Duval.
  3. Odyss. ix, 109 seqq.
  4. Cicer. in Verr. iv. 48; Diodor. v. 4; Arnob. i. pag. 20. Da ciò i Sabini nella loro lingua: Cererem panem appellant. Serv. Georg. i. 7.
  5. Dionys. i. 36
  6. Multum auctoritatis affert vetustas ut iis qui terra dicuntur orti etc. Quintil. iii, 7.
  7. viii, 315. Gensque virum truncis et duro robore nata.
  8. Aborigenes sive indigenæ: Αὐτόχθονες; αὐθίγενεις; γενάρχαι.
  9. Dionys. i. 10.
  10. Saufeius ap. Serv.. I. 10. Quoniam ab illis se ortos esse recognoscebant. ; Serv. VIII. 314, 328. Indigene sunt inde geniti.; Solin. 15, Sunt genuini terræ; Festus v. Natio. - Altri popoli com’è noto, e massimamente Arcadi, Ateniesi e Tessali, si vantavano al pari del titolo di Autoctoni: era natural cosa che una medesima ignoranza inducesse tutti nella stessa presunzione.
  11. Primo Italiam tenuisse quosdam, qui appellabantur Aborigenes. Cato. ap Serv. i. 6; Italiæ cultores primi Aborigines fuere. Iustin. xliii. I.
  12. Aborigenes, appellati sunt, quod errantes convenerint in agrum, qui nunc est P.R. Fuit enim gens antiquissima Italiæ. Festus.
  13. Quercus Aesculus. L. Ischio.
  14. Sallust. Catil. 6. Genus hominum agreste, sine legibus, sine imperio, liberum atque solutum.
  15. Nicander ap. Anton. Liberal. 31; Dionys. I, 12.
  16. V. appresso T. ii. c. 2.
  17. Ovid. Fast. I. 90.
  18. Labeo ap. J. Lyd. de Mens. p. 55.
  19. Varro, R. R. III, I.
  20. Iustin. xliii.; Macrob. Sat. i. 7.; Virg. vii. 203. 204 et al.
  21. Dionys. i. 18. 34. 35.; Varro. l" l" iv. 7., Festus v. Saturnia. Iustin. e Macrob. l. c. Colle Saturnio si chiama ancora dai paesani una delle grandi alture del monte Lucretile della Sabina.
  22. Tot sæculis Saturnalia præcedunt Romanæ urbis ætatem. Macrob. Sat. i. 7.