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Storia della decadenza e rovina dell'Impero romano/44

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CAPITOLO XLIV

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CAPITOLO XLIV.

Idea della Giurisprudenza Romana. Leggi dei Re. Dodici Tavole dei Decemviri. Leggi del Popolo. Decreti del Senato. Editti dei Magistrati e degl'Imperatori. Autorità dei Giureconsulti. Codice, Pandette, Novelle, ed Instituta di Giustiniano: I. Diritto delle Persone. II. Diritto delle cose. III. Ingiurie ed Azioni private. IV. Delitti e Pene.

Stritolati nella polvere sono i varj titoli delle vittorie di Giustiniano: ma il nome del legislatore vive inscritto sopra un nobile e perpetuo monumento. Sotto il Regno e per cura di lui, la Giurisprudenza civile fu ordinata e raccolta nelle immortali opere del Codice, delle Pandette, e della Instituta1. La ragione pubblica dei Romani tacitamente o studiosamente si trasfuse nelle instituzioni domestiche dell’Europa2, e le leggi di Giustiniano tutt’or riscuotono il [p. 162 modifica]rispetto o l’obbedienza delle indipendenti nazioni. Ben saggio o fortunato è il Principe che collega la sua propria riputazione con l’onore e l’interesse di un ordine d’uomini destinato a perpetuarsi nella società. La difesa del fondatore è la prima causa che in ogni secolo ha esercitato lo zelo e l’industria dei Giureconsulti; piamente essi rammemorano le sue virtù; dissimulano, o negano i suoi falli, e rigorosamente puniscono il delitto o la demenza dei ribelli che ardiscono di macchiare la maestà della porpora. L’idolatria dell’amore ha provocato, come d’ordinario avviene, il rancore dell’opposizione; il carattere di Giustiniano è stato esposto alla cieca veemenza dell’adulazione e dell’invettiva, e l’ingiustizia di una setta (gli Anti-Triboniani) ha rifiutato ogni lode ed ogni merito al Principe, ai suoi ministri ed alle sue leggi3. Non attaccato ad alcuna parte, non interessato che alla verità ed al candore dell’istoria, e diretto dalle più moderate ed abili guide4, io entro con giusta diffidenza [p. 163 modifica]nel soggetto della legge civile, che ha consumato tutta la vita di tanti eruditi, e tappezzato le pareti di tante spaziose biblioteche. In un solo, e se è possibile in un breve capitolo, io mi accingo a delineare la Giurisprudenza Romana, da Romolo sino a Giustiniano5, ad apprezzare il lavoro di questo Imperatore; poi mi farò a contemplare i principj di una scienza che tanto importa alla pace ed alla felicità del viver sociale. Le leggi di una nazione formano la parte più instruttiva della sua istoria, e, quantunque io mi sia dedicato a scrivere gli annali di una Monarchia nel suo declinare, di buon animo abbraccerò l’occasione di respirare la pura e fortificante aria della Repubblica.

Il Governo primitivo di Roma era composto, con qualche politica avvedutezza6 di un Re elettivo, di un [p. 164 modifica]Consiglio di nobili, e di una Assemblea generale del popolo. Il Magistrato supremo amministrava la guerra e la religione; egli solo proponeva le leggi, le quali venivano discusse nel Senato, e finalmente ratificate o rigettate da una pluralità di voci nelle trenta Curie o parrocchie della Città. Romolo, Numa, e Servio Tullio, vengono celebrati come i legislatori più antichi, e ciascuno di loro ha diritto alla sua parte nella triplice divisione della Giurisprudenza7. Le leggi del matrimonio, l’educazione dei figliuoli, e l’autorità paterna, che pajono trarre la loro origine dalla stessa natura, sono attribuite alla rozza sapienza di Romolo. Numa disse di aver ricevuto dalla Ninfa Egeria, nei notturni loro colloquj, le leggi delle nazioni e del Culto religioso che egli introdusse. All’esperienza di Servio si ascrivono le leggi civili: egli bilanciò i diritti e le fortune delle sette classi di Cittadini; ed assicurò, col mezzo di cinquanta nuovi regolamenti, l’osservanze dei contratti, e la punizione dei delitti. Lo Stato ch’egli avea piegato verso la democrazia, fu dall’ultimo Tarquinio trasformato in un dispotismo arbitrario, ed allorchè l’uffizio di Re fu abolito, i Patrizj presero per sè tutti i profitti della libertà. Odiose ed anticate divennero le leggi reali; i Sacerdoti ed i Nobili conservarono in silenzio il misterioso deposito, ed in capo a sessant’anni, i Cittadini di Roma ancora si lamentavano ch’erano retti dalla sentenza arbitraria dei Magistrati. Tuttavia le instituzioni positive dei Re si [p. 165 modifica]erano miste coi costumi pubblici e privati della città; si compilarono8 alcuni frammenti di quella veneranda giurisprudenza9, mediante la diligenza degli antiquarj, e più di venti testi parlano anche al presente la rozzezza dell’idioma Pelasgo dei Latini10. [p. 166 modifica]

Io non ripeterò la storia ben nota dei Decemviri11 i quali macchiarono colle loro azioni l’onore d’incidere sul rame, sul legno o sull’avorio le Dodici Tavole delle leggi Romane12. Dettate esse furono dal rigido e geloso spirito di un’aristocrazia, che con ripugnanza aveva ceduto alle giuste richieste del Popolo. Ma la sostanza delle Dodici Tavole si attagliava allo stato della Città; ed i Romani erano usciti dalla barbarie, poichè erano capaci di studiare e di adottare le instituzioni dei loro più colti vicini. Un savio cittadino di Efeso fu dall’invidia cacciato fuori dal suo nativo Paese. Innanzi che toccasse i lidi del Lazio, egli aveva osservato le varie forme della natura umana e della società civile. Egli compartì i suoi lumi ai legislatori di Roma, ed una statua fu innalzata nel Foro per immortalare la memoria di Ermodoro13. I [p. 167 modifica]nomi e le divisioni delle monete di rame, unico denaro coniato di Roma fanciulla, erano di origine dorica14: le messi della Campania e della Sicilia provvedevano a’ bisogni di un Popolo, l’agricoltura del quale era spesso interrotta dalla guerra e dalle fazioni, e poscia che stabilito fu il commercio15, i deputati che salpavano dal Tevere, potevano ritornare da quei porti con un carico più prezioso di sapienza politica. Le colonie della Magna Grecia aveano trasportato in Italia, e migliorato le arti della lor madre patria: Cuma e Reggio, Crotona e Taranto, Agrigento e Siracusa, erano nel numero delle più fiorenti città. I discepoli di Pitagora applicarono la filosofia all’uso del Governo; le leggi non scritte di Caronda si giovavano della Poesia e della Musica16, e Zaleuco stabilì la Repubblica dei Locresi, la quale durò senza [p. 168 modifica]alterazione per più di due secoli17. Fu un somigliante motivo di orgoglio nazionale che trasse Tito Livio e Dionisio a credere, che i deputati di Roma visitassero Atene al tempo della saggia e splendida amministrazione di Pericle, e che le leggi di Solone fossero trasfuse nelle Dodici Tavole. Se Atene avesse effettivamente ricevuto una tale ambasceria dai Barbari dell’Esperia, il nome Romano sarebbe stato familiare ai Greci prima del Regno di Alessandro18, e la curiosità dei tempi susseguenti avrebbe indagato e celebrato la più lieve testimonianza che fosse rimasta di un simil fatto. Ma taciono i monumenti Ate[p. 169 modifica]niesi, nè par credibile che i Patrizj si esponessero ad una lunga e pericolosa navigazione, per copiare il purissimo modello di una democrazia. Paragonando le Tavole di Solone con quelle dei Decemviri, si può scoprire qualche accidentale rassomiglianza: alcune regole che la natura e la ragione hanno rivelato ad ogni società; alcune prove di una comune discendenza dall’Egitto, o dalla Fenicia19. Ma in tutti i gran tratti della Giurisprudenza pubblica e privata, i Legislatori di Roma e di Atene compariscono stranieri o contrarj fra loro.

Qualunque esser possa l’origine od il merito delle Dodici Tavole20, esse ottennero appresso i Romani quel cieco e parziale ossequio che i Legislatori di [p. 170 modifica]ogni paese sono desiderosi di compartire alle municipali loro instituzioni. Cicerone21 ne raccomanda lo studio, come piacevole ugualmente ed instruttivo. „Esse dilettano l’animo colla rimembranza di antichi vocaboli, e col ritratto di antichi costumi; esse inculcano i più sodi principj di Governo e di morale; ed io non temo di affermare che la breve composizione dei Decemviri supera il valore effettivo di tutti i libri della filosofia Greca. Quanto ammirabile„, soggiunge Tullio, con onesto od affettato pregiudizio, „è mai la sapienza dei nostri antenati! Noi soli siamo i maestri della prudenza civile, e la nostra preminenza sempre più risplende se volgiamo lo sguardo alla rozza e quasi ridicola giurisprudenza di Dracone, di Solone, e di Licurgo.„ Le Dodici Tavole furono commesse alla memoria dei giovani ed alla meditazione dei vecchi, esse furono trascritte ed illustrate con dotta accuratezza; esse scamparono alle fiamme accese dai Galli; esse sussistevano al tempo di Giustiniano, e la successiva lor perdita venne imperfettamente restaurata dalle fatiche dei critici moderni22. Ma benchè questi venerabili monumenti fossero considerati come la norma del diritto e la fonte della Giustizia23, furono però soverchiati dal peso e dalla varietà delle nuove leggi, che, in capo a cinque secoli, divennero un male più intollerabile che i [p. 171 modifica]vizj della città24. Il Campidoglio racchiudeva tremila tavole di bronzo, contenenti gli atti del Senato e del Popolo25; ed alcuni di questi atti, come la Legge Giulia contro l’estorsione, comprendevano più di cento capitoli26. I Decemviri aveano trascurato di trapiantare in Roma quello Statuto di Zeleuco che per sì lungo tempo mantenne l’integrità della sua Repubblica. Un Locrese che proponeva una nuova legge, si doveva presentare all’Assemblea del Popolo con una corda al collo, e se rigettata era la legge, il novatore veniva strangolato immantinente.

I Decemviri erano stati nominati, e le loro Tavole approvate da un’Assemblea delle Centurie, nella quale le ricchezze preponderarono sopra il numero. La prima classe dei Romani, composta di quelli che possedevano centomila libbre di rame27 ottenne novan[p. 172 modifica]totto suffragj, e non ne rimasero che novantacinque per le sei classi inferiori, distribuite secondo le loro sostanze dalla politica artifiziosa di Servio. Ma i Tribuni ben presto stabilirono una massima più speciosa e popolare, cioè che ogni cittadino ha un egual diritto a stabilire le leggi a cui gli è forza obbedire. In luogo delle Centurie, essi convocarono le Tribù; ed i Patrizj, dopo un’impotente contesa, si sottoposero ai decreti di un’Assemblea, in cui i loro voti erano confusi con quelli degli infimi della Plebe. Non pertanto, sinchè le Tribù passarono successivamente sopra i piccoli ponti28, e diedero il loro suffragio ad alta voce, la condotta di ogni Cittadino rimase esposta agli occhi ed agli orecchi de’ suoi amici e compatriotti. Il debitore insolvente consultava il volere del suo creditore; il cliente avrebbe arrossito di opporsi alle mire del suo patrono; il Generale era seguito dai suoi Veterani, e l’aspetto di un grave Magistrato [p. 173 modifica]serviva di ammaestramento alla moltitudine. Un nuovo metodo di dar le voci in segreto abolì l’influenza del timore e della vergogna, dell’onore e dell’interesse, e l’abuso della libertà accelerò i progressi dell’anarchia e del dispotismo29. I Romani avevano ambito di essere eguali; essi furono posti a livello dall’uguaglianza della servitù; ed il formale consentimento delle Tribù o Centurie pazientemente ratificò i dettati di Augusto. Una volta, ed una volta sola, egli provò un’opposizione sincera e gagliarda. I suoi sudditi avevano ceduto tutta la libertà politica; essi difesero la libertà della vita domestica. Si rigettò con grandi clamori una legge che imponeva l’obbligazione e più stretti rendea i vincoli del matrimonio. Properzio, tra le braccia di Delia applaudiva alla vittoria dell’amor licenzioso; e il divisamento della riforma venne sospeso, finchè sorse al mondo una nuova e più trattabile generazione30. Non era necessario un tale esempio per mostrare ad un prudente usurpatore il pericolo delle Assemblee popolari; ed il loro abolimento, che Augusto aveva tacitamente preparato, si compì senza resistenza, e quasi senza che alcun ne parlasse, all’avvenimento del suo successore31. Sessantamila legislatori plebei, formidabili pel numero, e fatti sicuri [p. 174 modifica]dalla povertà, furono soppiantati da sei cento Senatori che tenevano gli onori, le sostanze e le vite loro dalla clemenza dell’Imperatore. Alleviata fu pel Senato la perdita del potere esecutivo mediante il dono dell’autorità legislativa, ed Ulpiano dietro la pratica di due secoli poteva asserire che i decreti del Senato avevano la forza e la validità delle leggi. Nei tempi di libertà, la passione o l’errore del momento aveva spesso dettato le risoluzioni del Popolo; la legge Cornelia, la Pompea, la Giulia, furono adattate da una sola mano ai disordini che prevalevano: ma il Senato, sotto il Regno dei Cesari, era composto di magistrati e di legisti, e di rado, nelle questioni di Giurisprudenza privata, il timore o l’interesse corrompevano l’integrità del loro giudizio32.

Al silenzio od all’ambiguità delle leggi si suppliva, sopraggiungendo l’occasione, cogli editti di que’ Magistrati ch’erano investiti degli onori dello Stato33. Questa antica prerogativa dei Re di Roma fu trasferita ai Consoli e Dittatori, ai Censori e Pretori nei rispettivi loro uffizi, ed i Tribuni del Popolo, gli Edili ed i Proconsoli si arrogarono un sì fatto diritto. In Roma e nelle province gli editti del Giudice supremo, il Pretore della città, facevano ogni anno conoscere i [p. 175 modifica]doveri dei sudditi e l’intenzione del Governatore, e riformavano la giurisprudenza civile. Tosto che saliva sul Tribunale, egli significava colla voce del banditore, e quindi faceva scrivere sopra un muro bianco, le norme a cui egli si prefiggea di attenersi nella decisione dei casi dubbii, ed il mitigamento che la sua equità poteva apportare al preciso rigore degli antichi statuti. S’introdusse nella Repubblica un principio di discrezione più conforme al genio della Monarchia: l’arte di rispettare il nome e di eludere l’efficacia delle leggi fu accresciuta dai successivi Pretori; s’inventarono sottigliezze e finzioni per travisare le più chiare intenzioni dei Decemviri, ed anche quando salutare era lo scopo, assurdi per lo più spesso erano i mezzi. Si permetteva che il segreto o probabile volere dei defunti prevalesse sopra l’ordine di successione e le forme dei testamenti; ed il pretendente, il quale era escluso dal carattere di erede, non accettava con minor piacere dalle mani di un indulgente Pretore il possesso dei beni del morto suo parente o benefattore. Nella riparazione dell’ingiurie private, si sostituirono compensi ed ammende all’obsoleto rigore delle Dodici Tavole; immaginarie supposizioni annientavano il tempo e lo spazio, e le ragioni della gioventù, della frode, o della violenza cassavano l’obbligo, o scusavano l’adempimento di uno sconveniente contratto. Una giurisdizione così vaga ed arbitraria era esposta ai più pericolosi abusi: la sostanza ugualmente che la forma della giustizia venivano spesso sacrificate ai pregiudizi della virtù, o all’obbliquo impulso di una lodevole affezione, ed alle più grossolane seduzioni dell’interesse o del risentimento. Ma gli errori od i vizj di ciascun Pre[p. 176 modifica]tore spiravano insieme colle sue funzioni di un anno. I Giudici suoi successori non copiavano che quelle massime che avevano la conferma della ragione e dell’esperienza; la soluzione di nuovi casi definiva la norma di procedere, ed allontanate erano le tentazioni di operar l’ingiustizia dalla legge Cornelia, che costringea il Pretore dell’anno a seguire la lettera e lo spirito del primo suo bando34. Era serbato alla sollecitudine ed alla dottrina di Adriano l’ufficio di compiere il disegno concepito dal genio di Cesare; ed immortalata fu la pretura di Salvio Giuliano, eminente Giureconsulto, mediante la composizione dell’editto perpetuo. L’Imperatore ed il Senato ratificarono questo codice, saviamente meditato; riconciliossi alfine il lungo divorzio della legge e dell’equità; ed in luogo delle Dodici Tavole, si stabilì l’Editto Perpetuo qual invariabil norma della giurisprudenza civile35. [p. 177 modifica]

Da Augusto fino a Trajano, i modesti Cesari si contentarono di promulgare i loro editti ne’ vari caratteri di un Magistrato romano; e ne’ decreti del Senato s’inserivano rispettosamente le epistole e le orazioni del Principe. Pare che Adriano fosse il primo36 ad assumere, senza velo, la pienezza del potere legislativo. E questa innovazione, così grata all’attiva sua mente, fu favorita dalla pazienza de’ tempi e dal lungo dimorar ch’egli fece lungi dalla sede del Governo. Si attennero all’istessa politica i susseguenti monarchi, e secondo la rozza metafora di Tertulliano, „la tenebrosa ed avviluppata selva delle leggi antiche fu dilucidata dalla scure de’ mandati e delle costituzioni reali37„. Per lo spazio di quattro secoli, da Adriano a Giustiniano, la giurisprudenza pubblica e privata venne foggiata a norma del voler del Sovrano; ed a poche instituzioni, sì divine che umane, si permise di rimanere sulle prische lor basi. L’origine della legislazione imperiale fu nascosta dalle tenebre de’ tempi e dal terrore di un dispotismo armato; e si propagò una doppia finzione dalla servilità e forse dall’ignoranza de’ legisti che si scaldavano al sole delle corti di Roma e di Bisanzio. I. A preghiera degli antichi Ce[p. 178 modifica]sari, il Popolo od il Senato avea spesso conceduto loro un’esenzione personale dagli obblighi e dalle pene degli statuti particolari; ed ogni concessione era un atto di giurisdizione esercitato dalla repubblica verso il primo de’ suoi cittadini. L’umile privilegio di costui venne finalmente trasformato nella prerogativa di un tiranno; e l’espressione latina di sciolto dalle leggi38 supponevasi che innalzasse l’Imperatore sopra tutti i raffrenamenti umani, e lasciasse la sua coscienza e ragione come la sacra misura della sua condotta. II. I decreti del Senato, che, ad ogni regno, determinavano i titoli ed i poteri di un Principe elettivo, significavano essi pure la dipendenza dei Cesari: nè fu se non dopo che le idee ed anche la lingua dei Romani erano state corrotte, che Ulpiano, o più probabilmente Triboniano stesso39 immaginò e la legge Reale40, ed una concessione irrevocabile per parte del Popolo. Allora i principj di libertà e di giustizia servirono a sostenere l’origine del potere Imperiale, quantunque falsa nel fatto, e fonte di schiavitù nelle sue conseguenze. „Il piacere dell’Imperatore, dicevano, ha il [p. 179 modifica]vigore e l’effetto di legge, poichè il Popolo Romano, mediante la legge Reale, ha trasferito ne’ suoi Principi la piena estensione del suo potere e della sua sovranità41„. Si permise che il volere di un solo uomo, di un fanciullo forse, prevalesse sopra la sapienza dei secoli, e i desiderj di milioni di uomini; ed i Greci degenerati si recarono a gloria di dichiarare che nelle sole mani del Principe si poteva sicuramente depositare l’esercizio arbitrario della legislazione. „Qual interesse o passione„, esclamava Teofilo nella corte di Giustiniano, „può toccare il Monarca nella tranquilla e sublime altezza in cui siede? Egli è già signore delle vite e delle sostanze de’ suoi sudditi; e coloro che gli sono caduti in disgrazia, sono già noverati tra gli estinti42„. Tenendo a vile il linguaggio dell’adulazione, lo storico dee confessare che, nelle questioni di giurisprudenza privata, il Sovrano assoluto di un grande Impero può di rado esser mosso da alcuna considerazione personale. La virtù, od anzi la ragione suggerirà all’imparziale sua mente, che egli è il custode della pace e dell’equità, e che l’interesse della società inseparabilmente è vincolato col suo. Nel Regno più debole e [p. 180 modifica]più vizioso, la sede della giustizia fu occupata dal senno e dall’integrità di Papiniano e di Ulpiano43; ed i nomi di Caracalla e de’ suoi ministri stanno scritti in fronte ai più puri materiali del Codice e delle Pandette44. Il Tiranno di Roma era alle volte il benefattore delle province. Un pugnale pose fine ai misfatti di Domiziano; ma la prudenza di Nerva confermò gli atti di lui, che un Senato, commosso da sdegno, avea cassato nel giubilo della sua liberazione45. Non pertanto nei rescritti46 ossia risposte ai consulti dei Magistrati il più savio dei Principi potea venir tratto in errore da un’esposizione parziale del caso. E questo abuso il quale metteva le frettolose lor decisioni al livello de’ maturi e deliberati atti della legislazione, fu senza frutto condannato dal buon senso [p. 181 modifica]e dall’esempio di Trajano. I rescritti dell’Imperatore, le sue concessioni, i suoi decreti, i suoi editti e le sue prammatiche sanzioni, erano sottoscritti con inchiostro purpureo47, e trasmessi alle Province come leggi generali o speciali, che i Magistrati dovevano eseguire, ed a cui il popolo doveva obbedire. Ma siccome il lor numero di continuo si moltiplicava, la regola dell’obbedienza divenne ogni giorno più dubbia ed oscura, sintanto che il Codice Gregoriano, quello di Ermogene e quel di Teodosio determinarono ed asserirono la volontà del Sovrano. I due primi, de’ quali salvaronsi pochi frammenti, furono composti da due Giureconsulti privati, ad oggetto di conservare le costituzioni degli Imperatori Pagani, da Adriano sino a Costantino. Il terzo, che ci rimane intero, fu compilato in sedici libri per ordine di Teodosio il Giovine, onde consacrare le leggi dei Principi Cristiani, da Costantino fino al proprio suo Regno. Ma i tre Codici ottennero un’eguale autorità ne’ Tribunali; ed il Giudice potea tenere in conto di spurio48 o andato in disuso ogni atto che non si racchiudesse in quel sacro deposito. [p. 182 modifica]

Fra le nazioni selvagge, si supplisce imperfettamente alla mancanza delle lettere coll’uso di segni visibili, i quali destano l’attenzione, e perpetuano la rimembranza di ogni transazione pubblica o privata. La giurisprudenza dei primi Romani presentava le scene di un pantomimo; le parole erano adattate ai gesti, ed il più lieve errore, la più tenue negligenza nelle forme della procedura, era sufficiente per annullare la sostanza dei più fondati diritti. La comunione del matrimonio si denotava col fuoco e coll’acqua, elementi necessarj della vita49: e la moglie ripudiata restituiva il mazzo delle chiavi, mediante la consegna delle quali era stata investita del governo della famiglia. La manumissione di un figlio o di uno schiavo si faceva col percuoterlo leggermente in volto: si proibiva un’opera col gettarvi sopra una pietra; s’interrompeva la prescrizione, col rompere un ramoscello. Il pugno chiuso era il simbolo di un pegno o di un deposito; si presentava la mano destra per impegnar la parola o mostrare la confidenza. Si spezzava un fil di paglia per indicare ch’era stabilito un contratto. S’introducevano i pesi e le bilance in ogni pagamento, e l’erede che accettava un testamento era alle volte obbligato di scoppiettar colle dita, di gettar via gli abiti, e di saltare e ballare con reale ed affettata allegrezza50. Se un cittadino reclamava nella casa di un vi[p. 183 modifica]cino qualche effetto rubatogli, egli nascondea la sua nudità con un pezzo di tela di lino, e si copriva il volto con una maschera o con un bacino per timore d’incontrar gli occhi di una vergine o di una Matrona51. In un’azione civile, il querelante toccava l’orecchio del suo testimonio, afferrava per la gola il suo riluttante avversario, ed implorava, con solenni lamenti, l’ajuto de’ suoi Concittadini. I due competitori si abbrancavan per le mani, come se fossero pronti a combattere innanzi al Tribunal del Pretore: egli ordinava loro di produrre l’oggetto del litigio; essi discostavansi, poi ritornavano con passi misurati, e gettavano a’ suoi piedi una zolla, per rappresentare il Campo che si contendevano. Questa occulta scienza delle parole e delle azioni della legge, era il retaggio dei Pontefici e dei Patrizj. Non diversamente dagli Astrologi Caldei, essi annunciavano ai loro clienti i giorni d’operare e quelli di riposare; queste importanti bagattelle erano intrecciate colla religione di Numa, ed anche dopo la pubblicazione delle Dodici Tavole, l’ignoranza delle forme giudiziarie continuò a tenere i Romani in una specie di servitù. Il tradimento di alcuni uffiziali plebei rivelò finalmente questi fruttuosi misterj: venne un secolo più illuminato che osservò le azioni legali, ridendosi di loro: e la [p. 184 modifica]stessa antichità che santificò la pratica, cancellò dalla memoria l’uso ed il significato di quella primitiva favella52.

Si coltivò nondimeno un’arte più liberale dai savj di Roma, i quali, in un senso più stretto, si possono riguardare come gli autori della legge civile. L’alterazione dell’idioma e de’ costumi dei Romani rendè lo stile delle Dodici Tavole sempre meno famigliare ad ogni generazione novella, ed i passi dubbiosi imperfettamente furono schiariti dalle cure degli antiquarj legali. Più nobile ed importante studio era quello di definire le ambiguità delle leggi, di circoscriverne l’effetto, di applicarne i principj, di estenderne le conseguenze, di riconciliarne le contraddizioni apparenti o reali; e la provincia della legislazione fu tacitamente occupata dagli espositori degli antichi statuti. Le sottili loro interpretazioni concorsero con l’equità del Pretore, a riformare la tirannia delle più rozze età. Una giurisprudenza artificiale, ajutata da mezzi intricati e bizzarri, si applicò a far risorgere i semplici dettami della natura e della ragione, e l’abilità di molti cittadini privati utilmente adoperossi a sottominare le istituzioni pubbliche del loro paese. La rivoluzione di quasi mille anni, dalle Dodici Tavole sino al Regno di Giustiniano, può dividersi in tre periodi quasi eguali in durata, e distinti l’un dall’altro pel metodo d’instruzione, e pel carattere dei legisti53. [A. D. 303-648] L’orgoglio e l’i[p. 185 modifica]gnoranza contribuirono, durante il primo periodo, a ristrignere dentro angusti confini la scienza della legge Romana. Nei giorni pubblici di mercato o di assemblea, si vedeano i maestri dell’arte passeggiar pel Foro, pronti a dare il necessario consiglio all’infimo dei loro concittadini, dal cui suffragio essi potevano ricercare il contraccambio della gratitudine, al porgersi dell’occasione. Quando cresciuti erano negli anni o negli onori, essi stavano in casa, assisi sopra una sedia od un trono, ad aspettare con paziente gravità le visite dei loro clienti, i quali, al romper del giorno, venivano in folla dalla città o dalla campagna ad assediarne le porte. I doveri della vita sociale, e gl’incidenti di una procedura giudiziale, formavano l’ordinario argomento di queste consultazioni, e l’opinione verbale o scritta dei giureconsulti era concepita secondo le regole della prudenza e della legge. Si permetteva di stare ascoltando ai giovani del loro ordine o della loro famiglia; i loro figliuoli godevano il benefizio di più private lezioni, e la famiglia Mucia fu rinomata gran tempo per l’ereditario conoscimento della [p. 186 modifica]legge civile. [A. D. 648-988] Il secondo periodo, la dotta e splendida età della giurisprudenza, si può estendere dalla nascita di Cicerone sino al Regno di Alessandro Severo. Si formò un sistema; s’instituirono scuole; si composero libri, e sì i vivi che i morti servirono all’ammaestramento dello studioso. Il Tripartito di Elio Peto, soprannominato il Cauto, ci pervenne come la più antica opera di giurisprudenza. Catone il Censore aggiunse qualche cosa alla sua fama, mercè de’ suoi studi legali e di quelli di suo figlio. Tre uomini dotti in legge illustrarono il nome di Muzio Scevola. Ma la gloria di aver perfezionata la scienza fu attribuita a Servio Sulpizio, loro discepolo, ed amico di Tullio; e la lunga successione di Giureconsulti che con egual lustro fiorirono sotto la Repubblica e sotto i Cesari, vien finalmente chiusa dai rispettabili caratteri di Papiniano, di Paolo e di Ulpiano. I nomi loro, ed i titoli delle diverse loro opere, minutamente furono conservati, e l’esempio di Labeone può porgere qualche idea della diligenza e fecondità loro. Questo eminente Giurisperito del secolo di Augusto, spendea il suo anno, parte in città parte in campagna, tra il lavoro degli affari e quel del comporre, e si annoverano quattrocento libri, frutto dei solitari suoi studi. Si cita il libro duecento e cinquantanove della raccolta del suo rivale Capitone, e pochi Professori potevano esporre le loro opinioni in meno di un centinajo di volumi. [A. D. 988-1230] Nel terzo periodo, tra i regni di Alessandro e di Giustiniano, quasi muti restarono gli oracoli della giurisprudenza. Appagata era la curiosità; il Trono occupato era da’ Tiranni e da’ Barbari; le disputazioni religiose traevano a se gli spiriti attivi; ed i Professori di Roma, di Costantinopoli, e di [p. 187 modifica]Berito umilmente si contentavano di ripetere le lezioni dei loro più illuminati predecessori. Dai tardi avanzamenti e dalla rapida declinazione di questi studi legali, si può inferire che essi ricerchino uno stato di pace e di raffinamento sociale. Dalla moltitudine de’ luminosi legulei che riempiono lo spazio di mezzo, si chiarisce che si può attendere a tali studi, e comporre somiglianti opere, con una dose comune di giudizio, di sperienza e d’industria. Il genio di Cicerone e di Virgilio più manifesto si fece a misura che ogni nuova età si mostrò incapace di produrne un simile od un secondo: ma i più eminenti maestri di giurisprudenza erano certi di lasciare discepoli, che gli uguaglierebbero o supererebbero in merito ed in celebrità.

Nel settimo secolo di Roma, l’alleanza della filosofia greca venne ad ingentilire e perfezionare la giurisprudenza che grossolanamente si era adattata ai bisogni dei primi Romani. Gli Scevola s’erano formati mediante l’uso e l’esperienza; ma Servio Sulpizio fu il primo legista che stabilisse l’arte sua sopra una teorica certa e generale54. Egli applicò, qual infallibil regola, la logica di Aristotile e degli Stoici, al discernimento del vero e del falso; ridusse a generali principj i casi particolari, e diffuse sopra la massa informe la luce dell’ordine e dell’eloquenza. Cicerone, suo contemporaneo ed amico, non cercò il nome di [p. 188 modifica]legulejo di professione; ma la giurisprudenza della sua patria trasse ornamento dal suo incomparabile ingegno che trasforma in oro ogni oggetto cui tocca. Seguendo l’esempio di Platone, egli compose una Repubblica, e ad uso della sua Repubblica compilò un trattato di leggi in cui si sforza di dedurre da celeste origine la sapienza e la giustizia della costituzione Romana. L’intero Universo, secondo la sublime sua ipotesi, forma un’immensa Repubblica: i Numi e gli uomini che partecipano della stessa essenza sono membri della stessa comunità; la ragione prescrive la legge della natura e delle nazioni, e tutte le instituzioni positive, quantunque modificate dall’accidente o dal costume, sono tratte dalla norma del retto, che la Divinità ha stampato in ogni animo virtuoso. Da questi misteri filosofici, dolcemente egli esclude gli Scettici, i quali ricusano di credere, e gli Epicurei, i quali non hanno volontà di operare. Questi ultimi disdegnano le cure della Repubblica; egli dà loro il consiglio di abbandonarsi al sonno negli ombrosi lor orti. Ma umilmente prega la nuova Accademia di tenere il silenzio, poichè le audaci obbiezioni di essa tosto distruggerebbero l’elegante e ben ordinata struttura del suo grande sistema55. Egli rappresenta Platone, Aristotele e Zenone come i soli maestri che armino ed ammaestrino un cittadino [p. 189 modifica]pei doveri della vita sociale. Si riconobbe poi che la più salda tempra di queste diverse armature era quella degli Stoici56; e le scuole di giurisprudenza sen valsero più che delle altre, sì per l’uso che per l’ornamento. I Giureconsulti romani impararono dal Portico a vivere, a ragionare ed a morire: ma succhiarono in parte i pregiudizi della setta, l’amore del paradosso, il pertinace abito del disputare, ed un minuto attaccamento alle parole, ed alle distinzioni verbali. S’introdusse la superiorità della forma sopra la materia per fondare il diritto di proprietà: e l’eguaglianza dei delitti viene sostentata da un’opinione di Trebazio57, il quale asserisce che chi tocca un orecchio, tocca tutto il corpo, e che chi ruba alcun che da un mucchio di grano o da una botte di vino, è colpevole dell’intero furto58.

Le armi, l’eloquenza e lo studio della legge civile innalzavano un cittadino di Roma alle dignità dello Stato, e le tre professioni ricavavano spesse volte più lustro dall’unione loro in uno stesso individuo. La scienza del Pretore che componeva un editto, confe[p. 190 modifica]riva una specie di preferenza e di autorità ai suoi sentimenti privati: con rispetto si riguardava l’opinione di un Censore o di un Console, e le virtù od i trionfi di un giurisperito porgevano peso ad una interpretazione forse dubbia delle leggi. Il velo del mistero protesse per lungo tempo le arti de’ Patrizj, ed in tempi più illuminati la libertà delle indagini stabilì i principii generali della giurisprudenza. Le disputazioni del Foro dilucidarono i casi sottili ed avviluppati; si ammisero varie norme, varj assiomi e varie definizioni59, come i dettati genuini della ragione; ed il consentimento dei professori di legge influì sulla pratica dei Tribunali. Ma questi interpreti non potevano sancire nè eseguire le leggi della Repubblica, ed i Giudici potevano avere in non cale l’autorità degli stessi Scevola che spesso veniva sopraffatta dall’eloquenza o dai sofismi di un avvocato ingegnoso. Primi furono60 Augusto e Tiberio ad adottare, come utile stromento, la scienza de’ legulei; le servili fatiche di questi accomodarono l’antico sistema allo spirito ed alle mire del dispotismo. Col bel pretesto di assicurare la dignità dell’arte, il privilegio di sottoscrivere opinioni valide e legali fu ristretto ai Savj di grado senatorio, o dell’ordine equestre, i quali preventivamente dovevano essere approvati dal giudizio del Principe; e questo monopolio prevalse, sinchè la libertà della professione non fu restituita da Adriano [p. 191 modifica]ad ogni cittadino consapevole della sua abilità e del suo sapere. La discrezione del Pretore venne allora governata dalle lezioni de’ suoi precettori; si ordinò ai Giudici di obbedire ai comenti, non meno che al testo della legge, e l’uso dei codicilli fu un’innovazione degna di ricordo che Augusto ratificò per consiglio dei Giureconsulti61.

I più assoluti comandamenti non potevano esigere che i Giudici andassero d’accordo coi legisti, se i legisti non andavano d’accordo fra loro. Ma le istituzioni positive sono spesse volte il risultato delle costumanze e del pregiudizio; le leggi e la favella sono ambigue ed arbitrarie; dove la ragione è incapace di pronunziar sentenza, l’amore dell’argomentare viene acceso dall’invidia dei rivali, dalla vanità dei maestri, dal cieco attaccamento dei loro discepoli; e le due Sette una volte famose, dei Proculiani e dei Sabiniani, si divisero la giurisprudenza Romana62. Due sapienti in legge, Atejo Capitone, ed Antistio Labeone63, adornarono la pace del secolo di Augusto: co[p. 192 modifica]spicuo il primo pel favore del Principe, più illustre il secondo per lo spregio in che avea questo favore, e per la vigorosa benchè innocua sua opposizione al Tiranno di Roma. La diversa tempra dell’indole e dei principj loro diede un diverso corso ai loro studj legali. Labeone era affezionato alla forma dell’antica Repubblica; il suo rivale appigliossi alla sostanza più profittevole della sorgente Monarchia. Ma bassa ed inclinata alla dipendenza è la natura di un cortigiano; e Capitone di rado ardisce dipartirsi dai sentimenti od almeno dalle parole de’ suoi predecessori: nel tempo che l’animoso Repubblicano lascia libera la strada alle indipendenti sue idee senza timore di paradosso o di novità. Non pertanto, la libertà di Labeone era inceppata dal rigore delle sue proprie conclusioni, ed egli decideva secondo la lettera della legge le stesse questioni che l’indulgente suo competitore scioglieva con una latitudine di equità più conforme al senso comune ed agli ordinarj sentimenti degli uomini. Se al pagamento di una somma di denaro si era sostituito un cambio ragionevole, Capitone considerava tuttavia la transazione come una vendita legale64, ed egli consultava la natura per l’epoca della pubertà, senza ristringere la sua definizione al periodo preciso di [p. 193 modifica]dodici o di quattordici anni65. Questa opposizione di sentimenti si propagò negli scritti e nelle lezioni dei due fondatori; le scuole di Capitone e di Labeone durarono nell’inveterato conflitto dai tempi di Augusto sino a quelli di Adriano66; e le due Sette trassero il loro soprannome da Sabino o da Proculeio, i più celebri loro maestri. Si applicò parimente la denominazione di Cassiani e di Pegasiani ai membri delle stesse fazioni; ma per uno strano rovescio, la causa popolare cadde fra le mani di Pegaso67, timido schiavo di Domiziano; mentre il favorito dei Cesari era rappresentato da Cassio68, il quale si gloriava di aver per antenato quel Cassio che spense il Tiranno della sua patria. L’Editto Perpetuo terminò in gran parte le controversie delle due Sette. L’Imperatore Adriano [p. 194 modifica]antepose, per questa importante opera, il Capo dei Sabiniani: prevalsero gli amici della Monarchia, ma la moderazione di Salvio Giuliano insensibilmente rappattumò i vincitori ed i vinti. A guisa dei filosofi contemporanei, i giurisperiti del secolo degli Antonini rigettarono l’autorità di un maestro, e da ogni sistema ritrassero le più probabili dottrine69. Ma voluminosi meno divenuti sarebbero i loro scritti, se la scelta loro fosse stata più unanime. La coscienza del Giudice ondeggiava fra il numero ed il peso delle testimonianze discordi, ed ogni sentenza che dalla passione o dall’interesse gli fosse dettata, avea per giustificarsi l’autorità di qualche venerabil nome. Un indulgente editto di Teodosio il Giovane dispensò il giudice dalla fatica di paragonare e ponderare i loro argomenti. Cinque Giureconsulti, Cajo, Papiniano, Paolo, Ulpiano e Modestino furono guardati come gli oracoli della giurisprudenza: decisiva era l’opinione di tre di essi; ma quando erano divisi egualmente di parere, si accordava una voce preponderante all’eminente sapienza di Papiniano70.

[A. D. 527] Al tempo che Giustiniano salì sul Trono, la rifor[p. 195 modifica]ma della giurisprudenza di Roma era un’ardua ma indispensabile impresa. Nello spazio di dieci secoli, l’infinita varietà di leggi e di opinioni legali aveva ingombrato molte migliaia di volumi, che il più ricco non potea procacciarsi, nè il più intelligente tutti esaminare. Non agevolmente si trovavano i libri; ed i Giudici, poveri in mezzo a tanta dovizia, erano ridotti all’esercizio della illetterata loro prudenza. I sudditi delle province greche ignoravano la lingua che disponeva delle vite e delle sostanze loro; ed il barbaro dialetto dei Latini imperfettamente veniva studiato nelle accademie di Berito e di Costantinopoli. Giustiniano, nato nei Campi dell’Illirico, tenea dimestichezza con quest’idioma fin dall’infanzia: studiato egli aveva la giurisprudenza negli anni della gioventù, e l’Imperiale sua scelta elesse i più dotti giuristi dell’Oriente per lavorare insieme col loro Sovrano all’opera della Riforma71. La teorica dei professori trasse assistenza dalla pratica degli avvocati e dall’esperienza dei Magistrati, ed il complesso dell’impresa fu animato dallo spirito di Triboniano72. [A. D. 527-546] [p. 196 modifica]Quest'uomo straordinario, argomento di tante lodi o di tante censure, era nativo di Side nella Panfilia; ed il suo genio, come quello di Bacone, abbracciava, qual proprio dominio, tutti gli affari e tutta la dottrina del suo secolo. Triboniano scrisse in prosa ed in versi sopra una strana diversità di soggetti curiosi ed astrusi73, come sono, due panegirici di Giustiniano, e la vita del filosofo Teodoto; la natura della felicità ed i doveri del Governo; il catalogo di Omero e le ventiquattro sorta di metri; il Canone astronomico di Tolomeo, le fasi della Luna, le case dei Pianeti ed il sistema armonico del Mondo. Alla letteratura della Grecia egli univa l’uso della lingua latina; i Giureconsulti romani si ricettavano nella biblioteca e nella sua mente; ed egli assiduamente coltivava quelle arti che dischiudevano la strada delle ricchezze e delle cariche. Dalla sbarra dei prefetti del Pretorio egli sollevossi agli onori di Questore, di Console e di Maestro degli uffizj: il consiglio di Giustiniano porgeva attento ascolto alla sua eloquenza e sapienza, mentre dalla gentilezza ed affabilità de’ suoi modi scorgevasi addolcita l’invidia. Le virtù o la riputazione di Triboniano furono macchiate dai rimproveri di empietà e di avarizia. In una Corte pinzocchera e [p. 197 modifica]persecutrice, il principal ministro venne accusato di essere segretamente avverso alla fede Cristiana, e si suppose ch’ei nutrisse i sensi di un Ateo e di un Pagano, imputati, senza molta consistenza, agli ultimi filosofi della Grecia. La sua avarizia fu provata più chiaramente, e più vivamente sentita. Se egli si lasciò smuovere dai regali nell’amministrazione della giustizia, l’esempio di Bacone si farà di nuovo presente al pensiero; nè il merito di Triboniano espiarne può la bassezza, se veramente egli ha degradato la santità della sua professione, e se ogni giorno si stabilivano, modificavano e rivocavano leggi per l’abbietta considerazione del suo privato profitto. Quando avvenne la sedizione di Costantinopoli, i clamori e forse la giusta indegnazione del Popolo ottennero l’allontanamento di Triboniano: ma il Questore fu richiamato bentosto e sino al punto della sua morte, ei gioì per più di vent’anni il favore e la confidenza dell’Imperatore. La passiva ed ossequiosa sommissione di lui fu onorata dall’elogio di Giustiniano stesso, la vanità del quale era incapace di discernere quanto quella sommissione spesso degenerasse nell’adulazione più grossolana. Triboniano adorava le virtù del suo grazioso Signore: la terra era meritevole di un simil Principe, ed egli affettava un pio timore di veder Giustiniano, come Elia o Romolo, rapito in aria e trasportato nelle dimore della gloria celeste74. [p. 198 modifica]

[A. D. 528-529] Se Giulio Cesare avesse eseguito la riforma della legge Romana, il creativo suo ingegno, illuminato dalla riflessione e dallo studio, avrebbe dato al mondo un puro ed originale sistema di Giurisprudenza. Ma che che l’adulazione abbia detto, l’Imperatore dell’Oriente temeva di stabilire qual misura dell’equità il suo giudizio privato: col potere legislativo in sua mano egli tolse a presto i soccorsi del tempo e dell’opinione; e le sue compilazioni laboriose hanno per sostegno i savj ed i Legislatori de’ tempi anteriori. In luogo di una statua gettata in una semplice forma dalla mano di un artefice valente, le opere di Giustiniano presentano un pavimento a mosaico, composto di frammenti antichi e costosi, ma troppo spesso senza coerenza tra loro. Nel primo anno del suo Regno, egli commise al fedel Triboniano, ed a nove altri dotti giuristi la cura di rivedere le ordinanze de’ suoi predecessori, come erano contenute, dal tempo di Adriano in poi, nei codici Gregoriano, Ermogeniano e Teodosiano; di purgarle dagli errori e dalle contraddizioni, di reciderne quanto ora andato in disuso o superfluo, e di scegliere le leggi savie e salutari più confacenti alla pratica de’ Tribunali ed all’uso de’ suoi sudditi. In quattordici mesi l’opera fu mandata ad effetto; ed è probabile che col comporre dodici libri o tavole di questa raccolta, i nuovi Decemviri intendessero d’imitare le fatiche dei Romani loro predecessori. Il nuovo [p. 199 modifica]codice fu onorato col nome di Giustiniano, e contrassegnato dalla Reale sua firma: se ne moltiplicarono autentiche copie dalla penna dei Notari e degli Scribi; queste furono trasmesse ai Magistrati delle Province d’Europa, d’Asia e poscia d’Affrica; e la legge dell’Impero fu proclamata alle porte delle Chiese nei giorni solenni di festa. [A. D. 530-533] Restava un’operazione più malagevole a farsi; ed era di estrarre lo spirito della giurisprudenza dalle decisioni, dalle congetture, dalle questioni e dalle dispute dei Legisti romani. Diciassette giureconsulti, aventi Triboniano per Capo, si posero, per comando dell’Imperatore ad esercitare una assoluta giurisdizione sopra le opere dei loro predecessori. Se in dieci anni avessero adempito i suoi comandi, Giustiniano potea rimaner soddisfatto della diligenza loro, e la rapida composizione del Digesto o delle Pandette75, in tre anni, può meritar lode o biasimo, secondo il merito dell’esecuzione. Essi scelsero nella libreria di Triboniano, i quaranta più eminenti Giuristi dei tempi anteriori76; ristrinsero due[p. 200 modifica]trattati in un compendio di cinquanta libri, e diligentemente si ricorda che tre milioni di linee o sentenze77 si trovano, in questo estratto, ridotto al modesto numero di cento e cinquantamila. La pubblicazione di questa grand’opera fu differita un mese dopo la pubblicazione della Instituta, e ragionevol parve che gli elementi precedessero il Digesto della legge Romana. Tosto che l’Imperatore ebbe approvato il lavoro di questi Cittadini privati, egli ratificò colla sua legislativa potestà le speculative loro opinioni. I comenti ch’essi fecero alle Dodici Tavole, all’Editto Perpetuo, alle leggi del Popolo e ai decreti del Senato, succederono all’autorità del testo; il quale fu abbandonato come una venerabile, ma inutile reliquia dei tempi antichi. Si dichiarò che il Codice, le Pandette e l’Instituta erano il sistema legittimo della giurisprudenza civile; soli essi furono ammessi nei Tribunali, soli furono insegnati nelle accademie di Roma, di Costantinopoli e di Berito. Giustiniano indirisse al Senato ed alle Province i suoi oracoli eterni, ed il suo orgoglio, sotto la maschera della pietà, attribuì l’eseguimento, di questo eccelso disegno all’aiuto ed all’inspirazione della Divinità.

Poichè l’Imperatore scansò la fama e l’invidia di [p. 201 modifica]una composizione originale, noi non cercheremo da esso che metodo, scelta o fedeltà, umili ma indispensabili virtù di un compilatore. In mezzo alle varie combinazioni d’idee è difficile assegnare una preferenza ragionevole; ma siccome l’ordine di Giustiniano è differente nelle sue tre opere, così può farsi che tutte tre siano cattive, ed è certo che due non possono essere buone. Nello sceglimento delle leggi antiche, pare che egli mirasse i suoi predecessori senza gelosia e con eguale riguardo: la serie non poteva salire oltre il regno di Adriano, e la bassa distinzione tra il Paganesimo e la Cristianità, introdotta dalla superstizione di Teodosio, era stata abolita dal consenso del genere umano. Ma la giurisprudenza delle Pandette è circoscritta in un periodo di cento anni, dall’Editto Perpetuo sino alla morte di Alessandro Severo. Ai giureconsulti che vissero sotto i primi Cesari di rado si concedè di parlare, nè si rinvengono più di tre nomi, appartenenti ai tempi della Repubblica. Il favorito di Giustiniano (ed aspramente ne fu biasimato) aveva timore d’incontrare la luce della libertà e la gravità de’ savj di Roma. Triboniano condannò all’obblio la schietta e natural sapienza di Catone, dei Scevola e di Sulpizio; mentre invocava altri spiriti di tempra conforme alla sua, i Siri, i Greci e gli Affricani che in folla accorrevano alla Corte imperiale, per istudiare il latino come una lingua straniera, e la giurisprudenza come una professione lucrativa. Ma Giustiniano aveva imposto ai suoi ministri di lavorare78, non per la curiosità [p. 202 modifica]degli antiquarj, ma per l’immediato benefizio de’ suoi sudditi. Spettava ad essi il dovere di scegliere le parti utili e pratiche della legge Romana; e gli scritti degli antichi Repubblicani, curiosi ed eccellenti, più non si accordavano col nuovo sistema di costumi, di religione e di guerra. Se i precettori e gli amici di Cicerone vivessero ancora, il nostro candore ci trarrebbe forse a confessare che, tranne la purità della lingua79, l’intrinseco loro merito fu superato dalla scuola di Papiniano e di Ulpiano. La scienza delle leggi e il tardo frutto del tempo e della esperienza, ed il vantaggio sì del metodo che de’ materiali, tocca naturalmente agli autori più recenti. I giureconsulti del regno degli Antonini avevano studiato le opere de’ loro predecessori: il filosofico loro ingegno avea mitigato il rigore dell’antichità, e fatte più semplici le forme del procedere, sollevandosi sopra la gelosia ed il pregiudizio delle Sette rivali. La scelta delle autorità che compongono le Pandette, venne commessa al giudizio di Triboniano: ma tutto il potere del suo principe non poteva assolverlo dalle sacre obbligazioni della verità e della fedeltà. Come legislator dell’Impero, Giustiniano potea rifiutare le leggi degli Antonini, o condannare, [p. 203 modifica]come sediziose, le libere massime che difese venivano da’ primi giureconsulti Romani80; ma l’esistenza dei fatti passati è posta fuor della giurisdizione del dispotismo, e l’Imperatore si macchiò di frode e di falsità quando corruppe l’integrità del lor testo, scrisse, coi venerabili lor nomi in fronte, le parole e le idee del servile suo regno81, e soppresse, colla mano della potenza, le pure ed autentiche copie de’ lor sentimenti. Le mutazioni ed interpolazioni di Triboniano e de’ suoi colleghi hanno per iscusa il pretesto dell’uniformità ma insufficienti riuscirono le cure loro; e le antinomie o contraddizioni del Codice e delle Pandette esercitano anche al presente la pazienza e la sottigliezza de’ giureconsulti moderni82.

Una voce, priva di evidenza, si propagò da’ nemici di Giustiniano; ed è che la giurisprudenza di Roma [p. 204 modifica]antica venisse ridotta in ceneri dall’autore delle Pandette, nella vanitosa idea ch’essa fosse ormai fallace o superflua. Senza usurpare così odiose funzioni, l’Imperatore potè con sicurezza affidare all’ignoranza ed al tempo l’adempimento di questo desiderio distruggitivo. Avanti l’invenzion della stampa e della carta, il lavoro ed i materiali dello scrivere non si poteano procacciare che dai ricchi; e ragionevole è il computo che il prezzo de’ libri superava cento volte il loro valore presente83. Con lentezza si moltiplicavano le opere, nè si rinnovavano che con precauzione: l’attrattiva del guadagno traeva sacrileghi copisti a radere i caratteri dell’antichità, e Sofocle o Tacito erano obbligati a cedere la pergamena ai messali, alle omelie, ed all’aurea leggenda84. Se tale fu il destino de’ più bei parti dell’ingegno, quale stabilità potea aspettarsi per le voluminose e sterili opere di una scienza andata in disuso? I libri di giurisprudenza importavano a pochi, e non allettavan alcuno: il loro valore era collegato coll’uso presente, ed essi per sempre perirono, tosto che l’uso fu vinto dalle innovazioni della moda, da un merito maggiore o dalla pubblica autorità. Nel secolo della pace e del sapere, tra Cicerone e l’ul[p. 205 modifica]timo degli Antonini, si avea già sofferto di molte perdite: ed alcuni luminari della scuola o del Foro non erano più noti che ai curiosi per tradizione o per riferta. Trecento e cinquant’anni di disordine e di decadenza accelerarono il progresso della obblivione: e può giustamente presumersi che fra gli scritti che si accusa Giustiniano di aver negletti, molti più non si rinvenivano nelle biblioteche dell’Oriente85. Le copie di Papiniano o di Ulpiano, che il Riformatore aveva proscritte, più non furono giudicate degne di attenzione: le Dodici Tavole e l’Editto Pretoriano insensibilmente si smarrirono; ed i monumenti dell’antica Roma furono trascurati e distrutti dall’invidia e dall’ignoranza de’ Greci. Persino le Pandette medesime con difficoltà e pericolo scamparono dal naufragio comune, e la critica ha pronunziato che tutte le edizioni e tutti i codici dell’Occidente derivano da un solo originale86. Esso fu trascritto in Costantinopoli sul [p. 206 modifica]principio del settimo secolo87; poi trasportato dagli accidenti della guerra e del commercio in Amalfi88, in Pisa89, in Firenze90, dove come sacra reliquia91 [p. 207 modifica]depositato or giace nell’antico palazzo della Repubblica92.

Primo pensiero di un riformatore è quello di antivenire ogni riforma futura. Affinchè inviolato si mantenesse il testo della Pandette, dell’Instituta e del Codice, rigorosamente si proscrisse l’uso delle cifre e delle abbreviature; e Giustiniano rammentandosi che l’Editto Perpetuo era stato sepolto sotto il peso dei comenti, dichiarò che si punirebbe qual falsatore il temerario legista che ardisse d’interpretare o di pervertire il volere del suo Sovrano. I discepoli di Accursio, di Bartolo e di Cuiacio, dovrebbero arrossire dell’accumulato lor fallo, a meno che non si sentissero l’animo di contendere al Principe il diritto di vincolare l’autorità de’ suoi successori e la natia libertà dell’intelletto. Ma l’Imperatore non era da tanto di fissare la sua propria incostanza; e mentre vantavasi di rinnovare l’esempio di Diomede, col trasmutare il rame in oro93, scoprì la necessità di purificare il suo [p. 208 modifica]oro dalla mistura di una lega più bassa. [A. D. 534] Non erano corsi per anco sei anni dopo la pubblicazione del primo Codice, ch’egli condannò il tentativo imperfetto col mezzo di una nuova e più accurata edizione dell’opera istessa, ch’egli arricchì di dugento leggi sue proprie, e di cinquanta decisioni de’ più oscuri ed intricati punti della giurisprudenza. Ogni anno, o, secondo Procopio, ogni giorno del lungo suo regno, fu contrassegnato da qualche innovazione legale. Molti suoi atti furono cassati da esso; i suoi successori ne rigettaron molti altri; il tempo ne cancellò un buon numero; ma sedici Editti, e cento sessanta Novelle94 vennero ammesse nel corpo autentico della giurisprudenza civile. Giusta l’opinione di un filosofo, superiore ai pregiudizj della sua professione, queste continue e per la maggior parte futili alterazioni non si possono spiegare, se non riguardando allo spirito venale di un principe, il quale vendeva senza vergogna i suoi giudizj e le sue leggi95. L’accusa dello storico secreto è, per vero dire, aperta e veemente; ma l’unico esempio ch’egli adduce, si può ascrivere tanto alla divozione, quanto all’avarizia di Giustiniano. Un uomo facoltoso e devoto avea lasciato la chiesa di [p. 209 modifica]Emesa erede de’ suoi beni; ed il valore della successione era cresciuto per la destrezza di un artista, il quale sottoscrisse molte polizze di debiti e di promesse di pagamento co’ nomi dei più ricchi abitatori della Siria. Essi allegarono in lor favore la prescrizione stabilita di trenta o di quarant’anni; ma la difesa loro fu vinta da un editto retroattivo, che estendeva i diritti della Chiesa al termine di un secolo; editto così pregno di ingiustizia e di disordine che, dopo di aver servito a quel solo effetto, fu prudentemente abolito nel regno medesimo96. Ancorchè, per discolparne l’Imperatore, si rigettasse la corruzione sopra la sua moglie od i suoi favoriti, tuttavia il sospetto di un vizio sì turpe è tale da macchiar la maestà delle sue leggi; e gli avvocati di Giustiniano sono astretti a confessare che una tal leggerezza, qualunque ne sia il motivo, è indegna d’un legislatore e di un uomo.

[A. D. 533] I monarchi di rado condiscendono a divenire i precettori de’ loro sudditi; e si dee qualche lode a Giustiniano, per comando del quale un ampio sistema fu ridotto in un breve trattato elementare. Tra le varie Institute della legge Romana97, quelle di Cajo98 [p. 210 modifica]erano le più popolari nell’Oriente e nell’Occidente; ed il credito, onde godevano, si potea risguardare come una prova del merito loro. Scelte esse furono dai Delegati imperiali, Triboniano, Teofilo, e Doroteo; ed alla libertà e purità del secolo degli Antonini si collegarono i materiali più rozzi di un’età tralignata. Lo stesso volume che introducea la gioventù di Roma, di Costantinopoli e di Berito allo studio graduale del Codice e delle Pandette, è tuttora prezioso allo storico, al filosofo ed al magistrato. In quattro libri sono divise le Institute di Giustiniano, le quali procedono con metodo non dispregevole, I dalle Persone, II alle Cose, III dalle cose alle Azioni; e l’articolo IV delle Ingiurie private, vien terminato co’ principj della Legge Criminale.

I. La distinzione dei gradi e delle persone è la base più ferma di un governo misto e limitato. In Francia, si tengono vive le reliquie della libertà dallo spirito, dagli onori ed anche dai pregiudizj di cinquantamila nobili99. Duecento famiglie che di [p. 211 modifica]padre in figlio formano il secondo ramo della legislatura Britannica, mantengono l’equilibrio della Costituzione tra il Re, e le Comuni dell’Inghilterra. Una gradazione di patrizj e di plebei, di stranieri e di sudditi ha sostenuto l’aristocrazia di Genova, di Venezia e dell’antica Roma. La perfetta uguaglianza degli uomini è quel punto, in cui si confondono gli estremi della democrazia e del dispotismo; poichè la maestà del Principe o quella del Popolo sarebbe egualmente offesa, se alcune teste si alzassero sopra il livello dei loro compagni di schiavitù, o dei loro concittadini. Nella decadenza dell’Impero di Roma, a poco a poco si abolirono le orgogliose distinzioni della Repubblica, o la ragione o l’instinto di Giustiniano compì l’opera di dare, al governo la semplice forma di una monarchia assoluta. L’Imperatore non potea svellere dalle radici quella riverenza popolare, che sempre accompagna il possesso di un’ereditaria ricchezza o la memoria di antenati famosi. Egli prese piacere nell’onorare con titoli ed emolumenti i suoi Generali, Magistrati e Senatori; ed il suo precario favore compartiva qualche raggio della gloria loro alle lor mogli ed ai figli. Ma al cospetto della legge, tutti i cittadini Romani erano eguali, e tutti i sudditi dell’Impero erano cittadini di Roma. Questo carattere, altre volte inestimabile, si perdè in un nome anticato e vuoto d’effetto. Il suffragio di un Romano più non contribuiva a formar la sua legge, od a creare gli annui ministri del suo potere: i costituzionali suoi diritti avrebbero raffrenato l’arbitraria [p. 212 modifica]volontà di un padrone: e l’audace avventuriere, uscito dalla Germania o dall’Arabia, veniva ammesso, con egual favore, al comando civile e militare, che ai soli cittadini una volta era serbato di assumere sopra le conquiste de’ loro maggiori. I primi Cesari avevano scrupolosamente mantenuto la distinzione della nascita ingenua e servile, la quale veniva decisa dalla condizion della madre; e soddisfatto era il candor delle leggi se potevasi dimostrare la libertà di essa per un solo momento tra la concezione ed il parto. Gli schiavi ch’erano liberati da un generoso padrone, immantinente entravano nella classe media dei liberti: ma non potevano mai essere affrancati dai doveri dell’obbedienza e della gratitudine. Qualunque si fossero i frutti dell’industria loro, il padrone e la sua famiglia ereditava la terza parte od anche la totalità de’ lor beni, quando morivano senza figli e senza testamento. Giustiniano rispettò i diritti dei padroni; ma la sua indulgenza fece sparire la nota di disonore dai due ordini inferiori di affrancati. Chiunque cessava di essere schiavo, otteneva, senza riserva o indugio, la qualità di cittadino; e finalmente l’onnipotenza dell’Imperatore creò o suppose per essi la dignità di un’ingenua nascita che la natura aveva ad essi negato. Per reprimere l’abuso dello manumissioni, ed il troppo rapido accrescimento dei Romani di vile estrazione e miserabili, si erano introdotte molte regole intorno l’età ed il numero di quelli che si potevano affrancare, e le forme che a questo effetto chiedevansi: Giustiniano abolì in ultimo tutte quelle regole, e lo spirito delle sue leggi promosse la estinzione della servitù domestica. Nondimeno le province Orientali, al tempo di Giustiniano, erano tutte piene di schiavi, o nati tali, [p. 213 modifica]comperati ad uso dei loro padroni; l’età, la forza, l’educazione loro ne determinavano il prezzo, il quale variava dalle dieci sino alle sessanta monete d’oro100. Ma l’influsso del governo e della Religione continuamente andavano sminuendo la durezza di quel dipendente stato; e l’orgoglio di un suddito si rimase dall’andar gonfio dell’assoluto suo dominio sopra la vita e la felicità del suo schiavo101.

La legge della natura instruisce la massima parte degli animali ad amare, e a educare la tenera loro progenie. La legge della ragione inculca all’umana spe[p. 214 modifica]cie il contraccambio della filiale pietà. Ma l’esclusivo, assoluto e perpetuo dominio del padre sopra i suoi figliuoli, è particolare alla giurisprudenza Romana102, e sembra così antico come la fondazione della città103. La potestà paterna fu instituita o confermata da Romolo stesso; e dopo la pratica di tre secoli essa fu incisa sulla quarta Tavola de’ Decemviri. Nel Foro, nel Senato, o nel campo il figlio adulto di un cittadino Romano godeva i diritti pubblici e privati di una persona: nella casa di suo padre egli non era che una cosa, confusa dalle leggi colle masserizie, cogli armenti, e cogli schiavi, che il capriccioso padrone poteva alienare o distruggere senza esser tenuto a risponderne avanti alcun tribunale terreno. La mano che compartiva il giornaliero vitto, potea riprendersi il volontario dono, ed ogni cosa che si fosse acquistata dal lavoro o dalla fortuna del figlio, immediatamente si trasfondeva nella proprietà del genitore. L’azione di furto, colla quale il padre reclamava gli effetti rubatigli, i suoi bovi o i suoi figli, era la stessa104, [p. 215 modifica]e se il bove od il figlio avea commesso un’offesa, a lui spettava la scelta di compensare il danno, o di cedere alla parte pregiudicata l’animale colpevole. Al grido dell’indigenza o dell’avarizia il padrone di una famiglia potea disporre de’ suoi figliuoli o de’ suoi schiavi. Ma la condizione di uno schiavo era molto più vantaggiosa; imperciocchè egli ricovrava l’alienata sua libertà mercè della prima manumissione. Laddove il figlio ricadeva di bel nuovo in balìa dello snaturato suo padre, il quale poteva condannarlo alla servitù una seconda ed una terza volta; e solamente dopo la terza vendita e la terza liberazione, egli rimaneva affrancato dalla potestà domestica105 di cui s’era fatto così replicato abuso. Senz’altra norma che la sua discrezione, un genitore potea punire le reali od immaginarie mancanze de’ suoi figli col flagello, colla prigionia, coll’esilio, o col mandargli in catene a lavorare ne’ campi cogl’infimi de’ suoi servi. La maestà di un padre era armata del diritto di vita e di morte106; e gli esempi di tali sanguinose esecuzioni, che spesso venivano lodate, e non punite giammai, rintracciar si possono negli annali di Roma, di là dai tempi di Pompeo e di Augusto. Nè l’età, nè il grado, nè l’uffizio consolare, nè gli onori del trionfo poteano sottrarre i più illustri cittadini ai vincoli della soggezione filia[p. 216 modifica]le107: erano inclusi i propri suoi discendenti nella famiglia del comune loro antenato; e i diritti dell’adozione non erano meno sacri e rigorosi di quelli della natura. Senza timore, benchè non senza pericolo di abuso, i legislatori Romani avean riposto una confidenza illimitata ne’ sensi dell’amore paterno; e l’oppressione veniva temperata dalla sicurezza che ogni generazione doveva a sua volta succedere nella veneranda dignità di padre e di signore.

Alla giustizia ed all’umanità di Numa si ascrive la prima limitazione della podestà paterna, e la fanciulla che col consenso di suo padre avea sposato un uom libero, era al riparo della sventura di divenire la moglie di uno schiavo. Ne’ primi secoli, quando stretta e quasi affamata era la città da’ suoi vicini del Lazio e della Toscana, la vendita de’ figliuoli poteva esser frequente; ma siccome la legge non concedeva ad un Romano di comperare la libertà di un concittadino, così il mercato successivamente sarà andato languendo, e le conquiste della Repubblica dovettero distruggere quel traffico disumano. Un imperfetto diritto di proprietà finalmente fu conferito ai figli; e la triplice distinzione di profettizio, di avventizio e di professionale fu determinata dalla giurisprudenza del Codice e delle [p. 217 modifica]Pandette108. Di tutto ciò che procedeva dal padre, egli non impartiva che l’uso e riserbava l’assoluto dominio: non pertanto, se vendevansi i suoi beni, una favorevole interpretazione eccettuava la porzione de’ suoi figli dalle domande de’ venditori. Il figlio avea la proprietà di quanto acquistasse per matrimonio, per donativi, o per successione collaterale; ma il padre, a meno che ne fosse stato specialmente escluso, ne godeva l’usufrutto per tutto il tempo del viver suo. Come giusta e prudente ricompensa della militare virtù, le spoglie del nemico erano devolute al soldato, da lui solo possedute e poste in pieno suo arbitrio. Questa generosa analogia si stendeva agli emolumenti delle professioni liberali, agli stipendi del servizio pubblico, ed alla sola liberalità dell’Imperatore o dell’Imperatrice. La vita di un cittadino era meno esposta che non la sua sostanza all’abuso dell’autorità paterna. Tuttavia la sua vita potea contrariar l’interesse e le passioni di un indegno genitore: gli stessi delitti che nacquer dalla corruzione, furono più vivamente sentiti dall’umanità del secolo di Augusto, e toccò all’Imperatore di salvare dal giusto furor della moltitudine il crudele Erixone che fece morire sotto i colpi dalla frusta il proprio suo figlio109. Dalla licenza della dominazione servile, il padre Romano fu ridotto alla gravità ed alla moderazione di un giudice. La pre[p. 218 modifica]senza e l’opinione di Augusto confermarono la sentenza di esilio, proferita contro un parricidio d’intenzione dal tribunale, domestico di Ario. Adriano confinò in un’isola il padre geloso, il quale, somigliante ad un assassino, avea colto l’opportunità della caccia per ammazzare un giovane incestuoso, amante della sua matrigna110. Una giurisdizione privata ripugna allo spirito della monarchia; dalla condizione di giudice, il padre fu di nuovo fatto discendere a quella di accusatore; ed Alessandro Severo ingiunse a’ magistrati di ascoltarne le querele e di eseguirne la sentenza. Egli non poteva più porre a morte il figlio, senza incorrere nel delitto e nel castigo di un’uccisione; e le pene del parricidio, da cui la legge Pompea l’aveva esentuato, gli furono in ultimo applicate dalla giustizia di Costantino111. La stessa protezione è dovuta a tutti i periodi dell’esistenza; e la ragione dee applaudire l’umanità di Paolo, che dichiara reo di omicidio il padre che strozza, lascia morir di fame od abbandona il suo bambino; o lo espone sopra una piazza pubblica alle venture di quella pietà che gli ha negato egli stesso. Ma l’esposizione dei fanciulli [p. 219 modifica]era il predominante ed ostinato vizio dell’antichità: essa alle volte venne prescritta, sovente permessa, e quasi sempre praticata impunemente dalle nazioni che mai non nutrirono le idee dei Romani sulla potestà paterna; ed i poeti drammatici, i quali sogliono rivolgersi al cuore umano, con indifferenza rappresentano una consuetudine popolare ch’era coperta dai veli dell’economia e della compassione112. Quando il padre potea soggiogare i propri sentimenti, egli evitava, se non la censura, almeno la punizion delle leggi; e l’Impero di Roma fu lordato dal sangue dei bambini, sintantochè Valentiniano ed i suoi colleghi non ebbero compreso una tal sorta di omicidi nella lettera e nello spirito della legge Cornelia. Le lezioni della giurisprudenza113, e del Cristianesimo non erano state possenti a sradicare quella pratica disumana, sinchè i terrori della pena capitale non avvalorarono il loro influsso benigno114. [p. 220 modifica]

L’esperienza ha provato che i Selvaggi sono i tiranni del sesso femminile, e che la condizione delle donne viene d’ordinario raddolcita dal raffinarsi del viver sociale. Allettato dalla speranza di ottenere una progenie robusta, Licurgo aveva differito l’epoca del matrimonio; essa fu determinata da Numa alla tenera età di dodici anni, affinchè il marito Romano potesse educare a suo talento una pura ed obbediente verginella115. Secondo l’uso dell’antichità questi comprava la sua sposa da’ parenti di lei, ed ella compiva la coenzione, coll’acquistare, pagando tre monete di rame, il diritto d’entrar nella casa e la tutela delle domestiche Deità del consorte. I Pontefici offerivano un sacrifizio di frutta, in presenza di dieci testimoni: le parti contraenti sedevano sulla stessa pelle d’agnello; essi mangiavano una focaccia salata di farro e di riso, e questa confarrazione116, che dinotava l’antico cibo usato in Italia, serviva qual emblema della [p. 221 modifica]mistica loro congiunzione di mente e di corpo. Ma dal lato della donna, questa unione era rigorosa e disuguale; ed ella rinunziava il nome ed il culto della casa paterna, per abbracciare una nuova servitù, decorata soltanto col titolo di adozione. Una finzione della legge, nè ragionevole, nè elegante, conferiva alla madre di famiglia (suo vero nome117) gli strani caratteri di sorella de’ suoi propri figli, e di figlia del suo marito o padrone, il quale era investito della pienezza del potere paterno. Il giudizio od il capriccio del marito approvava, o biasimava, o puniva la condotta della sua moglie. Egli esercitava il diritto di vita e di morte; ed era convenuto che nei casi di adulterio o di ubbriachezza la pena di morte si poteva convenientemente applicare118. Essa acquistava ed ereditava a solo profitto del suo signore; e così chiaramente una donna era definita non come una persona ma come una cosa, che mancando il titolo originale, si potea reclamarla, come gli altri immobili, stante l’uso ed il possesso di un anno intero. A Roma, il dovere coniugale, che le leggi Ateniesi e Giudaiche così scrupolosamente aveano determinato119, [p. 222 modifica]dipendeva dalla volontà del marito: ma sconosciuta era la poligamia, ed egli mai non poteva ammettere nel suo talamo una più bella o più favorita compagna.

Dopo i trionfi punici, le matrone di Roma aspirarono ai benefizj comuni di una libera e potente Repubblica: appagati furono i lor desiderj dall’indulgenza dei padri e degli amanti, e la gravità di Catone il censore indarno fece argine alla loro ambizione120. Esse si sciolsero dalle solennità delle prische nozze, disfecero la prescrizione annua mediante un’assenza di tre giorni, e senza perdere il nome o l’independenza loro sottoscrissero i liberali e definiti termini di un contratto di matrimonio. Esse comunicarono l’uso ma si assicurarono la proprietà dei privati lor beni; la sostanza di una moglie non si potè più alienare od impegnare da un prodigo marito. La gelosia delle leggi proibì ai conjugi le donazioni reciproche, e la cattiva condotta di una delle parti potè porgere, sotto un altro nome, argomento ad un’azione di furto. A questo libero e volontario contratto più non tornarono essenziali i riti religiosi e civili, e, tra persone di un grado [p. 223 modifica]eguale, l’apparente comunità della vita, reputossi una prova sufficiente del loro connubio. La dignità del matrimonio fu poi restituita in fiore dai Cristiani, i quali derivavano ogni grazia spirituale dalle preghiere dei fedeli e dalla benedizione del prete o del Vescovo. Le tradizioni della Sinagoga, i precetti del Vangelo, i canoni dei sinodi generali o provinciali121 regolarono l’origine, la validità e i doveri di questa sacra instituzione; e la coscienza de’ Cristiani fu tenuta a freno dai decreti e dalle censure dei loro direttori ecclesiastici. Non pertanto, i magistrati di Giustiniano non andavano soggetti all’autorità della chiesa. L’Imperatore consultò i giuristi miscredenti dell’antichità, e la scelta delle leggi matrimoniali nel Codice e nelle Pandette è determinata dai terrestri motivi di giustizia e di politica, e dalla naturale libertà dei due sessi122.

Oltre l’assenso delle parti, essenza di ogni contratto ragionevole, il matrimonio appo i Romani richiedeva la [p. 224 modifica]preventiva approvazione dei parenti. Un padre potea, per qualche legge recente, essere obbligato a provvedere ai bisogni di una zitella matura; ma lo stesso stato d’insania non veniva generalmente riputato bastante a togliere la necessità del suo consentimento. Le cagioni dello scioglimento del matrimonio hanno variato presso i Romani123; ma il più solenne sacramento, la confarrazione stessa, si potea mai sempre distruggere col mezzo di riti di una contraria tendenza. Nei primi secoli, il padre di una famiglia era padrone di vendere i suoi figliuoli, e la sua moglie era compresa nel numero di essi. Questo giudice domestico potea pronunziare la morte della colpevole, o con più clemenza cacciarla dal suo letto e dalla sua casa: ma la schiavitù della donna infelice era senza speranza e perpetua, a meno che per sua propria convenienza egli volesse usare le maschili prerogative del divorzio. Si largirono i più vivi elogj alla virtù dei Romani, che si astennero oltre cinquecent’anni dall’esercizio di questo allettante privilegio124: ma lo stesso fatto mette all’aperto i termini disuguali di una congiunzione in cui lo schiavo non aveva il diritto di [p. 225 modifica]rinunziare il suo tiranno, ed il tiranno non aveva la volontà di abbandonare il suo schiavo. Allor quando le matrone Romane divennero le eguali e volontarie compagne dei loro padroni, s’introdusse una nuova giurisprudenza, ed il matrimonio, come le altre società potè disciogliersi mediante l’abdicazione di uno dei compagni. In tre secoli di prosperità e di corruzione questo principio ampliossi al segno che frequente la pratica e pernicioso ne divenne l’abuso. La passione, l’interesse od il capriccio suggerivano ogni giorno motivo di sciorre i legami del matrimonio. Una parola, un segno, un messaggio, una lettera, l’ambasciata di un liberto, dichiaravano la separazione; e il più tenero dei vincoli umani fu abbassato fino a divenire una passaggiera società di piacere o di profitto. Secondo le varie condizioni della vita, i due sessi alternamente provarono la vergogna e l’oltraggio. Una moglie incostante trasportava le sue ricchezze in una nuova famiglia, abbandonando una numerosa e forse spuria progenie alla paterna autorità ed alle cure dell’ultimo suo marito; una donna, venuta vergine e bella alle nozze, potea esser rimandata nel mondo vecchia, povera e senza amici; ma la ripugnanza dei Romani, quando furono stimolati al matrimonio da Augusto, bastevolmente ci fa vedere che le instituzioni predominanti erano meno favorevoli ai maschi. Una speciosa teoria vien confutata da questo libero e perfetto sperimento, il qual dimostra che la [p. 226 modifica]libertà del divorzio non contribuisce a renderci felici e virtuosi. La facilità della separazione distrugge ogni confidenza reciproca ed inasprisce ogni più lieve sconcordia. La minuta differenza che corre tra un marito ed uno straniero, potendo facilmente esser tolta di mezzo, si può anche più facilmente obbliare; e la matrona, che in cinque anni ha il cuore di sottoporsi agli abbracciamenti di otto mariti, dee cessare di avere in rispetto la castità di se stessa125.

Insufficienti rimedj seguitarono, con lontani e tardi passi il rapido andamento del male. Il culto antico dei Romani presentava una Dea particolare intesa ad ascoltare e pacificar le querele de’ coniugi; ma l’epiteto di Viriplaca126 la placatrice dei mariti, troppo chiaramente denota da qual parte si dovesse aspettar sempre la sommissione ed il pentimento. Ogni azione di un cittadino era soggetta al giudizio dei Censori. Il primo che usò il privilegio del divorzio, espose, per loro comandamento, le ragioni del suo procede[p. 227 modifica]re127; ed un Senatore fu espulso per aver rimandato vergine la sua moglie, senza darne contezza a’ suoi amici, o prenderne consiglio. Ogni volta che s’intentava un processo per restituzione di dote, il Pretore, come guardiano dell’equità, esaminava la cagione ed il carattere delle parti, e con moderazione piegava la bilancia in favore della parte innocente ed offesa. Augusto, il quale collegava i poteri di entrambi i magistrati, adottò i differenti loro modi di reprimere o di punire la licenza del divorzio128. Si chiedeva la presenza di sette testimonj Romani per convalidare questo atto solenne e deliberato: se il marito s’era diportato male verso la moglie, in vece di ottenere la dilazione di due anni, era astretto a rifonder la dote immantinente o nello spazio di sei mesi: ma se intaccare ei poteva i costumi della moglie, questa scontava la sua colpa o la sua leggerezza colla perdita della sesta o dell’ottava parte della sua dote. I Principi Cristiani furono i primi che specificassero le giuste cagioni di un divorzio privato; le istituzioni loro, da Costantino fino a Giustiniano, sembrano ondeggiare tra il costume dell’Impero e i desiderj della Chiesa129; e l’autore delle Novelle troppo frequentemente [p. 228 modifica]riforma la giurisprudenza del Codice e delle Pandette. Secondo le leggi più rigorose, una moglie era condannata a sopportare un giuocatore, un bevitore, un dissoluto, purchè questi non fosse reo di omicidio, di avvelenamento, o di sacrilegio; ne’ quali casi il matrimonio avrebbe dovuto, a quanto sembra, venir disciolto dalla mano del carnefice. Ma il sacro diritto del marito invariabilmente era mantenuto per liberare il suo nome e la sua famiglia dall’obbrobrio dell’adulterio. Successivi regolamenti abbreviarono ed ampliarono la lista dei peccati mortali, sì mascolini che femminili, e si convenne che gli ostacoli di un’impotenza incurabile, di una lunga assenza e della professione monastica fossero atti a rescindere l’obbligazione matrimoniale. Chiunque trasgrediva la legge, andava soggetto a varie e gravi penalità. Si toglieva alla donna ogni sua ricchezza ed ornamento, senza eccettuarne il ferrino de’ capelli: se l’uomo introduceva una nuova sposa nel suo letto, ogni sostanza di costei si potea legalmente staggire dalla vendetta della moglie esiliata. La confiscazione si commutava alle volte in una multa; la multa era talvolta aggravata dalla relegazione in un’isola o dal confino in un monastero: la parte offesa veniva affrancata dai vincoli del matrimonio; ma il colpevole, per tutta la sua vita o per un termine d’anni, non poteva passare ad altre nozze. Il successore di Giustiniano porse orecchio alle preghiere degli sventurati suoi sudditi e ristabilì la libertà del divorzio, mediante il mutuo consenso: unanimi furono i giureconsulti130, [p. 229 modifica]ma divisi di parere i teologi131, e l’ambigua parola che contiene il precetto di Cristo, si piega a tutte le interpretazioni che possa chiedere la sapienza di un legislatore.

Molti impedimenti naturali e civili ristringevano, appo i Romani, la libertà dell’amore e del matrimonio. Un istinto, quasi innato ed universale, pare proibire il commercio incestuoso132 de’ padri e de’ figli, nella serie infinita delle generazioni ascendenti o discendenti. Quanto ai rami obbliqui e collaterali, la natura è indifferente, la ragione è muta, vario ed arbitrario è il costume. Nell’Egitto si ammetteva, senza [p. 230 modifica]scrupolo ed eccezione, il matrimonio tra fratelli e sorelle; uno Spartano poteva sposare la figlia di suo padre, un Ateniese quella di sua madre, e le nozze di uno zio colla sua nipote erano applaudite in Atene come una venturosa unione de’ congiunti più cari. I legislatori di Roma profana non si lasciarono mai trarre dall’interesse o dalla superstizione a moltiplicare i gradi proibiti. Ma inflessibilmente essi condannarono il matrimonio tra fratelli e sorelle, stettero dubbiosi se lo stesso interdetto colpisse i cugini primi, rispettarono il carattere paterno delle zie e de’ zii, e trattarono l’affinità e l’adozione come una giusta imitazione dei legami del sangue. Secondo le superbe massime della Repubblica, non si poteva contrarre un matrimonio legittimo che tra Cittadini liberi; richiedevasi un’estrazione onorevole od almeno ingenua per la sposa di un Senatore: ma il sangue dei Re mai non potea mescolarsi in legittime nozze col sangue di un Romano: ed il nome di straniere umiliò Cleopatra e Berenice133 a vivere le concubine134 di Marc’Antonio e di Tito. Questa appellazione, così oltraggiosa alla maestà, non si potea però veramente senza indulgenza applicare ai costumi di quelle Orientali Reine. Una Concubina, nello stretto senso dei giuristi, era una donna di nascita servile o [p. 231 modifica]plebea, l’unica e fedel compagna di un Cittadino Romano, il quale continuava a viver celibe. Le leggi riconoscevano ed approvavano la condizione modesta di lei, posta disotto agli onori di una moglie, disopra all’infamia di una meretrice. Dai giorni di Augusto sino al decimo secolo, l’uso di questo maritaggio secondario prevalse, tanto nell’Occidente che nell’Oriente, e le umili virtù di una Concubina si preferivano spesso alla pompa ed all’insolenza di una nobil matrona. I due Antonini, i migliori dei Principi e degli uomini, godettero in questa congiunzione le dolcezze dell’amor domestico. Imitato ne fu l’esempio da molti Cittadini che mal sofferivano il celibato, ma non volevano macchiare il lustro della loro famiglia. Se poi avveniva che desiderassero di legittimare i loro figliuoli naturali, ciò subitamente mandavano ad effetto col celebrare le nozze loro insieme con una compagna di cui avevano già sperimentato la fecondità e la fede135. Questo epiteto di naturale distingueva la prole della Concubina dalla spuria schiatta dell’adulterio, della prostituzione e dell’incesto, a cui Giustiniano con repugnanza concede i necessarj alimenti, e questi figli naturali erano soli atti a succedere alla sesta parte delle facoltà del putativo lor padre. Secondo il rigore della legge, i bastardi non avevan diritto che al nome ed alla condizione della madre loro, dalla quale essi traevano il carattere di schiavi, di stranieri, o di cit[p. 232 modifica]tadini. Questi rifiuti delle famiglie erano adottati senza rimprovero come figliuoli dello Stato136.

Le relazioni di tutore e di pupillo, che ingombrano tanto posto nell’Institute e nelle Pandette137, sono di natura semplicissima ed uniforme. La persona e la proprietà di un orfanello dovea sempre esser commessa alla custodia di qualche assennato amico. Se il padre defunto non aveva significato la sua scelta, gli agnati o parenti più prossimi del padre, erano considerati come suoi tutori naturali. Gli Ateniesi paventavano di esporre il fanciullo al potere di coloro ai quali più profittevole ne tornava la morte; ma un assioma della giurisprudenza Romana ha sentenziato che il carico della tutela dee sempre accompagnare l’emolumento della successione. Se la scelta del padre, e la linea di consanguinità non somministravano tutore, la nomina del Pretore della Città o del Presidente della Provincia suppliva al difetto. Ma la persona che essi nominavano a questo pubblico uffizio potea legalmente esserne liberata per demenza o cecità, por ignoranza od imperizia, per antecedente inimicizia od interesse contrario, pel numero de’ figliuoli o delle tutele di cui era già carico, e finalmente per [p. 233 modifica]le immunità concedute alle utili fatiche de’ magistrati, de’ legisti, de’ medici e de’ professori. Sinchè il fanciullo potesse parlare e pensare, rappresentato egli era dal tutore, l’autorità del quale non cessava che all’arrivo della pubertà. Senza il consentimento del tutore nessun atto del pupillo poteva obbligarlo in suo pregiudizio, benchè obbligasse gli altri in suo benefizio. È inutile di osservare che il tutore spesso dava sicurtà, e sempre rendeva i conti, e che la mancanza di sollecitudine o d’integrità lo esponeva ad un processo civile e quasi criminale, per la violazione di questo sacro deposito. Gli anni della pubertà si erano sconsigliatamente determinati a quattordici dai giureconsulti, ma siccome le facoltà della mente maturano più tardi che quelle del corpo, s’instituiva un curatore per difendere le sostanze di un giovane Romano dalla sua propria inesperienza e dalle ferventi passioni. Il curatore era stato da principio un custode, stabilito dal Pretore per salvare una famiglia dal cieco scialacquamento di qualche prodigo o disennato; le leggi obbligarono poscia il minore a richiedere una simile protezione, senza la quale non erano validi i suoi atti, sintanto che avesse venticinque anni compiti. Condannate eran le donne alla perpetua tutoria dei padri, dei mariti o dei tutori; un sesso, creato per piacere ed obbedire, supponevasi che mai non avesse aggiunto l’età della ragione e dell’esperienza. Tale almeno era il rigido ed altero spirito della legge antica, la quale appoco appoco s’era andata mitigando prima del tempo di Giustiniano.

II. L’originale diritto di proprietà non può giustificarsi che per l’accidente od il merito dell’occupazione anteriore; e su questo fondamento saviamente è [p. 234 modifica]stabilito dalla filosofia dei giureconsulti138. Il selvaggio che scava un albero, conficca una pietra aguzza in un manico di legno o adatta una corda a un ramo elastico, diviene nello stato di natura, il giusto proprietario della canoa, dell’accetta e dell’arco. Comuni a tutti erano i materiali; la nuova forma, prodotto del suo tempo e della sua semplice industria, appartiene unicamente a lui solo. Gli affamati fratelli non possono, senza un sentimento della propria loro ingiustizia, strappar di mano al cacciatore la preda delle foreste, ch’egli ha cotto od ucciso colla personale sua forza e destrezza. Se la provvida cura di esso conserva e moltiplica i mansueti animali, la cui trattabil natura è suscettiva di educazione, un perpetuo diritto egli acquista all’uso ed al servizio della numerosa lor razza, che ritrae l’esistenza dall’opera sua. Se egli chiude e coltiva un campo per alimentar se stesso ed i suoi, e converte uno steril deserto in un fertil terreno, la semente, il concime, il lavoro, creano un nuovo valore, e le fatiche di tutto l’anno penosamente gli guadagnano il guiderdon delle messi. Negli stati successivi della società il cacciatore, il pastore, l’agricoltore, possono difendere ciò che posseggono colla forza di due ragioni che vivamente parlano ai sentimenti dell’animo umano; vale a dire che quanto essi posseggono è il frutto della industria loro; e che ogni uomo il quale porti invidia alla loro felicità, può procacciarsi eguali beni mediante l’esercizio di un’ugual diligenza. Tale, per [p. 235 modifica]dire il vero, può essere la libertà e la prosperità di una piccola colonia, piantata sopra un’isola fertile. Ma la colonia moltiplica, mentre lo spazio sempre rimane lo stesso: gli audaci e gli scaltri si fanno padroni assoluti dei comuni diritti, retaggio eguale di tutti gli uomini; ogni campo, ogni selva vien circoscritta dai limiti di un padrone geloso, e particolar lode è dovuta alla giurisprudenza Romana, la quale attribuisce al primo occupante il diritto sovra tutti gli animali selvaggi della terra, dell’aria e dell’acqua. Nel progresso dall’equità primitiva alla finale ingiustizia, taciti sono i passi, quasi impercettibile l’ombra, e l’assoluto monopolio vien difeso da leggi positive e da un’artificiale ragione. L’attivo insaziabil principio dell’amor proprio può solo provvedere alimento alle arti della vita e salario all’industria, e tosto che il governo civile e la proprietà esclusiva si sono introdotti, essi diventano necessari all’esistenza della schiatta umana. Fuori che nelle singolari instituzioni di Sparta, i legislatori più saggi hanno disapprovato la legge agraria come un’innovazione falsa e pericolosa. Appresso i Romani l’enorme sproporzione delle ricchezze oltrepassò gli ideali termini di una tradizione dubbiosa, e di uno statuto andato in disuso. Secondo la tradizione, il più povero seguace di Romolo aveva avuto in dono la perpetua proprietà di due jugeri139: lo statuto ristrigneva i Cittadini più ricchi a non possedere [p. 236 modifica]più di cinquecento jugeri, ossia trecento e dodici acri Inglesi. Il territorio di Roma non consisteva originariamente che in alcune miglia di bosco e di prato, lungo le rive del Tevere; e la permutazione domestica nulla poteva aggiungere al fondo nazionale. Ma i beni di un estero o di un nemico erano legittimamente esposti al primo occupante ostile; la Città si arricchì mediante il profittevole commercio della guerra; ed il sangue de’ suoi figli fu il solo prezzo che ella pagasse per le gregge de’ Volsci, gli schiavi della Britannia, le gemme e l’oro dei Regni dell’Asia. Nella favella della giurisprudenza antica che era caduta in corruzione e dimenticanza avanti l’età di Giustiniano, queste spoglie erano distinte col nome di Manceps o Mancipio, prese colle mani, ed ogni volta che venivano vendute od emancipate, il compratore richiedeva qualche assicuranza che erano state la proprietà di un nemico e non di un concittadino140. Un cittadino non poteva perdere i suoi diritti sopra un terreno che coll’abbandonarlo; e subito che il terreno aveva un certo valore, difficilmente si presumeva quell’abbandono. Non pertanto, secondo la legge delle Dodici Tavole, una prescrizione di un anno pei mobili, e di due anni per gl’immobili aboliva il titolo dell’antico padrone, ove però il possessore presente gli avesse acquistati mediante una ragionevole transazione dalla persona che egli credeva esserne il proprietario legittimo141. Una [p. 237 modifica]sì fatta ingiustizia di buona coscienza, senza alcuna mescolanza di frode o di forza, di rado poteva danneggiare i membri di una piccola Repubblica; ma i varj periodi di tre, di dieci, o di vent’anni, determinati da Giustiniano, sono più convenienti all’ampiezza di un grande Impero. Solo relativamente al tempo stabilito per la prescrizione, i giuristi fanno la distinzione di beni reali e di beni personali, e l’idea generale che hanno sulla proprietà è quella di un dominio semplice, uniforme ed assoluto. I professori di giurisprudenza copiosamente spiegano le subordinate eccezioni di uso, di usufrutto142, di servitù143, imposte a benefizio di un vicino sopra le terre, e le case. Con metafisica sottigliezza essi pure indagano i diritti di proprietà, in quanto sono alterati dal mescolamento, dalla divisione, o dalla trasformazione delle sostanze.

Il diritto personale del primo proprietario dee terminare insieme colla sua vita: ma la possessione, senza [p. 238 modifica]alcuna apparenza di cambiamento, pacificamente si continua ne’ suoi figliuoli, sozj de’ suoi lavori, e partecipi delle sue dovizie. Questo naturale retaggio è stato protetto dai legislatori di tutti i climi e di tutte le età, ed il padre viene animato a perseverare nei lenti e lontani miglioramenti dalla tenera speranza che una lunga posterità sarà per godere i frutti delle sue fatiche. Universale è il principio della successione ereditaria, ma l’ordine vanamente ne fu stabilito dalla convenienza o dal capriccio, dallo spirito delle instituzioni nazionali, o da qualche esempio parziale che la frode o la violenza hanno in sulle prime deciso. La giurisprudenza dei Romani pare aver deviato molto meno dall’eguaglianza della natura che non le instituzioni degli Ebrei144, degli Ateniesi145 e dell’Inghilterra146. Al morire di un cittadino, tutti i suoi discendenti, a meno che fossero già affrancati dalla paterna sua potestà, erano chiamati a succedere nell’eredità de’ suoi beni. Sconosciuta [p. 239 modifica]era l’insolente prerogativa della primogenitura: sopra un giusto livello erano collocati i due sessi; tutti i figli e tutte le figlie avevano un egual diritto ad una egual porzione delle sostanze paterne; e se una morte prematura avesse tolto dal mondo uno dei figli, i figli di esso rappresentavano la sua persona e ne dividevan la parte. Quando manca la linea retta, il diritto di successione dee divergere ai rami collaterali. I giurisperiti annoverano i gradi di parentela147, ascendendo dall’ultimo possessore ad un progenitore comune, e discendendo da questo progenitore comune al più prossimo erede: mio padre sta nel primo grado, mio fratello nel secondo, i suoi figliuoli stanno nel terzo; ed il rimanente della serie si può concepire dall’immaginazione, o dipingere sopra una tavola genealogica. In questo computo, si fece una distinzione, essenziale alle leggi, anzi alla costituzione di Roma; gli agnati ossia gli individui della linea mascolina, furono chiamati, secondo la loro prossimità, ad una partizione eguale. Ma una donna era inabile a trasmettere verun diritto legale; e la legge delle Dodici Tavole diseredava come stranieri ed alieni, i cognati di ogni grado, senza far pure eccezione in favore dei sì dolci vincoli di madre e di figlio. Presso i Romani, un nome comune ed i riti domestici univano una gente o un legnaggio; i varj cognomi o soprannomi di Scipione o di Marcello distinguevano un [p. 240 modifica]dall’altro i subordinati rami o casati della stirpe Cornelia, o della Claudia: alla mancanza degli agnati dello stesso soprannome, si suppliva colla denominazione, più larga di gentili; e la vigilanza delle leggi manteneva, negli individui dello stesso nome, la perpetua discendenza della religione e della proprietà. Un somigliante principio dettò la legge Voconia148 che abolì nelle donne il diritto di ereditare. Sintanto che le vergini furono donate o vendute in maritaggio, l’adozione della moglie spegneva le speranze della figlia. Ma l’eguale successione delle indipendenti matrone, ne sosteneva l’orgoglio ed il lusso, e poteva trasportare in una casa straniera le ricchezze dei lor genitori. Le massime di Catone149, quando erano tenute in rispetto, tendevano a perpetuare in ogni famiglia una onorata e virtuosa mediocrità; ma le blandizie femminili a poco a poco riportaron vittoria; ed ogni salutare raffrenamento andò sommerso nella dissoluta grandezza della Repubblica. Il rigore dei Decemviri fu temperato dall’equità dei Pretori. I loro editti restituivano i figli emancipati ed i postumi nel possesso dei diritti della natura; e quando mancavano gli [p. 241 modifica]agnati, essi anteponevano il sangue dei cognati al nome dei gentili, il titolo e carattere de’ quali insensibilmente perì nell’obblio. Il reciproco ereditar delle madri o dei figli fu stabilito nei decreti di Tertulliano e di Orfizio dall’umanità del Senato. S’introdusse un ordine nuovo e più imparziale dalle Novelle di Giustiniano, il quale affettava di far rivivere la giurisprudenza delle Dodici Tavole. Confuse andarono le linee della parentela mascolina e femminina: le serie discendenti e ascendenti, e le collaterali accuratamente furono definite; ed ogni grado, secondo la prossimità del sangue e dell’affetto, successe ai beni vacanti di un cittadino Romano150.

L’ordine di successione è regolato dalla natura, o almeno dalla ragione generale e permanente del legislatore: ma quest’ordine viene frequentemente violato dagli arbitrarj e parziali voleri, che prolungano oltre la tomba il dominio del testatore151. Nello stato semplice della società, quest’ultimo uso od abuso di rado viene permesso. Le leggi di Solone lo introdus[p. 242 modifica]sero in Atene; ed i privati testamenti del padre di una famiglia ebbero l’autorità delle Dodici Tavole in loro favore. Prima dei Decemviri152, un cittadino Romano esponeva i suoi desiderj e motivi all’assemblea delle trenta Curie, ed un atto speciale della legislatura sospendeva le legge generale delle successioni. Dopo la permissione data dai Decemviri, ogni legislatore privato promulgava il suo testamento verbale o scritto al cospetto di cinque cittadini i quali rappresentavano le cinque classi del popolo Romano; un sesto testimonio attestava la concorrenza loro, un settimo pesava la moneta di rame ch’era pagata da un compratore immaginario: ed i beni si trovavano emancipati, mediante una vendita fittizia ed uno scarico immediato. Questa singolar cerimonia153, che destava la meraviglia de’ Greci, veniva tuttavia praticata ai tempi di Severo; ma i Pretori avevano già approvato un testamento più semplice, pel quale essi richiedevano il suggello e la sottoscrizione di sette testimonj, scevri da ogni eccezione legale, ed espressamente convocati per l’esecuzione di quell’atto importante. Un monarca domestico, il qual regnava sopra [p. 243 modifica]le vite e le sostanze de’ suoi figliuoli, poteva distribuirne le rispettive parti, secondo i gradi del loro merito e del loro affetto: l’arbitrario disgusto puniva un figlio indegno colla perdita del suo retaggio, e coll’umiliante preferenza di uno straniero. Ma l’esempio di molti padri snaturati mostrò il bisogno di porre alcun freno alla loro facoltà di testare. Un figlio, o, secondo le leggi di Giustiniano, anche una figlia, non poterono più essere diseredati pel solo silenzio del padre: questi era tenuto a nominare il colpevole ed a specificare l’offesa: e la giustizia dell’Imperatore determinò le sole cagioni che potevano giustificare un tale infragnimento dei primi principi della natura e della società154. A meno che si lasciasse ai figliuoli la legittima, ossia la quarta parte dei beni, essi avevan diritto d’instituire un processo od una querela contro quel testamento inofficioso, di supporre che la malattia o l’età avessero debilitato la mente del lor genitore, e di appellarsi rispettosamente dalla rigida sua sentenza alla riflessiva sapienza del magistrato. Nella giurisprudenza Romana, si ammise una distinzione essenziale tra l’eredità ed i Legati. Gli eredi che succedevano all’intera unità, o ad alcuna delle dodici frazioni della sostanza del testatore, rappresentavano il suo carattere civile e religioso, ne facevano valere i diritti, ne eseguivano gli obblighi, e adempivano i doni dell’amicizia e della liberalità, che l’ultimo suo volere avea lasciato in testamento sotto il nome di Legati. Ma siccome l’imprudenza o la pro[p. 244 modifica]digalità di un uom moribondo può dar fondo all’eredità, e non lasciare che rischi e molestie al suo successore, fu stabilito dalla legge Falcidia che questi, prima di pagare i Legati, potesse ritenere per sè il quarto netto dei beni. Gli si lasciò un tempo ragionevole per esaminare la proporzione tra i debiti e le sostanze, per decidere se volesse accettare o ricusare il testamento; e quando accettava col benefizio di un inventario, le domande dei creditori non potevano oltrepassare la valutazione dei beni. L’ultima volontà di un cittadino poteva essere alterata, lui vivente, ovvero cassata lui morto; le persone, ch’ei nominava, potevano morire prima di lui o rifiutare l’eredità, od essere esposte a qualche impedimento legale. In considerazione di questi eventi, gli si concesse la facoltà di sostituire dei secondi e dei terzi eredi, i quali prendessero uno il posto dell’altro, secondo l’ordine del testamento; ed all’incapacità in cui era un pazzo od un fanciullo di lasciare per testamento i suoi beni, si poteva supplire con una simile sostituzione155. Ma la potestà del testatore spirava coll’accettazione del testamento: ogni Romano, maturo di anni e di senno, acquistava l’assoluto dominio del suo ereditaggio, e la semplicità della legge civile non era mai offuscata dalle lunghe ed avviluppate sostituzioni, che inceppano la prosperità e la libertà delle generazioni future. [p. 245 modifica]

Le conquiste della Repubblica e le formalità della legge stabilirono l’uso dei Codicilli. Se la morte sorprendeva un Romano in qualche remota provincia dell’Impero, egli indirizzava una breve epistola al suo erede legittimo o testamentario; il quale adempiva con onore, o trascurava con impunità quest’ultima richiesta, che i giudici, prima del regno di Augusto, non avevano l’autorità di far eseguire. Un Codicillo poteva essere espresso in qualunque modo, ed in qualunque favella; ma conveniva che la soscrizione di cinque testimonj ne dichiarasse l’autenticità. L’intenzione del testatore, benchè lodevole, era spesso illegale; e l’invenzione dei fedecommessi nacque dal contrasto tra la giustizia naturale e la giurisprudenza positiva. Lo straniero di Grecia o d’Affrica poteva essere l’amico od il benefattore di un Romano senza figli; ma nessuno, fuorchè un concittadino, poteva agire in qualità di suo erede. La legge Voconia, che tolse alle donne il diritto di succedere, ristrinse il Legato o l’eredità di una donna alla somma di centomila sesterzi156, ed una figlia unica era condannata ad essere poco meno che una straniera nella casa del suo genitore. Lo zelo dell’amicizia, e l’amor dei congiunti dettarono un generoso artifizio: si nominava nel testamento un cittadino di qualità, con la preghiera o l’ingiunzione ch’egli restituisse il retaggio alla persona a cui veramente era destinato. Varia fu la condotta dei fedecommessarj in questa situazione spinosa: essi avevano giurato di osservar le leggi della lor patria, ma [p. 246 modifica]l’onore gli traeva a rompere il lor giuramento, e se anteponevano il loro interesse sotto la maschera di patriottismo, essi perdevano la stima di ogni animo virtuoso. La dichiarazione di Augusto li tolse d’angustia, diede una sanzione legale ai testamenti fiduciali ed ai Codicilli, e senza urto prosciolse le forme e le restrizioni della giurisprudenza Repubblicana157. Ma siccome la nuova pratica de’ fedecommessi tralignava in qualche abuso, i decreti di Trebelliano e di Pegaso abilitarono il fedecommissario a ritener per sè un quarto della sostanza, od a trasferir sul capo del vero erede tutti i debiti e processi della successione. Stretta e letterale era l’interpretazione dei testamenti; ma il linguaggio dei fedecommessi e dei Codicilli fu liberato dalla minuta e tecnica accuratezza dei giureconsulti158.

III. Le pubbliche e private relazioni degli uomini impongono ad essi i loro generali doveri: ma le obbligazioni specifiche degli individui tra loro non possono esser l’effetto che I. di una promessa, II. di un benefizio, o, III. di un’ingiuria; e quando queste obbligazioni sono ratificate dalla legge, la parte interessata [p. 247 modifica]può esigerne l’adempimento, mercè di un’azione giudiciale. Sopra di questo principio i legisti di ogni paese hanno edificato una giurisprudenza, la quale, essendo uniforme, si può riguardare come il nobil parto della ragione universale e della giustizia159.

I. I Romani adoravano la Dea Fede (fede umana e sociale), non solo ne’ Templi ad essa innalzati, ma in ogni punto della lor vita; e se questa nazione mancava in qualche parte dei più amabili pregi della cortesia e della generosità, essa faceva maravigliare i Greci col sincero e semplice adempimento degli impegni più ardui e più gravi160. Non pertanto, appo lo stesso popolo, secondo le rigide massime dei Patrizj e dei Decemviri, un nudo patto, una promessa, od anche un giuramento, non creavano alcun obbligo civile, a meno che avessero per conferma la forma legale della stipulazione. Qualunque esser possa l’etimologia della voce latina, essa porta con sè l’idea di un saldo ed irrevocabil contratto, il quale sempre veniva espresso colla formalità di una domanda e di una risposta. „Mi prometti di pagarmi cento monete d’oro?„ Tale era la solenne interrogazione di Sejo. „Lo prometto,„ rispondeva Sempronio. Gli amici di Sempronio che si facevano mallevadori dell’abilità e dell’inclinazione di [p. 248 modifica]esso, potevano separatamente esser citati in giudizio a scelta di Sejo; ed il benefizio della partizione, ossia l’ordine delle azioni reciproche, a poco a poco deviò dalla stretta teoria della stipulazione. Il più cauto e deliberato consentimento fu giustamente richiesto per sostenere la validità di una promessa gratuita; ed il cittadino che avrebbe potuto ottenere una sicurtà legale, incorreva nel sospetto di frode, e pagava la pena della sua negligenza. Ma l’accorgimento dei giureconsulti con buon successo adoperossi a convertire le promesse nella forma delle stipulazioni solenni. I Pretori, in qualità di custodi della fede sociale, ammettevano ogni ragionevol prova di un atto volontario e deliberato, il quale nel lor Tribunale produceva un obbligo di equità, e pel quale essi accordavano una azione ed un ricorso161.

II. Le obbligazioni della seconda classe, contratte mediante la consegna di una cosa, vengono distinte dai giureconsulti coll’epiteto di reali162. Un grato contraccambio è dovuto all’autore di un benefizio, ed ogni uomo a cui siasi affidata la proprietà di un altro, si è vincolato al sacro dovere della restituzione. Nel caso di un prestito amichevole, il merito della generosità [p. 249 modifica]è tutto dal lato del prestatore; in quello di un deposito, il merito è dal lato di chi lo riceve; ma nel caso di un pegno o di quelle altre disposizioni fondate sopra un interesse reciproco, un equivalente compensa il benefizio; e l’obbligo di restituire variamente vien modificato dalla natura dell’accordo. La lingua latina esprime felicemente la differenza fondamentale che corre tra il comodato ed il mutuo, che la povertà de’ nostri idiomi è ridotta a confondere nella vaga e comune appellazione d’imprestito. Il primo imponeva a chi prendeva a presto l’obbligo di restituire la stessissima cosa di cui era stato accomodato per supplire temporaneamente a’ suoi bisogni; il secondo indicava che la cosa imprestata era destinata al suo uso e consumo, ed egli liberavasi da questo mutuo impegno col sostituire lo stesso valore specifico, secondo una giusta estimazione del numero, del peso e della misura. Nel contratto di vendita, l’assoluto dominio passa per diritto al compratore, ed egli paga il benefizio con una somma adeguata di oro o di argento, prezzo e misura universale di tutte le possessioni di questo mondo. Di genere più complicato è l’obbligo di un altro contratto, quello di locazione. Le terre o le case, le fatiche o i talenti si possono affittare per un termine definito. Allo spirar del tempo, si dee restituire la cosa stessa al proprietario con una retribuzione in aggiunta pel profitto che se ne è ricavato mediante l’occupazione o l’impiego. In questi contratti lucrativi, ai quali conviene aggiugnere quelli di società e di commissione, i giureconsulti alle volte suppongono la consegna dell’oggetto, ed altre volte presumono il consentimento delle parti. Al pegno sostanziale si sostituirono finalmente i diritti invisibili [p. 250 modifica]dell’ipoteca; ed il prezzo di una vendita, determinata da ambe le parti, mette, da quel punto, le venture del guadagno o della perdita sul conto del compratore. Si può ragionevolmente supporre che ogni uomo sia per obbedire ai dettami del suo interesse; e se egli accetta il benefizio, è obbligato a sostenere la spesa della transazione. In questo illimitato soggetto, lo storico dee particolarmente osservare la locazione delle terre e del denaro; la rendita di quelle e l’interesse di questo, in quanto esse materialmente toccano la prosperità dell’agricoltura e del commercio. Il proprietario di terreni era spesso obbligato ad anticipare il capitale e gli stromenti della coltivazione, ed a contentarsi di una partizione dei frutti. Se il tapino affittuale veniva oppresso da sinistri accidenti, dal contagio o da ostile violenza, egli invocava per un proporzionato alleviamento l’equità delle leggi: cinque anni erano il termine d’uso per tali contratti, nè si poteva aspettare alcun solido o costoso miglioramento da un fittaiuolo che ad ogni momento poteva esser mandato fuora, per la vendita della possessione163. L’usura164, [p. 251 modifica]quell’inveterato male di Roma165, era stata scoraggiata dalle Dodici Tavole, ed abolita dai clamori del popolo. I bisogni e l’odiosità di esso popolo la richiamarono in vita, la discrezione dei Pretori la tollerò, ed il Codice di Giustiniano finalmente ne prescrisse i confini. Alle persone d’illustre grado non si concedette di ricevere più del quattro per cento; il sei per cento fu stabilito qual ordinaria e legale misura dell’interesse. Si permise l’otto, per la convenienza delle manifatture e de’ mercatanti, e si accordò il dodici per le assicurazioni marittime, le quali da’ più antichi savj non s’erano ardite definire; ma fuori che in questa rischiosa occasione, severamente si raffrenò la pratica dell’usura esorbitante166. Il clero dell’Oriente e dell’Occidente [p. 252 modifica]condannò il più tenue interesse167: ma il sentimento del vantaggio reciproco, il quale aveva trionfato delle leggi della Repubblica, con egual fermezza fece fronte ai decreti della Chiesa, ed anche ai pregiudizi del genere umano168.

III. La natura e la società impongono lo stretto obbligo di riparare un torto; e chi ha sofferto per una privata ingiustizia, acquista un diritto personale ed un’azione legittima. Se la proprietà di un altro viene affidata alle vostre mani, il grado di cura che voi dovete prenderne, cresce o scade secondo il benefizio che voi derivate da quel temporaneo possedimento. Di rado avviene che ci tocchi render ragione di un accidente inevitabile, ma le conseguenze di un fallo volontario vanno mai sempre imputate al suo autore169. Un Romano richiamava e ricuperava le cose rubategli, [p. 253 modifica]mediante un’azione civile di furto: esse potevano passare per una serie di mani innocenti e pure, ma soltanto una prescrizione di trent’anni era valevole ad estinguere l’originale suo diritto. Gli si restituivano quegli effetti per sentenza del Pretore, e si compensava l’ingiuria col pagamento del doppio, del triplo ed anche del quadruplo del loro valore, secondo ch’era succeduta una frode secreta, od una rapina aperta, e secondo che il rubatore era stato sorpreso sul fatto, ovvero scoperto per una susseguente ricerca. La legge Aquilia170 difendeva la vivente proprietà di un cittadino, i suoi schiavi ed il suo bestiame, dai colpi della malizia, o dai danni della negligenza: essa condannava il colpevole a pagare il più alto prezzo a cui si potesse stimare l’animale domestico in un qualunque momento dell’anno che ne aveva preceduto la morte. Per la distruzione di ogni altro valutabile oggetto si lasciava una latitudine di trenta giorni all’estimazione. Un’ingiuria personale viene alleggerita od aggravata dai costumi del tempo, e dalla severità dell’individuo: l’equivalente del dolore o dell’offesa di una parola o di una percossa non si può facilmente valutare in denaro. La rozza giurisprudenza dei Decemviri aveva confuso tutti gli insulti fatti nel bollore dell’ira, che non giungevano alla rottura di un membro, ed essa condannava l’aggressore alla comune multa di venticinque assi. Ma la stessa denominazione di moneta fu ridotta, in tre secoli, da una libbra alla metà di un’oncia; e l’insolenza di un ricco Romano si prendeva a buon mercato lo sciaurato spasso di trasgredire e di [p. 254 modifica]soddisfare la legge delle Dodici Tavole. Verazio correva per le strade, percuotendo in faccia gl’innocenti passeggieri, ed un suo seguace, che portava una borsa, immediatamente rintuzzava le lor grida colla esibizione di venticinque monete di rame, il valore di circa uno scellino171, a norma di quanto esigeva la legge. L’equità dei Pretori esaminava e valutava il merito distinto di ogni querela particolare. Nell’aggiudicare i danni civili, il magistrato si assumeva il diritto di aver riguardo alle varie circostanze di tempo e di luogo, di età e di dignità, che inacerbar potevano l’onta e il dolore della persona offesa. Ma se egli ammetteva l’idea di un’ammenda, di una punizione, di un esempio, egli invadeva la provincia della legge Criminale, benchè forse ne riparasse il difetto.

Tito Livio, ove riferisce il supplizio del Dittatore di Alba, fatto a brani da otto cavalli, lo rappresenta come il primo e l’ultimo esempio di crudeltà Romana, nel punimento de’ più atroci delitti172. Ma questo atto di giustizia o di vendetta venne eseguito sopra un nemico straniero nell’ardore della vittoria, e per comando di un uomo solo. Le Dodici Tavole offrono una più decisiva prova dello spirito nazionale, perocchè [p. 255 modifica]furono esse composte dai più saggi del Senato, ed accettate dai liberi suffragi del popolo. Tuttavia queste leggi, come gli statuti di Dracone173 erano scritte a note di sangue174. Esse approvano la disumana e disugual massima del taglione; e rigorosamente esigevano la perdita di un occhio per un occhio, di un dente per un dente, di un membro per un membro, a menochè l’offensore potesse riscattare il suo perdono con pagare una multa di trecento libbre di rame. I Decemviri distribuirono molto liberamente i castighi men gravi della flagellazione e della servitù, e giudicarono degni di morte nove delitti di un’assai differente natura. Erano questi: I. Ogni atto di tradimento contro lo Stato o di corrispondenza col nemico pubblico. Doloroso ed ignominioso era il supplizio. Si ravvolgeva in un velo il capo del Romano degenere, gli si legavano dietro il dorso le mani, e poscia che era stato battuto colle verghe dal littore, veniva appeso nel mezzo del Foro ad una croce, o ad un albero inauspicato. II. I notturni conciliaboli nella Capitale, qualunque fosse il pretesto, o di piacere o di religione o di ben pubblico. III. L’uccisione di un cittadino, la quale, secondo i comuni sentimenti degli uomini, richiede il [p. 256 modifica]sangue dell’uccisore. Il veleno è più odioso ancora della spada o del coltello; e ci reca stupore lo scorgere in due sciagurati esempi, come una sì fatta sottile perversità abbia di buon’ora infettato i costumi della Repubblica, e le caste virtù delle matrone Romane175. Il parricida che violava i doveri della natura e della gratitudine, veniva gettato nel fiume e nel mare, chiuso in un sacco, nel quale successivamente si rinserrarono un gallo, una vipera, un cane ed una scimia, come i suoi più degni compagni176. L’Italia non produce scimie; ma non fu sentita una tal mancanza sino alla metà del sesto secolo, epoca in cui per la prima volta si scoprì un delitto di parricidio177. IV. [p. 257 modifica]La malvagità di un incendiario. Questi era battuto colle verghe dapprima, poi consegnato egli stesso alle fiamme; solo esempio in cui la nostra ragione sia tentata di approvar la giustizia della pena del taglione. V. Lo spergiuro giudiziale. Il testimonio malizioso o corrotto era lanciato capovolto giù dalla rocca Tarpeia per espiare la sua falsità, che più fatale era fatta dalla severità delle leggi penali, e dalle mancanze di prove scritte. VI. La corruzione di un giudice, il quale accettava regali per dare una sentenza iniqua. VII. I libelli e le satire, i cui rozzi versi alle volte perturbarono la pace di una città senza lettere. Se ne puniva a colpi di bastone l’autore, meritato castigo; ma non è ben certo se lo lasciassero spirare sotto i colpi del manigoldo. VIII. La notturna tristizia di danneggiare o distruggere la messe del vicino. S’impendeva il delinquente come gradita vittima a Cerere. Ma le Deità boscherecce erano implacabili meno, e l’estirpazione dell’albero più prezioso non traeva dietro di se che l’ammenda di venticinque libbre di rame. IX. Le incantagioni magiche: che avevan forza, a quanto credevano i pastori del Lazio, di estenuare un nemico, di spegnerne la vita, e di sterpar dalle sedi le piantagioni che avevano posto radici più salde. Ci rimane a parlare della crudeltà delle Dodici Tavole ver[p. 258 modifica]so i debitori che non potevan pagare, ed io ardirei di anteporre il senso letterale dell’antichità alle speciose interpretazioni dei critici moderni178. Dopo la prova giudiziale o la confessione del debito, si concedevano trenta giorni di grazia, innanzi che un Romano fosse dato in balìa del suo concittadino. In questa prigione privata, dodici oncie di riso componevano il giornaliero suo vitto: si poteva caricarlo di una catena del peso di quindici libbre; e per tre volte veniva esposto sulla piazza del mercato a sollecitare colla sua miseria la compassione de’ suoi amici e concittadini. Allo spirar di sessanta giorni, la perdita della libertà o della vita lo discioglieva dal debito. Il debitore insolvente era posto a morte, oppur venduto a schiavitù straniera di là dal Tebro: ma se parecchi creditori erano ostinati ugualmente ed inflessibili, essi potevano legalmente smembrare il corpo di lui, e satollare la propria vendetta con questo orribile spartimento. I difensori di questa legge selvaggia hanno sostenuto ch’essa doveva possentemente operare per rattener col terrore gli scioperati ed i fraudolenti dal contrarre debiti che non erano atti a pagare; ma l’esperienza dissipava l’effetto di questo terror salutevole, non trovandosi verun creditore sì crudele da esigere la pena della vita o delle membra, la quale non gli tornava ad alcuno profitto. Come i costumi di Roma vennero a poco a poco [p. 259 modifica]ingentilendo, il codice criminale dei Decemviri fu abolito dall’umanità degli accusatori, dei testimoni e dei giudici; e l’impunità divenne la conseguenza di un rigore fuor di misura. La legge Porzia e la Valeria proibirono a’ magistrati di applicar ad un cittadino libero qualsivoglia capitale od anche corporale castigo; e gli anticati statuti di sangue vennero artificiosamente, e forse con verità attribuiti allo spirito di tirannide dei re, non dei patrizi.

Nella mancanza delle leggi penali e nell’insufficienza delle azioni civili, la pace e la giustizia della città erano imperfettamente mantenute dalla giurisdizione privata de’ cittadini. I malfattori che riempiono le nostre carceri, sono il rifiuto della società, e si può comunemente ascrivere ad ignoranza, a povertà ed a brutali appetiti quei delitti di cui sostengon la pena. Per commettere impunemente simili enormità, un vile plebeo poteva rivocar il sacro carattere di membro della Repubblica ed abusarne: ma sulla prova od anche sul sospetto del delitto, lo schiavo o lo straniero veniva attaccato ad una croce, e questa rigida e sommaria giustizia si poteva esercitare senza impedimento sopra la massima parte del popol minuto di Roma. Ogni famiglia conteneva un tribunale domestico, il quale non era limitato, come quello del Pretore, alla cognizione delle azioni esterne: la disciplina dell’educazione inculcava massime ed abitudini di virtù; ed il padre Romano era mallevadore verso lo Stato dei costumi de’ suoi figliuoli, poichè disponeva egli senza appello della vita, della libertà e dell’eredità loro. In certi frangenti, il cittadino aveva autorità di vendicare i suoi torti privati od i pubblici. Il consentimento delle leggi giudaiche, ateniesi e romane permetteva di am[p. 260 modifica]mazzare il ladrone notturno; ma in chiaro giorno non era lecito di spegnerlo senza che si avesse una qualche prova di pericolo. Chiunque sorprendeva un adultero nel suo letto nuziale, poteva liberamente dare sfogo alla sua vendetta179. La provocazione scusava il più sanguinoso o fiero oltraggio180, nè fu prima del Regno di Augusto che il marito venne ridotto a pesare il grado dell’offensore, ed il padre condannato a sacrificare la sua figlia, insieme col ribaldo suo seduttore. Dopo la cacciata dei Re, l’ambizioso Romano che avesse ardito di assumere il titolo, o d’imitare la tirannide loro, era consacrato ai Numi Infernali. Qualunque de’ suoi concittadini aveva la spada della giustizia in sua mano; e l’azione di Bruto, benchè contraria alla gratitudine ed alla prudenza, era anticipatamente santificata dal giudizio della sua patria181. La barbara consuetudine di portar armi in seno alla [p. 261 modifica]pace182 e le sanguinose massime dell’onore erano sconosciute ai Romani; e, per lo spazio dei due secoli più puri, dallo stabilimento dell’egual libertà sino al fine delle guerre Puniche, la Città non fu mai perturbata da sedizioni, e di rado fu contaminata da atroci delitti. Allor quando le fazioni domestiche e la dominazione al di fuori ebbero infiammato ogni vizio, più vivamente si sentì la mancanza delle leggi penali. Al tempo di Cicerone, ogni cittadino privato godeva il privilegio dell’anarchia: ogni ministro della Repubblica poteva innalzare le ambiziose sue mire sino alla regale potenza, e lode tanto maggiore meritavano le loro virtù, in quanto ch’erano gli spontanei frutti della natura o della filosofia. Verre, tiranno della Sicilia, poi che s’ebbe per tre anni saziato di libidine, di rapina e di crudeltà, non potè esser citato in giudizio che per la restituzione pecuniaria di trecentomila lire sterline, e tale fu la moderazione delle leggi, de’ giudici e forse dell’accusatore medesimo183 che col rifondere una tredicesima parte del suo bottino, fu concesso a Verre di ritirarsi in un esilio placido e voluttuosonota.184 [p. 262 modifica]

Il primo imperfetto tentativo di ristabilire la proporzione tra i delitti e le pene fu l’opera del Dittator Silla, il quale in mezzo al sanguinolento trionfo, aspirò a reprimere la licenza, anzi che ad opprimere la libertà de’ Romani. Egli si recò a gloria l’arbitraria proscrizione di quattromila settecento cittadini185. Ma nel carattere di legislatore, rispettò i pregiudizj de’ tempi; ed in luogo di profferire una sentenza di morte contra il ladro o l’assassino, contra il generale che dava un esercito in mano al nemico, o il magistrato che dilapidava una provincia, Silla contentossi di aggravare le condannazioni pecuniarie colla pena dell’esilio, o parlando secondo lo statuto, coll’interdetto del fuoco e dell’acqua. La legge Cornelia, poi la Pompeia e la Giulia, introdussero un nuovo sistema di giurisprudenza criminale186, e gl’Imperatori, da Augusto sino a Giustiniano, velarono il crescente rigore di quelle leggi sotto i nomi de’ loro primitivi [p. 263 modifica]autori. Ma l’invenzione e l’uso frequente delle pene straordinarie, derivava dal desiderio di estendere e di occultare i progressi del dispotismo. Nella condanna degl’illustri Romani, il Senato sempre mostravasi presto a confondere, il potere giudiciale col legislativo, per secondare la volontà de’ suoi padroni. Spettava ai governatori il dovere di mantenere la pace della loro provincia, coll’arbitraria e rigorosa amministrazione della giustizia. La libertà di Roma si dilegua nell’estension dell’Impero, ed il malfattore Spagnuolo che invocò il privilegio di un Romano, fu sollevato per comando di Galba, sopra una croce più bella e più alta187. I rescritti, che partivan dal trono, decidevano di tempo in tempo le questioni che per la novità ed importanza loro parevano eccedere l’autorità e il discernimento di un proconsolo. La deportazione ed il taglio del capo erano riserbate per le persone di onorevol grado, i delinquenti più bassi venivano impiccati od arsi, o sepolti nelle miniere, od esposti alle fiere dell’anfiteatro. S’inseguivano i ladroni armati, e si estirpavano come nemici della società; si guardava l’abigeato come un capitale delitto188, ma il semplice furto [p. 264 modifica]non si considerava che per un’ingiuria meramente civile e privata. I gradi della colpa, ed i modi della pena troppo spesso determinavansi dalla discrezione delle autorità, ed i sudditi mal conoscevano i pericoli legali a cui potevano andar incontro in ogni azione del viver loro.

I peccati, i vizj, i delitti sono gli obbietti della teologia, dell’etica e della giurisprudenza. Ogni volta che i loro giudizj concordano, essi scambievolmente si avvalorano; ma qualor differiscono, un prudente legislatore pesa il delitto, e stabilisce il castigo secondo la misura dell’ingiuria sociale. Su questo principio, il più temerario assalto contro la vita e la proprietà di un cittadino privato, si giudica meno atroce che il delitto di tradimento o di ribellione, che lede la maestà della Repubblica. Gli ossequiosi giuristi con unanime voce profferirono che la Repubblica è contenuta nella persona del suo Capo; ed il brando della legge Giulia fu affilato dall’incessante diligenza degli Imperatori. Il commercio licenzioso de’ sessi può tollerarsi come un impulso di natura, o proibirsi come una fonte di disordine e di corruzione: ma il buon nome, gli averi, la famiglia del marito, gravemente sono intaccati dall’adulterio della moglie. Il senno di Augusto, poi ch’ebbe frenato la libertà di vendicarsi, applicò l’animavversione delle leggi a questa domestica offesa: e le parti delinquenti erano condannate al pagamento di grossi danni ed ammende, indi rilegate in lungo o perpetuo esilio sopra due isole separate189. La Religione riprende egualmente l’infe[p. 265 modifica]deltà del marito; ma siccome questa non è accompagnata dagli stessi effetti civili, così la moglie non ebbe mai facoltà di rivendicare i suoi torti190, e la distinzione di semplice o duplice adulterio, così comune e così importante nel gius canonico, è sconosciuta alla giurisprudenza del Codice e delle Pandette. Con ripugnanza io prendo e con impazienza mi affretto ad attingere un vizio più odievole, di cui la modestia rigetta il nome, e la natura abborisce l’idea. Infettati ne andarono i primi Romani dall’esempio degli Etruschi191 e de’ Greci192; in mezzo al pazzo abuso della [p. 266 modifica]prosperità, e della potenza, insipido parve ogni piacere che fosse innocente; e la legge Scatinia193 strappata da un atto di violenza, insensibilmente cadde abolita pel trapassare degli anni e per la moltitudine dei rei. Questa legge riguardava lo stupro, e forse la seduzione di un giovane d’ingenui natali come un’ingiuria personale ch’essa puniva colla meschina ammenda di diecimila sesterzj, o di ottanta lire sterline: la resistenza o la vendetta della castità potea spegnere lo stupratore, ed io sono desideroso di credere che in Roma, come in Atene, il volontario ed effemminato disertor del suo sesso, fosse privato degli onori e dei diritti di cittadino194. Ma la pratica del vizio non era sconfortata dalla severità dell’opinione: l’indelebile macchia di tale nefandità era confusa colle più veniali trasgressioni della fornicazione e dell’adulterio, nè il turpe amante era esposto allo stesso disonore ch’egli imprimeva sull’uomo o sulla donna ch’egli facea partecipe del suo delitto. Da Catullo fino Giovenale195 i poeti accusano e celebrano la [p. 267 modifica]de’ tempi; e debolmente si tentò la riforma dei costumi dalla ragione e dall’autorità de’ legisti, sinchè il più virtuoso de’ Cesari proscrisse il peccato contro la natura come un delitto contro la società196.

Un nuovo spirito di legislazione, rispettabile perfino ne’ suoi errori, sorse nell’Impero insieme colla religione di Costantino197. Le leggi di Mosè furono ricevute come il divino modello della giustizia, ed i Principi cristiani adattarono i loro statuti penali ai gradi di turpitudine morale e religiosa. L’adulterio fu da principio dichiarato un delitto capitale; la fralezza dei sessi fu assimilata al veneficio od all’assassinio, all’ammaliamento od al parricidio; le stesse pene furono applicate alla pederastia attiva e passiva; e tutti i colpevoli, sì di condizione libera che di servile furono o annegati o decapitati o gettati vivi fra le fiamme vendicatrici. La comune simpatia degli uomini [p. 268 modifica]risparmiò gli adulteri; ma gli amatori del proprio sesso si videro perseguitati da una generale e pia indegnazione. Gli impuri costumi della Grecia prevalevano tuttavia nelle città dell’Asia, ed ogni vizio era fomentato dal celibato de’ monaci e del clero. Giustiniano rallentò il castigo almeno delle donne infedeli; la sposa colpevole non venne più condannata che alla solitudine ed al pentimento, ed in capo a due anni ella poteva esser richiamata tra le braccia di un marito commosso a perdonare. Ma lo stesso Imperatore si mostrò l’implacabil nemico della libidine contra natura, e la crudeltà della sua persecuzione appena può trovare scusa nella purità de’ motivi198. Infrangendo ogni principio di giustizia, egli estese ai passati come ai futuri errori l’effetto de’ suoi editti, non concedendo che un breve intervallo per confessarsene e riceverne il perdono. Penosamente si facea morire il reo con l’amputazione dello strumento del peccato, o coll’inserimento di pungenti canne ne’ pori e ne’ tubi più squisitamente sensivi; e Giustiniano difendeva la proprietà del supplizio col dire che a’ delinquenti si sarebbero troncate le mani, se fossero stati convinti di sacrilegio. In un sembiante stato di onta e di agonia, due vescovi, Isaia di Rodi, e Alessandro di Diospoli, furono trascinati per le contrade di Costantinopoli, mentre un banditore ad alta voce ammoniva i loro confratelli ad osservare quella terribil lezione, ed a non contaminare la santità del loro carattere. Que’ prelati erano forse innocenti. Una sentenza di morte e d’in[p. 269 modifica]famia spesso non avea per fondamento che la debole e sospetta testimonianza di un fanciullo o di un servo: i giudici presumevan rei que’ della fazion verde, i ricchi, ed i nemici di Teodora, e la pederastia divenne il delitto di coloro a cui non se ne poteva opporre alcun altro. Un filosofo francese199 ha con ardire osservato, che tutto ciò che è secreto sta ravvolto nel dubbio, e che la tirannide può convertire in suo stromento quell’orrore che naturalmente al vizio portiamo. Ma la favorevole persuasione in cui è lo stesso scrittore, che un legislatore possa fidare nel buon gusto e nella ragione degli uomini, ha pur troppo contro di sè tutto quanto sappiamo dell’antichità o dell’estensione del male200.

I liberi cittadini di Atene e di Roma godevano in tutti i casi criminali l’inestimabile privilegio di essere giudicati dalla patria loro201. I. L’amministra[p. 270 modifica]zione della giustizia è il più antico uffizio di un Principe: i Re di Roma l’esercitarono, e Tarquinio ne abusò: egli solo, senza legge o consiglio, proferiva la sua arbitraria sentenza. I primi Consoli succederono a questa regale prerogativa: ma il sacro diritto di appello tosto abolì la giurisdizione de’ magistrati, e tutte le cause pubbliche furono decise dal supremo tribunale del popolo. Ma una rozza democrazia, che si aderge sopra le forme, troppo spesso disdegna gli essenziali principj della giustizia. L’orgoglio dal dispotismo fu invelenito dall’invidia plebea, e gli eroi di Atene poterono alle volte invidiare la felicità de’ Persiani il cui destino non dipendeva che dal capriccio di un solo tiranno. Alcuni salutari freni che il Popolo impose alle proprie passioni, furono ad un tempo stesso la cagione e l’effetto della gravità e della moderazione dei Romani. Ai soli magistrati fu compartito il diritto di accusa. Un voto di trentacinque tribù poteva infliggere una multa; ma l’inquisizione di tutti i delitti capitali con una legge fondamentale fu riserbata all’assemblea delle centurie, ove il peso dell’influenza e della proprietà doveva infallibilmente preponderare. S’interposero manifesti ed aggiornamenti iterati, affinchè la preoccupazione ed il risentimento avessero agio a calmarsi. Un augurio giunto in buon [p. 271 modifica]tempo l’opposizione di un tribuno potevano annullare tutto il processo, e quelle informazioni avanti il popolo erano comunemente meno formidabili all’innocenza che favorevoli al delitto. Ma tale unione del potere giudiziario e del legislativo lasciava in dubbio se l’accusato fosse assolto, o se ricevesse il perdono; e nella difesa di un illustre cliente gli oratori di Roma e di Atene rivolgevano i loro argomenti alla politica ed alla benevolenza, non meno che alla giustizia del loro sovrano. II. La cura di convocare i cittadini pel processo di ogni reo divenne sempre più difficile a misura che i cittadini ed i rei continuamente si moltiplicavano, onde si adottò il pronto spediente di delegare la giurisdizione del popolo ai magistrati ordinarj, ovvero ad inquisitori straordinarj. Nei primi tempi, furono rari ed accidentali questi giudizj. Nel principio del settimo secolo di Roma essi divenner perpetui: ogni anno si assegnava a quattro Pretori il potere di sedere in giudizio e giudicare le gravi offese di tradimento, di estorsione, di peculiato e di corruzione, e Silla aggiunse nuovi Pretori e nuovi esami per que’ delitti che più direttamente intaccano la sicurezza degl’individui. Questi inquisitori preparavano e dirigevano il processo, ma essi non potevano che pronunciare le sentenze della pluralità dei giudici, i quali con qualche cecità e maggior pregiudizio furono paragonati ai Giurati inglesi202. Il Pretore formava ogni anno una lista di provetti e rispettabili cittadini che sostenessero queste importanti ma penose funzioni. Dopo molti dibatti [p. 272 modifica]menti costituzionali, essi vennero scelti in egual numero dal senato, dall’ordine equestre e dal popolo: se ne assegnavano quattrocentocinquanta per ogni questione, e sì differenti ruoli o decurie di giudici dovevano contenere i nomi di più migliaia di Romani, che rappresentavano la giudiciale autorità dello Stato. In ogni causa particolare, se ne traeva un numero sufficiente dall’urna, un giuramento ne affermava l’integrità; il modo di dire i suffragj ne assicurava l’indipendenza; il sospetto di parzialità era tolto dal reciproco diritto di ricusare che aveano l’accusato e l’accusatore; ed i giudici di Milone, colla rimozione di quindici per parte, furono ridotti a cinquanta ed una voce o tavoletta di assoluzione, di condanna o di presunzione favorevole203. III. Il pretore della città, nella sua giurisdizione civile, era veramente un giudice, e quasi un legislatore; ma tosto ch’egli avea prescritto l’azione della legge, spesso si riferiva a un delegato per la determinazione del fatto. Col crescere dei processi legali, il tribunale de’ centumviri, a cui egli presiedeva, crebbe in riputazione ed in autorità. Ma sia ch’egli agisse solo, ovvero col parere del suo consiglio, si potevano affidare i più assoluti poteri ad un magistrato che ogni anno veniva scelto dalle [p. 273 modifica]voci del popolo. Le norme o le precauzioni della libertà hanno richiesto qualche spiegazione; l’ordine del dispotismo è semplice e senza vita. Avanti l’età di Giustiniano o forse di Diocleziano, le decurie de’ giudici Romani erano scadute in un titolo vano; si poteva accettare o spiegar l’umile avviso degli assessori; ed in ogni tribunale la giurisdizione civile e la criminale erano amministrate da un solo magistrato, il quale era levato in carica o licenziato dal suo posto secondo il piacimento dell’Imperatore.

Un Romano, accusato di qualche delitto capitale, potea prevenire la sentenza della legge coll’esilio volontario o colla morte. Sinchè legalmente fosse provata la sua reità, se ne presumea l’innocenza, e la sua persona era libera: sinchè i voti dell’ultima Centuria fossero noverati e banditi, egli potea placidamente ritirarsi in una delle alleate città dell’Italia, della Grecia o dell’Asia204. Mediante questa morte civile, la sua vita e le sue sostanze erano salve, almeno pe’ suoi figliuoli; ed egli poteva ancora viver felice in mezzo a qualunque godimento della ragione o de’ sensi, se una mente avvezza all’ambizioso tumulto di Roma, era atta a sopportare l’uniformità ed il silenzio di Rodi o di Atene. Di un più ardito sforzo era d’uopo per sottrarsi alla tirannia de’ Cesari; ma familiare erasi fatto questo sforzo per le massime degli Stoici, l’esempio de’ più valorosi Romani ed i legali incoraggiamenti del suicidio. I corpi de’ rei condannati erano esposti alla pubblica ignominia, ed i [p. 274 modifica]loro figliuoli, male più greve ancora, erano ridotti a povertà per la confiscazione de’ loro beni. Ma se le vittime di Tiberio e di Nerone anticipavano il decreto del Principe o del Senato, il coraggio e la diligenza loro aveano per ricompensa l’applauso del Pubblico, i decenti onori della sepoltura, e la validità de’ lor testamenti205. La raffinata avarizia e crudeltà di Domiziano pare ch’abbia tolto agl’infelici, che immolava, quest’ultima consolazione, ed essa fu negata anche dalla stessa clemenza degli Antonini. Una morte volontaria, che nel caso di un delitto capitale, avvenisse tra l’accusa e la sentenza, era reputata come la confessione della reità, e l’inumano fisco sequestrava le spoglie del trapassato206. Nondimeno i giuristi hanno sempre rispettato il diritto naturale che ha un cittadino di disporre della sua vita; e l’obbrobrio dopo morte, inventato da Tarquinio207 per frenare la disperazione de’ suoi sudditi, non fu mai fatto rivivere od imitato da’ tiranni che gli vennero dietro. Tutte le [p. 275 modifica]potestà di questo mondo hanno perduto il loro dominio sopra di colui ch’è deliberato a morire; nè il suo braccio esser può rattenuto, che dal religioso timore di uno stato avvenire. Virgilio ripone i suicidi tra gli sventurati, anzichè tra i colpevoli208; e le favole poetiche delle tenebre inferne non potevano seriamente influire sulla fede o sulla pratica del genere umano. Ma i precetti del Vangelo o della Chiesa hanno finalmente imposto una pia servitù agli animi de’ Cristiani, condannandoli ad aspettare, senza lagnarsi, l’ultimo colpo della malattia o del carnefice.

Gli statuti penali occupano uno spazio assai piccolo ne’ sessantadue libri del Codice e delle Pandette, ed in tutti i processi della giustizia, la vita o la morte di un cittadino vien determinata con meno di precauzione e d’indugio che non la più ordinaria questione di un contratto o di un’eredità. Questa singolare distinzione, benchè qualche cosa si voglia concedere all’urgente bisogno di difendere la pace della società, deriva dalla natura della giurisprudenza criminale e civile. I doveri che abbiam collo Stato sono semplici ed uniformi, la legge, per cui il reo vien condannato, è scritta, non sul bronzo o sul marmo, ma sulla coscienza di esso, e dalla testimonianza di un solo fatto, il suo delitto comunemente è provato. Ma infinite e varie sono le relazioni che abbiamo un coll’altro: le in[p. 276 modifica]giurie, i beneficj, le promesse creano, annullano e modificano le nostre obbligazioni, e l’interpretazione dei contratti volontarj e de’ testamenti, che dettati sono spesso della frode e dall’ignoranza, porge un lungo e faticoso esercizio alla sagacità del giudice. L’estensione del commercio e quella dello Stato moltiplicano le faccende della vita, e la residenza delle parti nelle distanti province dell’Impero, partorisce dubbj, dilazioni ed inevitabili appelli dal magistrato locale al supremo. Giustiniano, imperator Greco di Costantinopoli e dell’Oriente, era il successore, secondo la legge, del pastore Latino il quale avea piantato una colonia sulle rive del Tevere. In un periodo di tredici secoli, le leggi aveano con ripugnanza seguito le mutazioni del governo e de’ costumi; ed il lodevole desiderio di conciliare i nomi antichi colle istituzioni recenti distrasse l’armonia, ed accrebbe la grandezza dell’oscuro ed irregolare sistema. Le leggi che scusano in ogni occasione l’ignoranza de’ loro sudditi, confessano la propria loro imperfezione; la giurisprudenza civile, come compendiata fu da Giustiniano, continuò ad essere una scienza misteriosa ed un profittevol traffico, e l’ingenita perplessità dello studio fu avvolta in tenebre dieci volte più dense dalla privata industria dei pratichisti. Le spese del processo sovente sorpassavano il valore della cosa in litigio, e i diritti più manifesti erano lasciati in abbandono per la povertà o prudenza delle parti. Una giustizia sì dispendiosa può tendere ad abbattere l’amore del litigare, ma la disugualità de’ vantaggi non serve che ad accrescere l’influenza del ricco, e ad aggravare la miseria del povero. Mercè di questo dilatorio e costoso modo di procedere, il litigante dovizioso ottiene un profitto più [p. 277 modifica]certo di quello che sperar potrebbe dall’accidentale corruzione del suo giudice. L’esperienza di un abuso da cui il nostro secolo od il nostro paese non vanno perfettamente esenti, può talvolta provocare un generoso sdegno, e trarre dal cuore il troppo affrettato desiderio di scambiare l’elaborata nostra giurisprudenza co’ semplici e sommarj decreti di un Cadì Turco. Ma una riflessione più tranquilla ci conduce a vedere che tali forme e dilazioni son necessarie a difendere la persona e la proprietà de’ cittadini; che l’autorità discretiva del giudice è il primo stromento della tirannide, e che le leggi di un popolo libero debbono prevedere e determinare ogni questione, la quale possa probabilmente sorgere nell’esercizio del potere e nelle transazioni dell’industria. Ma il governo di Giustiniano congiungeva i mali della libertà e del servaggio, ed i Romani erano oppressi ad un tempo dalla moltiplicità delle leggi, e dall’arbitraria volontà del loro signore.

Note

  1. I legisti de’ tempi barbari hanno stabilito un metodo assurdo ed inintelligibile di citare le leggi romane; e l’abitudine lo ha perpetuato. Allorchè si riferiscono al Codice, alle Pandette ed alla Instituta, essi non marcano il numero del libro, ma soltanto quello della legge; e si accontentano di riportare le prime parole del titolo di cui la stessa legge fa parte, mentre di tali titoli se ne contano più di mille. Ludewig (vit. Justin. p. 268) fa voti perchè si scuota questo giogo pedantesco, ed io ho osato adottare il semplice e ragionevole metodo di citare il libro, il titolo e la legge.
  2. L’Alemagna, la Boemia, l’Ungheria, la Polonia e la Scozia le hanno adottate come la legge o la ragion comune: in Francia, in Italia ecc. esse ottengono un’influenza diretta o indiretta, ed in Inghilterra si ebbero in rispetto da Stefano fino ad Edoardo I, il Giustiniano della Gran-Brettagna. Vedi Duck (de usu et auctoritate juris civ., l. II c. 1, 8-15); Eineccio (Hist. juris german. c. 3, 4, n. 55-124)) e gli istorici delle leggi di ciascun paese.
  3. Francesco Ottomanno, abile ed illuminato Giureconsulto del secolo decimosesto, tendeva a mortificare Cujacio ed a far la corte al Cancelliere de l’Hôpital. Il suo Antitribonianus, che non ho mai potuto procurarmi, venne pubblicato in francese nell’anno 1609, e la sua setta si è propagata in Germania (Heineccius, Opp. t. III, sylloge 3 p. 171-183).
  4. In testa di queste guide io pongo, coi riguardi che gli si debbono, l’abile e sapiente Eineccio, professore tedesco morto ad Halle nel 1741 (Vedi il suo elogio nella Nouvelle Bibliothèque germanique, tom. II p. 51-64). Le numerose sue opere furono raccolte in otto volumi in-4. Ginevra, 1743-1748. I trattati separati di cui mi sono principalmente servito, sono: 1. Historia juris romani et germanici, Lugd. Batav. 1740, in-8; 2. Syntagma antiquitatum romanam jurisprudentiam illustrantium, 2 vol. in-8. Traject. ad Rhenum; 3. Elementa juris civilis secundum ordinem institutionum, Lugd. Batav. 1751, in-8; 4. Elementa J. C. secundum ordinem Pandectarum, Traject. 1772, 2 vol. in-8.
  5. L’estratto di quest’istoria si ritrova in un Frammento De origine juris (Pandette, l. 1 tit. 2) di Pomponio, Giureconsulto romano che vivea sotto gli Antonini (Heineccius, t. III syll. 3 p. 66-126). Esso fu compendiato e verosimilmente alterato da Triboniano, e ristorato da Bynkershoek Opp. t. 1 p. 279-304).
  6. Si può studiare l’istoria del governo di Roma sotto i suoi Re, nel primo libro di Tito Livio, ed ancor più estesamente in Dionigi d’Alicarnasso (l. II p. 80-96, 119-130, l. IV p. 198-220), che qualche volta però si mostra retore e Greco.
  7. Giusto Lipsio (Opp. t. IV p. 279) ha applicato ai tre Re di Roma queste tre divisioni generali delle leggi civili. Gravina (Orig. jur. civ. p. 28, ediz. di Lipsia 1737) addotta questa idea, che Mascou, suo editore tedesco, non può ammettere che con ripugnanza.
  8. Terrasson, nella sua Storia della giurisprudenza romana (p. 22-72, Parigi 1750, in fol.), si forza con qualche apparato, ma con poco successo, di ristabilire il testo originale. Quest’opera promette assai più di quel che mantiene.
  9. Il più antico Codice o Digesto fu chiamato jus Papirianum, dal nome di Papirio che lo compilò, e che viveva un poco prima o poco dopo il Regifugium (Pandect. l. 1 tit. 2). I migliori critici, ed anche Bynkershoek (t. 1 p. 284, 285) ed Eineccio (Hist. J. C. R. l. 1 c. 16, 17; ed Opp. t. III, syll. 4 p. 1-8), prestano fede a questa favola di Pomponio, senza far molta attenzione al valore ed alla rarità di simil monumento del terzo secolo, della città illetterata. Io dubito molto che Cajo Papirio, Pontifex Maximus, che fece rivivere le leggi di Numa (Dionigi d’Alicarnasso, l. III p. 171), non abbia lasciato che una tradizione vocale; e che il jus Papirianum di Granio Flacco (Pand. l. L tit. 16, legge 144) non fosse un comentario, ma un’opera originale, compilata al tempo di Cesare. (Censorin. De die Natali, l. III p. 13; Duker, De latinitate J. C. p. 157).
  10. Nel 1444 si estrassero dal seno della terra sette od otto tavole di rame fra Cortona e Gubio. Una parte di queste tavole, giacchè il resto è in caratteri etruschi, offre lo stato primitivo de’ caratteri e della lingua de’ Pelasgi, che Erodoto attribuisce a quell’angolo d’Italia (l. 1 c. 56, 57, 50). Del resto si può spiegare questo passo oscuro d’Erodoto, dicendo che si riferisce a Crestona città della Tracia (Note di Larcher, t. 1 p. 256-261). Il dialetto selvaggio delle tavole Eugubine ha messo a tortura la congetture dei critici, ed è ben lontano d’esser rischiarato; ma le sue radici, indubitatamente latine, sono della medesima epoca e dello stesso carattere del Saliare carmen, che ai tempi d’Orazio nessuno intendeva. L’idioma romano successivamente posizionandosi con un miscuglio di dorico e di greco eolico, of fri à grado a grado lo stile delle dodici Tavole, della colonna Duilliana, d'Ennio, di Terenzio e di Cicerone (Gruter. Inscript. tom. I p. 192; Scipione Maffei, Istoria diplomatica, p. 241-258; Bibl. ital. t. III,' p. 30-41, 174-205; t. XIV, p. 1-52).
  11. Si paragoni Tito Livio (l. III c. 31-59) con Dionigi di Alicarnasso (l. X p. 644; XI p. 691). Quanto mai l’autore romano è conciso ed animato, ed il greco prolisso e senza vita! Non pertanto Dionigi d’Alicarnasso ha mirabilmente giudicato i grandi maestri, ed abilmente esposte le regole della composizione istorica.
  12. Appoggiato all’autorità degli Storici, Eineccio (Hist. J. R. l. 1, n. 26) afferma che le Dodici Tavole erano di rame, aereas. Nel testo di Pomponio si legge eboreas; e lo Scaligero ha sostituito a questa parola quella di roboreas (Bynkershoek, p. 286). Pare che siasi potuto successivamente adoperare il legno, il rame e l’avorio.
  13. Cicerone (Tuscul. Quaest. V, 36) parla dell’esilio di Ermodoro; e Plinio (Hist. nat. XXXIV, II) parla della sua statua. La lettera, il sogno e la profezia d’Eraclito sono supposte (Epist. graec. divers. p. 337).
  14. Il Dottore Bentley (Dissert. sulle lettere di Falari p. 427, 479) abilmente discute tutto ciò che ha relazione alle monete di Sicilia e di Roma, che è un soggetto assai oscuro. L’onore ed il risentimento l’eccitavano ad impiegare in questa controversia tutti i suoi talenti.
  15. Le navi de’ Romani o de’ loro alleati arrivarono fino al bel promontorio dell’Affrica (Polibio, l. III p. 177, ediz. di Casaubon, in fol.). Tito Livio e Dionigi d’Alicarnasso parlano dei loro viaggi a Cuma.
  16. Questo fatto proverebbe solo l’antichità di Caronda, che diede leggi a Reggio ed a Catania; non è che per uno strano equivoco che Diodoro di Sicilia (t. 1 l. XII p. 485-492) gli attribuisce l’istituzione politica di Turio, la quale è di molto posteriore.
  17. Zaleuco, di cui con sì poca ragione si contestò l’esistenza, ebbe il merito e la gloria di creare con una banda di proscritti (i Locresi) la più virtuosa e meglio costituita repubblica della Grecia. Veggansi due Memorie del Barone di Santa Croce su la legislazione della Magna Grecia. (Mem. dell’Accad. delle Inscriz. t. XLII p. 276-333). Ma le leggi di Zaleuco e di Caronda, la cui autorità sedusse Diodoro e Stobeo, vennero fabbricate da un sofista pitagorico, la frode del quale fu scoperta dalla critica sagacità del Bentleio (p. 335-377).
  18. Colgo quest’occasione per indicare i progressi delle comunicazioni fra Roma e la Grecia: 1. Erodoto e Tucidide (A. A. C. 300-350) sembrano ignorare il nome e l’esistenza di Roma (Giuseppe, contra Apion. t. 11 l. 1 c. 12 p. 444, ediz. di Havercamp). 2. Teopompo (A. A. C. 400, Plinio, III, 9) parla dell’invasione dei Galli, di cui Eraclide di Ponto fa menzione in una maniera più vaga (Plutarco, in Camillo, p. 292, ediz. H. Stefano). 3. La reale o favolosa ambasceria de’ Romani ad Alessandro (A. A. C. 430) viene attestata da Clitarco (Plinio III, 9), da Aristo ed Asclepiade (Arriano, l. VII p. 294-296), e da Mennone d’Eraclea (apud Photium, Cod. 224 p. 725). Il silenzio di Tito Livio a questo riguardo vale una negativa. 4. Teofrasto (A. A. C. 440) primus externorum aliqua de romanis diligentius scripsit (Plinio, III, 9). 5. Licofrone (A. U. C. 480-500) ha sparsa la prima idea d’una Colonia di Trojani e della favola dell’Eneide (Cassandra, 1226-1280).

    Γης και θαλασσης σκηπρα και μοναρχιαν
    Δαβοντες.

    Della terra e del mar gli scettri e il regno
    Pigliando.

    Predizione ardita avanti il fine della prima guerra punica.

  19. La decima Tavola (De modo sepulturae) fu tolta ad imprestito da Solone (Cicerone, De legibus, II, 23-26); il Furtum per lancem et licium conceptum proviene, se si presta fede ad Eineccio, dai costumi d’Atene (Antiq. rom. t. II, p. 167-175). Mosè, Solone ed i Decemviri permisero di uccidere un ladro notturno (Exode 22, 3). Demostene, contra Timocratem, t. 1 p. 736, ediz. di Reiske; Macrobio, Saturnalia, l. 1, c. 4; Collatio legum Mosaicarum et romanarum, tit. 7 n. 1 p. 218, ediz. Cannegieter.
  20. Βραχεως και απεριττως; tale è l’elogio che ne fa Diodoro (t. 1 l. XII p. 494); e che si può tradurre nell’eleganti atque absoluta brevitate verborum d’Aulo Gellio (Nott. Att. XXI, 1).
  21. Si ascolti Cicerone (De legibus, 11, 23) e quello che egli fa parlare, Crasso (De oratore, 1, 43, 44).
  22. Vedi Eineccio (Hist. J. R. n. 29-33). Mi son servito delle Dodici Tavole quali furono restaurate da Gravina (Origines J. C. p. 280-307) e da Terrasson, Storia della Giurisprudenza romana, p. 94-205.
  23. Finis aequi juris (Tacito, Annal. III, 27). Fons omnis publici et privati juris (Tito Livio, III, 34).
  24. De principiis juris, et quibus modis ad hanc multitudinem infinitam ac varietatem legum perventum sit, altius disseram (Tacito, Annal. III, 25). Questa profonda discussione non occupa che due pagine, ma sono pagine di Tacito. Tito Livio diceva nello stesso senso, ma con minor energia (III, 34): In hoc immenso aliarum super alias acervatarum legum cumulo, etc.
  25. Svetonio, in Vespasiano, c. 8.
  26. Cicerone, ad Familiares, VIII, 8.
  27. Dionigi, Arbuthnot, e la maggior parte de’ moderni (se se ne eccettua Eisenschmidt, de Ponderibus ecc. p. 137-140), valutano centomila assi, diecimila dramme attiche, vale a dire un poco più di trecento lire sterline. Ma il loro calcolo non può applicarsi che agli ultimi tempi, in cui l’asse non era più che la ventiquattresima parte del suo antico peso; e malgrado la scarsezza de’ metalli preziosi, io non posso persuadermi che nei primi secoli della repubblica un’oncia d’argento valesse settanta libbre di rame o d’ottone. È molto più semplice e ragionevole di valutare il rame alla sua tassa attuale; e quando si sarà paragonato il prezzo della moneta ed il prezzo del mercato, la libbra romana e la libbra avere del peso, si troverà che il primitivo asse o una libbra romana di rame può essere valutato uno scellino inglese; e che quindi i centomila assi della prima classe valevano cinquemila lire sterline. E dallo stesso calcolo risulterà che un bue si vendeva a Roma cinque lire sterline, una pecora dieci scellini, ed un quarter di grano trenta scellini (Festus, p. 30, ediz. Dacier; Plinio, Hist. nat., XVIII, 4). Io non trovo ragione di rigettare queste conseguenze che moderano le nostre idee sulla povertà de’ primitivi Romani.
  28. Si consultino gli autori che hanno scritto sui Comizj romani, ed in particolar modo Sigonio e Beaufort. Spanheim (De praestantia et usu numismatum, t. 11. Dissert. X, p. 192, 193) offre una curiosa medaglia, in cui si veggono i cista, i pontes, i septa, il diribitor, ecc.
  29. Cicerone (De legibus, III, 16, 17, 18) discute questa questione costituzionale, ed assegna a suo fratello Quinto il lato meno popolare.
  30. Prae tumultu recusantium perferre non potuit. Suet. in August. c. 34. Vedi Properzio (l. 11, eleg. 6). Eineccio ha esaurito in un’istoria particolare tutto ciò che ha relazione alle leggi Julia et Papia Poppaea. Opp. t. VII part. 1, p. 1-479.
  31. Tac. Ann. 1, 15; Lipsia, Excursus E. in Tacitum.
  32. Non ambigitur senatum jus facere posse. Tale è la decisione di Ulpiano (l. XVI, ad Edict. in Pandect. l. 1, tit. 3 leg. 9). Pomponio dice che i Comizj del popolo erano una turba hominum (Pand. l. 1 tit. 2 leg. 9).
  33. Il jus honorarium de’ Pretori e degli altri Magistrati vien definito in modo preciso nel testo latino della Instituta, l. 1 tit. 2 n. 7. La greca parafrasi di Teofilo (p. 33-38, ed. di Reitz) che lascia sfuggire l’importante parola honorarium lo spiega in una maniera più vaga.
  34. Dione Cassio (t. 1 l. XXXVI p. 100) fissa all’anno di Roma 686, l’epoca degli Editti Perpetui. Nondimeno, secondo gli acta diurna pubblicati sulle carte di Luigi Vives, la loro instituzione avvenne nell’anno 585. Pighio (Annal. rom. t. 11 p. 377, 378), Grevio (ad Suet. p. 778), Dodwel (Praelection, Cambden, p. 665) ed Eineccio sostengono ed ammettono l’autenticità di questi atti; ma l’espressione di scutum cimbricum che vi si rinviene, prova che furono fabbricati. Moyle’s Werks, vol. 1 p. 303.
  35. Eineccio (Opp. t. VII part. II p. 1-564) ha fatto l’istoria degli Editti e restaurato il testo dell’Editto Perpetuo: dalle opere di quest’ingegno superiore, le cui ricerche debbono inspirare somma confidenzaa, io estrassi quanto ne ho detto. Il Sig. Bonchaud ha inserito nella raccolta dell’Accademia delle Inscrizioni una serie di Memorie su questo punto interessante di letteratura e di giurisprudenza.
    1. Questa ristaurazione non è che un'opera cominciata trovata fra le carte d’Eineccio dopo la sua morte (Nota dell’Editore).
  36. Le sue leggi sono le prime nel Codice. Vedi Dodwell, (Praelect. Cambden p. 319-340) che si allontana dal suo soggetto per istabilire una confusa letteratura, e sostenere deboli paradossi.
  37. Totam illam veterem et squallentem sylvam legum novis principalium rescriptorum et edictorum securibus ruscatis et caeditis. Apologet. c. 4 p. 50, ediz. di Havercamp. Egli in seguito loda la fermezza di Severo che rivocò le leggi inutili o perniciose, senza alcun riguardo per la loro antichità o per il credito che si erano conciliato.
  38. Dione Cassio, per mala fede o per ignoranza, s’inganna sul significato costituzionale di legibus solutus, t. 1 l. LIII p. 713. Heimar, suo editore, in quest’occasione aggiunge i proprj ai rimproveri, di cui la libertà e la critica hanno caricato questo servile istorico.
  39. Vedi Gravina, Opp. p. 501-512; ed anche Beaufort, Repub. rom. t. 1 p. 255-274. Questo fa un uso giudizioso di due dissertazioni pubblicate da Gian Federico Gronovio e Noodt, e tradotte ambedue da Barbeyrac, che vi ha aggiunto note assai preziose; 2 volumi in-12, 1731.
  40. L’espressione lex regia era ancor più recente della cosa. Il nome di Legge Reale avrebbe fatto inorridire gli schiavi di Commodo e di Caracalla.
  41. Instit. l. 1 tit. 2 n. 6; Pandect. l. 1 tit. 4 leg. 1. Cod. di Giustin. l. 1 tit. 17 leg. 1 n. 7. Eineccio (nelle sue Antichità e ne’ suoi Elementi) ha trattato ampiamente De constitutionibus principum, d’altronde sviluppate da Gotofredo (Comm. ad Cod. Theod. l. 1 t. 1, 2, 3) e da Gravina (87-90).
  42. Teofilo in Paraphras. graec. Instit. p. 33, 34, ed. di Reitz. Intorno al carattere ed alle opere di questo scrittore, come pure al tempo in cui visse, veggasi il Teofilo di J. H. Mylius, Excursus 3 p. 1034-1073.
  43. Vi ha più invidia che ragione in quel lamento di Macrino: Nefas esse leges videri Commodi et Caracallae et hominum imperitorum voluntates. Giulio Capitol., c. 13. Commodo venne da Severo innalzato alla sfera degli Dei. Dodwell, Praelect. 8 pag 324, 325. Cionullameno le Pandette non lo citano che due volte.
  44. Il Codice presenta duecento costituzioni che Antonino Caracalla pubblicò da solo, e cento sessanta che egli pubblicò con suo padre. Questi due principi sono citati cinquanta volte nelle Pandette, ed otto nella Instituta. Terrasson, p. 265.
  45. Plinio il giovane, Epist. X, 66; Suet. in Domitian., c. 23.
  46. Costantino aveva per massima che Contra jus rescripta non valeant. Codice Teodosiano, l. 1 tit. 2 leg. 1. Gli Imperatori, sebbene con dispiacere, permettevano qualche esame sulla legge e sul fatto, qualche dilazione, qualche diritto di petizione; ma questi insufficienti rimedj erano troppo in potere de’ giudici, ed era troppo pericoloso per essi il farne uso.
  47. Quest’inchiostro era un composto di vermiglione e di cinabro; esso si ritrova sui diplomi degli Imperatori, da Leone I (A. D. 470) fino alla caduta dell’impero Greco. Bibl. raisonnée de la diplomatique, t. 1 p. 509-514; Lami, De eruditione apostolorum, t. 11 p. 720-726.
  48. Schulting, Jurisprudentia ante-Justinianea, p. 681-718. Cujacio dice, che Gregorio compilò le leggi pubblicate dal regno d’Adriano fino a quello di Gallieno, e che il resto fu opera di Gallieno. Questa generale divisione può esser giusta; ma Gregorio ed Ermogene molte volte oltrepassavano i limiti del loro terreno.
  49. Scevola, probabilmente Q. Cervidio Scevola, maestro di Papiniano, considera questa accettazione di fuoco e d’acqua come l’essenza del matrimonio. Pand. l. XXIV, t. 1, leg. 66. Vedi Eineccio, Hist. J. R. n. 317.
  50. Cicerone (De officiis, III, 19) non può parlare che per supposizione; ma Sant’Ambrogio (De officiis, III, 2) si appella all’uso de’ suoi tempi, che egli conosceva come giureconsulto e come magistrato. Schulting, ad Ulpian. Frag. tit. 22 n. 28, 643, 644.
  51. Ne’ tempi degli Antonini non si conosceva più il significato delle forme ordinate in caso di un furtum lance licioque conceptum. (Aulo Gellio, XVI, 10). Eineccio (Antiq. rom. l. IV tit. 1 n. 13-21) che le fa derivare dall’Attica, cita Aristofane, lo scoliaste di questo poeta, e Polluce, a sostegno della sua opinione.
  52. Nel suo discorso per Murena, Cicerone mette in ridicolo le forme ed i misteri de’ legisti, rapportati con più buona fede da Aulo Gellio (Notti Attiche, XX, 10), Gravina (Opp. p. 265, 266, 267) ed Eineccio (Antiq. l. IV t. 6).
  53. Pomponio (De origine juris Pandect. l. 1 tit. 2) indica la successione de’ giureconsulti romani; ed i moderni hanno fatto prova di sapere e di critica nella discussione di questa parte d’Istoria e di Letteratura. Io mi servii specialmente di Gravina (p. 41-79) e di Eineccio (Hist. J. R. n. 113, p. 351). Cicerone (De Oratore, de Claris orator., de Legibus) e la Clavis Ciceroniana d’Ernesti (sotto il nome di Mucio ecc.) offrono molte particolarità originali e piacevoli. Orazio fa spesso allusione alla laboriosa mattinata de’ legisti (Serm. l. 1, 10; epist. 2, 1, 103 ec.).

    Agricolam laudat juris legumque peritus
    Sub galli cantum consultor ubi ostia pulsat.
    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    
    Romae dulce diu fuit et solemne, reclusa
    Mane domo vigilare, clienti promere jura.

  54. Sull’arte o scienza della giurisprudenza, Crasso, o piuttosto Cicerone (De oratore, 1, 41, 42) propone una idea che Antonio, il quale era fornito di naturale eloquenza, ma di poca istruzione, affetta (1, 58) di porre in ridicolo. Quest’idea venne in parte effettuata da Servio Sulpicio (in Bruto, c. 41) che Gravina nel suo classico latino loda con elegante varietà (p. 60).
  55. Perturbatricem autem omnium harum rerum accademiam, hanc ab Arcesilao et Carneade recentem, exoremus ut sileat, nam si invaserit in haec, quae satis scite instructa et composita videantur, nimis edet ruinas, quam quidem ego placare cupio, submovere non audeo. De legibus, 1, 13. Questo solo passo doveva insegnare a Bentley (Remarks on Free-Thinking, p. 250) quanto Cicerone fosse fermamente attaccato alla speciosa dottrina che egli ha abbellito.
  56. Panezio, l’amico del giovine Scipione, fu il primo che in Roma insegnasse la filosofia stoica. Vedi la sua vita nelle Mem. dell’Accad. delle Iscriz. t. 10, p. 75-89.
  57. Come è citato da Ulpiano (leg. 40, ad Sabinum in Pandect. l. XLVII, t. 2, leg. 21). Trebazio dopo essere stato giureconsulto di primo ordine, qui familiam duxit, diventò un Epicureo (Cicer. ad Familiares, VII, 5). Forse in questa nuova setta mancò di costanza o di buona fede.
  58. Vedi Gravina (p. 45-51) e le frivole obbiezioni di Mascou; Eineccio (Storia I. R. n. 125) cita ed approva una dissertazione di Everardo Otto, de Stoica Jurisconsultorum philosophia.
  59. Si citava specialmente la regola di Catone, la stipulazione d’Aquilio, e le formole Manilie, duecento undici massime, e duecento quarantasette definizioni (Pandect. l. I, tit. 16, 17).
  60. Leggasi Cicerone, l. I, de Oratore, Topica, pro Murena.
  61. Veggasi Pomponio (De origine juris Pandect. l. I, tit. 2 leg. 2 n. 47; Eineccio, ad Instit. l. I tit. 2 n. 8, l. II tit. 25, in Element. et Antiquit.; e Gravina p. 41-45). Sebbene questo monopolio sia stato molto disgustoso, gli scrittori di quell’epoca non se ne lagnano, ed è verisimile che sia stato velato con un decreto del Senato.
  62. Ho letto la Diatriba di Gotofredo Mascovio, l’erudito Mascou, (De Sectis Jureconsultorum, Lipsia 1728 in-12, p. 276) dotto trattato sopra un fondo sterile e limitatissimo.
  63. Vedi il carattere d’Antistio Labeone in Tacito (Annal. III, 75) e in un’Epistola d’Ateio Capitone (Aulo Gellio, VIII, 12) che accusa il suo rivale di libertas nimia et vecors. Tuttavia non posso immaginare che Orazio abbia ardito di sferzare un virtuoso e rispettabile senatore, ed amo adottare la correzione del Bentley, il quale legge labieno insanior. Vedi Mascou, de Sectis, c. 1 p. 1-24.
  64. Giustiniano (Instit. I, III tit. 23, e Teofilo, vers. greca, p. 677, 680) ha rammemorato questa gran questione ed i versi d’Omero che si allegarono d’ambe le parti, come autorità. Tale questione fu decisa da Paolo (leg. 33 ad edict. in Pandect. l. XVIII tit. 1 leg. 1). Ecco la sua soluzione: in un semplice cambio non si può distinguere il venditore ed il compratore.
  65. I Proculeiani pure abbandonarono questa controversa, sentirono che strascinava seco indecenti ricerche, e furono sedotti dall’afforismo d’Ippocrate che era attaccato al numero settenario di due settimane d’anni, o di settecento settimane di giorni. (Instit. l. 1 tit. 22). Plutarco e gli Stoici (De placit. philosophor. l. V c. 24) danno una ragione più naturale. A quattordici anni περι ην ο σπερματικος κρινεται ορρος. Vedi i Vestigi delle Sette in Mascou, c. 9 p. 145-276.
  66. Mascou racconta la storia ed il fine di queste differenti Sette (c. 2-7 p. 24-120), e sarebbe quasi ridicolo di lodarlo della sua parzialità fra Sette totalmente estinte.
  67. Al primo avviso volò al consiglio, che si tenne sul rombo. Tuttavia Giovenale (Sat. IV, 75-81) chiama questo Prefetto o Podestà di Roma, sanctissimus legum interpres. L’antico Scoliaste dice, che era tanta la sua scienza, che veniva chiamato non un uomo, ma un libro. Egli aveva tolto il suo singolar nome di Pegaso, da una galera di questo nome che suo padre aveva comandato.
  68. Tacito, Annal. XVII, 7; Svetonio, in Nerone, c. 37.
  69. Mascou, de sectis, c. 8 p. 120-144; de herciscundis, termine di legge che applicavano a que’ giureconsulti ecclesiastici. Herciscere è sinonimo di dividere.
  70. Vedi il Codice Teodosiano (l. 1 tit. 4) col Comentario del Gotofredo (t. 1 p. 30-35). Questo decreto poteva suscitare discussioni gesuitiche simili a quelle che si trovano nelle Lettere Provinciali: si poteva domandar se un giudice fosse obbligato di seguire, contro il proprio criterio e contro la propria coscienza, l’opinione di Papiniano o della maggioranza, ecc. Del resto un legislatore poteva attribuire a questa opinione, per sè stessa falsa, il valore non già della verità, ma quello della legge.
  71. Per tener dietro ai lavori di Giustiniano sulle leggi ho studiato la prefazione delle Institute; la prima, la seconda e la terza prefazione delle Pandette; la prima e la seconda prefazione del Codice, ed il Codice medesimo (l. 1 tit. 17, de veteri jure enucleando). Dopo queste originali testimonianze ho consultato fra i moderni Eineccio (Storia I. R. n. 303-404), Terrasson (Histoire de la Jurisp. rom. p. 295-356), Gravina (Opp. p. 93-100) e Ludewig nella sua vita di Giustiniano (p. 19-123, 318-321: per il Codice e le Novelle p. 209-261, per il Digesto o le Pandette p. 262-317).
  72. Sul carattere di Triboniano vedi le testimonianze di Procopio (Persic. l. 1 c. 23, 24; Anecdot. c. 13, 20), e Suidas (tom. III p. 501, ediz. di Kuster). Ludewig (in vit. Justinian. p. 175-209) si affatica per far diventar bianco un Moro.
  73. Applico all’istessa persona i due passi di Suida; perchè tutte le circostanze fra di loro perfettamente concordano. Tuttavia i giureconsulti non hanno fatto quest’osservazione, e Fabricio è disposto ad attribuire queste opere a due scrittori. (Bibliot. graec. t. I p. 341; t. II p. 518; t. III p. 418; t. XII p. 346, 353, 474).
  74. Questa storia vien riferita da Esichio (de viris illustribus), da Procopio (Aneddoti, c. 13) e da Suida (t. III p. 501). Tale adulazione è dessa incredibile?

    . . . . . nihil est quod credere de se
    Non potest, cum laudatur diis aequa potestas.

    Fontenelle (t. 1 p. 32-39) ha volto in ridicolo l’ impudenza del modesto Virgilio. Tuttavia lo stesso Fontenelle colloca il suo re al di sopra del divino Augusto; ed il saggio Boileau non ha arrossito di dire: „Le destin à ses yeux n’oserait balancer„. Con tutto ciò Augusto e Luigi XIV non erano al certo due sciocchi.

  75. Πανδεκται (Raccolta generale) era il titolo comune delle miscellanee greche (Plinio, Praef. ad Hist. nat.). I Digesta di Scevola, di Marcellino, e di Celso erano di già familiari ai legisti; ma Giustiniano s’ingannava prendendo queste due parole per sinonimi. La voce Pandectes è egli greca o latina, mascolina o femminina? Il laborioso Brenckmann non osa decidere quest’importante quistione (Hist. Pandect. p. 300-304).
  76. Angelo Poliziano (l. V, epist. ult.) enumera trentasette giureconsulti (p. 192-200) citati nelle Pandette. L’indice greco che segue il corpo delle Pandette ne conta trentanove; e lo instancabile Fabrizio ne ha ritrovati quaranta (Bibl. graec. t. III p. 488-502). Si dice che Antonio Augusto (De nominibus propriis, Pandect. apud. Ludewig, p. 283) ve ne abbia aggiunti cinquantaquattro; ma bisogna ch’egli abbia confuso i giureconsulti vagamente citati, con quelli di cui se ne sono dati degli estratti.
  77. I Στιχοι degli antichi manoscritti erano sentenze o periodi di un senso completo, che formavano altrettante linee non egualmente lunghe, sulla larghezza de’ rotoli di pergamena. Il numero de’ Στιχοι di ciascun libro manifestava gli errori de’ copisti, Ludewig (p. 211-215) e Suicer da dove ha attinto (Thes. eccles. t. 1 p. 1021-1036).
  78. Un ingegnoso ed erudito discorso di Schulting (Jurisprudentia ante Justinianea, p. 883-907) giustifica la scelta di Triboniano contro le appassionate accuse di Francesco Ottomano e de’ suoi settarj.
  79. Se Triboniano venga spogliato di quella scientifica corteccia in cui si avviluppa, se gli si condonino i termini tecnici, si troverà che il latino delle Pandette non è indegno del secolo d’argento. Esso venne furiosamente attaccato da Lorenzo Valla, fastidioso grammatico, del decimoquinto secolo e da Florido Sabino suo apologista. L’Alciato ed un autore anonimo, verisimilmente Giacomo Capello, lo hanno difeso. Il Duker ha raccolto questi diversi trattati sotto il titolo di Opuscula, de latinitate veterum jureconsultorum. Lugd. Bat. 1721, in-12.
  80. Nomina quidem veteribus servavimus, legum autem veritatem nostram fecimus. Itaque si quid erat in illis seditiosum, multa autem talia erant ibi reposita, hoc decisum est et definitum, et in perspicuum finem deducta est quaeque lex (Cod. Just. l. 1 tit. 17 leg. 3 n. 10). Confessione priva d’artifizio!
  81. Il numero di tali emblemata, termine assai civile per coprire falsità di questa specie, venne molto ridotto da Bynkershoek negli ultimi quattro libri delle sue osservazioni, il quale, con miserabili rapsodie, sostiene il diritto che aveva Giustiniano di pretenderle, e l’obbligo di Triboniano d’obbedirgli.
  82. Le antinomie, o le leggi contradditorie del Codice e delle Pandette servono talvolta di cagione, e spesso anche di scusa alla gloriosa incertezza delle leggi civili, la quale bene spesso produce, come Montaigne le chiama, les questions pour l’ami. Vedi un bel passo di Francesco Balduino intorno a Giustiniano, l. II p. 259, ecc. apud Ludwig p. 305, 306.
  83. Quando Fust, o Faust, vendette a Parigi le sue prime Bibbie stampate, come fossero manoscritte, il prezzo d’una copia in pergamena dai quattro o cinquecento scudi fu ribassato ai sessanta, cinquanta, e quaranta. A prima vista il pubblico parve contento di prezzo sì vile; ma poscia se ne sdegnò quando ebbe scoperta la frode (Maittaire, Annal. Tipograph. t. 1 p. 12, prima ediz.)
  84. Quest’uso abbominevole prevalse dall’ottavo e massime dal dodicesimo secolo in poi, epoca in cui si era fatto quasi universale (Montfaucon nelle Mem. dell’Accad. t. 6, p. 606 ecc. Bibl. raisonnée de la diplom. t. 1 p. 176).
  85. Pomponio (Pandect. l. 1 tit. 2 leg. 2) dice che di Mucio, Bruto e Manilio che sono i tre fondatori della scienza delle leggi civili, extant volumina, scripta Manilii monumenta; di alcuni giureconsulti della repubblica, haec versantur eorum scripta inter manus hominum. Otto dei saggi legisti del secolo d’Augusto furono ridotti ad un compendium: di Cascellio, scripta non extant sed unus liber ecc.; di Trebazio, minus frequentantur; di Tuberone, libri parum grati sunt. Parecchie citazioni delle Pandette si dicono ricavate dai libri che Triboniano non ha mai veduti; e dal settimo al tredicesimo secolo di Roma l’apparente erudizione dei moderni dipendè mai sempre dalle cognizioni e dalla veracità de’ loro predecessori.
  86. Si dà per certo che tutte le edizioni e tutti i manoscritti in parecchi luoghi replicano gli errori de’ copisti e le trasposizioni di alcuni fogli che si rinvengono nelle Pandette fiorentine. Questo fatto, quando sia vero, è decisivo. Tuttavia le Pandette sono citate da Yves di Chartres che morì nel 1117; da Teobaldo Arcivescovo di Cantorbery, e da Vacario che fu il primo in Inghilterra a professare il Diritto civile (Selden ad Fletam, c. 7 t. II p. 1080-1085). Chi ha mai paragonato i manoscritti delle Pandette che esistono in Inghilterra, con quelli che si trovano negli altri paesi?
  87. Veggasi la descrizione di questo originale in Brenckman (Hist. Pand. Florent. l. I c. 2, 3 p. 4-17, et l. II). L’entusiasta Poliziano lo venerava come lo stesso originale del Codice di Giustiniano (p. 407, 408). Ma questo paradosso è confutato dalle abbreviature del manoscritto di Firenze (l. II c. 3 p. 117-130). Esso è composto di due volumi in-4. a gran margine; la pergamena è sottile, ed i caratteri latini attestano la mano d’un copista greco.
  88. Brenckman verso la fine della sua Storia ha inserite due dissertazioni sulla repubblica d’Amalfi e la guerra di Pisa nell’anno 1135 ecc.
  89. La scoperta delle Pandette in Amalfi (A. D. 1137) venne per la prima volta fatta conoscere (nel 1501) da Lodovico Bolognino (Brenckman l. I c. 11 p. 73, 74; l. IV c. 2 p. 417-425) sulla testimonianza d’una Cronaca della città di Pisa (p. 409, 410) senza nome e senza data. Tutti i fatti di questa Cronaca, sebbene ignorati nel secolo dodicesimo, abbelliti dai secoli dell’ignoranza, e resi sospetti dai critici, non sono però in se stessi privi di probabilità (l. I c. 4-8 p. 17-50). È incontrastabile che il gran Bartolo nel secolo quattordicesimo consultò il Liber Pandectarum di Pisa (p. 406, 407; Vedi l. I c. 9 p. 50-62).
  90. I Fiorentini presero Pisa nell’anno 1406, e nel 1411 trasportarono le Pandette nella loro capitale. Questi avvenimenti sono autentici e celebri.
  91. Furono di nuovo arricchite d’una coperta porporina; si chiusero in una cassetta; ed i monaci e magistrati le mostravano ai curiosi colla testa nuda e colle torce accese (Brenckman, l. 1 c. 10, 11, 12 p. 62-93).
  92. Enrico Brenckman, olandese, dopo d’aver paragonato il testo di Poliziano, di Bolognino, d’Antonino Angustino, e la bella edizione delle Pandette del Taurello, intraprese nel 1551 un viaggio a Firenze, e vi passò molti anni a studiar quel solo manoscritto. La sua Historia Pandectarum Florentinorum, Utrecht, 1722, in-4, che annuncia un sì gran lavoro, non è tuttavia che una piccola parte del primitivo suo piano.
  93. Κρυσεα χαλκειων, εκατομβοιων, apud Homerum patrem omnis virtutis, prima prefazione delle Pandette. In un atto del Parlamento d’Inghilterra ci farebbe sorpresa un verso di Milton o del Tasso. Quae omnia obtinere sancimus in omne aevum. Nella seconda prefazione, parlando del primo Codice, egli dice: in aeternum valiturum. Un uomo ed un per sempre!
  94. Nel buon latino la parola Iè addiettivo, e sostantivo in quello de’ tempi barbari (Ludewig, p. 245). Giustiniano non le ha mai raccolte. Le nuove collazioni che servono di norma ai Tribunali moderni, racchiudono novanta Novelle; ma le indagini di Giuliano, di Aloandro,. e di Conzio (Ludewig, p. 249, 268; Alemanno, note in Anecdot. p. 98) ne hanno, accresciuto il numero.
  95. Montesquieu, Consid. sur la Grand. et la Décad. des Romains, c. 20 t. III p. 501 in-4. Egli si libera in questo luogo della toga e della berretta di Presidente à mortier.
  96. Procopio, Anedd. c. 28. Si accordò pure un eguale privilegio alla Chiesa di Roma (Novella IX). Sulla rivocazione generale di questi funesti privilegi vedi la Novella III e l’Edit. 5.
  97. Lattanzio nelle sue Institute del Cristianesimo, opera elegante e speciosa, si propone per modello il titolo ed il metodo de’ giureconsulti. Quidem prudentes et arbitri aequitatis Institutiones civilis iuris compositas ediderunt. (Instit. div. l. 1 c. 1). Egli intendeva parlare d’Ulpiano, di Paolo, di Fiorentino, e di Mariano.
  98. L’Imperator Giustiniano, parlando di Cajo, si serve della parola suum, sebbene questo scrittore sia morto prima della fine del secondo secolo. Servio, Boezio, Prisciano ecc. citano le sue Istitute, e noi abbiamo l’Epitome che ne ha fatto Arriano (Ved. i Prolegomeni e le Note dell’edizione di Schulting, nella Jurisprudentia Ante justinianae. Lugd. Bat. 1717. Eineccio, St. I. R. n. 313; Ludewig, in vit. Just. p. 199).
  99. Vedi gli Annali politici dell’abate Saint-Pierre, t. 1 p. 25. Egli li pubblicò nel 1735. Le più antiche famiglie vantano un possesso immemoriale delle loro armi e de’ loro feudi. Dopo le crociate, alcune (e sembrano le più degne di rispetto) furono nobilitate dai Re in ricompensa de’ loro meriti e de’ loro servigi. La turba recente e volgare tira la sua provenienza da quella moltitudine di cariche venali senza funzioni o senza dignità, che estraggono continuamente de’ ricchi plebei dalla classe del volgo.
  100. Se un testamento lasciava a diversi legatarj uno schiavo da scegliere, essi lo estraevano a sorte; e quelli che non lo ottenevano avevano diritto ad una parte del suo valore; uno schiavo ordinario, foss’egli un giovane fanciullo, od una giovane figlia, che avesse meno di dieci anni, era valutato dieci denari d’oro, e venti se ne aveva più di dieci; se lo schiavo sapeva qualche mestiere, trenta; se era notaro o scrivano, cinquanta; se era ostetricante o medico, sessanta. Gli eunuchi minori di dieci anni costavano trenta denari d’oro, e cinquanta se ne avevano di più; se si applicavano alla mercatura, settanta (Cod. leg. 6 tit. 43 leg. 3). Questi prezzi, stabiliti dalla legge, erano ordinariamente minori di quello del mercato.
  101. Sullo stato degli schiavi e degli affrancati, vedi le Institute (l. I tit. 3-8; l. II tit. 9; l. III tit. VIII, IX); le Pandette od i Digesti (l. I tit. 5, 6, l. XXX tit. 1-4); e tutto il l. XL; il Codice (l. VI tit. 4, 5; l. VII tit. 1-23). Allorchè d’ora innanzi mi occorrerà di citare il testo originale delle Institute e delle Pandette, annoterò contemporaneamente gli articoli corrispondenti nelle antichità e negli elementi di Eineccio; e quando si tratterà de’ primi ventisette libri delle Pandette, citerò anche il dotto e ragionato Comentario di Gerardo Noodt (Opera, t. 11 p. 1-590, in fine, Lugd. Bat. 1724).
  102. Vedi patria potestas nelle Institute (l. 1 tit. 9); nelle Pandette (l. 1 tit. 6, 7) e nel Codice (l. VIII tit. 47, 48, 49). Jus potestatis quod in liberos habemus, proprium est civium romanorum. Nulli enim alii sunt homines, qui talem in liberos habeant potestatem qualem nos habemus.
  103. Dionigi d’Alicarnasso (l. II p. 94, 95) e Gravina (Opp. p. 286) rapportano le parole delle Dodici Tavole. Papiniano (in Collatione legum roman. et mosaicarum, tit. 4 p. 204) alla patria potestas dà il nome di lex regia. Ulpiano (ad Sabin. l. XXVI, in Pandect. l. 1 tit. 6 leg. 8) dice: Jus potestatis moribus receptum; et furiosus filium in potestate habebit. Che potere sacro o piuttosto assurdo!
  104. Pandette (l. XLVII tit. 2 leg. 14 n. 13; leg. 38 n. 1). Tale era la decisione d’Ulpiano e di Paolo.
  105. La Trina mancipatio vien chiaramente definita da Ulpiano (frammenti X p. 591, 692, ediz. Schulting) ed ancor meglio sviluppata nelle Antichità d’Eineccio.
  106. Giustiniano (Instit. l. IV tit. 9 n. 7) rapporta e rifiuta l’antica legge che accordava a’ padri il jus necis. Se ne trovano pure altri vestigi nelle Pandette (l. XLIII tit. 29 leg. 3 n. 4), e nella Collatio legum romanarum et mosaicarum (tit. 2 n. 3 p. 189).
  107. Bisogna tuttavia eccettuarne le pubbliche occasionali funzioni e l’attualità dell’esercizio negli impieghi. In publicis locis atque actionibus, patrum jura, cum filiorum qui in magistratu sunt, potestatibus collata, interquiescere paululum et connivere ecc. (Aulo Gellio, Notti Attiche, 11, 2). Onde giustificare le lezioni del filosofo Tauro si metteva innanzi l’antico e memorabile esempio di Fabio; e non si ha che a leggere la stessa storia nella lingua di Tito Livio (XXIV, 44) e nel goffo idioma dell’analista Claudio Quadrigario.
  108. Vedi in che modo il peculio dei figli si estese, ed acquistò insensibilmente una sicurezza nelle Institute (l. 11 tit. 9), le Pandette (l. XV, tit. 1; l. XII tit. 1) ed il Codice (l. IV tit. 26, 27).
  109. Seneca (De Clementia, 1, 14, 15) cita gli esempj di Erixone e d’Ario: del primo parla con orrore e fa elogi del secondo.
  110. Quod latronis magis, quam patris jure eum interfecit, nam patria potestas in pietate debet non in atrocitate consistere (Marciano, Instituzioni, l. XIV, nelle Pandette, l. XLVIII tit. 9 leg. 5).
  111. Le leggi Pompea e Cornelia (de sicariis et parricidis) sono rinnovate o piuttosto abbreviate cogli ultimi supplimenti d’Alessandro Severo, di Costantino o di Valentiniano, nelle Pandette (l. XLVIII tit. 8, 9) e nel Codice (l. IX tit. 16, 17). Vedi eziandio il Codice di Teodosio (l. IX tit. 14, 15), col Comentario di Gotofredo (l. III p. 84, 113) che su queste leggi penali sparge un torrente d’erudizione antica e moderna.
  112. Quando Cremete in Terenzio rimprovera a sua moglie di avergli disubbidito non esponendo il loro figlio, egli parla da padre e da padrone, e fa tacere gli scrupoli di una sciocca moglie. Vedi Apuleo Metam. (l. X p. 337), ediz. ad usum Delphini.
  113. L’opinione de’ giureconsulti, e la saviezza de’ magistrati, all’epoca in cui Tacito visse, avevano introdotto alcune restrizioni legali che potevano giustificare il contrasto che egli stabilisce fra i boni mores de’ Germani, e le bonae leges alibi, vale a dire a Roma (De moribus Germanorum, c. 19) Tertulliano (ad Nationes, l. 1 c. 15) confuta le sue proprie accuse, e quelle de’ suoi confratelli contro la giurisprudenza pagana.
  114. L’umana e saggia decisione del giureconsulto Paolo l. II, sententiarum, in Pandect. (l. XXV tit. 3 leg. 4) non è presentata che come un precetto morale da Gerardo Noodt (Opp. t. I in Julium Paulum, p. 567-588, et Amica responsio, p. 591-606) che sostiene l’opinione di Giusto Lipsio (Opp. t. II p. 409; ad Belgas, cent. I epist. 85). Bynkershoek ne parla come di una legge positiva ed obbligatoria (De jure occidendi liberos. Opp. t. I p. 318-340; Curae secundae, p. 391-427). In questa controversia ardita e piena di rancore, i due amici sono caduti negli opposti estremi.
  115. Dionigi d’Alicarnasso (l. II p. 92, 93); Plutarco (in Numa, p. 140, 141) Το σαμα και το ηθος καθαρον και αθικτον επι τω γαμουντι γενεσδαι.
  116. Fra li frumenta d’inverno, si adoperava il triticum, o frumento barbuto, il siligo od il grano imberbe, il far, l’adorea, l’oryza, la cui descrizione si accorda perfettamente con quelle dei risi di Spagna e d’Italia. Io adotto questa identità sull’autorità del sig. Paucton nella sua laboriosa ed utile opera intorno la Metrologia.
  117. Aulo Gellio (Noctes Atticae XVIII, 6) presenta una ridicola definizione d’Elio Melisso, Matrona quae semel, Materfamilias quae saepius peperit, come se si trattasse d’una porcetra, o di una scropha. In seguito ne spiega il vero senso: Quae in matrimonium, vel in manum convenerat.
  118. Era anche troppo d’aver gustato il vino o portata via la chiave della cella del vino (Plinio, Storia nat. XIV, 14).
  119. Solone pretende che si abbia a soddisfare al dover coniugale tre volte la settimana. La Mishna comanda che il marito giovine e robusto, e che non affatica, vi adempia una volta al giorno. Per l’abitante di città lo fissa a due volte ogni settimana, ed una volta sola pel villano; ad una volta ogni trenta giorni pel conduttore dei cammelli, ed a una volta ogni sei mesi pel marinaro; ma ne vuole esente chi si dedica allo studio, ed il dottore. Una moglie che una volta ogni settimana l’ottenesse, non poteva domandare il divorzio: per una settimana il voto di continenza era permesso. La poligamìa divideva i doveri del marito senza moltiplicarli. (Selden, Uxor ebraica, l. III c. 6, nelle sue opere, vol. 2 p. 717-720).
  120. Sulla legge Oppia Tito Livio (l. XXXIV 1-8) riferisce il moderato discorso di Valerio Flacco, e l’aringa fatta da Catone l’Antico nella sua qualità di censore. Ma gli oratori del sesto secolo della fondazione di Roma, non avevano lo elegante stile che loro attribuisce l’istorico dell’ottavo. Aulo Gellio (X, 23) ha meglio conservato i principj ed anche lo stile di Catone.
  121. Rapporto al sistema del matrimonio degli Ebrei e dei Cattolici, vedi Selden (Uxor ebraica, Opp. vol. 2 p. 529-860); Bingham (Christian. antiquitates, l. XXII), e Chardon (Hist. des Sacrem. t. VI).
  122. Le leggi civili del matrimonio si trovano esposte nelle Institute (l. I tit. 10), nelle Pandette (l. XXIII, 24, 25) e nel Codice (l. V). Ma siccome il titolo del Ritu nuptiarum è imperfetto, bisogna ricorrere ai Frammenti d’Ulpiano (tit. 9 p. 590, 591) ed alla Collatio legum mosaicarum (tit. 16 p. 790, 791) colle note di Piteo e di Schulting. Nel comentario di Servio vi sono due curiosi passi sul primo libro delle Georgiche, ed il quarto dell’Eneide.
  123. Secondo Plutarco (p. 57) Romolo non ammise che tre cause di divorzio, cioè l’ubbriachezza, l’adulterio, e le chiavi false. In qualunque altro caso, quando lo sposo abusava del suo diritto di supremazia, si dice che la metà de’ suoi beni venisse confiscata in profitto della moglie, e l’altra metà in profitto della Dea Cerere; ed egli offriva un sacrificio, verisimilmente col resto, alle divinità della terra. Questa strana legge od è immaginaria, o non è stata che passeggiera.
  124. Nell’anno di Roma 523, Spurio Carvilio Ruga ripudiò una moglie bella e buona, ma che era sterile. (Dionigi d’Alicarnasso, l. II p. 93; Plutarco, in Numa, p. 141; Valerio Massimo, l. II c. 1; Aulo Gellio, IV, 3). Egli fu rimproverato da’ Censori e detestato dal popolo; ma la legge non si opponeva punto al suo divorzioa.
    1. Questo fatto viene altrimenti raccontato e spiegato da Montesquieu. (Esprit. des Lois, l. XVI. c. 16) (Nota dell’Editore).
  125. Sic fiunt octo mariti
    Quinque per autumnos.

    {{a destra|Juven. Sat. VI, 90.}} Quantunque questa successione sia molto rapida, essa è tuttavia credibile, come pure il non consulum numero, sed maritorum annos suos computant di Seneca (De beneficiis, III 16). A Roma San Gerolamo vide un marito che seppelliva la ventunesima sua moglie, la quale aveva seppelliti ventidue suoi predecessori meno robusti di lui (Opp. tom. I p. 90, ad Gerontiam). Ma i dieci mariti in un mese del Poeta Marziale, sono una stravagante iperbola (l. VI, epigr. 7).

  126. Publio Vittore, nella sua Descrizione di Roma, parla di un Sacellum Viriplacae (Valerio Massimo, l. II c. 1) che si trovava nel quartiere Palatino ai tempi di Teodosio.
  127. Valerio Massimo (l. II c. 9). Egli, con qualche ragione, giudica il divorzio più criminoso del celibato: illo namque conjugalia sacra spreta tantum, hoc etiam iniuriose tractata.
  128. Vedi le leggi d’Augusto e de’ suoi successori in Eineccio (ad legem Papiam Poppeam, c. 19, in Opp. t. VI part. I p. 323-333).
  129. Aliae sunt leges Caesarum; aliae Christi: aliud Papinianus, aliud Paulus noster praecipit (San Gerolamo, t. I p. 198; Selden uxor ebraica, l. III c. 31 p. 847-853).
  130. Le Institute non contengono nulla su di questo oggetto; ma si può vedere il Codice Teodosiano (l. III tit. 16, col Commentario del Gotofredo, t. I p. 310-315) e quello di Giustiniano (l. V tit. 17), le Pandette (l. XXIV tit. 2), e le Novelle (22, 117, 127, 134, 140). Fino all’ultimo suo momento, Giustiniano vacilla fra la legge civile e l’ecclesiastica.
  131. Ne’ buoni autori greci πορνεια non è una parola familiare, e la fornicazione che essa propriamente significa, non può rigorosamente convenire all’infedeltà del matrimonio. Di quale estensione è desso capace, ed a quali offese è mai applicabile in un senso figurato? Gesù Cristo parlava la lingua de’ rabbini o la siriaca? Qual’è l’originale parola che si tradusse per πορνεια? Se si vuol sostenere che Gesù Cristo non abbia eccettuato che questa causa di divorzio, si hanno due autorità (San Marco, X, 11; e San Luca, XVI, 18) contro una (San Mattia, XIX, 9). Adottando una risposta che elude la difficoltà, alcuni critici hanno osato di credere che egli non volesse offendere nè la scuola dei Sammai nè quella di Hillel (Selden, Uxor ebraica, l. III c. 18, 22, 28, 31).
  132. Giustiniano espone i principj della giurisprudenza romana (Instit. l. I tit. 10); e le leggi ed i costumi delle diverse nazioni dell’antichità intorno ai gradi proibiti ecc. vengono particolarmente sviluppati dal Dottore Taylor ne’ suoi Elementi della legge civile, p. 108, 314-339, opera di una piacevole e varia erudizione, ma di cui non si può lodare la precisione filosofica.
  133. Quando morì Agrippa, suo padre (A. D. 44), Berenice aveva sedici anni (Giuseppe, t. i, Antichità Giudaiche, l. XIX c. 9 p. 962, ediz. Havercamp). Essa quindi aveva più di cinquant’anni quando Tito (A. D. 79) invitus invitam dimisit. Questa data non avrebbe prodotto un effetto felice nella tragedia o nella pastorale del tenero Racine.
  134. L’Aegiptia coniux di Virgilio (Eneid. VIII, 688) sembra essere annoverata fra i mostri che fecero la guerra con Marc’Antonio contro Augusto, il Senato, e gli Dei d’Italia.
  135. L’editto di Costantino fu il primo che diede questo diritto; giacchè Augusto aveva proibito di aver per Concubina una donna che si potesse sposare; e se uno la sposava in seguito, questo matrimonio non variava in nulla i diritti dei figli nati antecedentemente: allora si aveva il mezzo dell’adozione propriamente detta arrogazione. (Nota dell’Editore).
  136. I diritti modesti, ma autorizzati dalla legge, delle concubine, e de’ figli naturali, si rinvengono stabiliti nelle Institute (l. V tit. 10), nelle Pandette (l. 1 tit. 7), nel Codice (l. 5 tit. 25) e nelle Novelle (74 e 89). Le indagini d’Eineccio e del Giannone (ad legem Juliam et Papiam Poppeam, l. IV p. 164, 175; Opere postume, p. 108-158) dilucidano questo punto importante de’ costumi domestici.
  137. Vedi l’articolo de’ tutori e de’ pupilli nelle Institute (l. 1 tit. 13-26), nelle Pandette (l. XXVI, XXVII) e nel Codice (l. V tit. 28-70).
  138. Inst. l. II tit. 1, 2. Si paragonino i ragionamenti piani e precisi di Cajo o d’Eineccio (l. II tit. 1 p. 69-91) colla vaga prolissità di Teofilo (p. 207-265). Le opinioni di Ulpiano si trovano nelle Pandette (l. 1 tit, 8 leg. 41 n. 1).
  139. Varrone determina l’heredium de’ primi Romani (De re rustica, l. 1 c. 2 p. 141; c. 10 p. 160, 161, ediz. Gesuer). Le declamazioni di Plinio (Hist. nat. XVIII, 2) oscurano questa materia. Si trovano su questo soggetto varie giuste ed erudite osservazioni nell’Administration des terres chez les Romains, p. 12-66.
  140. Ulpiano (Fram. tit. 18 p. 618, 619) e Bynkershoek (Opp. t. 1 p. 306-315) spiegano la res mancipe con alcuni deboli barlumi ricavati da dati molto lontani; la loro definizione è un poco arbitraria; e non avendo gli autori assegnata una positiva ragione, io diffido di quella che ho allegata.
  141. In vista della brevità di questa prescrizione, Hume conchiude (Saggi, vol. 1 p. 423) che le proprietà non potevano essere in allora più fisse in Italia di quello che lo siano oggigiorno fra i Tartari. Ma Vallace, suo avversario, più versato nelle leggi di Roma, gli rimprovera con ragione di non aver pensato alle condizioni che l’accompagnavano (Instit. l. II tit. 6).
  142. Vedi le Institute (l. 1 tit. 4, 5) e le Pandette (l. VII). Nood ha composto un particolare ed erudito trattato de usufructu (Opp. t. 1 p. 387-478).
  143. Le questioni de servitutibus si trovano discusse nelle Institute (l. II tit. 3) e nelle Pandette (l. 8). Cicerone (pro Murena, c. 9) e Lattanzio (Instit. div. 1. c. 1)affettano di ridere sulle insignificanti dottrine de aqua pluvia arcenda ecc. Tuttavia questa specie di processi doveva essere comune tanto in città quanto in campagna.
  144. Presso i Patriarchi, il primogenito aveva un diritto di una mistica e spirituale primogenitura (Genesi, XXV, 31). Nella terra di Canaan esso avea una doppia parte nell’eredità (Deuteronomio, XXI, 17, col Comentario del sensato Leclerc).
  145. In Atene, la porzione de’ figli era eguale; ma le povere figlie non avevano che ciò che i fratelli volevano loro dare. Vedi le ragioni κληρικοι, che faceva valere Iseo (nel settimo volume degli Oratori greci) sviluppate nella versione e nel comentario di Guglielmo Jones, scrittore erudito, molto instruito nelle leggi, ed uomo d’ingegno.
  146. In Inghilterra il primogenito eredita egli solo tutti i beni fondiarii; legge, dice l’ortodosso Blackstone (Commentaries on the Laws of England, vol. 2 p. 215), la quale non è ingiusta che nell’opinione de’ figli cadetti. Essa, eccitando l’industria, può avere una bontà politica.
  147. Le Tavole compilate da Blackstone (vol. 2 p. 202) indicano e fra loro avvicinano i gradi della legge canonica e della legge comune. Un particolare trattato di Giulio Paolo (De Gradibus et Affinibus) venne, o per intiero od in ristretto, inserito nelle Pandette (l. XXXVIII tit. 10). Al settimo grado egli conta (n. 18) mille e ventiquattro persone.
  148. La legge Voconia fu pubblicata l’anno 584 di Roma. Il più giovane de’ Scipioni, che aveva allora diciassette anni (Freinsemio, Supplimento di Tito Livio, XLVI, 40); trovò l’occasione d’esercitare la propria generosità verso sua madre, le sue sorelle ecc. Polibio che viveva in casa sua fu il testimonio di questa bell’azione (t. II l. XXXI p. 1453-1464, ediz. di Gronovio).
  149. Legem Voconiam (Ernesti, Clavis Ciceroniana) magna voce bonis lateribus (a sessantacinque anni) suasissem, dice Catone l’Antico (De Senectute, c. 5). Aulo Gellio (VII, 13; XVII, 6) ne ha conservati alcuni passi.
  150. Vedi la legge delle successioni nelle Institute di Cajo (l. II tit. 8 p. 130-144) ed in Giustiniano (l. III tit. 1-6, colla versione greca di Teofilo, p. 515-575, 588-601), nelle Pandette (l. XXXVIII tit. 6-17), nel Codice (l. VI tit. 55-60) e nelle Novelle (118).
  151. Taylor, scrittore illuminato e pieno di fuoco, ma soggetto ad aberrazioni, ha dimostrato (Elements of Civil Law p. 519, 527) che la successione è la regola, ed il testamento l'eccezione. Nel III e nel IV libro il metodo delle Institute è incontrastabilmente contrario all’ordine naturale. Il Cancelliere d’Aguesseau (Opere, t. 1 p. 275) desiderava che Domat, suo compatriotta, fosse stato al posto di Triboniano. Tuttavia i contratti prima delle successioni non formano certamente l’ordine naturale delle leggi civili.
  152. I testamenti anteriori a quest’epoca sono forse favolosi. In Atene avevano diritto di testare solamente que’ padri che morivano senza figli (Plutarco, in Solone, t. I p. 164. Vedi Iseo e Jones).
  153. Si fa menzione del testamento d’Augusto in Svetonio (in August. c. 101, in Neron. c. 4) scrittore che si può studiare, siccome una raccolta d’antichità romane. Plutarco (Opusc. t. II p. 976) è sorpreso σταν δε διαθηκας γραφωσιν, ετερους μεν απολειπουσι κληρονομους, ετεροι δε πωλουσι τας ουσιας. (perchè scrivono testamenti, e lasciano altri eredi, e questi vendono le sostanze„). Le espressioni d’Ulpiano (Fram. tit. 20 p. 627, ed. di Schulting) sembrano troppo esclusive Solum in usu est.
  154. Giustiniano (Novella 115 n. 3, 4) fa l’enumerazione de’ delitti pubblici e privati, che soli potevano dare anche al figlio il diritto di diseredare suo padre.
  155. Le sostituzioni fedecommessarie delle nostre leggi civili presentano un’idea feudale innestata sulla giurisprudenza romana, ed esse hanno appena qualche rassomiglianza cogli antichi fedecommessi (Institutions du Droit français, t. 1 p. 347-383; Denisart, Decisions de Iurisprudence, t. IV p. 577-604). Abusando della centocinquantanovesima novella, legge parziale, confusa e declamatoria, esse vennero estese fino al quarto grado.
  156. Dione Cassio (t. II l. LVI p. 814, colle note di Reimar) specifica venticinquemila dramme, secondo la maniera di computare de’ Greci.
  157. Montesquieu (Esprit des Lois, l. XXVII) ha spiegato col suo solito ingegno, ma qualche volta coll’unica scorta della sua immaginazione, anzi che appoggiato ai monumenti della storia, le rivoluzioni delle leggi romane risguardanti le successioni.
  158. I principj della civile giurisprudenza sulle successioni, i testamenti, i codicilli, i legati ed i fedecommessi si riscontrano nelle Institute di Cajo (l. II tit. 2-9 p. 91-144), in quelle di Giustiniano (l. II tit. 10-25), e di Teofilo (p. 328-514). Queste immense particolarità occupano dodici libri (28-39) delle Pandette.
  159. Le Institute di Cajo (l. II tit. 9, 10 p. 144-214), di Giustiniano (l. III tit. 14-30; l. IV tit. 1, 6) e di Teofilo (p. 616 637) distinguono quattro sorta d’obbligazioni, aut re, aut verbis, aut litteris, aut consensu; ma io confesso che preferisco la divisione da me adottata.
  160. Quanto mai è superiore a lodi vaghe ed indeterminate il ragionevole e tranquillo attestato di Polibio (l. VI p. 693, l. XXXI p. 1459, 1460)! Omnium maxime et praecipue fidem coluit (A. Gellio, XX, 1).
  161. Gerardo Noodt ha composto un trattato particolare e soddisfacente sul ius praetorium de pactis et transactionibus (Opp. t. 1, 463, 564); ed io coglierò quest’occasione per osservare che al principio di questo secolo (XVIII) le università dell’Olanda e del Brandeburgo sembrano avere studiato le leggi civili sui più giusti e nobili principj.
  162. Ciò che si riferisce alla dilicata e varia materia de’ contratti consensuali, si trova sparso nel quarto libro delle Pandette (17, 20); ed essa è una delle parti che più meritano d’essere studiata da un Inglese.
  163. La natura delle locazioni è fissata nelle Pandette (l. XIX) e nel Codice (l. IV tit. 65). Il quinquennium o termine di cinque anni sembra esser derivato da una consuetudine piuttosto che da una legge. In Francia tulle le locazioni delle terre erano stabilite a nove anni; e tale restrizione non venne abolita che nel 1775 (Enciclopédie méthodique, t. 1, de la Jurisprudence, p. 668, 669); ed io devo, con dispiacere, osservare che essa esiste ancora nella felice e bella contrada che abito (nel paese di Vaud).
  164. Potrei qui, senza restrizione alcuna, rimettermi all’opinione ed alle indagini dei tre libri di Gerardo Noodt, de foenore et usuris (Opp. t. 1 p. 175, 268). I migliori critici ed i più abili giureconsulti calcolano gli asses o centesimae usurae al dodici, e le unciariae ad uno per cento. Vedi Noodt, l. II c. 2 p. 207; Gravina Opp. p. 205, ec., 210; Eineccio, Antiquit. ad Institut. l. III tit. 15; Montesquieu, Esprit des Lois, l. XXII c. 22 t. 2 p. 36; t. 3 p. 478 ec. Défense de l’Esprit des Lois, e specialmente Gronovio, (de pecunia veteri, l. III c. 13 p. 213-227, e le sue tre Antexegeses, p. 455, 655), fondatore o campione di questa opinione probabile, che tuttavia non lascia di presentare qualche difficoltà.
  165. Primo 12 Tabulis sancitum est, ne quis unciario foenore amplius exerceret (Tacito, Annali, VI. 16). Pour peu, dice Montesquieu (Esprit des Lois, l. XXII c. 22), qu’on soit versé dans l’histoire de Rome, on verra qu’une pareille loi ne devait pas être l’ouvrage des Décemvirs. Dunque Tacito era ignorante o stupido? I più savj e virtuosi patrizj potevano sagrificare la loro avarizia alla loro ambizione, e tentare di annullare un costume vizioso, con fissare un interesse, al quale nessun mutuante avrebbe voluto esporsi o tali pene a cui niun debitore avrebbe voluto andar incontro.
  166. Giustiniano non si è degnato di parlare delle usure nelle sue Institute; ma le regole e le restrizioni su questa materia si trovano nelle Pandette (l. XXII tit. 1, 2) e nel Codice (l. IV tit. 32, 33).
  167. Su questo punto l’opinione de’ Padri della Chiesa è unanime (Barbeyrac, Morales des Pères, p. 144 ec.). Vedi San Cipriano, Lattanzio, San Basilio, San Crisostomo (i suoi frivoli argomenti si ritrovano in Noodt, l. I c. 7 p. 188), San Gregorio di Nissa, Sant’Ambrogio, San Gerolamo, Santo Agostino, ed una moltitudine di Concilii e di Casuisti.
  168. Catone, Seneca e Plutarco hanno altamente condannato l’uso o l’abuso dell’usura. Secondo l’etimologia di foenus e di τοκος, si suppone che il principale generi l’interesse. Posterità d’uno sterile metallo! esclama Shakespeare, ed il teatro è l’eco della voce pubblica.
  169. Guglielmo Jones ha composto un saggio ingegnoso e ragionato sulla legge delle cauzioni (Londra, 1781, p. 127 in-8). È forse l’unico Giureconsulto che abbia un’eguale estesa cognizione de’ registri di Vestminster, de’ Commentarj d’Ulpiano, delle Aringhe Attiche d’Iseo, e delle Sentenze de’ giudici dell’Arabia e della Persia.
  170. Noodt (Opp. t. 1 p. 137, 172) ha composto un trattato particolare sulla legge Aquilia (Pandect. l. IX tit. 2).
  171. Aulo Gellio, (Notti Attiche, XX, 1). Egli ha ricavato questa storia dai Comentarii di Q. Labeone sulle Dodici Tavole.
  172. La narrazione che ne fa Tito Livio (1, 28) è imponente e grave. At tu dictis Albane maneres, è una riflessione assai dura, indegna dell’umanità di Virgilio (Eneide, VIII, 643). Heyne, col suo solito buon gusto, osserva che questo soggetto era troppo orribile, e che l’autore dell’Eneide non avrebbe dovuto collocarlo sullo scudo d’Enea (t. III p. 229).
  173. Giovanni Marsham (Canon chronicus, p. 593, 596) ed il Corsini (Fasti Attici, t. III p. 62) hanno stabilita l’epoca in cui Dracone visse (Olimpiade XXXIX, 1). Quanto alle sue leggi, vedi gli autori che hanno scritto sul governo d’Atene, Sigonio, Meursio, Potter ec.
  174. La settima De Delictis, nelle Dodici Tavole, viene sviluppata da Gravina (Opp. p. 292, 293, con un Comentario, p. 214, 230). Aulo Gellio (XX, 1) e la Collatio legum mosaicarum et romanarum, contengono molte istruttive particolarità.
  175. Tito Livio fa menzione di due epoche di delitto, in cui tremila persone furono accusate, e centonovanta matrone convinte del delitto d’avvelenamento. (XL, 43, VIII, 18). Hume distingue i tempi della virtù pubblica da quelli della virtù privata (Saggi, vol. 1 p. 22, 23). Io crederei piuttosto che queste effervescenze di crimini, come l’anno 1680 in Francia, sono accidenti e mostruosità che non possono lasciar macchia ne’ costumi di una nazione.
  176. Le Dodici Tavole e Cicerone (pro Roscio Amerino, c. 25, 26) non parlano che del sacco. Seneca (Excerpt. controv. V, 4) vi aggiunge i serpenti. Giovenale ha pietà della scimia che non aveva fatto alcun male (innoxia simia, sat. XIII, 156). Adriano (apud Dositheum magistrum, l. III c. 16 p. 874, 876, colle note di Schulting), Modestino (Pandette, XLVIII, tit. 9 leg. 9), Costantino (Codice, l. IX tit. 17), e Giustiniano (Institute, l. IV tit. 18) indicano tutto quello che si metteva nel sacco del parricida. Ma in pratica questo supplizio bizzarro veniva semplificato. Hodie tamen vivi exuruntur vel ad bestias dantur (Paolo, Sentent. recep. l. V tit. 24 p. 512, ediz. di Schulting).
  177. Il primo parricida, che siasi avuto a Roma fu L. Ostio, dopo la seconda guerra punica (Plutarco, in Romulo, t. 1 p. 57). Durante la guerra de’ Cimbri, P. Malleolo si rese colpevole del primo matricidio (Tito Livio, Epit. l. LXVIII).
  178. Bynkershoek (Observ. juris rom. l. 1 c. 1; in Opp. t. 1 p. 9, 10, 11) si sforza di provare che i creditori non dividevano il corpo, ma il valore del debitore insolvibile. Ma la sua interpretazione non è che una continuata metafora, e non può distruggere l’autorità romana, di Quintiliano, di Cecilio, di Favonio, e di Tertulliano. Vedi Aulo Gellio (Notti Attiche, XXI).
  179. Il primo discorso di Lisia (Reiske, Orator. graec. t. V p. 2-48) è la difesa di un marito che avea ucciso un adultero. Il Dottore Taylor (Lectiones Lysiacae, c. 11, in Reiske, t. VI, 301-308) discute con molta dottrina i diritti dei mariti e de’ padri in Roma ed in Atene.
  180. Vedi Casaubon, (ad Athenaeum, l. 1 c. 5 p. 19). Percurrent raphanique mugilesque (Catullo, p. 41, 42, ed. di Vossio). Hunc mugilis intrat (Giovenale, Sat. X, 317). Hunc perminxere calones (Orazio, l. I, Sat. II, 44). „ Familiae stuprandum dedit..... Fraudi non fuit (Valerio Massimo, l. VI c. 1 n. 13).
  181. Tito Livio (11, 8) e Plutarco (in Publicola, t. 1 p. 187) allegano questa legge: essa interamente giustifica la opinion pubblica su la morte di Cesare; opinione che Svetonio non temette di pubblicare sotto il governo degli Imperatori. Jure caesus existimatur, dice egli, in Julio, c. 76. Leggansi anche le lettere che si scrissero Cicerone e Muzio poco dopo gl’Idi di Marzo (ad Fam. XI, 27, 28).
  182. Πρωτοι δε Αθηναιοι τον τε σιδηρον κατεθεντο (Tucidide, l. 1 c. 6). L’istorico che da questa circostanza ricava un mezzo di giudicare lo stato della civiltà, sdegnerebbe il barbarismo d’una Corte Europea.
  183. Cicerone aveva in origine calcolato i danni della Sicilia a millies (ottocentomila lire sterline, Divinatio in Caecilium, c. 5); in seguito poi li ridusse a quadraginties (trecentomila lire sterline, prima aringa, in Verrem, c. 18), e finalmente si accontentò di tricies (ventiquattromila lire sterline). Plutarco (in Ciceron. t. III p. 1584) non ha dissimulato i sospetti ed i romori che in allora si sparsero.
  184. Verre passò circa trent’anni nel suo esilio, fino all’ epoca del secondo triumvirato, in cui egli fu proscritto dal buon gusto di Marc’Antonio, che si era invaghito del suo bel vasellame di Corinto (Plinio, Hist. Nat. XXXIV, 3).
  185. Tale è il numero assegnato da Valerio Massimo (l. IX c. 2 n. 1). Floro (IV, 21) dice che duemila senatori e cavalieri furono proscritti da Silla. Appiano (De bello civili, l. 1 c. 95 t. II p. 133, ediz. Schweighaeuser) con maggior esattezza enumera quaranta vittime dell’ordine senatorio, e mille seicento dell’ordine equestre.
  186. Su le leggi penali, vale a dire su le leggi Cornelia, Pompea, Giulia, di Silla, di Pompeo e di Cesare, vedi le Sentenze di Paolo (l. IV tit. 18-30 p. 497-528, ed. di Schulting); la Collatio legum mosaicarum et romanarum (t. 1-15); il Codice Teodosiano (l. IX); il Codice di Giustiniano (l. IX); le Pandette (XLVIII); le Institute (l. IV tit. 18) e la gran versione di Teofilo (p. 917-926).
  187. Egli era un tutore che aveva avvelenato il suo pupillo. Quantunque il delitto fosse atroce, Svetonio (c. 9) colloca questo castigo nel numero delle azioni in cui Galba si mostrò acer, vehemens, et in delictis coercendis immodicus.
  188. Gli Abactores o Abigeatores che portavan via un cavallo, due cavalle od un paio di buoi, cinque porci o dieci capre incorrevano una pena capitale (Paolo, sentent. recept. l. IV tit. 18 p. 497, 498). Adriano (ad Concil. Boetic.) in ragione della frequenza del delinquere, più severo, condanna i rei ad gladium, ludi damnationem (Ulpiano, De officio proconsulis, l. VIII, in Collatione legum mosaicarum et romanarum, tit. 11 p. 235).
  189. Infino a che non si fece la pubblicazione del Giulio Paolo di Schulting (l. II tit. 26 p. 317, 323), si è tenuto per fermo, o si è da tutti creduto, che le leggi Giulie condannassero l’adultero alla pena di morte. Questo sbaglio è nato da una frode o da un errore di Triboniano. Non pertanto a tenore di quanto racconta Tacito, Lipsio indovinava la verità (Annali, II, 50; III, 24; IV, 42), secondato anche dal costume d’Augusto che nelle debolezze delle mogli della sua famiglia distingueva quelle che seco traevano il delitto di lesa maestà.
  190. Severo ristrinse al solo marito il diritto d’una pubblica accusa in caso d’adulterio (Cod. Giustiniano, lib. IX tit. 9 leg. 1). Forse non è affatto ingiusto questo favore accordato al marito, poichè l’infedeltà delle mogli seco strascina conseguenze d’assai più disgustose di quelle degli uomini.
  191. Timone (l. 1) e Teopompo (l. XLIII, apud Athenaeum, l. XII p. 517) descrivono il lusso e la dissolutezza degli Etruschi: Πολυ μεν τοι γε χαιρουσι συνοντες τοις παισι και τοις μειρακιοις. Verso quel tempo (A. U. C. 445) i giovani romani frequentavano le scuole d’Etruria (Tito Livio, IX, 36).
  192. I Persiani s’erano corrotti alla stesse scuola: „Ελληνων μαθοντες παισι μισγονται„ (Erodoto, l. 1 c. 135). Vi sarebbe da fare una curiosissima dissertazione sull’introduzione del vizio contro natura, nei tempi posteriori ad Omero; sui progressi che fece tra i Greci dell’Asia e dell’Europa, sulla veemenza delle passioni di questi ed il sì fievole espediente della virtù e dell’amicizia che tanto ricreava i filosofi d’Atene. Ma scelera ostendi oportet dum puniuntur, abscondi flagitia.
  193. In una istessa incertezza cadono il nome, l’epoca e le disposizioni di questa legge (Gravina, Opp. p. 432, 433; Eineccio, Hist. iur. rom. n. 108; Ernesti, Clav. Ciceron. in Indice legum). Ma devo notare per la verità che la nefanda Venus del riservato Tedesco è dall’Italiano più castigato chiamata aversa.
  194. Vedi il discorso d’Eschine contro il catamita Timarco (in Beiske, Orat. graec. t. III p. 21-184.
  195. Si presentano in folla alla mente del lettore, che ha cognizioni degli autori antichi, i nefandi passi; per me mi contenterò di indicare in questo luogo la fredda riflessione d’Ovidio:

    Odi concubitus qui non utrumque resolvunt.
         Hoc est quod puerum tangar amore minus.

  196. Elio Lampridio (nella vita d’Eliogabalo, nella Storia Augusta, p. 112), Aurelio Vittore (in Philipp. Cod. Theod. l. IX tit. 7 leg. 7), ed il Comentario di Gotofredo (t. III p. 63). Teodosio abolì le malaugurate leggi che erano stabilite nei sotterranei di Roma, ove ambo i sessi impunemente si prostituivano.
  197. Veggansi le leggi di Costantino e de’ suoi successori contro l’adulterio, la sodomia, ec., nel Codice Teodosiano (l. IX tit. 7 leg. 7; l. XI tit. 36 leg. 1, 4) ed il Codice Giustinianeo (l. IX tit. 9 leg. 30, 31). Questi Principi parlano tanto col linguaggio della passione, quanto con quello della giustizia, ed hanno la cattiva fede d’attribuire la propria loro severità ai primi Cesari.
  198. Giustiniano, Novelle 77, 134, 141; Procopio, Aneddoti, c. 1-16, colle annotazioni d’Alemanno; Teofane, p. 151; Cedreno, p. 368; Zonaro, l. XIV, p. 64.
  199. Montesquieu, Spirito delle leggi, l. XII c. 5. Questo filosofo cotanto pel suo genio commendevole, concilia i diritti della libertà e della natura che non dovrebbero giammai trovarsi in opposizione fra loro.
  200. Vedi venti secoli prima dell’Era Cristiana, intorno alla corruzione della Palestina, la Storia e le leggi di Mosè. Diodoro Siculo (t. 1 l. V p. 356) agli antichi Galli fa un rimprovero di questo vizio; i viaggiatori mussulmani e cristiani l’imputano alla China (Antic. Relaz. dell’India e della China, p. 34, tradotte dal Padre Rinaldetto e dal Padre Premaro, aspro suo critico, nelle Lettere edificanti, t. XIX p, 433) Gli storici spagnuoli, ne accusano gli indigeni dell’America. (Garcilasso della Vega, l. III c. 13; e Dizionario di Bayle, t. III p. 88). Voglio sperare ed amo credere che questa peste non siasi peranco sparsa fra i Negri dell’Affrica.
  201. Carlo Sigonio (l. III, De judiciis in Opp. t. III p. 679- 864) spiega molto eruditamente e con classico stile l’ importante materia delle liti e dei giudizj che si tenevano pubblicamente in Roma, e se ne trova un compendio molto bene scritto nella Repubblica Romana di Belforte (t. II l. V p. 1-121). Chi desiderasse maggiori schiarimenti e più precise particolarità, può studiare Noodt (De iurisdictione et imperio, libri duo, t. 1 p. 93-134), Eineccio (ad Pandect., l. I c. 11; ad Instit. l. IV tit. 17; Element. ad Antiquit.) e Gravina (Opp. 230-251).
  202. Le funzioni dei giudici di Roma, come quelle dei giurati d’Inghilterra, non potevano essere risguardate che come un dovere passeggiero, e non mai come una magistratura, od una professione, ma le leggi della Gran Brettagna esigono particolarmente l’unanimità dei voti: esse espongono i giurati ad una sorta di tortura da cui hanno liberato i rei.
  203. Siamo debitori di questo fatto interessante ad un frammento d’Asconio Pediano che vivea mentre regnava Tiberio. La perdita che si è fatta de’ suoi Comentarii sulle Orazioni di Cicerone, ci ha tolto un fondo prezioso di cognizioni storiche o relative alle leggi.
  204. Polibio, lib. VI p. 633. L’estensione dell’Imperio, non che dei luoghi compresi nella città di Roma, forzava l’esiliato a procurarsi un ritiro che fosse ad una gran distanza.
  205. Qui de se statuebant, humabantur corpora, manebant testamenta; pretium festinandi. Tacito, Annali VI, 25, colle Annotazioni di Giusto Lipsio.
  206. Giulio Paolo, Sentent. recept. l. V tit. 12 p. 476; le Pandette, l. XLVIII tit. 21; il Codice, l. IX tit. 50; Bynkershoek, t. 1 p. 59; Observat. J. G. R. IV, 4, e Montesquieu (Esprit. des Lois, l. 29 c. 9) notano le civili restrizioni della libertà, ed i privilegi del suicida. Le pene che gli vennero inflitte, furono inventate in un tempo posteriore e meno illuminato.
  207. Plinio, Hist. Nat. XXXVI, 24. Quando Tarquinio per edificare il Campidoglio tormentò talmente i suoi sudditi che ridusse alla disperazione parecchi fra gli operai, onde si diedero la morte, fece inchiodare i cadaveri di quegli sgraziati su d’una croce.
  208. I rapporti che s’incontrano fra una morte violenta, ed una morte immatura, determinarono Virgilio (Eneide, VI, 434-439) a confondere insieme il suicidio e la morte dei neonati, quelli che muoiono per amore e le persone ingiustamente condannate a morte. Il migliore fra i suoi editori, Heyne, non sa come spiegare le idee, ossia il sistema di giurisprudenza del romano poeta in intorno questo soggetto.