Storia della decadenza e rovina dell'Impero romano/45
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Traduzione dall'inglese di Davide Bertolotti (1820-1824)
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CAPITOLO XLV.
[A. D. 565] Negli ultimi anni di Giustiniano, l’inferma sua mente era dedicata alle contemplazioni celesti, ed egli trascurava gli affari di questo mondo quaggiù. I suoi sudditi erano stanchi di comportare più a lungo la sua vita e il suo regno: non pertanto tutti gli uomini atti a riflettere, paventavano il momento della sua morte, come quello che dovea involgere la capitale nel tumulto, e l’Impero nella guerra civile. Questo monarca senza prole avea sette nipoti1, figli o nipoti di suo fratello e di sua sorella, tutti educati nello splendore di una condizione reale. Il mondo gli avea veduti negli alti comandi delle province e degli eserciti; conosciuta era l’indole di ciascun di loro, zelanti n’erano gli aderenti, e siccome la gelosia del vecchio Sire sempre differiva a dichiarare il successore qual fosse, ognun d’essi con eguale speranza poteva ambire l’eredità dello zio. Egli spirò nel suo palazzo, dopo un regno di trent’anni; e la decisiva opportunità del momento venne colta dagli amici di Giustino, figlio di Vigilanzia2. All’ora di mezzanotte, i suoi domestici furono svegliati da una importuna folla che tuonava alla sua porta, e che ottenne di esser ammessa in casa col significare ch’erano i membri principali del Senato. Questi fausti deputati svelarono il recente ed importante secreto della morte dell’Imperatore: riferirono o forse inventarono la scelta che egli avea fatto morendo del più diletto e più meritevole fra i suoi nipoti, e scongiurarono Giustino ad antivenire i disordini a cui poteva darsi la moltitudine, se col ritorno della luce ella vedesse ch’era rimasta senza signore. Giustino poi ch’ebbe composto il suo aspetto alla sorpresa, al dolore, e ad una decente modestia, secondando l’avviso di sua moglie, Sofia, si sottopose alla autorità del Senato. Speditamente ed in silenzio egli fu condotto al palazzo; le guardie salutarono il nuovo loro Sovrano, e si compirono, senza frappor dimora i marziali e religiosi riti della sua coronazione. Dalle mani de’ suoi propri ufficiali gli si vestirono gl’Imperiali arredi, i borzacchini rossi, la tunica bianca e la veste di porpora. Un soldato felice, ch’egli incontanente promosse al grado di Tribuno, gli cinse al collo la militare collana; quattro robusti giovani lo innalzarono sopra uno scudo; fermo e ritto ivi egli stette a ricevere l’adorazione de’ suoi sudditi; e la benedizione del Patriarca che impose il diadema sul capo di un Principe ortodosso santificò la loro elezione. [A. D. 565] Già pieno era l’Ippodromo d’innumerevol gente, e non sì tosto l’Imperatore si mostrò sul suo trono, che le voci della fazione azzurra e della verde si confusero per applaudirlo egualmente. Ne’ discorsi che Giustino fece al Senato ed al Popolo, egli promise di corregger gli abusi che avean disonorato la vecchiaia del suo predecessore, professò le massime di un governo giusto e benefico, e dichiarò che alle vicine calende di Gennaio3, egli farebbe rivivere nella sua persona il nome e la liberalità di un Console romano. [A. D. 566] L’immediato soddisfacimento dei debiti del suo zio esibì un solido pegno della sua fede e del suo generoso procedere: una schiera di portatori, carichi di sacchetti d’oro, si avanzò nel mezzo dell’Ippodromo, ed i creditori di Giustiniano, caduti d’ogni speranza, accettarono come spontaneo dono, questo pagamento richiesto dall’equità. Prima che passassero tre anni, l’esempio di Giustino fu imitato e superato dall’imperatrice Sofia, che liberò molti indigenti dai debiti e dall’usura: atto di benevolenza che sopra ogni altro merita la gratitudine, come quello che solleva l’individuo dal più intollerabile de’ mali, ma nell’esercizio del quale la bontà di un Principe va soggettissima ad esser tratta nell’inganno dai richiami della prodigalità e da’ frodolenti artifizj4.
[A. D. 566] Giustino, nel settimo giorno del suo regno, diede udienza agli ambasciatori degli Avari, e decorata fu la scena in modo da imprimere ne’ Barbari i sensi della maraviglia, della venerazione e del terrore. Principiando dalla porta del palazzo, gli spaziosi cortili ed i lunghi portici offrivano in doppia e continua fila, la vista de’ superbi cimieri e degli aurei scudi delle guardie, che presentavano le lance e le azze loro con più securtà che non avrebbero fatto sul campo della battaglia. Gli ufficiali, che esercitavano il potere od accompagnavano la persona del Principe, erano coperti delle più ricche lor vesti, e disposti secondo l’ordine militare e civile della gerarchia. Come il velo del santuario fu tratto, gli ambasciatori mirarono l’Imperatore dell’Oriente assiso in trono, sotto un baldacchino sostenuto da quattro colonne, e coronato da una figura alata della Vittoria. Essi ne’ primi moti della sorpresa, si sottomisero all’adorazione servile della corte Bizantina; ma appena alzati da terra, Targezio, Capo dell’ambasceria, spiegò la libertà e l’orgoglio di un Barbaro. Egli esaltò, mediante la lingua di un interprete, la grandezza del Cacano, la cui clemenza permetteva di sussistere ai regni del Mezzogiorno, ed i vittoriosi cui sudditi aveano valicato i fiumi agghiacciati della Scizia, ed allor coprivano le rive del Danubio d’innumerevoli tende. L’ultimo Imperatore avea coltivato, con annui e magnifici doni, l’amicizia di un riconoscente monarca, ed i nemici di Roma aveano rispettato gli alleati degli Avari. La stessa prudenza dovea consigliare i nipoti di Giustiniano ad imitare la liberalità del loro zio, ed a procacciarsi il benefizio della pace con un popolo invincibile, che si dilettava degli esercizj della guerra ne’ quali era eccellente. La risposta dell’Imperatore fu conforme a siffatto stile di superba disfida, ed egli trasse la sua confidenza dal Dio de’ Cristiani, dall’antica gloria di Roma, e da’ recenti trionfi di Giustiniano. „L’Impero„ ci soggiunse „abbonda d’uomini e di cavalli e di armi bastevoli a difendere le nostre frontiere, ed a punire li Barbari. Voi offerite aiuto, voi minacciate offese; noi abbiamo in non cale la vostra inimicizia ed il vostro soccorso. I conquistatori degli Avari richieggono la nostra alleanza; dovremo noi aver temenza de’ fuggiaschi e degli esuli loro5? Mio zio si mostrò largo verso la vostra miseria, piegandosi alle vostre umili preci. Noi vi faremo più importante servigio, quello di farvi conoscere la vostra debiltà. Ritiratevi dal nostro cospetto; le vite degli ambasciatori sono sicure; e se ritornerete ad implorare il nostro perdono, forse assaggerete i frutti della nostra bontà6„. Porgendo fede al racconto de’ suoi ambasciatori, il Cacano fu sbigottito dall’apparente fermezza di un Imperatore romano, di cui ignorava l’indole e le facoltà. In cambio di mandare ad effetto le sue minacce contro l’Impero orientale, egli portò le armi nelle povere ed incolte contrade della Germania, ch’erano soggette al dominio de’ Franchi. Dopo due dubbiose battaglie, egli consentì a ritirarsi, ed il Re di Austrasia sovvenne alla carestia del campo degli Avari mediante un’immediata provigione di grano e di bestiame7. Simiglianti ripetute traversie aveano come spento l’ardire degli Avari, e dileguata sarebbesi la potenza loro in mezzo a’ deserti della Sarmazia, se l’alleanza di Alboino, re de’ Lombardi, non avesse dato un nuovo scopo alle lor armi, ed un solido stabilimento alle disastrate loro fortune.
Alboino, nel tempo che militava sotto le bandiere del padre, incontrò in battaglia, e trapassò colla lancia da parte a parte il Principe de’ Gepidi, suo competitore. I Lombardi, plaudendo a tale prodezza, chiesero con unanimi acclamazioni al genitore che l’eroico garzone, il quale avea avuto a comune i pericoli della battaglia, fosse ammesso alla festa della vittoria. „Vi sovvenga„ replicò l’inflessibile Audoino, „delle sagge costumanze de’ nostri maggiori. Qualunque sia il merito di un Principe, egli non può sedere a mensa col prode, sinchè non abbia ricevuto le sue armi da una mano straniera e regale„. Alboino piegò la fronte con riverenza alle istituzioni della sua patria; scelse quaranta compagni, ed animosamente portossi alla Corte di Turisondo re dei Gepidi, il quale abbracciò ed accolse, secondo le leggi dell’ospitalità, l’uccisore del proprio suo figlio. Durante il banchetto, mentre Alboino occupava il seggio del giovane ch’egli avea spento, una tenera rimembranza sorse nell’animo di Turisondo. „Come caro è quel posto! – come odioso è chi il tiene! –„ Tali furono le parole che sfuggirono, accompagnate d’un sospiro, dal labbro del padre addolorato. Il suo cordoglio inasprì il risentimento nazionale de’ Gepidi; e Cunimondo, figlio che gli restava, fu provocato dal vino, o dal fraterno amore, al desiderio della vendetta. „I Lombardi„, disse il rozzo Barbaro, „rassomigliano, nell’aspetto e nell’odore, alle giumente delle nostre pianure sarmatiche„. E quest’insulto era una grossolana allusione alle bianche bende di cui i Lombardi portavano avviluppate le gambe. „Aggiungi un’altra rassomiglianza„, replicò un baldanzoso Lombardo; „che tu sai come tirano calci. Visita la pianura di Asfeld, ed ivi cerca le ossa di tuo fratello; esse vi sono miste con quelle degli animali più vili„. I Gepidi, nazione di guerrieri, balzarono da’ loro scanni, e l’intrepido Alboino, co’ suoi quaranta compagni, pose mano alla spada. Pacificata fu la rissa dalla venerabile interposizione di Turisondo. Egli salvò il proprio onore e la vita del suo ospite; e poscia ch’ebbe compito i solenni riti dell’investitura, licenziò lo straniero, cinto delle insanguinate armi del figlio, dono di un genitor lacrimoso. Tornossene Alboino in trionfo, ed i Lombardi nel celebrare l’incomparabile sua intrepidezza, furono costretti a lodare le virtù di un nemico8. È probabile che in quella straordinaria visita egli vedesse la figlia di Cunimondo, il quale ben tosto salì sul trono de’ Gepidi. Rosamonda o Rosmunda ella chiamavasi, nome ben atto ad esprimere femminile bellezza, e consacrato dall’istoria e dal romanzo alle novelle di amore. Il re de’ Lombardi, chè il padre di Alboino più non viveva, era promesso sposo alla figlia di Clodoveo; ma i legami della fede e della politica immantinente cederono alla speranza di possedere la bella Rosmunda, e d’insultare la famiglia e la nazione di lei. Si sperimentarono vanamente le arti della persuasione; e l’impaziente amatore, con la forza e lo stratagemma, conseguì l’intento de’ suoi desiderj. La guerra era la conseguenza ch’ei prevedeva e cercava; ma i Lombardi non potevano per gran pezza reggere al furibondo assalto de’ Gepidi, spalleggiati da un esercito Romano. E siccome l’offerta del matrimonio con disprezzo fu rigettata, Alboino si vide astretto ad abbandonar la sua preda, ed a partecipare del disonore che impresso egli avea sulla casa di Cunimondo9.
[A. D. 566] Ogni volta che da private ingiurie attossicata viene una contesa pubblica, un colpo che mortale o decisivo non sia, altro non produce che una breve tregua, la quale permette a’ combattenti di affilare le armi per azzuffarsi di nuovo. La forza di Alboino non era sufficiente ad appagare la sua sete di amore, di ambizione e di vendetta; egli piegossi ad implorare il formidabile aiuto del Cacano; e gli argomenti, da lui usati, ci chiariscono la politica e l’arte de’ Barbari. Nell’attaccare i Gepidi, egli era stato mosso, dicea, dal giusto desiderio di estirpare un popolo, la cui alleanza col Romano Impero lo avea fatto il comune inimico delle nazioni, ed il nemico personale del Cacano. Se le forze degli Avari e de’ Lombardi si collegavano in questa gloriosa contesa, sicura diveniva la vittoria, ed inestimabile il premio: il Danubio, l’Ebro, l’Italia e Costantinopoli sarebbero senza ostacolo, esposte alle armi loro invincibili. Ma se esitavano od indugiavan essi a prevenire la tristizia de’ Romani, lo stesso spirito che avea oltraggiato gli Avari, gli avrebbe perseguitati sino all’estremità della terra. Il Cacano ascoltò con freddezza e disdegno queste ragioni speciose: egli ritenne gli ambasciatori Lombardi nel suo campo, trasse in lungo le pratiche, ed alternamente venne allegando la sua mancanza di volontà, o la sua mancanza di attitudine ad assumere la rilevante impresa. In fine egli dichiarò che l’ultimo prezzo della sua alleanza era, che i Lombardi dovessero immantinente fargli dono della decima dei loro armenti; che le spoglie ed i prigionieri si avessero da dividere a parti eguali; ma che le terre dei Gepidi diverrebbero unicamente il patrimonio degli Avari. Le passioni di Alboino gli fecero premurosamente accettare tali ardui patti; e siccome i Romani erano malcontenti della ingratitudine e perfidia de’ Gepidi, Giustino abbandonò quell’incorreggibile popolo al proprio destino, e rimase tranquillo spettatore del disuguale conflitto. Cunimondo, spinto a disperazione, divenne più infaticabile e più fiero. Egli sapea che gli Avari erano entrati sul suo territorio; ma tenendo per fermo che, rotti i Lombardi, que’ stranieri invasori verrebbero facilmente respinti, mosse rapidamente ad affrontare l’implacabil nemico del suo nome e della sua stirpe. Ma il coraggio de’ Gepidi non fruttò ad essi che una morte onorata. I più valorosi della nazione caddero sul campo di battaglia; il re de’ Lombardi contemplò con diletto la testa di Cunimondo, ed il cranio di questo Re fu convertito in una coppa per saziare l’odio del conquistatore, o, forse, per conformarsi ai selvaggi usi della sua patria10. Dopo questa vittoria, nessuno ulteriore inciampo potè frenare i progressi de’ collegati, e fedelmente essi tennero i patti del loro accordo11. Le belle contrade della Valachia, della Moldavia, della Transilvania e le parti dell’Ungheria di là dal Danubio, furono occupate senza resistenza da una nuova colonia di Sciti, e l’impero Dace del Cacano fiorì con lustro per più di dugento e trent’anni. Disciolta venne la nazione dei Gepidi; ma nella distribuzione de’ prigionieri, gli schiavi degli Avari furono men fortunati che i compagni de’ Lombardi, la cui generosità adottò un valoroso nemico, e la cui libertà non poteva accordarsi colla fredda e deliberata tirannide. Una metà delle spoglie introdusse nel campo di Alboino più dovizie di quanto un Barbaro potesse computare co’ rozzi e lenti suoi calcoli. La bella Rosmunda fu persuasa e costretta a riconoscere i diritti del vittorioso suo amante, e la figlia di Cunimondo parve mettere in dimenticanza que’ delitti che imputar si potevano alle irresistibili sue attrattive.
[A. D. 567] La distruzione di un potente regno stabilì la fama di Alboino. Ne’ giorni di Carlomagno, i Bavari, i Sassoni e le altre tribù di favella Teutonica ripetevano ancora i canti in cui si esaltavano le eroiche virtù, il valore, la liberalità e la fortuna del re de’ Lombardi12. Ma la sua ambizione non era soddisfatta per anco: ed il conquistatore de’ Gepidi dal Danubio rivolse gli occhi alle più ricche rive del Po e del Tevere. Quindici anni non erano corsi ancora, dacchè i suoi sudditi, confederati di Narsete, avevano visitato il dolce clima d’Italia; i monti, i fiumi, le strade maestre n’erano familiari alla memoria loro; la narrazione delle loro vittorie, e forse l’aspetto del loro bottino, avea acceso nella generazione sorgente la fiamma dell’emulazione e dell’intrapresa. Lo spirito e l’eloquenza di Alboino ne rinvigorì le speranze, e si racconta ch’egli ragionasse a’ loro sensi, col far imbandire sulla mensa reale le più belle e più squisite frutta che spontaneamente vengono nel giardino del mondo. Non sì tosto ebbe egli spiegato all’aure i vessilli, che la natia forza dei Lombardi fu moltiplicata dalla gioventù, vaga di avventure, della Germania e della Scizia. I robusti contadini della Pannonia avevano ripigliato i costumi de’ Barbari; ed i nomi dei Gepidi, dei Bulgari, dei Sarmati e dei Bavari distintamente si possono rintracciare ancora nelle province d’Italia13. Della nazione dei Sassoni, antichi alleati de’ Lombardi, ventimila guerrieri, con le mogli ed i figli accettarono l’invito di Alboino. Il loro valore contribuì al buon successo delle sue armi; ma tale era il numero del suo esercito, che la presenza o l’assenza loro appena scorgevasi in esso. Ogni modo di religione liberamente veniva praticato dai suoi rispettivi seguaci. Il re de’ Lombardi era stato educato nell’eresia Arriana, ma si concedeva a’ Cattolici di pregare pubblicamente nelle chiese loro per la conversione di essi; mentre i più ostinati Barbari sagrificavano una capra, o forse un prigioniero, agli Dei de’ loro antenati14. I Lombardi ed i loro confederati, erano uniti dal comune amore che portavano ad un Capo, il quale tutte in sè accoglieva le virtù ed i vizi di un eroe selvaggio. La vigilanza di lui provvide un ampio magazzino di armi offensive e difensive per l’uso della spedizione. La ricchezza portatile de’ Lombardi seguiva le mosse del loro campo. Allegramente essi abbandonarono agli Avari i loro terreni mediante la solenne promessa fatta ed accettata senza sorriderne, che non riuscendo nella conquista dell’Italia, que’ volontarj esuli sarebbero tornati al possesso degli antichi lor beni.
Ed a vuoto sarebbero andati i loro disegni se Narsete fosse stato l’antagonista de’ Lombardi, ed i veterani guerrieri, i compagni della sua vittoria Gotica avrebbero, con ripugnanza, affrontato un nemico che stimavano e paventavano. Ma la debolezza della corte di Bisanzio giovò la causa dei Barbari; e fu appunto per la rovina dell’Italia che l’Imperatore diede una volta ascolto alle querele dei sudditi. Le virtù di Narsete erano macchiate dall’avarizia, e nel suo regno provinciale di quindici anni, egli accumulò un tesoro d’oro e d’argento eccedente la modestia di una sostanza privata. Il suo governo era oppressivo ed in odio al popolo, e i deputati di Roma con libertà esposero il generale disgusto. Innanzi al trono di Giustiniano essi arditamente dichiararono che il servaggio gotico era stato più comportabile ad essi che non il dispotismo di un eunuco Greco; e che se il loro tiranno immantinente non veniva rimosso, essi avrebbero consultato il loro bene nella scelta di un nuovo Signore. Il timore della ribellione era avvalorato dalla voce dell’invidia e della calunnia che sì di recente avea trionfato del merito di Belisario. Un nuovo Esarca, Longino, fu mandato a prendere il posto del conquistatore dell’Italia, e si espressero i bassi motivi del suo richiamo nell’insultante mandato della Imperatrice Sofia. „Ch’egli dovesse lasciare agli uomini l’esercizio delle armi, e tornasse al posto che gli conveniva tra le ancelle del palazzo, ove di nuovo si porrebbe una rocca nelle mani dell’Eunuco„. – „Io le tesserò un tal filo ch’ella non saprà facilmente disvolgerlo!„ Cotesta dicono fu la risposta, che lo sdegno e la conoscenza del proprio valore trassero di bocca all’Eroe. In vece di presentarsi, quale schiavo e vittima allo soglie del palazzo di Bisanzio, egli ritirossi in Napoli, d’onde, (se può darsi fede a quanto si credette a que’ tempi) Narsete invitò i Lombardi a punire l’ingratitudine del Principe e del Popolo15. Ma le passioni del Popolo sono furiose e volubili ed i Romani tosto si rammentarono i meriti o temettero il risentimento del virtuoso lor Generale. Per la mediazione del Papa il quale intraprese un pellegrinaggio a Napoli a quest’effetto, accettato fu il pentimento de’ Romani; e Narsete, prendendo un sembiante più mite ed un più sommesso linguaggio, consentì a porre la sua dimora nel Campidoglio. Ma sebbene giunto egli fosse all’estremo periodo della vecchiaia16, intempestiva pure e prematura ne riuscì la morte, perocchè il solo suo genio avrebbe potuto riparare l’ultimo e funesto errore della sua vita. La realtà o il sospetto di una cospirazione disarmò e disunì gl’italiani. I soldati sentirono i torti fatti al loro Generale, e ne lamentarono la perdita. Essi non conoscevano il nuovo Esarca, e Longino ignorava egli stesso lo stato dell’esercito e della provincia. Negli anni precedenti, l’Italia era stata desolata dalla pestilenza e dalla fame; ed un popolo disaffezionato attribuiva le calamità della natura alle colpe od alla stoltezza de’ suoi reggitori17.
[A. D. 562-570] Qualunque si fossero i motivi della sua sicurezza, Alboino non s’aspettò d’avvenirsi, nè si avvenne in alcun esercito Romano in campo. Egli salì le Alpi Giulie, e con disprezzo e desiderio giù volse gli occhi sulle fertili pianure, a cui la sua vittoria conferì il perpetuo nome di Lombardia. Un capitano fedele ed uno scelto drappello erano stanziati nel Foro di Giulio, il moderno Friuli, per guardare i passi de’ monti. I Lombardi rispettarono la forza di Pavia, e porsero ascolto alle preghiere de’ Trevigiani. La tarda e pesante lor moltitudine si avanzò ad occupare il palazzo e la città di Verona; e Milano che allora sorgea dalle sue ceneri, fu investita dalle forze di Alboino, cinque mesi dopo la sua partenza dalla Pannonia. Il terrore precedeva il suo campo; egli trovò o lasciò per ogni dove una solitudine spaventosa; ed i pusillanimi Italiani giudicarono, senza cimentarsi, che lo straniero era invincibile. Fuggendo pe’ laghi, su i monti, in seno alle paludi, le turbe atterrite nascondevano alcuni brani della loro ricchezza e procrastinavano il momento del loro servaggio. Paolino, patriarca di Antiochia, trasportò i suoi tesori sacri e profani nell’isole di Grado18 ed i suoi successori furono adottati dalla nascente Repubblica di Venezia, che del continuo arricchivasi per le pubbliche calamità dell’Italia. Onorato, che teneva la cattedra di S. Ambrogio, avea credulamente accettato le infide offerte di una capitolazione; l’Arcivescovo in una col clero e coi nobili di Milano, fu tratto dalla perfidia di Alboino a ricercare un asilo nei meno accessibili ripari di Genova. Lungo la costa marittima, sostenuto era il coraggio degli abitanti dalla facilità di procacciarsi vettovaglie, dalla speranza di ricevere soccorsi e dalla facoltà di scampare colla fuga. Ma dai colli di Trento sino alle porte di Ravenna e di Roma, le regioni mediterranee dell’Italia divennero, senza una battaglia od un assedio, il patrimonio dei Lombardi. La sommissione del popolo invitò i Barbari ad assumere il carattere di Sovrani legittimi, e lo sconcertato Esarca fu ridotto alle funzioni di significare all’Imperatore Giustino la rapida ed irreparabil perdita delle città e delle province19. Una città ch’era stata diligentemente fortificata dai Goti, tenne saldo contro le armi del nuovo invasore; e mentre soggiogata veniva l’Italia dai volanti drappelli dei Lombardi, il campo reale per tre anni non si mosse dinanzi la porta occidentale di Ticinum o Pavia. Quel coraggio istesso che ottiene la stima di un nemico incivilito, risvegliò il furore di un selvaggio, e l’impaziente assediatore si era vincolato con terribile giuramento a lasciare che l’età, il sesso ed il grado confusi andassero in un generale macello. L’aiuto della fame finalmente gli porse il destro di eseguire il suo sanguinoso disegno; ma nel punto in cui Alboino passava la porta, il suo cavallo inciampò, cadde, e non potè levarsi. La compassione o la devozione mosse uno de’ suoi seguaci ad interpretare questo come un miracoloso segno dell’ira del cielo. Il conquistatore fermossi e s’impietosì, ripose la spada nella guaina, e placidamente riposando nel palazzo di Teodorico, significò alla moltitudine paventosa che dovesse vivere ed obbedire. Dilettato dal situamento della città, che più cara era fatta al suo orgoglio per la difficoltà dell’acquisto, il principe de’ Lombardi disdegnò le antiche glorie di Milano; e Pavia per alcuni secoli fu rispettata come la capitale di tutto il reame d’Italia20.
[A. D. 573] Il regno del fondatore fu splendido ma di breve durata. Prima che potesse regolare le sue nuove conquiste, Alboino perì vittima del tradimento domestico e della femminile vendetta. In un palazzo presso Verona, che non era stato eretto pei Barbari, egli banchettava i suoi compagni d’armi: l’ubbriachezza era la ricompensa del valore, ed il Re stesso si lasciò trarre dall’appetito o dalla vanità ad eccedere l’ordinaria misura della sua intemperanza. Poscia ch’ebbe vuotate molte capaci tazze di vin Retico o di Falerno, egli comandò che gli si recasse il cranio di Cunimondo, ch’era il più nobile e più prezioso ornamento della sua credenza. La coppa della vittoria con orrido applauso passò in giro tra i capi Lombardi. „Colmatela nuovamente di vino„, sclamò il conquistatore inumano, „colmatela fino all’orlo; portate questo calice alla reina, e pregatela in mio nome di festeggiar con suo padre„. Rosmunda, trambasciata dal dolore e dall’ira, appena ebbe forza di profferire. „Sia fatto il volere del Signor mio!„ e toccando colle labbra la coppa, pronunziò nel fondo del suo cuore il giuramento che quell’insulto sarebbe lavato nel sangue di Alboino. Il risentimento di una figlia sarebbe di qualche indulgenza degno, se trasgredito ella già non avesse i doveri di una moglie. Implacabile nella inimicizia, od incostante nell’amore, la regina d’Italia era scesa dal trono nelle braccia di un suddito, ed Elmichi, port’arme del Re, fu il secreto ministro de’ suoi piaceri e della sua vendetta. Egli non poteva più addurre scrupoli di fedeltà e di gratitudine onde ribattere la proposta dell’assassinio; ma Elmichi tremò nel volgere in mente il pericolo al par che il delitto, e nel rammentare l’incomparabil forza e bravura di un guerriero, a cui sì spesso era stato vicino nel campo della battaglia. A forza d’istanze egli ottenne che uno de’ più intrepidi campioni de’ Lombardi venisse collegato all’impresa. Ma dall’intrepido Peredeo altro non si potè conseguire fuor che una promessa di mantenere il secreto, e la forma di seduzione, usata da Rosmunda, mette in vergognosa mostra il nessun conto in che ella teneva l’onore e l’amore. Ella si fe’ cedere il posto nel letto da una delle sue ancelle ch’era amata da Peredeo, e seppe con qualche pretesto spiegare l’oscurità ed il silenzio del loro congresso, finchè non fu in grado di palesare al suo compagno ch’egli era giaciuto colla reina de’ Lombardi, e che la morte di lui o quella di Alboino, esser dovea la conseguenza di quel traditoresco adulterio. Posto nell’alternativa, Peredeo antepose di essere il complice anzi che la vittima di Rosmunda21 il cui imperterrito animo era incapace di timore o di rimorso. Ella aspettò e trovò ben tosto un favorevol momento. Il Re, oppresso dal vino, era uscito di tavola, per prendere il pomeridiano suo sonno. L’infedele mogliera si mostrò sollecita della salute e del riposo di esso: si chiusero le porte del palazzo, si allontanarono le armi, si mandarono lungo i seguaci, e Rosmunda, poi che l’ebbe lusingato al sonno con tenere e dolci carezze, aprì l’uscio della stanza, e spinse i ripugnanti congiurati a dargli immediatamente la morte. Al primo strepito, il guerriero balzò giù dal letto; il suo brando, ch’egli tentò di snudare, era stato legato alla guaina per man di Rosmunda; ed un picciolo sgabello, unica arma che avesse, non potè per lungo tempo difenderlo dalle lancie degli assassini. La figlia di Cunimondo sorrise in vederlo a cadere; il corpo di Alboino fu seppellito sotto lo scalone del palazzo, e la riconoscente posterità dei Lombardi riverì per gran tempo la tomba e la memoria del vittorioso lor condottiere.
L’ambiziosa Rosmunda aspirava a regnare sotto il nome del suo amante; la città e la reggia di Verona paventavano il suo potere, ed una fedel banda de’ nativi suoi Gepidi era presta ad applaudire la vendetta, ed a secondare i desiderj della loro sovrana. Ma i capi Lombardi, che fuggirono ne’ primi momenti di costernazione e di scompiglio, avevano ripreso il coraggio e raccolto le forze loro; e la nazione, invece di sottoporsi al regno di lei, chiese con unanimi grida, che si facesse giustizia della moglie colpevole e degli assassini del Re. Ella cercò asilo tra i nemici della sua patria, ed una ribalda che meritava l’abborrimento degli uomini, fu protetta dall’interessata politica dell’Esarca. Rosmunda, insieme con la sua figlia, erede del trono Lombardo, i suoi due amanti, i fedeli suoi Gepidi, e le spoglie della reggia di Verona, discese l’Adige e il Po, e fu trasportata da un vascello Greco nel sicuro porto di Ravenna. Longino vagheggiò con diletto i vezzi ed i tesori della vedova di Alboino: la sorte presente, e la passata condotta di lei, potevano giustificare le più licenziose proposte; ed ella agevolmente diede ascolto alla passione di un ministro, il quale, eziandio nel declino dell’Impero, era rispettato come l’eguale dei Re. La morte di un drudo geloso era un sacrifizio facile e grato, ed Elmichi, uscendo dal bagno, ricevè la bevanda letale dalle mani della sua amante. Il gusto del liquore, i suoi rapidi effetti, e la sperienza ch’egli avea del carattere di Rosmunda, ben presto lo convinsero che avvelenato egli era. Elmichi mise la punta del pugnale sul petto di Rosmunda, la costrinse a vuotare il rimanente della tazza, e spirò in pochi minuti, colla consolazione ch’ella non sarebbe sopravvissuta a godere i frutti della sua perversità. La figlia di Alboino e di Rosmunda fu imbarcata per Costantinopoli, unitamente alle più ricche spoglie de’ Lombardi. La mirabil gagliardia di Peredeo divertì ed atterrì la corte Imperiale: la sua cecità e la sua vendetta offrirono un’imperfetta copia delle avventure di Sansone. [A. D. 573] I liberi suffragi della nazione, nell’assemblea di Pavia, elessero Clefone, uno de’ più nobili capi Lombardi, a successor di Alboino. Ma diciotto mesi non erano ancora trascorsi, che il trono venne contaminato da un secondo assassinio. Clefone fu trafitto dalla mano di un suo famigliare. L’ufficio regale rimase per dieci anni sospeso, durante l’età minore del suo figlio Autari, e l’Italia languì divisa ed oppressa sotto l’aristocrazia ducale di trenta tiranni22.
Il nipote di Giustiniano, nell’ascendere al trono, avea proclamato una novella Era di felicità e di gloria. Ed in cambio, gli annali del secondo Giustino sono contrassegnati dalla vergogna di fuori23, e dalla miseria di dentro. Nell’Occidente, l’Imperio romano venne afflitto dalla perdita dell’Italia, dalla desolazione dell’Affrica, e dalle conquiste dei Persiani. L’ingiustizia prevalse nella capitale e nelle province; i ricchi tremavano per le loro proprietà, i poveri per la loro salvezza: i magistrati ordinarj erano ignoranti o venali; i rimedi, apprestati all’occasione, pare che fossero arbitrari e violenti, e le querele del Popolo non potevano più ridursi al silenzio dagli splendidi nomi di un legislatore e di un conquistatore. L’opinione che imputa al Principe tutte le calamità de’ suoi tempi, può venir sostenuta dallo storico come una seria verità o come un salutare pregiudizio. Non pertanto candidamente si può sospettare che i sentimenti di Giustino fossero puri e benevoli, e che irreprensibilmente egli avrebbe occupato il trono, se le facoltà della sua mente non si fossero affralite per l’effetto di una malattia che privò l’Imperatore dell’uso de’ suoi piedi, e lo confinò dentro il palazzo, straniero ai lamenti del Popolo ed ai vizj del governo. Il tardo conoscimento della sua impotenza lo determinò a deporre il peso del diadema, e nella scelta di un degno sostituto egli mostrò qualche indizio di discernimento ed anche di magnanimità. L’unico figliuolo maschio di Giustino e di Sofia morì nella sua infanzia: la figlia loro Arabia avea sposato Baduario24 soprantendente del palazzo e quindi comandante degli eserciti italiani, il quale vanamente aspirò a veder confermati i diritti del matrimonio con quelli dell’adozione. Finchè l’Impero appariva desiderevol cosa a Giustino, egli solea riguardar con gelosia ed odio i suoi fratelli e cugini, quasi rivali delle sue speranze; nè potea egli far conto sulla gratitudine di coloro che avrebbero accettato la porpora come una restituzione, anzichè come un dono. L’esilio, poi la morte avea tolto di mezzo uno di questi competitori, e l’Imperatore stesso avea fatto ad un altro cotali insulti crudeli, ch’egli dovea temerne lo sdegno, od averne la pazienza in dispregio. Questa domestica animosità lo condusse alla generosa risoluzione di cercarsi un successore, non nella famiglia, ma nella Repubblica, e l’artifiziosa Sofia gli raccomandò Tiberio25, suo fedele capitano delle guardie, la virtù e la fortuna del quale si poteano amare dall’Imperatore, come il frutto della giudiziosa sua scelta. [A. D. 574] La cerimonia dell’esaltamento di Tiberio al grado di Cesare, o di Augusto, fu eseguita nel portico del palazzo, in presenza del Patriarca e del Senato. Giustino raccolse le residue forze del corpo ed intelletto; ma la popolare credenza che la sua concione fosse inspirata dalla Divinità, palesa qual opinione si avesse dell’Imperatore, e quale ne dobbiamo aver di que’ tempi26. „Tu, „ gli disse Giustiniano, „vedi le insegne della potestà suprema. Tu sei in procinto di riceverle non dalla mia mano, ma dalla mano di Dio. Onorale, e ne trarrai onore. Rispetta l’Imperatrice tua madre; tu sei ora il suo figlio; prima eri il suo servo. Non compiacerti nel sangue; ti astieni dalla vendetta; fuggi quelle azioni che mi tirarono addosso l’odio pubblico, e consulta l’esperienza anzi che l’esempio del tuo predecessore. Come uomo, io ho peccato; come peccatore, anche in questa vita ne fui severamente punito: ma questi servi (accennando i suoi Ministri) che hanno abusato della mia confidenza, ed infiammato le mie passioni, compariranno insieme con me dinanzi al tribunale di Cristo. Io fui abbagliato dallo splendor del diadema: tu sii saggio e modesto: rammenta ciò che fosti, rammenta ciò che sei. Tu scorgi a te intorno i tuoi schiavi e i tuoi figli; insieme con l’autorità, prendi l’affetto di un padre. Ama il tuo popolo come te stesso; coltiva la benevolenza, mantieni la disciplina dell’esercito: proteggi lo sostanze del ricco, sovvieni alle necessità del povero27„. L’assemblea, in silenzio ed in lagrime, applaudì i consiglj, e fu commossa dal pentimento del Principe. Il Patriarca intuonò le della Chiesa; Tiberio ricevè genuflesso il diadema, e Giustino, il quale nel punto della sua abdicazione apparve più meritevole di regnare, volse al nuovo Monarca le seguenti parole: „Se tu il consenti, io vivo; se tu l’imponi, io muoio. Possa il Dio del Cielo e della terra infondere nel tuo cuore tutto ciò che io ho dimenticato o negletto!„ [A. D. 578] I quattro ultimi anni dell’Imperatore Giustino trapassarono in una tranquilla oscurità: la sua coscienza non era più tormentata dalla rimembranza di que’ doveri ch’egli non era atto ad adempiere; e la sua scelta venne giustificata dalla filial riverenza del riconoscente Tiberio.
[A. D. 578] Tiberio era tra’ Romani del suo tempo uno de’ più appariscenti per la sublime statura e l’avvenenza della persona. Fra le sue virtù28, la sua bellezza potè introdurlo al favor di Sofia; e la vedova di Giustino era persuasa ch’ella conserverebbe il suo posto ed il suo ascendente sotto il regno di un secondo e più giovane marito. Ma se l’ambizioso candidato erasi indotto a piaggiare e dissimulare, non era ormai più in sua balìa il corrispondere alle aspettative di lei o l’adempire le proprie promesse. Le fazioni dell’Ippodromo domandavano, con qualche impazienza, il nome della nuova loro Imperatrice; ma il popolo e Sofia furono presi da stupore sentendo a bandire il nome di Anastasia, secreta ma legittima moglie dell’imperatore Tiberio. Quanto alleviar poteva il dolore della delusa Sofia, onori imperiali, palazzo magnifico, numeroso treno di servi, tutto liberalmente le fu conceduto dalla pietà dell’adottivo suo figlio. Egli nelle solenni occasioni visitava e consultava la vedova del suo benefattore: ma l’ambizione di lei ebbe a sdegno la vana sembianza della dignità reale: e la rispettosa appellazione di madre serviva ad inasprire, anzi che a placare lo sdegno di una donna oltraggiata. Mentre ella accettava da Tiberio e ricambiava col sorriso delle Corti le gentili espressioni di riguardo o di confidenza, si conchiudeva una secreta alleanza tra l’Imperatrice madre, e gli antichi nemici di lei; e Giustiniano, figlio di Germano, fu adoperato come stromento della sua vendetta. L’orgoglio della casa regnante sopportava con repugnanza il dominio di uno straniero: il giovine figlio di Germano meritamente godeva il favore del popolo. Il nome di lui, dopo la morte di Giustino, era stato posto in campo da una tumultuosa fazione; e l’ossequiosa offerta che del proprio capo egli fece, non che di un tesoro di sessantamila lire sterline, poteva interpretarsi come una prova di delitto, o almeno di timore. Giustiniano ricevè un generoso perdono ed il comando dell’esercito orientale. Il monarca Persiano fuggì dinanzi alle armi di esso; e le acclamazioni onde ne fu accompagnato il trionfo, lo dichiararono degno dell’ostro. L’artificiosa sua protettrice avea scelto il mese della vendemmia, tempo in cui l’Imperatore soleva tra gli ozj di una campestre solitudine godere i piaceri di un suddito. Appena ebbe contezza de’ disegni di Sofia, Tiberio si ricondusse a Costantinopoli, ove la sua presenza e fermezza soffocò la cospirazione. Dalla pompa e dagli onori di cui aveva abusato, Sofia fu ridotta ad un assegnamento modesto; Tiberio licenziò il corteggio di lei, ne intercettò il carteggio, e commise ad una guardia fedele la cura di custodirla. Ma i servigi di Giustiniano non furono risguardati da quell’eccellente Principe come un aggravamento de’ suoi torti; dopo avergli fatto alcuni blandi rimproveri, egli dimenticò il tradimento e l’ingratitudine; e fu comunemente creduto che l’Imperatore allettasse qualche pensiero di contrarre una duplice alleanza col rival del suo trono. La voce di un angelo (favola propagata a quel tempo) potè rivelare all’Imperatore che egli avrebbe sempre trionfato de’ suoi nemici domestici; ma Tiberio ritraeva una sicurezza più ferma dall’innocenza e dalla generosità del suo animo.
All’odioso nome di Tiberio egli aggiunse il popolare soprannome di Costantino, ed imitò le più pure virtù degli Antonini. Dopo di aver riferito i vizj o le follie di tanti Principi romani, dolce riesce il fermarsi per un momento sopra un carattere ragguardevole pei pregi dell’umanità, della giustizia, della temperanza, e della fortezza, ed il contemplare un sovrano affabile nella sua reggia, devoto nella chiesa, imparziale sul seggio de’ giudizj, e vittorioso, almeno per mezzo de’ suoi generali, nella guerra Persiana. Il più glorioso trofeo della sua vittoria fu una moltitudine di prigionieri che Tiberio alimentò, redense, e rimandò alle natie lor case collo spirito caritatevole di un eroe cristiano. I meriti o le sventure de’ suoi sudditi avevano il più caro diritto alla sua beneficenza, ed egli misurava le sue larghezze, non a norma della loro espettazione, ma a norma della propria sua dignità. Questa massima, comecchè pericolosa in un depositario della ricchezza pubblica, era contrappesata da un principio di umanità e di giustizia, che gl’insegnava ad abborrire, come di lega vilissima, l’oro spremuto dalle lagrime del Popolo. Per sollevare i suoi sudditi, ogni volta ch’erano stati afflitti da naturali o da ostili calamità, egli punto non indugiava a discioglierli dai tributi, di cui restavano in debito, o dalla dimanda di nuove imposizioni. Fieramente egli rigettò le servili proposte de’ suoi ministri che gli offrivano ripieghi compensati da una oppressione dieci volte maggiore, e le savie ed eque leggi di Tiberio eccitarono la lode de’ tempi susseguenti ed il rammarico della sua perdita. Costantinopoli tenne per fermo che l’Imperatore avesse scoperto un tesoro: ma il vero suo tesoro consisteva nella pratica di una liberale economia, e nel disprezzo di tutte le spese superflue. I Romani dell’Oriente avrebbero gioito la felicità, se il migliore fra i doni del cielo, un Principe che ama la patria, fosse rimasto perpetuamente fra loro. Ma in meno di quattro anni dopo la morte di Giustino, il degno suo successore cadde sotto il peso di una mortale infermità, che appena gli lasciò il tempo di restituire il diadema al più meritevole de’ suoi cittadini, secondo l’investitura ond’egli il teneva. Tiberio tra la folla scelse Maurizio, giudizio più prezioso che la porpora stessa. Il Patriarca ed il Senato furono chiamati al letto del principe moribondo: egli diede a Maurizio la sua figlia e l’Impero; e l’ultimo suo volere fu solennemente bandito dalla voce del Questore. Tiberio manifestò la speranza in cui era che le virtù del suo figlio e successore avessero ad innalzare il più nobile monumento alla sua memoria. Essa fu onorata dalla pubblica afflizione; ma il più sincero cordoglio si dilegua nel tumulto di un nuovo regno, e gli occhi ed i plausi degli uomini sono ben presto rivolti al sole che nasce.
[A. D. 582] L’Imperatore Maurizio traeva la sua origine da Roma antica29, ma gl’immediati suoi genitori erano stanziati ad Arabisso, nella Cappadocia, e la singolare loro felicità li serbò in vita a vedere ed averla comune la fortuna dell’augusto lor figlio. La giovinezza di Maurizio era scorsa nella professione della milizia; Tiberio lo promosse al comando di una nuova e favorita legione di dodicimila confederati; si segnalarono il suo valore e la sua condotta nella guerra Persiana; ed egli tornò a Costantinopoli ad accettare come giusta ricompensa, l’eredità dell’Impero. Maurizio salì al trono nella matura età di quarantatre anni; ed egli regnò venti anni sopra l’Oriente e sopra se stesso30; cacciando fuor dal suo animo la selvaggia democrazia delle passioni, e fondando (secondo l’arguto parlare di Evagrio) una perfetta aristocrazia della ragione e della virtù. Può insorgere qualche sospetto contro la testimonianza di un suddito, benchè protesti che la secreta sua lode mai non giungerà all’orecchio del suo sovrano31, ed alcuni mancamenti sembrano riporre il carattere di Maurizio al di sotto del più puro merito del suo predecessore. Il freddo e riserbato suo contegno può imputarsi ad arroganza; non sempre andò esente di crudeltà la sua giustizia nè scevra fu di debolezza la sua clemenza; e la rigida sua economia troppo spesso lo espose al rimprovero di avarizia. Ma i ragionevoli desiderj di un assoluto Monarca debbono tendere alla felicità del suo popolo. Maurizio era dotato del senno e del coraggio che si chieggono a promovere questa felicità, e la sua amministrazione reggevasi a tenore de’ principj e dell’esempio di Tiberio. La pusillanimità de’ Greci avea introdotto una separazione sì intera tra le funzioni di Re e quelle di Generale, che un semplice soldato il quale avea meritato ed ottenuto la porpora, di rado o non mai comparve alla testa de’ suoi eserciti. Nondimeno l’Imperatore Maurizio ebbe la gloria di riporre in trono il monarca Persiano: i suoi luogotenenti condussero una dubbia guerra contro gli Avari del Danubio, ed egli volse un occhio d’inefficace pietà sopra l’abbietto e disastroso stato delle sue province Italiane.
Dall’Italia giungevano del continuo agli Imperatori moleste relazioni di miseria e dimande di soccorsi, che strappavan ad essi di bocca l’umiliante confessione dalla propria lor debolezza. La spirante dignità di Roma unicamente contraddistinguevasi per la libertà e l’energia delle sue querele. „Se tu sei impotente, inabile,„ essa diceva, „a liberarci dalla spada de’ Lombardi, salvaci almeno dalle calamità della fame„. Tiberio perdonò la rampogna, e sollevò la miseria; si trasportò una provvigione di grano dall’Egitto al Tevere, ed il Popolo Romano, invocando il nome, non di Camillo ma di S. Pietro, respinse i Barbari dalle sue mura. Ma accidentale fu il soccorso, perpetuo ed incalzante era il pericolo; ed il Clero ed il Senato raccogliendo gli avanzi dell’antica loro opulenza, unirono una somma di tremila libbre d’oro, e spedirono il patrizio Panfronio a porre i loro doni ed i loro lamenti a piè del trono di Costantinopoli. L’attenzione della Corte, e le forze dell’Oriente, erano volte verso la guerra Persiana: ma la giustizia di Tiberio applicò il sussidio alla difesa della città; ed egli accommiatò il Patrizio col migliore consiglio che potesse dargli, ch’era di corrompere i Capi Lombardi, ovvero di procacciarsi l’aiuto dei Re di Francia. Nonostante questa debole invenzione, l’Italia continuò a gemere afflitta, Roma fu di nuovo assediata, ed il sobborgo di Classe, non più di tre miglia distante da Ravenna, fu saccheggiato ed occupato dalle truppe di un semplice Duca di Spoleto. Maurizio diede udienza ad una seconda deputazione di Sacerdoti e di Senatori; le obbligazioni e le minacce della religione erano vivamente esposte nelle lettere del pontefice di Roma; ed il suo nunzio, il Diacono Gregorio, era egualmente idoneo ad invocare i poteri del cielo e quei della terra. L’Imperatore si apprese con più poderoso effetto al consiglio del suo predecessore: si persuase ad alcuni formidabili Capi Lombardi di abbracciare l’amicizia dei Romani, ed uno di essi, Barbaro mansueto e fedele, visse e morì al servizio dell’Esarca. I passi dell’Alpi furono lasciati liberi ai Franchi, ed il Papa li confortò a rompere senza scrupolo i giuramenti fatti e gl’impegni presi co’ miscredenti. Childeberto, nipote di Clodoveo, s’indusse ad invader l’Italia, mediante il pagamento di cinquantamila monete; ma siccome egli avea veduto con amore alcune pezze coniate dalla zecca di Bisanzio del peso di una libbra d’oro, il Re di Austrasia stipulò che per rendere degno di lui il presente, vi si mescolerebbe un adeguato numero di quelle venerande medaglie. I Duchi de’ Lombardi aveano provocato con frequenti scorrerie i loro potenti vicini della Gallia. Tosto che temerono una giusta rappresaglia, essi rinunziarono alla debole e disordinata indipendenza loro; si riconobbero con unanime accordo i vantaggi del governo reale, l’unione, la secretezza, il vigore; ed Autari, figlio di Clefone, era già cresciuto nella forza e nella riputazione di un guerriero. [A. D. 584-590] Sotto lo stendardo del nuovo Re, i conquistatori dell’Italia fecero fronte a tre successive invasioni, una delle quali era condotta da Childeberto stesso, l’ultimo della stirpe de’ Merovingi che calasse le Alpi. La prima spedizione andò a male per la gelosa animosità de’ Franchi e degli Alemanni. Nella seconda essi furono rotti in una sanguinosa battaglia con più perdita e più disonore che non avessero sofferto dalla fondazione della loro monarchia in poi. Impazienti di vendetta essi discesero per la terza volta con raddoppiate forze, ed Autari cedè al furor del torrente. Egli distribuì le truppe ed i tesori de’ Lombardi nelle città murate tra le Alpi e gli Apennini. Una nazione, meno sensiva del pericolo, che della fatica e della dilazione, tosto mormorò contro la follia de’ suoi venti comandanti; ed i caldi vapori del sole d’Italia infettarono di malattia quei corpi aquilonari, già spossati dalle vicende dell’intemperanza e della carestia. Lo forze che mal convenienti erano alla conquista, furono più che bastevoli alla desolazione del paese; nè i tremanti nativi sapean distinguere quali fossero i loro nemici e quali i liberatori. Se la congiunzione delle forze Merovinge ed Imperiali eseguita si fosse nelle vicinanze di Milano, rovesciato esse avrebber forse il trono de’ Lombardi: ma i Franchi aspettarono per sei giorni il segnale di un villaggio in fiamme, e le forze de’ Greci stettero oziosamente impiegate nel ridurre Modena e Parma, che ad essi ritolte furono dopo la ritirata de’ Transalpini loro alleati. La vittoria di Autari rassodò il suo diritto al dominio dell’Italia. A’ piedi delle Alpi Retiche, egli soggiogò la resistenza e predò i nascosti tesori di una segregata isoletta nel lago di Como. Sull’estrema punta della Calabria, egli percosse colla sua lancia una colonna, piantata a Reggio sul lido del mare32, dichiarando che quell’antico termine sarebbe l’immobile confine del suo Reame33.
Per lo spazio di duecent’anni, l’Italia fu disugualmente divisa tra il regno de’ Lombardi e l’Esarcato di Ravenna. Gli uffizj e le professioni che la gelosia di Costantino avea separati, furono riuniti dall’indulgenza di Giustiniano; e diciotto Esarchi vennero investiti, nella decadenza dell’Impero, di tutta l’autorità civile, militare ed anche ecclesiastica che rimaneva in Italia al Principe, il qual regnava in Bisanzio. L’immediata loro giurisdizione che poi fu consacrata come il patrimonio di S. Pietro, si stendeva sopra la moderna Romagna, le paludi o valli di Ferrara e Comacchio34 le cinque città marittime da Rimini ad Ancona, ed una seconda Pentapoli mediterranea tra la costa dell’Adriatico ed i colli dell’Appennino. Tre subordinate province, di Roma, di Venezia e di Napoli, divise dal palazzo di Ravenna per mezzo di terre appartenenti al nemico, riconoscevano, in pace ed in guerra, la supremazia dell’Esarca. Pare che il Ducato di Roma racchiudesse i paesi che la città nei primi quattro secoli avea conquistati nell’Etruria, nel paese de’ Sabini e nel Lazio, e chiaramente sen possono indicare i limiti lungo la costa, da Civitavecchia a Terracina, e seguendo il corso del Tevere, da Ameria e Narni sino al porto di Ostia. Le numerose isole da Grado a Chiozza, componevano la nascente dominazione di Venezia; ma le più accessibili città sul continente furono rovesciate da’ Lombardi, i quali con impotente rabbia miravano una nuova capitale sorgere in mezzo dell’acque. Il potere dei Duchi di Napoli era circoscritto dal golfo e dalle isole addiacenti, dal territorio ostile di Capua, e dalla colonia Romana di Amalfi35, i cui industri cittadini coll’invenzion della bussola hanno tolto il velo che copriva la faccia del Globo. Le tre isole di Sardegna, di Corsica, e di Sicilia, aderivano tuttora all’Impero; e l’acquisto della Calabria ulteriore respinse il limite degli Stati di Autari dalla spiaggia di Reggio fino all’istmo di Cosenza. In Sardegna i selvaggi montanari conservavano la libertà e la religione de’ loro maggiori; ma i contadini della Sicilia erano incatenati all’ubertoso e coltivato lor suolo. Roma giaceva oppressa dal ferreo scettro degli Esarchi, ed un Greco, forse un Eunuco, impunemente insultava le rovine del Campidoglio. Ma Napoli prestamente acquistò il privilegio di eleggersi da se stessa i suoi Duchi36; l’independenza di Amalfi era il frutto del commercio; ed il volontario attaccamento di Venezia all’Impero Orientale, venne finalmente nobilitato mercè di un’eguale alleanza con esso. Sulla carta dell’Italia, la misura dell’Esarcato occupa uno spazio molto piccolo, ma essa inchiude un’ampia proporzione di ricchezze, d’industria e di popolazione. I più fedeli e valutabili sudditi scamparono dal giogo de’ Barbari, e le bandiere di Pavia e Verona, di Milano e di Padova furono spiegate nei rispettivi loro quartieri dai nuovi abitatori di Ravenna. Il rimanente dell’Italia era posseduto dai Lombardi; e dalla regal sede di Pavia si stendeva il lor regno a Levante, a Settentrione ed a Ponente, sino ai confini degli Avari, de’ Bavari, e de’ Franchi, dell’Austrasia e della Borgogna. Nel linguaggio della geografia moderna, quel regno viene rappresentato dalla terra-ferma della Repubblica Veneta, dal Tirolo, dal Milanese, dal Piemonte, dalla riviera di Genova, da Mantova, Parma e Modena, dal gran Ducato di Toscana, e da una larga porzione dello Stato Ecclesiastico da Perugia sino all’Adriatico. I Duchi ed in ultimo i Principi di Benevento sopravvissero alla monarchia, e propagarono il nome de’ Lombardi. Da Capua a Taranto, essi regnarono per quasi cinquecent’anni sopra la maggior parte del presente Regno di Napoli37.
Volendo paragonare la proporzione tra il popolo vittorioso ed il vinto, dal cangiamento della lingua si possono trarre i più probabili indizi. Secondo questa norma apparisce che i Lombardi dell’Italia e i Visigoti della Spagna erano men numerosi che i Franchi od i Borgognoni; ed i conquistatori della Gallia a lor volta, debbono cedere alla moltitudine de’ Sassoni ed Angli che quasi sradicarono l’idioma de’ Britanni. La favella Italiana moderna si è formata appoco appoco, mediante il mescolamento delle nazioni; la goffaggine de’ Barbari nel delicato maneggio delle declinazioni e delle coniugazioni, li ridusse ad usare gli articoli ed i verbi ausiliari; e molte nuove idee furono espresse con voci Teutoniche. Non pertanto il fondo principale de’ termini tecnici e familiari si scorge derivato dal Latino38; e se avessimo sufficiente contezza degli obsoleti, rustici e municipali dialetti dell’antica Italia potressimo rintracciar l’origine di molti vocaboli che forse erano rigettati dalla classica purità di Roma. Un numeroso esercito non costituisce che una picciola nazione, e le forze de’ Lombardi furon tosto diminuite dal ritirarsi che fecero i ventimila Sassoni, i quali, spregiando una dipendente condizione, se ne tornarono, dopo molte audaci e pericolose avventure, alla nativa lor terra39. Formidabile era l’estensione del campo di Alboino; ma l’ampiezza di un campo facilmente si conterrebbe nella circonferenza di una città, ed i marziali abitanti di esso si troverebbero radamente sparsi sopra la superficie di un vasto paese. Alboino nel calar giù dalle Alpi, conferì al suo nipote, primo Duca del Friuli, il comando di quella provincia e del Popolo, ma il prudente Gisulfo avrebbe scansato il pericoloso uffizio se non gli fosse stato concesso di scegliere, tra i nobili Lombardi, un numero di famiglie40 sufficiente a formare una perpetua colonia di soldati e di sudditi. Nel progresso della conquista non fu possibile compartire la stessa facoltà ai Duchi di Brescia o di Bergamo, di Pavia o di Torino, di Spoleto o di Benevento; ma ciascuno di questi, e ciascuno de’ loro colleghi, si stabilì nel distretto assegnatogli con una mano di seguaci che si raccoglievano sotto il suo stendardo in tempo di guerra, e comparivano dinanzi al suo tribunale in tempo di pace. Libera ed onorata era la dipendenza loro: restituendo i doni ed i beneficj che avevano accettato, essi potevano passare, insieme colle famiglie loro, nella giurisdizione di un altro Duca; ma l’assenza loro dal regno veniva punita di morte come delitto di diserzione militare41. La posterità de’ primi conquistatori gettò profonde radici nel suolo, cui per ogni motivo d’interesse e d’onore erano vincolati a difendere. Un Lombardo nasceva soldato del suo Re e del suo Duca; e le assemblee civili della nazione spiegavano le bandiere, e prendevano il nome di un esercito regolare. Le paghe e le ricompense di quest’esercito si ritraevano dalle province conquistate, e le triste impronte dell’ingiustizia e della rapina ne disonorarono la distribuzione, la quale non venne effettuata sin dopo la morte di Alboino. Molti fra i più ricchi Italiani furono spenti o banditi: diviso andò il rimanente fra gli stranieri, e sotto il nome di ospitalità s’impose un tributo, che obbligava i nativi a pagare ai Lombardi una terza parte de’ frutti della terra. In meno di settant’anni questo sistema artificiale fu abolito e si soggettarono i fondi stabili ad una dipendenza più semplice e solida42. O il proprietario Romano era cacciato via dal più forte ed insolente suo ospite; ovvero l’annuo pagamento del terzo del prodotto si permutava, con più equo accordo, in una proporzionata cessione di terreni. Sotto il dominio di questi stranieri padroni, le faccende dell’agricoltura nella coltivazione del grano, delle viti e degli ulivi erano esercitate con degenerata perizia ed industria dalla mano degli schiavi e dei natii. Ma le occupazioni di una vita pastorale erano più confacenti all’indolenza de’ Barbari. Nelle ricche praterie della Venezia essi ristorarono ed immegliarono la razza de’ cavalli, pe’ quali quella provincia era stata illustre una volta43, e gl’Italiani mirarono con istupore una razza di buoi o di bufali44. La spopolazione della Lombardia, e l’ampliazione delle foreste, somministrarono un vasto campo ai piaceri della caccia45. Quell’arte maravigliosa che ammaestra gli uccelli dell’aria a riconoscere la voce e ad eseguire i comandi del loro signore, era rimasta incognita al raffinato ingegno de’ Greci e de’ Romani46. La Scandinavia e la Scizia producono i più animosi e più trattabili falconi47; ammansati essi vennero ed educati da questi erranti abitatori, sempre usi a stare a cavallo e nel campo. Questo favorito passatempo dei nostri antenati, fu introdotto dai Barbari nelle province Romane: e le leggi d’Italia reputavano la spada, ed il falcone come d’egual dignità ed importanza nelle mani di un nobile Lombardo48.
Così rapido fu l’influsso del clima e dell’esempio, che i Lombardi della quarta generazione rimiravano con curiosità e timore i ritratti de’ selvaggi loro antenati49. Raso era di dietro il lor capo, ma le ispide ciocche ricadevano sugli occhi e sulla bocca, ed una lunga barba rappresentava il nome ed il carattere della nazione. Consisteva il loro vestire in larghi abiti di tela, giusta la foggia degli Anglo-Sassoni, ornati al loro modo di larghe striscie di svariati colori. Portavano le gambe ed i piedi avvolti, in lunghi calzari ed in sandali aperti, ed eziandio nella serenità della pace la fedele spada continuamente pendeva al lor fianco. Eppure questo strano apparato e l’orrido aspetto sovente ricoprivano una buona, gentile e generosa indole; e come cessata era la furia del terrore, i prigionieri ed i sudditi rimanevano alle volte sorpresi dell’umanità del vincitore. I vizi de’ Lombardi erano l’effetto delle passioni, dell’ignoranza o dell’ebbrietà; più lodevoli erano le virtù loro, come quelle che non venivano infettate dall’ipocrisia de’ sociali costumi, nè imposte dai rigorosi freni delle leggi e della educazione. Io non temerei di uscire del mio soggetto, se fosse in mio potere il delineare la vita privata dei conquistatori dell’Italia, e riferirò con piacere la galante avventura di Autari, la quale respira il vero genio della cavalleria e del romanzo50. Dopo la morte di una principessa Merovingia promessagli in isposa, egli chiese in matrimonio una figlia del Re di Baviera; e Garibaldo accettò l’alleanza del Monarca Italiano. Mal tollerando i tardi progressi della trattativa il fervido amatore si tolse al suo palazzo, e si trasferì alla corte di Baviera nella comitiva della sua propria ambasceria. In una pubblica udienza l’incognito straniero si avanzò verso il trono ed informò Garibaldo che l’ambasciatore era veramente il ministro di Stato, ma ch’egli era l’amico di Autari, il quale gli aveva affidata la dilicata commissione di dargli un fedele ragguaglio de’ vezzi della sua sposa. Fu chiamata Teodolinda a sostenere quest’importante esame, e dopo un momento di silenziosa estasi, egli la salutò Regina d’Italia, ed umilmente richiese che, secondo il costume della nazione, essa presentasse una coppa di vino al primo de’ nuovi suoi sudditi. Per comando del padre, ella obbedì. Autari ricevè la coppa, come venne il suo giro, e nell’atto di restituirla alla principessa, furtivamente le toccò la mano, e si pose il dito sul labbro. Alla sera Teodolinda raccontò alla sua nudrice l’indiscreta famigliarità dello straniero, e l’antica donna la confortò colla sicurezza, che un tale ardire non potea provenire che dal Re suo consorte, il quale per la sua bellezza ed il suo coraggio, meritevole appariva dell’amore di lei. Gli Ambasciatori ebber comiato; ma appena giunti furono sul confina d’Italia, Autari, sollevandosi sul suo cavallo, scagliò la scure di guerra contro di un albero, con incomparabil forza e destrezza: „Tali, egli disse agli stupefatti Bavari, tali sono i colpi che vibra il Re dei Lombardi„. All’avvicinarsi di un esercito francese, Garibaldo e la sua figlia cercarono un asilo ne’ dominj del loro alleato: e nel palazzo di Verona si consumò il matrimonio. In capo ad un anno esso fu disciolto per la morte di Autari: ma le virtù di Teodolinda51 l’avevano fatta amare dalla nazione in modo che le fu concesso di donare, insieme colla sua mano, lo scettro del Regno d’Italia.
Questo fatto, e simiglianti eventi52 dimostrano che i Lombardi possedevano la libertà di eleggere il loro Sovrano, ed avevano il buon senso di non usare ad ogni volta di questo pericoloso privilegio. Le pubbliche loro entrate derivavano dai prodotti della terra e dagli emolumenti della giustizia. Allorquando gl’indipendenti Duchi consentirono che Autari salisse sul trono del suo genitore, essi dotarono l’uffizio regale colla metà netta de’ rispettivi loro dominj. I più orgogliosi nobili aspiravano all’onore di servire presso la persona del loro Principe. Egli rimunerava la fedeltà de’ suoi vassalli col precario donativo di pensioni e di benefizj, ed espiava i mali della guerra, con ricche fondazioni di monasterj e di chiese. Giudice in tempo di pace, Generale in tempo di guerra, egli mai non usurpava i poteri di legislatore solo ed assoluto. Il re d’Italia convocava le assemblee nazionali nel palazzo, o più probabilmente ne’ campi di Pavia: il suo gran Consiglio era composto degl’individui più eminenti pei natali e per le dignità loro; ma la validità, non meno che l’esecuzione de’ suoi decreti, dipendeva dall’approvazione del popolo fedele, del fortuato esercito de’ Lombardi. [A. D. 643] Circa ottant’anni dopo la conquista dell’Italia, le costumanze loro, conservate dalla tradizione, furono trascritte in Latino Teutonico53, e ratificate dal consentimento del Principe e del popolo, s’introdussero alcuni nuovi regolamenti, più conformi alla attuale lor condizione; l’esempio di Autari fu imitato da’ più saggi suoi successori, e le leggi de’ Lombardi si son riputate le meno imperfette de’ codici Barbari54. Fatti dal loro coraggio sicuri di possedere la lor libertà, que’ rozzi ed impazienti legislatori erano incapaci di contrappesare i poteri della costituzione, o di discutere le delicate teorie del governo politico. Degni di morte venivano giudicati i delitti che minacciavano la vita del Sovrano o la salvezza dello Stato, ma l’attenzione delle leggi era specialmente volta a difendere le persone e le proprietà de’ sudditi. Secondo la strana giurisprudenza di que’ tempi, il delitto di sangue poteva redimersi con una multa; non pertanto l’alto prezzo di novecento monete d’oro dimostra il giusto sentimento che avevano del valore della vita di un semplice cittadino. Le ingiurie meno atroci, come una ferita, una rottura, un colpo, una parola di vilipendio, venivano misurate con diligenza scrupolosa e quasi ridicola; e la prudenza del legislatore incoraggiava l’ignobil pratica di barattare l’onore e la vendetta con una compensazione in denaro. L’ignoranza de’ Lombardi, sia nello stato di Pagani che di Cristiani, porse un implicito credito alla perversità e ai danni della stregoneria; ma i giudici del secolo decimosettimo avrebbero potuto esser ammaestrati e confusi dalla sapienza di Rotari; il quale decide l’assurda superstizione, e protegge le sfortunate vittime della popolare e giudiziale crudeltà55. Lo stesso spirito di un legislatore, superiore al suo secolo ed al suo paese, può rinvenirsi in Luitprando, il quale condanna, nell’atto che lo tollera, l’empio ed inveterato abuso dei duelli56, osservando per la sua propria esperienza, che la causa più giusta viene sovente oppressa da una fortunata violenza. Qualunque merito scoprir si possa nelle leggi de’ Lombardi, sono esse il genuino frutto della ragione de’ Barbari, che mai non ammisero i Vescovi d’Italia a sedere ne’ loro Consigli legislativi. La successione de’ lor Re si contraddistinse per abilità e valore; la turbata serie dei loro annali è adorna di grati intervalli di pace, di ordine, di domestica felicità, e gl’Italiani godettero un più mite e più equo governo, che non verun altro de’ regni fondati sulle rovine dell’Impero Occidentale57.
In mezzo alle armi de’ Lombardi, e sotto il dispotismo de’ Greci, noi investigheremo di nuovo il destino di Roma58, che avea aggiunto, verso il fine del sesto secolo, il più tristo periodo della sua abbiezione. La traslazione della sede dell’Impero a Costantinopoli, e la perdita successiva delle province, aveano disseccato le sorgenti della pubblica e della privata opulenza. Il grand’albero, sotto la cui ombra le nazioni, della terra s’erano riposate, nudo ormai trovavasi di fronde e di rami, e l’arido suo tronco era lasciato marcir sul terreno. I ministri del comando, ed i messaggeri delle vittorie, più non s’incontravano sulla via Appia o sulla Flaminia: e l’ostile avvicinarsi de’ Lombardi era frequentemente sentito, e continuamente temuto. Gli abitanti di una potente e pacifica capitale, che visitano senza inquieti pensieri i giardini dell’addiacente contrada, difficilmente si faranno un’immaginazione della infelicità dei Romani. Con mano tremante essi aprivano e chiudevan le porte; scorgevano dall’alto delle mura le fiamme delle campestri lor case, ed udivano i lamenti de’ loro fratelli, che venivano appaiati come cani, e trascinati in distante schiavitù al di là del mare e de’ monti. Tali perpetui terrori doveano annichilare i diletti, ed interrompere i lavori della vita rustica; e la campagna di Roma fu prestamente ridotta allo stato di uno spaventoso deserto, in cui sterile è la terra, impure son l’acque, e l’aere spira insalubre. La curiosità e l’ambizione più non traevano le nazioni alla Capitale del mondo: ma se il caso e la necessità volgeva ivi i passi di un errante straniero, con orrore egli contemplava il vuoto e la solitudine della città, e poteva indursi a chiedere. „Dov’è il Senato, e dov’è il Popolo?„ In una stagione di eccessive pioggie, il Tebro straripò, e con irresistibil violenza si sparse per le valli de’ Sette Colli. Nacque una malattia pestilenziale dall’allagamento stagnante dell’acque, e così rapido fu il contagio, che ottanta persone morirono in un’ora nel mezzo di una solenne processione, che si faceva per implorare la divina mercede59. Una società, nella quale il matrimonio viene incoraggiato e l’industria fiorisce, ben tosto ripara le accidentali perdite della peste e della guerra; ma siccome la massima parte de’ Romani era condannata ad un’indigenza senza speranza ed al celibato, così la spopolazione era continua e visibile, ed i cupi entusiasti potevano aspettare la vicina fine del mondo. Nulladimeno il numero de’ cittadini tuttora superava60 la misura de’ viveri: il precario lor nutrimento veniva somministrato dalle messi della Sicilia o dall’Egitto; ed il frequente ritorno della carestia mostra la poca sollecitudine dell’Imperatore per una distante provincia. All’istessa decadenza e rovina erano esposti gli edifizj di Roma: le cadenti fabbriche venivano facilmente rovesciate dalle inondazioni, dalle tempeste e da tremuoti, ed i monaci che avevano occupato i siti più vantaggiosi, esultavano con vile trionfo sopra le rovine dell’antichità61. Viene comunemente creduto, che papa Gregorio I attaccasse i templi, e mutilasse le statue della città; che per comando di questo Barbaro si riducesse in ceneri la libreria Palatina, e che l’istoria di Tito Livio fosse in particolare il bersaglio dell’assurdo e maligno suo fanatismo. Gli scritti di esso Gregorio attestano l’implacabile avversione ch’ei portava ai monumenti del genio classico, ed egli scaglia la più severa censura contro un Vescovo, il quale insegnava l’arte della grammatica, studiava i poeti Latini, e cantava con una stessa voce le lodi di Giove e quelle di Cristo. Ma le prove della distruttiva sua rabbia sono dubbiose e recenti, il Tempio della Pace, e il Teatro di Marcello furono demoliti dalla lenta opera de’ secoli, ed una proscrizione formale avrebbe moltiplicato le copie di Virgilio e di Tito Livio ne’ paesi che non erano soggetti a quell’ecclesiastico dittatore62.
Al pari di Tebe, di Babilonia e di Cartagine, il nome di Roma si sarebbe cancellato di sopra la terra, se la città non fosse stata animata da un vitale principio, che di nuovo la restituì agli onori e al dominio. Una vaga tradizione era invalsa che due Apostoli ebrei, uno facitor di tende, l’altro pescatore, fossero stati anticamente posti a morte nel Circo di Nerone, ed in capo a cinquecent’anni le genuine o fittizie reliquie loro vennero adorate come il Palladio di Roma Cristiana. I pellegrini dell’Oriente e dell’Occidente accorsero a prostrarsi innanzi al limitar sacrosanto; ma da miracoli e da terrori invisibili erano custodite le urne degli Apostoli; nè senza sbigottimento il pio Cattolico si avvicinava all’oggetto del suo culto. Fatale era il toccare, pericoloso il riguardare i corpi dei santi; e coloro che, anche spinti da’ più puri motivi, ardivano di turbare il riposo del santuario, venivano spaventati da visioni, o perivano di subitanea morte. L’irragionevole domanda di un’Imperatrice, la quale desiderò di privare i Romani del loro sacro tesoro, la testa di S. Paolo, fu col massimo orror rigettata, ed il Papa asserì, probabilissimamente senza mentire, che un pannolino santificato per la vicinanza del corpo del santo, o la limatura della sua catena, che alle volte era facile, alle volte impossibile di ottenere, possedevano un grado eguale di miracolosa virtù63. Ma il potere, egualmente che la virtù degli Apostoli risiedeva con vivente energia nel petto de’ lor successori; e la cattedra di san Pietro64 era occupata, nel regno di Maurizio, dal primo e più grande Pontefice del nome di Gregorio. Il suo avo Felice era stato Papa egli pure, e come i vescovi erano già vincolati dalla legge del celibato, conviene che la morte della sua moglie avesse preceduto la sua consacrazione. I genitori di Gregorio, Silvia e Gordiano erano de’ più notabili tra le famiglie del Senato, ed i più devoti che vantasse la Chiesa di Roma. Tra le sue parenti, si annoveravano delle sante e delle vergini; e la sua effigie, unitamente a quella di suo padre e di sua madre si vedeva espressa, quasi trent’anni dopo, in un ritratto di famiglia, ch’egli donò al monastero di S. Andrea65. Il disegno e il colorito di questo dipinto porgono una testimonianza onorevole che l’arte del pingere era coltivata dagl’Italiani del sesto secolo; ma possiamo formarci il più meschino concetto del gusto e della dottrina loro, in veggendo che l’epistole di S. Gregorio, i suoi sermoni ed i suoi dialoghi sono l’opera di un uomo che in erudizione non era secondo ad alcuno de’ suoi contemporaneinota. La sua nascita e la sua abilità lo avevano innalzato al posto di prefetto della città, ed egli godè il merito di rinunziare alle pompe ed alle vanità del mondo. L’ampio suo patrimonio fu dedicato a fondare sette monasterinota, uno in Romanota, e sei in Sicilia; e l’unico 66 67 68 desiderio di Gregorio era di vivere sconosciuto in quella vita e glorioso nell’altra. Non pertanto, la sua devozione, e forse era sincera, calcò il sentiero che si sarebbe scelto da un astuto ed ambizioso politico. I talenti di Gregorio, e lo splendore che accompagnò la sua ritirata, lo renderono caro ed utile alla Chiesa; e l’implicita obbedienza si è sempre inculcata come il primo dovere di un monaco. Tosto ch’ebbe ricevuto il carattere di Diacono, Gregorio fu mandato a risiedere alla corte di Bisanzio in qualità di nunzio o ministro della Sede apostolica; ed egli arditamente prese in nome di S. Pietro uno stile d’indipendente dignità, che il più illustre laico dell’Impero non avrebbe potuto usare senza delitto e pericolo. Egli tornossene a Roma con una riputazione giustamente accresciuta, e dopo un breve esercizio delle monastiche virtù, fu tratto dal chiostro ed innalzato alla Sedia pontificale per l’unanime suffragio del Clero, del Senato e del Popolo. Egli solo si oppose, o parve opporsi al suo esaltamento, e l’umile preghiera che fece a Maurizio onde si degnasse di non approvare la scelta dei Romani, non servì che a fare spiccar maggiormente il suo carattere agli occhi dell’Imperatore e del Popolo. Quando fu pubblicata la fatal conferma del Principe, Gregorio ricorse all’aiuto di alcuni mercatanti suoi amici, per farsi trasportare in un paniere fuor delle porte di Roma, e modestamente si nascose per alcuni giorni fra i boschi ed i monti, finchè discoperto, a quanto dicesi, fu da una celeste luce il suo ritiro.
[A. D. 590-604] Il pontificato di Gregorio il Grande che durò tredici anni sei mesi e dieci giorni, è uno de’ più edificanti periodi dell’istoria della Chiesa. Le sue virtù ed anche i suoi errori formano un singolar miscuglio di semplicità e di scaltrezza, di orgoglio e di umiltà, di buon senso e di superstizione, che molto bene si confà alla posizione di quel Pontefice ed all’indole de’ suoi tempi. Nel suo rivale, il Patriarca di Costantinopoli, egli condannò il titolo anticristiano di Vescovo universale, titolo che il successore di San Pietro era troppo superbo per concedere, e troppo debole per assumere; e l’ecclesiastica giurisdizione di Gregorio era limitata al triplice carattere di Vescovo di Roma, Primate dell’Italia, ed Apostolo d’Occidente. Di frequente egli montava sul pulpito, ed accendeva colla sua rozza, ma patetica eloquenza le passioni, conformi alle sue, dei suoi ascoltatori. Egli interpretava ed applicava il linguaggio de’ Profeti ebrei, ed il popolo, oppresso dalle presenti calamità, si volgeva alle speranze ed ai timori del mondo invisibile. I suoi precetti ed esempj determinarono il modello della liturgia Romana69, la distribuzione delle parrocchie, il calendario delle feste, l’ordine delle processioni, il servizio dei Sacerdoti e dei Diaconi, la varietà ed il cangiamento delle vesti sacerdotali. Sino agli ultimi giorni del viver suo, egli uffiziò nel canone della messa, che durava più di tre ore; il canto Gregoriano70 ci ha conservato la musica vocale ed istrumentale del teatro, e le rozze voci de’ Barbari si sforzarono ad imitare la melodia della scuola Romana71. L’esperienza gli avea dimostrato l’efficacia di que’ riti solenni e pomposi, per confortar la sventura, confermar la fede, temperar la fierezza e dissipare il cupo entusiasmo del volgo; ed agevolmente egli perdonò la tendenza ch’essi hanno a promovere il regno de’ preti e la superstizione. I Vescovi dell’Italia e delle Isole addiacenti riconoscevano il Pontefice di Roma per loro metropolitano speciale. L’esistenza stessa, l’unione o la traslazione delle Sedi vescovili veniva decisa dalla sua discrezione assoluta; e le fortunate sue incursioni nelle province della Grecia, della Spagna e della Gallia, poterono dar peso alle più alte pretensioni de’ Papi che gli succedettero. Egli interpose la sua autorità per impedire gli abusi delle elezioni popolari; la gelosa sua cura mantenne la purità della fede e della disciplina; ed il pastore apostolico assiduamente invigilava sopra la fede e la disciplina de’ subordinati pastori. Sotto il suo regno, gli Arriani dell’Italia e della Spagna si raccostarono alla Chiesa cattolica, e la conquista della Britannia tramanda men lustro sul nome di Giulio Cesare che su quello di Gregorio I. Invece di sei legioni, s’imbarcarono quaranta monaci per quell’isola remota, ed il Pontefice si dolse degli austeri doveri che vietavano di partecipare a’ pericoli della spirituale lor guerra. In meno di due anni egli fu in grado di significare all’Arcivescovo di Alessandria, ch’essi avevano battezzato il Re di Kent con diecimila de’ suoi Anglosassoni, e che i missionarj Romani, come quelli della primitiva Chiesa, non d’altro erano armati se non se di poteri spirituali e soprannaturali. La credulità o la prudenza di Gregorio era sempre disposta a confermare la verità della relazione colle prove degli spettri, de’ miracoli e delle risurrezioni72; e la posterità ha pagato alla sua memoria lo stesso tributo ch’egli liberamente concedeva alle virtù della sua o delle precedenti generazioni. Gli onori celesti furono liberalmente compartiti dall’autorità de’ Pontefici; ma Gregorio è l’ultimo del loro ordine ch’essi abbian ardito d’inscrivere nel calendario de’ Santi.
La potestà temporale dei Papi nacque appoco appoco dalle calamità dei tempi, ed i Vescovi Romani che dappoi hanno inondato l’Europa e l’Asia di sangue, erano allora costretti a regnare quai ministri di carità e di pace. I. La Chiesa di Roma, come s’è innanzi osservato, era dotata di ampie possessioni in Italia, in Sicilia e nelle più lontane province, ed i suoi agenti, che comunemente erano suddiaconi, avevano acquistato una giurisdizione civile ed anche criminale sopra i loro dipendenti e coloni. Il successore di San Pietro amministrava il suo patrimonio colle cure di un vigilante e moderato proprietario73, e le Pistole di San Gregorio sono piene di salutari avvisi di astenersi da processi dubbiosi e molesti; di serbare l’integrità de’ pesi e delle misure; di concedere ogni ragionevole dilazione, e di alleggerire la capitazione degli schiavi della gleba, i quali compravano il diritto di maritarsi col pagamento di un’arbitraria tassa74. La rendita e il prodotto di questi stabili era trasportata alla foce del Tevere, a rischio ed a spese del Papa; egli usava delle sue ricchezze come un fedele castaldo della Chiesa e del povero, e liberamente applicava a’ loro bisogni gl’inesauribli compensi dell’astinenza e dell’ordine. Si tennero per più di trecento anni nel Laterano i voluminosi conti dell’entrate e delle spese, come il modello dell’economia Cristiana. Nelle quattro grandi festività, il Papa distribuiva il quartiere dell’assegnamento al clero, a’ suoi domestici, ai monasteri, alle chiese, ai cimiteri, alle limosinerie ed agli spedali di Roma e del resto della Diocesi. Nel primo giorno di ciascun mese, egli dispensava ai poveri, secondo la stagione, la porzione lor fissa di grano, di vino, di caccio, di erbaggi, di olio, di pesce, di provigioni fresche, di vestimenta e di denaro; ed i suoi tesorieri continuamente ricevevan ordine di soddisfare, in suo nome, alle straordinarie richieste dell’indigenza e del merito. La carità di ogni giorno e di ogni ora sollevava le urgenti necessità degli infermi e de’ disagiati, degli stranieri e de’ pellegrini; nè si accostava il Pontefice stesso al frugale suo pasto se non dopo aver mandato alcuni piatti della sua tavola a qualche infelice meritevole della sua pietà. La miseria de’ tempi avea ridotto i nobili e le matrone di Roma ad accettare, senza rossore, le beneficenze della Chiesa: tre mila vergini ricevevano il vitto e le vesti dalle mani del loro benefattore; e molti Vescovi dell’Italia, fuggendo dai Barbari si ripararono alle soglie ospitali del Vaticano. Gregorio perciò giustamente era chiamato il Padre della Patria; e tale era l’estrema sensività della sua coscienza, che in pena della morte di un accattone, ch’era perito sulla strada, egli s’interdisse per più giorni l’esercizio delle funzioni sacerdotali. II. Le sciagure di Roma involgevano il Pastore apostolico nelle pratiche della pace e della guerra; e forse Gregorio non sapeva egli stesso se la pietà e l’ambizione lo traesse a far le veci del suo assente Sovrano. Egli scosse l’Imperatore da un troppo lungo letargo; gli espose la reità e l’incapacità dell’Esarca e de’ suoi ministri inferiori, si lagnò che i veterani fossero tratti da Roma per la difesa di Spoleto, confortò gl’Italiani a difendere le loro città e i loro altari; e condiscese, nella crisi del pericolo, a nominare i Tribuni, ed a reggere le operazioni delle truppe provinciali. Ma lo spirito marziale del Papa era frenato dagli scrupoli dell’umanità e della religione; liberamente egli condannò come odiosa ed oppressiva l’imposizione del tributo, quantunque venisse impiegato in servigio della guerra Italiana, e protesse contro gli editti Imperiali la devota codardia de’ soldati che dalla vita militare disertavano alla vita monastica. Se vogliamo dar fede alle sue dichiarazioni, Gregorio avrebbe potuto agevolmente sterminare i Lombardi per mezzo delle domestiche lor fazioni, senza lasciar vivo un Re, un Duca od un Conte, e salvare quella sfortunata nazione dalla vendetta de’ loro nemici. In qualità di Vescovo cristiano, egli preferì i salutevoli uffizi di pace; la sua mediazione sedò il tumulto delle armi; ma troppo conoscente egli era delle arti de’ Greci e delle passioni de’ Lombardi, per impegnare la sacra sua promessa che la tregua sarebbe osservata. Deluso nella speranza che avea nutrito di una generale e durevol concordia, gli bastò l’animo di salvar la sua patria senza il consentimento dell’Imperatore e dell’Esarca. Sospesa sopra di Roma era la spada dell’inimico; essa ne fu stornata dalla dolce eloquenza e dagli opportuni donativi del Pontefice, il quale si attraeva il rispetto de’ Barbari e degli Eretici. I meriti di Gregorio furono contraccambiati dalla corte di Bisanzio con rampogne ed insulti: ma nell’amore di un Popolo riconoscente, egli trovò il più puro guiderdone di un cittadino, ed i migliori titoli dell’autorità di un sovrano75.
Note
- ↑ Vedi nelle Familiae byzantinae di Ducange (p. 89-101), quanto si riferisce alla famiglia di Giustino e di Giustiniano. Ludewig (in vit. Justinian. p. 131) ed Eineccio (Hist. iuris rom. p. 374), giureconsulti devoti, hanno spiegata la genealogia del favorito lor principe.
- ↑ Per raccontare come è salito al trono Giustino, ho tradotto in semplice e concisa prosa gli ottocento versi dei due primi libri di Corippo, De laudibus Justini (Appendix Hist. bizant. p. 401-416, Roma, 1777).
- ↑ Fa meraviglia che Pagi (Critica in Annal. Baron. t. II p. 639) sulla fede di qualche cronaca siasi tratto a contraddire il chiaro e decisivo testo di Corippo (Vicina dona l. II, 354; Vicina dies, l. IV), ed a posporre il consolato di Giustino, sino all’A. D. 567.
- ↑ Teofane, Chronograph. p. 205. È inutile di allegare la testimonianza di Cedreno e di Zonara, mentre essi non sono che semplici compilatori.
- ↑ Corippo, l. III, 390. Si tratta incontestabilmente dei Turchi vincitori degli Avari; ma la parola scultor sembra non aver senso; e l’unico manoscritto esistente di Corippo, sul quale fu pubblicata la prima edizione di questo scrittore 1581, apud Plantin), non si trova più. L’ultimo editore, Foggini di Roma, congetturò che tal parola dovesse esser corretta in quella di Soldano; ma le ragioni allegate dal Ducange (Joinville, Dissertat. 16 p. 238-240) per provare che questo titolo fu assai di buon’ora adoperato dai Turchi e dai Persiani, sono deboli od equivoche; ed io mi trovo più disposto in favore di Herbelot (Bibl. orient. p. 825) che attribuisce a quel vocabolo un’origine araba o caldea, e lo fa incominciare nell’undecimo secolo, in cui il califfo di Bagdad l’accordò a Mahmud, principe di Gazna e vincitore dell’India.
- ↑ Su questi caratteristici discorsi si paragonino i versi di Corippo (l. III, 251-401) colla prosa di Menandro (Excerpt. legat. p. 102, 103). La loro diversità prova che non furono copiati l’uno dall’altro, e la loro rassomiglianza che furono attinti alla stessa fonte.
- ↑ Sulle guerre degli Avari contro gli Austrasiani, vedasi Menandro (Excerpt. legat. p. 110), San Gregorio di Tours (Hist. Franc. l. IV c. 29), e Paolo Diacono (De gest. Langob. l. II c. 10).
- ↑ Paolo Warnefrido, Diacono del Friuli (De gest. Langob. l. I c. 23, 24). I suoi quadri de’ nazionali costumi, quantunque grossolanamente abbozzati, sono più animati ed esatti di quelli di Beda o di San Gregorio di Tours.
- ↑ Questa istoria è raccontata da un impostore (Teofilatto Simocat. l. VI c. 10); il quale però ebbe l’accortezza di stabilire le sue finzioni su fatti pubblici e notorj
- ↑ Dopo le osservazioni di Strabone, di Plinio e d’Ammiano Marcellino, sembra che questo fosse un uso comune fra le tribù degli Sciti (Muratori, Script. rer. italicar. t. I p. 424). Le chiome dell’America settentrionale sono esse pure trofei di valore; i Lombardi conservarono per più di due secoli il cranio di Cunimondo; e lo stesso Paolo intervenne al banchetto, in cui il duca Radechisio fece portar fuori questa coppa destinata alle grandi solennità.
- ↑ Paolo, l. 1 c. 27; Menandro, in Excerpt. legat. p. 110, 111.
- ↑ Ut hactenus etiam jam apud Bajoariorum gentem quam et Saxonum sed et alios ejusdem linguae homines..... in eorum carminibus celebretur (Paolo, l. 1 c. 27). Esso morì, A. D. 799 (Muratori, in Praefat. t. 1 p. 397). Queste canzoni de’ Germani, alcune delle quali potevano risalire ai tempi di Tacito (De morib. Germ. c. 2), furono compilate e trascritte per ordine di Carlo Magno. Barbara et antiquissima carmina, quibus veterum regum actus et bella canebantur scripsit memoriaeque mandavit (Eginardo, in vit. Car. Magn. c. 29 p. 130, 131). I poemi di cui fa elogio Goldast (Animad. ad Eginard. p. 207) sembrano essere romanzi moderni e spregevoli.
- ↑ Paolo (l. II c. 6-26) parla delle altre nazioni. Muratori (Antich. Ital. t. I, Dissert. 1 p. 4) ha scoperto il villaggio de’ Bavari alla distanza di tre miglia da Modena.
- ↑ Gregorio il Romano (Dialog. l. III c. 27, 28, apud Baron. Annal. eccles. A. D. 579 n. 10) suppone che essi adorassero una capra. Io non conosco che una religione in cui la Divinità sia ad un tempo stesso la vittima.
- ↑ I rimproveri che dal Diacono Paolo (l. II c. 5) vengono fatti a Narsete, possono essere senza fondamento; ma le migliori critiche rifiutano la debole apologia pubblicata dal Cardinale Baronio (Annali Eccles. A. D. 567 n. 8-12). Fra questi critici io indicherò il Pagi (tom. II p. 639, 640), il Muratori (Annali d’Ital. t, V p. 160-163), e gli ultimi editori, Orazio Bianco (Script. rer. Italic. t. I p. 427, 428), e Filippo Argelato (Sigon. Opera, t. II p. 11, 12). È certo che quel Narsete che assistette alla coronazione di Giustino (Corippo, l. III, 221) era un’altra persona dello stesso nome.
- ↑ Paolo (l. II c. 11), Anastasio (in vit. Johan. III p. 43), Agnello (Liber pontifical. Raven. in Script. rer. Ital. t. II part, 1 p. 114-124) fanno menzione della morte di Narsete. Ma non posso convenire con Agnello che questo Generale avesse novantacinque anni. Com’è probabile che agli ottant’anni cominci l’epoca delle gloriose sue imprese?
- ↑ Paolo Diacono nell’ultimo capitolo del suo primo libro, e ne’ sette primi del secondo, ci fa conoscere i disegni di Narsete e dei Lombardi intorno all’invasione dell’Italia.
- ↑ In seguito a questa translazione, l’Isola di Grado prese il nome di Nuova Aquileja (Chron. Venet. p. 3). Il Patriarca di Grado non tardò molto a diventare il primo cittadino della Repubblica (p. 9 ec.); ma la sua sede non si trasferì a Venezia che nel 1450, e presentemente è carico di titoli e di onori. Ma il genio della Chiesa s’abbassò innanzi al genio dello Stato, ed il governo di Venezia cattolica è presbiteriano in tutto il rigor del termine (Tomassino, Discip. de l’Eglise, t. 1 p. 156, 157, 161-165; Amelot de la Houssaye, Gouvernement de Venise, t. 1 p. 256-261).
- ↑ Paolo fece una descrizione delle diciotto regioni in cui l’Italia era allora divisa (l. II c. 14-24). La Dissertatio chorographica de Italia medii aevi del Padre Beretti, religioso Benedettino e professore Reale a Pavia, è stata consultata con molto profitto.
- ↑ Veggansi i materiali raccolti da Paolo sulla conquista d’Italia (l. II c. 7-10, 12, 14, 25, 26, 27), l’eloquente racconto di Sigonio (t. II, De regno Italiae, l. I p. 13-19), e le esatte critiche Dissertazioni del Muratori (Annali d’Italia, t. V p. 164 180).
- ↑ Il lettore ricorderà la storia della moglie di Candaulo e l’assassinio di questo sposo che viene narrato da Erodoto in un modo sì piccante nel primo libro della sua Storia. La scelta di Gige Αιρεεται αυτος περιειναί può servire d’una specie di scusa a Peredeo; ed i migliori scrittori dell’antichità si sono serviti di questa blanda insinuazione di un’idea odiosa (Graevius, ad Ciceron. Orat. pro Milone, c. 10).
- ↑ Vedi l’Istoria di Paolo, l. II c. 28-32. Ho cavato parecchie interessanti particolarità dal Liber pontificalis d’Agnello, in Script. rer. Ital. t. II p. 124. Fra tutte le guide cronologiche, la più sicura è il Muratori.
- ↑ Gli autori originali sul Regno di Giustino il Giovine sono Evagrio (Hist. eccl. l. V c. 1-12), Teofane (Chronograph. p. 204-210), Zonara (t. II l. XIV p. 70-72), Cedreno (in Compend. p. 388-392).
- ↑
Dispositorque novus sacrae Baduarius aulae;
Successor soceri mox factus Cura palati.Corippo.
Fra i discendenti e gli alleati della casa di Giustiniano contasi Badoario. Una casa Badoero nel nono secolo, famiglia nobile di Venezia, vi ha fabbricato chiese e dato alcuni Duchi alla Repubblica; e se la di lei genealogia è comprovata come si conviene, in Europa non v’ha Re che vantarne possa una tanto antica ed illustre (Ducange, Fam. Byzant. p. 99, Amelot de la Houssaye, Gouvern. de Venise, t. 11 p. 555).
- ↑ Gli elogi più puri e più autorevoli sono quelli che ricevono i Principi prima del loro esaltamento. Mentre si innalzava Giustino al trono, Corippo avea encomiato Tiberio (l. I p. 212-222). Del resto un Capitano stesso delle guardie poteva instigare l’adulazione d’un Affricano esigliato.
- ↑ Evagrio (l. V c. 13) ha aggiunto il rimprovero di Giustino a’ suoi Ministri. Egli applica questo discorso alla cerimonia, in cui fu conferita a Tiberio la dignità Cesarea. Non per un vero sbaglio, ma per le loro vaghe espressioni, Teofane ed alcuni altri fecero pensare che si avesse a riferire all’epoca in cui Tiberio fu decorato del titolo d’Augusto, subito dopo la morte di Giustino.
- ↑ Teofilatto Simocatta (l. III c. 11) attesta formalmente, che trasmette ai posteri l’aringa di Giustino quale la pronunziò, e senza voler correggere gli errori di lingua e di rettorica. Probabilmente questo futile sofista non sarebbe stato capace di farne una simile.
- ↑ Vedi, sul carattere ed il regno di Tiberio, Evagrio (l. V c. 13), Teofilatto (l. III c. 12 ecc.), Teofane (in Chron. p. 210-213), Zonara (t. II l. XIV p. 22), Cedreno (p. 392), Paolo Warnefrido (De gestis Longobard. l. III c. 11, 12). Il Diacono del Forum Julii pare che abbia avuto veramente cognizione di alcuni fatti curiosi ed autentici.
- ↑ È singolare che Paolo (l. III c. 15) lo distingue come il primo fra gli Imperatori greci, primus ex graecorum genere in imperio constitutus. È vero che i suoi immediati predecessori erano nati nelle province latine d’Europa: e nel testo di Paolo bisogna forse leggere in Graecorum imperio; ciò che applicherebbe l’espressione all’impero anzi che al Principe.
- ↑ Sul carattere e regno di Maurizio vedi il quinto e sesto libro d’Evagrio, e specialmente il libro VI c. 1, gli otto libri della prolissa ed ampollosa istoria di Teofilatto Simocatta, Teofane (p. 213 ec.), Zonara (t. II l. XIV p. 73), Cedreno (p. 394).
- ↑ Αυτοκρατωρ οντως γενομενος την μεν οχλοκρατειαν των παθων εκ της οικειας εξενηλατησε ψυκης: αρισοκρατειαν δε εν τοις εαυτου λογισμοις κατασησαμενος. Evagrio compose la sua storia nel duodecimo anno del regno di Maurizio, ed egli era stato così saggiamente indiscreto, che l’Imperatore conobbe e ricompensò le sue favorevoli opinioni (l. VI c. 24).
- ↑ I geografi antichi fanno spesso menzione della columna rhegina, situata nella più stretta parte del Faro di Messina, alla distanza di cento stadj dalla città di Reggio. Vedi Cluvier (Ital. antiq. t. II p. 1295), Luca Olstenio (Annot. ad Cluvier, p. 301) e Wesseling (Itiner. p. 106).
- ↑ Gli storici Greci non ispargono che una debole luce sulle guerre d’Italia (Menandro, in Excerpt. legat. p. 124-126; Teofilatto, l. III c. 4). I Latini, e specialmente Paolo Warnefrido (l. III c. 13-34), che aveva lette le anteriori istorie di Secondo e di Gregorio di Tours, sono più soddisfacenti. Il Baronio cita alcune lettere de’ Papi ec., e si trovano stabilite le epoche nell’esatta Cronologia del Pagi e del Muratori.
- ↑ Zacagni e Fontanini, difensori della causa de’ Papi, hanno potuto a giusto titolo reclamare le valli e le paludi di Comacchio come una parte dell’Esarcato; ma nella loro ambizione, essi hanno voluto comprendere anche Modena, Reggio, Parma e Piacenza, ed hanno ottenebrata una questione di geografia, già dubbiosa ed oscura per se stessa. Anche il Muratori, come servitore della casa d’Este, non va esente di parzialità e di prevenzione.
- ↑ Vedi Brenckmann, Dissert. prima de republica Amalphitana, p. 1-42, ad calcem Hist. Pandect. Florent.
- ↑ Gregorio Magno, l. III, epist. 23, 25, 26, 27.
- ↑ Io ho descritto l’Italia colla scorta dell’eccellente Dissertazione del Beretti. Il Giannone (Istoria Civile, t. I p. 374-387), nella geografia del Regno di Napoli, ha seguìto il dotto Camillo Pellegrino. Quando l’Impero ebbe perduto la Calabria propriamente detta, la vanità de’ Greci sostituì il nome di Calabria all’ignobile denominazione di Bruzio; e sembra che questa alterazione abbia avuto luogo prima del Regno di Carlo Magno (Eginardo, p. 75).
- ↑ Maffei (Verona illustrata, part. I p. 310-321) e Muratori (Antich. Ital. t. II, Dissert. 32, 33 p. 71-365), il primo col massimo entusiasmo, ed il secondo colla più gran moderazione, hanno ambedue sostenuto le pretensioni della lingua latina, e spiegato molto sapere, spirito ed esattezza in questa discussione.
- ↑ Paolo, De gest. Longobard. l. III c. 5, 6, 7.
- ↑ Paolo, (l. II c. 9) applica a queste famiglie o a queste generazioni il nome teutonico di Faras, che si rinviene eziandio nelle leggi dei Lombardi. Il Diacono con tutta la sua modestia non era insensibile alla nobiltà della sua razza. Vedi L. IV c. 39.
- ↑ Si confrontino il num. 3 ed il num. 177 delle leggi di Rotario.
- ↑ Paolo, l. II c. 31, 32; l. III c. 16. Le leggi di Rotario pubblicate A. D. 643 non contengono alcun’orma di questo tributo del terzo dei prodotti; ma ci danno parecchie minute e curiose particolarità intorno lo stato dell’Italia ed i costumi dei Lombardi.
- ↑ Le razze di Dionigi di Siracusa, e le frequenti sue vittorie nei giuochi Olimpici, aveano divulgata fra i Greci la fama dei cavalli della Venezia; ma la loro razza erasi perduta ai tempi di Strabone (l. V p. 325). Gisulfo da suo zio ottenne generosarum equarum greges (Paolo, l. II c. 9). Successivamente i Lombardi introdussero in Italia caballi sylvatici, cavalli selvaggi (Paolo, l. IV c. 11).
- ↑ „Tunc„ (A. D. 596) „primum, Bubali in Italiam delati Italiae populis miracula fuere„ (Paolo Warnefridio, l. IV, c. 11). I bufali che paiono essere originarj dell’Affrica e dell’India, non si conoscono in Europa, eccetto in Italia, dove sono numerosi ed utili: gli antichi non avevano la menoma idea di questi animali, a meno che Aristotile (Hist. anim. l. III c. 1 p. 58, Parigi, 1783) non abbia inteso darne una descrizione sotto il nome di buoi selvaggi d’Aracosia (Vedi Buffon, Hist. nat. t. XI, e supplem. t. VI; Hist. gen. des Voyages, t. I p. 7, 481; II, 105; III, 291; IV, 234, 461; V, 195; VI, 491; VIII, 400; X, 666; Pennant’s Quadrupedes, p. 24; Dictionn. d’Hist. nat. par Valmont de Bomare, t. II p. 74). Del resto non devo tacere che Paolo, verisimilmente per un errore invaso nel volgo, ha dato il nome di bubalus, all’auroco, o toro selvaggio dell’antica Germania.
- ↑ Vedi la ventesima Dissertazione di Muratori.
- ↑ Se ne ha una prova nel silenzio stesso degli autori che hanno scritto sulla caccia e la storia delle bestie. Aristotile (Hist. animal. l. IX c. 36 t. 1 p. 586, e le Annotazioni del sig. Camus che ne è l’ultimo editore, t. II p. 314), Plinio (Hist. nat. l. X c. 10), Eliano (De nat. animal. l. II c. 42), e forse Omero (Odyss. XXII, 302-306), parlano con istupore d’una tacita lega e d’una caccia comune fra i falconi ed i cacciatori della Tracia.
- ↑ Specialmente il girifalco od il gyrfalcon, che ha la stessa grossezza d’una piccola aquila. Vedi la descrizione animata che ne fa il sig. di Buffon (Hist. nat. t. XVI p. 239).
- ↑ Script. rer. Ital. t. 1 part. II p. 129. Si è la 16. legge dell’Imperatore Luigi il Pio. Falconieri e cacciatori formavano parte del servizio della casa di Carlo Magno suo padre (Mem. sull’antica Cavalleria del sig. di Saint-Palaye, t. III p. 175). Le leggi di Rotario parlano dell’arte della falconeria in un’epoca anteriore (n. 322); e sino dal quinto secolo, Sidonio Apollinare l’annoverava fra i talenti del Gallo Avito (202-207).
- ↑ A parecchi de’ suoi compatriotti si può applicare l’epitaffio di Droctulfo (Paolo, l. III c. 19).
Terribilis visu facies, sed corde benignus,
Longaque robusto pectore barba fuit.Nel palazzo di Monza distante dieci miglia da Milano si mirano ancora oggi giorno i ritratti degli antichi Lombardi; quel palazzo fu fabbricato o restaurato dalla Regina Teodolinda (l. IV, 22, 23).
- ↑ Paolo (l. III c. 29, 34) riferisce la Storia d’Autario e di Teodolinda; ed ogni frammento degli antichi Annali della Baviera anima le instancabili ricerche del conte di Buat (Histoire des Peuples de l’Europe, t. XI p. 595-635; t. XII p. 1, 53).
- ↑ Giannone (Storia civile di Napoli, t. I p. 263) biasima con ragione l’impertinenza del Boccaccio (Giorn. III, Nov. 2), il quale senza motivo, o pretesto, e contro ogni verità, presenta la Regina Teodolinda nelle braccia d’un mulattiere.
- ↑ Paolo, l. III c. 16. Si consultino sullo Stato del Regno d’Italia le prime Dissertazioni del Muratori, ed il primo volume della Storia di Giannone.
- ↑ La più esatta edizione delle leggi Lombarde è quella dei Script. rer. Italic. t. 1 part. II p. 1-181. È stata collazionata sul manoscritto più antico, ed illustrata da annotazioni critiche del Muratori.
- ↑ Montesquieu (Esprit des Lois, l. XXVIII c. 1): „Abbastanza giudiziose sono le leggi dei Borghignoni, ma più ancora lo sono quelle di Rotario, o di altri principi Lombardi„.
- ↑ Vedi le leggi di Rotario, n. 379 p. 49. Striga è usato come il nome di una strega. Questo vocabolo è figlio del più puro latino (Orazio, Epod. V, 20; Petronio, c. 134). Pare che un passo di quest’ultimo autore, Quae striges comederunt nervos tuos? comprovi che un tal pregiudizio fosse di origine italiana, anzi che barbara.
- ↑ Quia incerti sumus de iudicio Dei, et multos audivimus per pugnam sine iusta causa, suam causam perdere. Sed propter consuetudinem gentem nostram Langobardorum legem impiam vetare non possumus. Vedi p. 74 n. 65 delle Leggi di Luitprando, promulgate A. D. 724.
- ↑ Leggi la Storia di Paolo Warnefrido, e specialmente il libro III c. 16. Il Baronio non vuol acconsentire a questo fatto che pare in contraddizione colle invettive di Papa Gregorio il Grande; ma il Muratori (Annali d’Italia, t. V p. 217) ha il coraggio di far sentire che il Santo può benissimo avere esagerato i falli imputati agli Arriani ed ai nemici.
- ↑ Il Baronio ha copiato ne’ suoi Annali (A. D. 590 n. 16; A. D. 595 n. 2 ec.) i passi delle Omelie di San Gregorio, che mettono in chiaro lo stato sciagurato della città e della campagna di Roma.
- ↑ Un Diacono che da San Gregorio di Tours venne spedito a Roma, per procurarsi reliquie, fa una descrizione dell’inondazione e della peste. Lo spiritoso deputato abbellisce il suo racconto coll’arricchire il fiume d’un gran drago accompagnato da una coorte di piccole serpi (S. Greg. di Tours, l. X c. 1).
- ↑ San Gregorio di Roma (Dialog. l. II c. 15) riferisce una predizione memorabile di San Benedetto. Roma a gentilibus non exterminabitur, sed tempestatibus, coruscis turbinibus ac terrae motu in semeptisa marcescet. Questa profezia, col testificare il fatto per cui e con cui è stata inventata, rientra nel dominio della Storia.
- ↑ Quia in uno se ore cum Jovis laudibus, Christi laudes non capiunt, et quam grave nefandumque sit episcopis canere, quod nec laico religioso conveniat, ipse considera (l. IX, epist. 4). Gli scritti di San Gregorio fanno testimonianza della sua innocenza intorno al gusto ed alla letteratura dei classici.
- ↑ Bayle (Dizionario critico t. II p. 598, 599) in un eccellente articolo relativo a Gregorio I cita Platina sulla distruzione de’ fabbricati e delle statue, di cui si fa rimprovero a Gregorio I; quanto alla Biblioteca Palatina egli allega Giovanni di Salisbury (De nugis curialium, l. II c. 26); e per Tito Livio cita Antonio Fiorentino: il più antico di codesti tre testimonj viveva nel secolo dodicesimo.
- ↑ San Gregorio, l. III, epist. 24, indict. 12 ec. Dalle epistole di S. Gregorio e dall’ottavo volume degli Annali di Baronio, i pii lettori potranno conoscere quali particelle delle catene di S. Paolo amalgamate con oro e fabbricate sotto forma di chiavi o di croci venissero disseminate nella Brettagna, la Gallia, la Spagna, a Costantinopoli ed in Egitto. Il fabbro pontificio che adoperò la lima dovè per certo aver contezza de’ miracoli che avea il potere di fare o d’impedire; il che, a spese della veracità di S. Gregorio, deve scemare l’idea della sua superstizione.
- ↑ Oltre alle epistole di S. Gregorio classificate da Dupin (Bibl. eccles. t. V p. 103-126), abbiamo tre vite di questo Papa. Le due prime furono scritte nell’ottavo e nono secolo (De triplici vita S. Gregor. Prefazione del 4. volume dell’ediz. dei Benedettini) dai Diaconi Paolo (p. 1-18) o Giovanni (p. 19-188); esse contengono molte testimonianze originali ma dubbie. La terza vita è un lungo o fastidioso epilogo degli editori Benedettini (p. 199-305). Gli Annali del Baronio somministrano una Storia copiosa ma parziale. Il buon senso di Fleury (Hist. eccles. t. VIII) corregge i pregiudizj papali di questo scrittore, e Pagi e Muratori hanno rettificato le sue date.
- ↑ Il Diacono Giovanni parla di questo ritratto che avea veduto (l. IV c. 83, 84); ed Angelo Rocca antiquario romano ha illustrato la sua descrizione (San Gregorio, Opere, t. IV p. 312-326). Quest’autore (p. 321-323) asserisce che in alcune antiche Chiese di Roma si conservano mosaici dei Papi del settimo secolo. Le mura che per lo passato rappresentavano la famiglia di San Gregorio, offrono ora il martirio di S. Andrea, ove il genio del Dominichino ha gareggiato col genio del Guido.
- ↑ Disciplinis vero liberalibus, hoc est grammatica, rethorica, dialectica, ita a puero est institutus, ut quamvis eo tempore florerent adhuc Romae studia litterarum, tamen nulli in urbe ipsa secundus putaretur (Paolo Diacono, in vita. S. Gregor. c. 2).
- ↑ I Benedettini (in vit. sanct. Greg. l. I p. 205-208) fanno tutti gli sforzi onde provare che S. Gregorio pei proprj Monasteri adottò la regola del loro Ordine; ma da che confessano avere il fatto qualche dubbiezza, è evidente che la pretensione di questi potenti Monaci è totalmente falsa. Vedi Butler, Lives of the Saints, vol. III p. 145, opera di merito: il buon senso ed il sapere sono dell’Autore, ed i pregiudizj che vi si incontrano appartengono alla sua professione.
- ↑ Monasterium Gregorianum in eiusdem beati Gregorii, aedibus ad clivum Scauri prope ecclesiam SS. Johannis et Pauli in honorem S. Andreae (Gio. in vit. S. Greg. l. 1, c. 6; S. Gregorio, l. VII, epist. 13). Questa casa e questo Monastero erano collocati sul fianco del Monte Celio che sta rimpetto al Monte Palatino; in oggi è posseduta dai Camaldolesi. San Gregorio trionfa e Sant’Andrea si è ritirato in un’angusta Cappella (Nardini, Roma antica, l. III c. 6 p. 100; Descrizione di Roma t. I p. 442-446).
- ↑ Tutto il Pater noster non è costituito che da cinque o sei linee; invece il Sacramentarius e l’Antiphonarius di San Gregorio riempiono 880 pag. in fol. (t. III part. I p. 1-880); eppure non formano che una sola parte dell’Ordo Romanus che Mabillon ha spiegato, e che è stato compendiato da Fleury (Hist. eccl. t. VIII p. 139-152).
- ↑ L’Abbate Dubos (Riflessioni sulla poesia e la pittura, t. III p. 174, 175) osserva che il canto Ambrosiano è tanto semplice, che non impiega che quattro tuoni; e che la più perfetta armonia del canto di San Gregorio comprendeva gli otto tuoni, ossiano le quindici corde della musica antica. E soggiunge (p. 332) che gli intelligenti ammirano la prefazione e parecchi pezzi dell’officio Gregoriano.
- ↑ Giovanni il Diacono (in vit. S. Greg. l. III c. 7) ci dà a conoscere il disprezzo dimostrato fin di buon’ora dagli Italiani pel canto all’uso oltramontano. Alpina scilicet corpora vocum suarum tonitruis altisona perstrepentia, susceptae modulationis dulcedinem proprie non resultant; quia bibuli gutturis barbara feritas dum inflexionibus et repercussionibus mitem nititur edere cantilenam, naturali quodam fragore quasi plaustra per gradus confuse sonantia rigidas voces iactat, ec. Sotto il Regno di Carlo Magno, i Franchi convenivano, benchè alquanto ritrosamente, della giustizia di questo rimprovero (Muratori, Dissert. 25).
- ↑ Un critico francese (P. Gussainv. Op. t. II, p. 105-112) ha vendicato il diritto di S. Gregorio all’intera assurdità dei Dialoghi. Dupin (t. V p. 138) dubita nemmeno che siavi chi non abbia a garantire la verità di tutti questi miracoli. Io però sarei ben curioso di sapere quanti egli stesso ne adottava.
- ↑ Il Baronio non ama di fermarsi su questi dominj ecclesiastici, perchè teme di far vedere che erano composti di fattorie o poderi e non di regni. Gli scrittori francesi, i Benedettini (t. IV l. III p. 272 ec.) e Fleury (t. VIII p. 29 ec.) non temono d’internarsi in queste modeste ma utili particolarità, e l’umanità di Fleury insiste sulle virtù sociali di San Gregorio.
- ↑ Mi vien tutta la tentazione di credere che questa pecuniaria ammenda sui matrimonj dei villani sia quella che ha prodotto il famoso e bene spesso favoloso diritto di cuissage, di marquette, ec. È possibile che una vaga sposa, col consentimento del marito, commutasse il pagamento fra le braccia di un giovane signore, e che questo mutuo favore abbia potuto servire ad esempio onde autorizzare qualche atto tirannico locale, senza alcuna legalità.
- ↑ Il Sigonio espone abilmente il temporale governo di Gregorio I. Vedi il libro primo De Regno Italiae, t. II della raccolta delle sue Opere, p. 44-75.
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