Storia della letteratura italiana (Tiraboschi, 1822-1826)/Tomo I/Parte III/Libro III/Capo X

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Capo X – Arti liberali

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Capo X.

Arti liberali.

1. Come nel ragionar degli Etruschi e de’ popoli della Magna Grecia e della Sicilia abbiamo ancor ragionato del fiorire che tra essi fecero le arti liberali, così ragion vuole ancora che lo stesso facciamo or de’ Romani. Ma il farem brevemente, e sol quanto basta a conoscere l’origine e il progresso di queste arti presso di loro. E cominciando dalla scultura e dall’arte statuaria, Varrone citato da S. Agostino (De Civ. Dei l. 4. c. 31) e Plutarco (in Numa) ci assicurano che per lo spazio di cento settant’anni niuna statua ne’ tempii di Roma ebbero gli Iddìi, così avendo comandato Numa nelle sue leggi. Dico ne’ tempii; perciocchè lucidi essi se ne videro anche ne’ più antichi secoli alcune, come fra le altre la statua di Giano a due facce, che Plinio dice consecrata da Numa stesso (l. 34, c. 7). Agli uomini ancora fino da’ primi tempi si videro innalzate statue in Roma, e il medesimo Plinio rammenta quella di Clelia al tempo della guerra di Porsena (ib. c. 6). Erano però ne’ tempi più antichi le statue o di creta, o di legno; e la prima statua di bronzo che in Roma si vedesse, dice lo stesso autore (ib. c. 4), che fu quella di Cerere fatta col denaro di Spurio Cassio, allorchè egli per sospetto di affettata autorità reale fu ucciso, il che avvenne l’anno di Roma 268. Aggiugtie, che dagli Iddii passò poi questo onore agli Tìraboschi, Voi. I. 38 [p. 594 modifica]5y4 PARTE TERZA uomini ancora; e che successivamente erasi sparsa tanto quest’arte, che tutti i municipii ancora avean nelle lor piazze molte statue di bronzo, e che anzi le stesse case private e i loro cortili erano in ciò somiglianti alle piazze; tante eran le statue di cui si ornavano. A me però non appartiene il cercare quando, e a chi si ergessero statue in Roma; ma se romani artefici vi fossero in quest’arte eccellenti, o se fosser costretti a servirsi a tal uopo degli stranieri. 11. In questa parte, a dir vero, non sembra che molta lode si debba a’ Romani (a). Avvezzi a decider nel foro a chi si dovesse muover la guerra, a chi accordare la pace, avrebbon creduto di abbassarsi di troppo, se con quella mano medesima con cui pretendevano di imporre legge al mondo, avessero maneggiato scalpello, o altro plebeo strumento. Di fatti Plinio che nel più volte citato libro moltissimi nomina più o men famosi scultori, un solo ne produce, dal cui nome si possa credere che fosse romano, cioè un certo Decio, di cui ancora non parla con molta lode (ib. c. 8). Quindi è che il dottissimo antiquario Winckelmann rigetta l’opinion di coloro che ne’ monumenti antichi distinguer vogliono lo stil romano dall’etrusco e dal greco (Hist. de l’Art. t. 2, p. 125, ec., edit. A Amsterdam), e mostra che le statue in Roma furono opera comunemente (a) Intorno alle arti liberali esercitate da’ Romani reggasi la nuova edizione altre volle citala della Storia del Winckeluiann (t. 1, p. 3o5, ce.). [p. 595 modifica]. LIBRO TERZO 5^5 degli artefici etruschi , poscia de’ greci. E a’ tempi ancora di Cesare e di Augusto veggiamo che greci erano gli scultori in Roma, e greci gli incisori di pietre, tra’ quali celebri si rendettero singolarmente Dioscoride e Solone (V. Winckelmann, t. 2, p. 269, 276, ec.). Ma se i Romani non si degnarono essi medesimi di esercitar quest’arte, non lasciaron perciò di pregiarne e di ricercarne i lavori. Questa gloria ancora si vuole da alcuni togliere a’ Romani; e a provare quanto in ciò fossero rozzi, si arreca il fatto che racconta Velleio Patercolo (l. 1, c. 13), cioè che Lucio Mummio espugnata avendo l’anno 607 Corinto, e raccoltene le statue e le pitture tutte di grandissimo pregio che vi aveva trovate, avvertì seriamente coloro che incaricati erano di trasportarle a Roma, che avvertissero bene a non guastarne, o smarrirne alcuna; poichè altrimenti gli avrebbe costretti a nuovamente rifarle a loro proprie spese. Il qual fatto prova bensì che Mummio più di guerra intendevasi che di queste arti; ma non prova che sì rozzi fossero tutti i Romani. E certo il costante uso tra loro di trasportare a Roma e di conservare i più bei monumenti delle conquistate città, mostra ch’essi ben ne conoscevano il pregio. Così alibi am veduto che fecero nella presa di Bolsena; così fecero pure nella presa di Siracusa, e di tutte le altre città della Grecia e della Sicilia , da cui essi trasportarono a Roma quanto vi ritrovarono di più pregevole (a). (a) Sembra che il celebre Paolo Emi tic volesse di[p. 596 modifica]596 PARTE TERZA III. Meno indegna della loro grandezza stimarono i Romani, almeno per qualche tempo, lai te della pittura. Udiamo ciò che intorno ad essa ne narra Plinio, 1 unico tra gli antichi autori che abbia stesamente trattato di tale argomento. Presso i Romani ancora, egli dice (l. 35, c. 4), quest’arte (della Pittura) salì presto ad onore; perciocchè i Fabii, famiglia d illustre lignaggio, da essa il soprannome ebbero di Pittori; e il primo che lo avesse, dipinse egli stesso il tempio della Salute l’anno di Roma 45o ,• la qual pittura fino alla nostra età si mantenne, in cui quel tempio sotto f impero di Claudio fu consumato iLdJiioco. Una pittura inoltre del poeta Pcu uvio fu celebre nel tempio di Ercole al Foro boario. Credettesi dunque allora che la pittura ad uom romano e nobile, qual era Fabio, non disdicesse; ma si cambiò presto parere. D’allora in poi, continua Plinio , da uomini di onesta condizione ella non fu più esercitata, se pur non vogliasi eccettuarne Turpilio cavalier romano nativo della Venezia, e vissuto a’ nostri giorni, di cui alcune belle opere veggonsi anche al presente in V?rona. SoL va egli usare la man sinistra a dipingere, il che di niun altro si legge. Nomina struggere il pregiudizio comune a’ Romani, che l’esercizio delle belle arti non fosse degno di loro; perciocché, come osserva il Winckelmann (Storia delf Arte, t. 2 , p. 160, 3o6) citando l’autorità di Plutarco, egli scelse tra gli altri a maestri de’ suoi figli alcuni pittori e scultori, acciocché nelle arti lor gli istruissero. Ma questa benché sì luminoso esempio non fece cambiar maniera di pensare a’ Romani. [p. 597 modifica]LIBRO TERZO SiQ’J però àncora Plinio un certo Quinto Pedio. uomo di chiarissima stirpe, e stretto di parentela con Messala e con Augusto, a cui, poichè era muto, per voler di Messala e col conseguimento di Augusto fu insegnata l’arte della pittura; e grandi progressi ei vi faceva; ma un’immatura morte in età ancor tenera troncò le speranze che se n’erano concepute. Per ultimo nomina Plinio nel medesimo libro (c. 10) un cotal Ludio, il quale al nome sembra romano, seppur non era liberto; di cui dice che al tempo d’Augusto prima di ogni altro ebbe gran fama nell’ornare le mura di capricciose pitture rappresentanti ville e portici e selve e colli e fiumi e pesche, ed altri somiglianti oggetti (a). Veggonsi inoltre da lui nominati Arellio piltor celebre poco innanzi al tempo d’Augusto, e Amulio verso l’età di Plinio medesimo (b). Questi forse furon romani; fa\ La maniera di dipingere usata da Ludio era nota a’ Greci più secoli prima de’ tempi di Augusto. O dunque Plinio ha errato, o egli vuol dir solamente che Ludio fu il primo ad aver tra i Romani gran nome in questo genere di pittura (V. Winckelmann Storia del* l Arte, t. 2, p. 130; t. 3 , p. 215, ediz. Rot/i.). (b) Di questo pittore Amulio, Plinio ci dice eh"ei fu humilis rei pictor; col che sembra indicare, non già ch’ei fosse pittor dozzinale, ma solo eh ei si occupava comunemente in dipingere oggetti bassi e volgari. Aggiugne che una Minerva fu da lui dipinta in modo che spectantem aspectans quocumque atp’.cerelur; le quali parole a me non sembrano potere avere altro senso fuorchè questo, che aveale il pittore formati gli occhi in modo che paresse tenergli fissi su chi rimiravala da qualunque parte ei la rimirasse. Il sig. Giuseppe Tonima selli non sa approvare questa spiegazione , e vuole [p. 598 modifica]Jt)8 PARTE TERZA ma di famiglia plebea; se non si voglia che Plinio contradica apertamente a se stesso. Ma tranne questi, non so se di altri Romani si sappia che fosser pittori. Ben molti Greci veggiam nominati da Plinio, che in Roma esercitaron quest’arte; e molti Romani ancora che le più belle pitture da essi trovate nelle città e nelle provincie straniere portar fecero a Roma. Nel che giunsero alcuni a tale avidità, che essendosi trovate nella città di Sparta certe assai belle pitture, per ordine degli edili Murena eVarrone, tagliate per mezzo le quadrella delle pareti che n’erano adorne, e bene adattate in casse di legno, furono trasportate a Roma. Item Lacedaemone, dice Vitruvio (l.2, c. 8), a quibusdam parietibus edam pie turar excisae intersectis lateribus inclusae sunt in ligneis formis, et in comitium ad ornatum aedilitatis Varronis et Murenae fuerunt allatae; il che pure essersi fatto di altre pitture ch’erano sulle mura di un tempio di Cerere, si afferma da Plinio (l. 35, c. 12) sull’autorità di Vairone. IV. L’architettura per ultimo ebbe ella ancor tra’" Romani i suoi coltivatori , e forse per numero e per valore più che le altre due arti. Già abbiam di sopra nominati coloro che de’ precetti di quest’arte scrissero in Roma; i quali ancora è probabile che in essa si esercitassero. che Plinio ci indichi con quelle parole un quadro si congegnato che riguardandolo di fronte, o da qualsivoglia lato, sempre rappresentasse la figura ivi d pinta in un medesimo aspetto (Della Cerografía, Verona, 17S5, p. i4, ec.). lo rimetto a chi sa di latino il decidere se questo possa mai essere il senso delle arrecate parole. [p. 599 modifica]LIBRO TERZO 599 Plinio non ci ha di questa favellato distintamente, come della pittura e della scultura; e più si è trattenuto in descrivere i superbi e regali edificii d’ogni maniera che negli ultimi anni della repubblica e ne’ primi della monarchia eransi innalzati in Roma, che nello svolgere l’origine e i progressi di quest’arte. Nondimeno possiam raccogliere quanto basta ad intendere che questa, come dicemmo , forse più che le altre arti fu dai Romani coltivata felicemente. Noi non veggiamo che alcun pittore o scultore romano sia stato chiamato in Grecia a qualche lavoro; ma il veggiam bene degli architetti. Vitruvio ci narra (proem. l. 7) che Antioco Epifane re della Siria volendo condurre a fine il tempio di Giove Olimpico, che in Atene era stato già da Pisistrato incominciato, fece a tal uopo venir da Roma un architetto nomato Cossuzio. « Anzi Vitruvio si duole che non si fosse trovata memoria alcuna da Cossuzio scritta su questo argomento, e nulla pure si fosse scritto da Caio Muzio, uomo di grandissimo sapere in architettura, il quale avea innalzati i tempii dell Onore e della Virtù presso i Trofei di Mario ». Ariobarzane ancora re della Cappadocia volendo rifabbricare il celebre O leo di Atene, che nel tempo dell’assedio, di cui Silla avea stretta quella città, era stato distrutto, usò di due fratelli architetti romani, cioè di Caio e di Marco Stallio (V. Explication d’une Inscript. sur le rétablissement de f Odeum dAthhies t. 23 Mém. de l’Acad. des Inscr.). Egli è vero che il Winckelmann conghiettura (Hist. de l’Art. t. 2, p. 255, ec.) che nell’operare [p. 600 modifica]6oO IURTE TERZA di questi due principi avesse gran parte il desiderio di adulare e di compiacere a’ Romani; il che certo è probabile. Ma ciò non ostante, se valorosi architetti essi non fossero stati, non pare che prescelti gli avrebbono ad opere così famose, perciocchè a vergogna lor propria sarebbe tornato, se il lavoro non fosse riuscito a quella bellezza e a quella magnificenza che si conveniva (a). Un Valerio di Ostia architetto a1 tempi di Cicerone ci rammenta Plinio (l. 36, c. i5). Ma molti architetti greci ancora furono in Roma. Tale esser dorea quel Ciro che spesse volle si nomina da Cicerone (Ad Att. I. a, ep. 3; Fornii. I 7, ep. 24, ec.) il quale di lui valevasi ad architetto. L’età di Cesare e di Augusto vide la magnificenza de’ privati e de1 pubblici edifica condotta in Roma a quell1 eccesso di grandezza e di pompa a cui 11011 era giunta, nè ghignerà forse mai. Ma la descrizione di essi alla storia del lusso appartiene e non alla storia della letteratura. Non mi tratterrò io dunque a ragionarne distesamente, rimettendo chi voglia saperne alle belle descrizioni che Plinio ci ha lasciate de’ teatri di Scauro e di Curione, degli acquedotti di Quinto Marcio, e di altri portentosi edifica che a questo tempo erano in Roma (l. 36, c. 15, ec.); e porrò fine a questa Parte colf osservare, eh1 ella è comune opinione che f arcliitettura a1 (a) Quanto allo stalo dell’architettura e degli architetti del tempo di Augusto, veggansi anche le Memorie degli Architetti del sig. Milizia (tom. 1 , p. 53, ec., ediz. Bassan. l’jHó). [p. 601 modifica]LIBRO TERZO 6òl tempi ¿‘Augusto giugnesse alla sua perfezione, e che sotto Tiberio cominciasse a dicadere. Ma il Winckelmann,osservatore, se altri mai fu, diligente de’ monumenti antichi, riflette che fino da questo tempo cominciò essa a degenerare; il che egli prova coll’esame di alcuni edificii che di quel tempo medesimo ci son rimasti, ne’ quali il troppo studio di ricercati ornamenti mostra che la vera idea del bello in queste arti già si andava perdendo (Hist. de l’Art.. t. 2, p. 278). Così quel difetto medesimo che cominciò sotto Augusto a introdursi nell’eloquenza, come abbiamo veduto, cominciò pure a introdursi nelle arti di cui parliamo; e come quella colle altre scienze, così queste ancora ne’ secoli susseguenti vennero a stato sempre peggiore, come dal seguito di quest’opera si vedrà chiaramente. Fine del Tomo I.