Vite dei filosofi/Libro Quarto/Annotazioni
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ANNOTAZIONI
LIBRO QUARTO
CAPO I.
Speusippo.
III. Capo scuola incominciando, dalla centottantesima Olimpiade. — Cioè l’anno 357 avanti l’e. v.
IV. Rimase perseverante nei dommi di Platone. — Aristotele distingue spesse fiate la dottrina di Platone da quella dei platonici. Speusippo cominciò, coll’erudizione, a recarvi cose straniere alla filosofia. Ammetteva, secondo lo Stagirita, molte maniere di enti ed un numero assai maggiore di principii di questi enti che non Platone. Seguendo i pitagorici, faceva dell’uno, non il bene in sè, o il bene in generale, ma solo un bene fra gli altri beni. Pare che Speusippo volesse anche attribuire ad una forza animale il reggimento di ogni cosa; ed assai più di Platone si cacciasse per entro alla teoria fantastica dei numeri.
IV. All’ira e alla voluttà era soggetto. — Il lungo amore di Platone per lui è prova di migliori costumi; nè la testimonianza di Dionisio che si reca più innanzi, circa l’avarizia di Speusippo, è di gran peso, se si considera l’inimicizia di costui con Dione, e per conseguenza con Speusippo.
VI. Osservò nelle scienze ciò che aveano di comune. — [testo greco]. Non nelle sole matematiche com’altri volle. E in ciò non fece che, quello che aveva fatto Platone. Speusippo, dice Ritter, restò fedele al principio, che chi vuol dare la definizione di un’idea dee tutto sapere, perchè si propone di indicare tutte le differenze per le quali ciò che bassi a definire, si distingue da ogn’altra cosa. Questo principio, se sia ristretto fra giusti limiti, fa conoscere la connessione delle scienze, giusta il senso di Platone.
Quelle cose che Isocrate appellava arcane. — Queste cose arcane il Casaubono non altro ha sospetto che fossero se non la dottrina de’ ritmi, ossieno numeri oratorii, la cognizione dei quali afferma Cicerone essere un’arte intima, artis intimae. Menagio dice di non bene intendere queste cose che da Isocrate si chiamano [testo greco], credendo per altro che Laerzio, tanto qui come nella vita di Pitagora, le tenesse per arcani dell’arte rettorica, e fosse da leggersi piuttosto: [testo greco].
Trovò modo di fare con minuti legni ben capaci vasi. — [testo greco], ex gracilioribus lignis capacia et in ventres tumentia vascula, [testo greco], propriamente, è sportula, cotinus, calathus, corbello, cofano, cestella, ec.; [testo greco], da [testo greco], tumore, gonfiezza, ampio, ben capace, di giusta mole, ed anche, secondo la sposizione di Suida, facile da trasportarsi, non troppo grande. L’autore dell’articolo Speusippo, nella biografia francese, farebbe Speusippo inventore dell’arte di fabbricare delle picciole botti con assi sottilissime. Sembra, per vero, che qui non si parli di cestelle.
IX. Se appreso io non avessi che Speusippo ec. — Parmi il senso ovvio e degno al certo di Laerzio, senza fantasticare col Rossi che il [testo greco] alluda ai pidocchi di cui altri suppose morto Speusippo. Del resto non è fatica assentire allo stesso Rossi che gli epigrammi del buon Laerzio sum pleraque frigidiora vel, ut quispiam dixerit, facta musis et Apolline nullo — e peggio — Ma è fatica lo assentirgli che il Meibomio e l’Aldobrandino abbiano peggio di lui interpretato l’epigramma.
Racconta Plutarco nella vita di Lisandro — Queste parole: [testo greco] il Rossi, le crede [testo greco], come molt’altre, ch’ei dice di avere scoperte, intruse in quest’opera.
X. Io te ne troverò una per dieci talenti. — Era la dote che per solito davano in Atene i più ricchi, e sommava a più di cinquanta cinque mila delle nostre lire italiane.
XI. Lasciò un’infinità di Commentarj ec. — Delle sue opere nessuna ci è pervenuta; se non che nel lamblico d’Aldo, 1497, va sotto il suo nome un libro di definizioni platoniche.
Delle cose che hanno una trattazione simile. — Pare che Speusippo, conformemente al principio che in ogni cosa, per giugnere alla conoscenza, è mestieri cercar di conoscere le somiglianze e le differenze, componesse quest’opera in cui forse aveva indicato il simile in tutte le cose del mondo che gli erano note. — Questo libro che senza ragione, al dire di Ritter, si attribuisce dal Menagio al medico Speusippo col titolo di [testo greco], citasi spesso da Ateneo, nel settimo libro, dove tratta degli animali aquatici. Dalle parole di Ateneo si raccoglie che Speusippo tentò di determinare la somiglianza delle specie degli animali e delle specie delle piante, e quindi probabilmente di fare un’istoria naturale sistematica. — Nella ricerca della diversità del sapere, Speusippo, secondo Ritter, tentò fors’anco di determinare con maggior precisione, quantunque soltanto in una formola, il modo col quale la scienza può risultare dalla sensazione. Da un passo di Sesto Empirico si rilera ch’ei parla in fatto di una sensazione scientifica, in opposizione alla ragione scientifica, alla quale partecipa anco la sensazione, da poi che ella ti esercita colla ragione.
Aristotele comperò i suoi libri per tre talenti. — Cioè più di sedici mila lire italiane. — La somma non giugne per ancora a quella esorbitantissima pagata dal Marchese di Blanfort pel Decamerone di Venezia, 1471, in f.º, cioè di 2260 lire di steriini pari a 52,000 italiane!
CAPO II.
Senocrate.
IV. Testimoniare senza giuramento. — Privilegio che onora chi lo accorda e chi lo riceve. Ciò, in Inghilterra e in America, si concede anco a’ Quacqueri per la loro specchiata virtù, più che pel divieto della propria setta, che col battesimo rifiutò anche un atto le tante volle dall’altre violato.
V. Disfida a più bere che si fa da que’ di Coo. — [testo greco]. Leggevasi prima [testo greco] ed è emendazione del Ruhnkenio. Vedi l’Huebnero.
X. Tassa dei forestieri. — Il [testo greco] era una specie di testatico che pagavano gli inquilini od abitatori, dai quali gli Ateniesi esigevano dodici dramme — undici lire circa italiane — se maschi, la metà, se femine. Chi non potea pagare vendevasi; ed a questi mercati era apprestato un luogo detto [testo greco].
XI. Fu surrogato a Speusippo e condusse la scuola venticinq’anni — parimente con poco frutto, dice Ritter. Il suo insegnamento filosofico dovette starsi rinchiuso in alcune determinate divisioni, delle quali ben forse potea essere conseguenza la divisione, a lui attribuita, della filosofia, in Logica, Fisica e Morale. Ciò che può tenersi per cosa sua si riduce quasi esclusivamente alle formole matematiche alle quali egli si provò di ridurre la dottrina platonica. Ciò che dimostra, secondo Ritter, che l’esposizione platonica prendeva piede sempre più nell’Academia. — I discepoli di Platone pare che non vedessero chiaramente il modo, col quale il loro maestro aveva distinto il lato matematico dal lato sensibile e dal lato ideale della coscienza. La qual cosa li condusse a chimeriche supposizioni. — Alcuni rigettavano il numero ideale, e non ammettevano che un numero matematico. Altri cercavano di fare scomparire la distinzione fra i numeri matematici e il numero ideale. Altri non volevano che il numero ideale. Pare che Senocrate avesse abbracciata la seconda opinione; e quindi ch’e’ tentasse di dare un’importanza filosofica alle dottrine matematiche, ovvero di cercarvi la conoscenza delle idee. Questa congettura, segue Ritter, è confermata dall’opinione che Senocrate si era formata della relazione della scienza e della sensazione colla essenza delle cose. Egli ammetteva tre maniere di essenza, la sensibile, la razionale e quella che componevi delle due prime e che è l’obbietto dell’opinione. L’essenza conoscibile per mezzo della ragione è per lui al di fuori del cielo e del mondo, è l’esistenza delle idee; l’essenza sensibile è dentro del mondo; finalmente l’essenza mista è il cielo stesso, poichè il cielo è percettibile ai sensi, ma del pari conoscibile alla ragione per mezzo dell’astronomia. — È notevole sembrare che Senocrate non metta diversità tra scienza e intelligenza ([testo greco] e [testo greco]), e ch’egli accordi al senso ([testo greco]) eziandio la verità, non per altro una verità simile a quella che compete al [testo greco], al discorso, scientifico. — Che se gli antichi e Platone consideravano l’astronomia come una scienza matematica, egli è manifesto che uno stesso luogo assegnava Senocrate alle scienze matematiche e alla filosofia. E però dice Teofrasto che nessuno andò più lungi di Senocrate nella derivazione delle cose seguendo la serie dei numeri, e ciò verisimilmente perch’ei credette scoprire nei numeri stessi l’essenza delle cose. Lo che s’accorda col tentativo di ridurre moltissime idee filosofiche ad alcune formole matematiche. L’unità e la qualità sono per lui gli dei che reggono il mondo; ma la diversità dei quali ci dà le otto costellazioni; l’anima è per lui un numero moventesi di per sè stesso; egli paragona il divino al triangolo equilatero, perchè è formato di lati eguali; il mortale al triangolo scaleno, perchè si compone di lati ineguali; e il demoniaco al triangolo isoscele, che ha due lati eguali ed un lato ineguale. Pare che Senocrate non abbia aggiunto alle dottrine platoniche che alcune formole destinate ad introdurre le idee matematiche nella filosofia, ma da questo chiaro si scorge lo sforzo per riunire più strettamente la dottrina di Platone sulle idee alla conoscenza intuitiva. La sua morale, d’altra parte poco originale, mostra lo stesso spirito; poichè egli cercava la felicità come il termine della vita razionale, non solamente nella virtù dell’anima, ma anche nelle forze o facoltà che le sono sommesse, poichè non con altro ajuto che di queste facoltà il corporeo ed i beni esteriori possono essere acquistati. Questo sembra il fondamento della dottrina della razionalità teorica e della razionalità pratica, e la ragione per la quale egli non poteva accordare al sapiente, cioè alla ragione teoretica, tutti i beni. Gli altri maestri, conchiude Ritter, dell’antica Academia, Polemone, Crate e Crantore, pare che affaticati da questi inutili vaneggiamenti, tornassero ad una investigazione più tranquilla, ma senza nulla operare pel progresso della filosofia.
CAPO III.
Polemone.
IV. Principiato avendo a filosofare ec. — Dedito, com’era, particolarmente alla morale, trascurò, al dire di Laerzio, le dialettiche; la qual cosa, osserva Ritter, potrebbe essere un indizio dell’incominciato scadimento nei lavori scientifici dell’Academia. Quando Polemone raccomandava di vivere conformemente alla natura, nello stabilire questo principio come il più elevato, certo e’ non credeva allontanarsi essenzialmente dalla dottrina di Platone, nè tracciare una nuova via di ricerche.
Discorso coll’aceto e il laserpizio. — [testo greco], id est orationem acetatam et laseratam; orationem fucatam et jucundo sapore conditam. Metafora presa dall’aceto e dal laserpizio, dei quali assai usavano per condimento gli antichi. — Menagio. — Il laserpitium di Plinio è una cosa sterna col Silphium di Teofrasto e di Dioscoride, il quale dice che nelle salse e mescolato al sale serviva per dar sapore più aggradevole a’ cibi. Da questa pianta si estrae l’Assa-fetida sì ributtante per noi da chiamarla Sterco-del-diavolo. Eppure gli antichi, come si è veduto, e molti popoli dell’Asia anche al presente la mangiano con piacere e l’hanno per un tornagusto dilicatissimo. Costoro le danno il nome di Mangiare-dei-numi, ed a Suratte, dicesi, pel grande uso che se ne fa vi rimane infetto il circostante aere. Così ne’ gusti come nelle opinioni sono gli uomini concordi! — Vedi Plinio I. XIX, c. 15, ed il Geoffroy.
CAPO IV.
Crate.
I. Amico di Polemone gli successe nella scuola. — Altri fa succedere a Polemone Arcesilao.
CAPO V.
Crantore.
II. Lasciò commentarj in trenta mila versi — [testo greco]. Intende non versi propriamente, ma linee, righe. Versi dicevano anche i latini, e versi gli italiani dicono per righe.
VI. Il suo libro del lutto. — [testo greco], sul dolore, sulla mestizia, ec. Di questo libro, molto lodato da Panezio, e di cui si hanno frammenti nelle Consolazioni di Plutarco, grand’uso fece Cicerone nell’opera ch’ei dettò per consolarsi della morte di Tullia.
Tiensi Crantore pel primo interprete degli scritti di Platone; la qual cosa, dice Ritter, è un sintomo dell’affievolimento della forza produttrice intellettuale, e in pari tempo il principio dell’erudizione in filosofia. Sembra per altro che si facesse qualche sforzo nell’antica Academia per ritornare alla pura dottrina platonica, siccome n’è prova il domma sull’anima di coloro che si chiamano [testo greco]. — Sesto Empirico cita un frammento di un’opera di Crantore, nella quale, ragionando dei beni della vita, dà il primo luogo al coraggio; il secondo alla salute; il terzo alle ricchezze; il quarto alla voluttà.
CAPO VI.
Arcesilao.
II. Costui fu il primo che fondò l’Academia mezzana. — Con Arcesilao comincia la nuova Academia, o seconda, o mezzana, secondo il modo di dividerla di alcuni, i quali annoverano sino a cinque Academie. Varrone e Cicerone non ne distinguono che due, una fondata da Platone, una da Arcesilao; Diogene Laerzio e qualch’altro che tre: quella fondata da Platone, la media instituita da Arcesilao, La nuova da Carneade; Numenio ne distingue cinque e pone a capo delle due ultime Filone ed Antioco. Sesto Empirico ha adottata quest’ultima divisione.
Studiò Arcesilao le dottrine di Menedemo l’eretrio, di Diodoro megarico e di Pirrone; e da questo derivò forse il suo scetticismo e l’arte sua nel confutare i dommi filosofici. Preferì tuttavia Platone ed anche seguitò i più antichi. Socrate, Parmenide ed Eraclito. Nulla di ben accertato puossi dire circa la sua dottrina, la quale fu tenuta per uno scetticismo perfetto avente per formula: ch’e’ non sapeva nulla, neppure ciò che Socrate pretendeva sapere, cioè, che nulla sapeva. Sembra però ch’egli allottasse questa formola per opporla soltanto alle obbiezioni dei dommatici e alle addizioni da essi fatte alla vera dottrina platonica, ch’ei forse avea l’intendimento di rinnovellare, non trovando, al pari di molti altri, principii certi sulla scienza nelle opere di questo filosofia, la cui maniera dubitativa e condizionata gli potea far tenere i principii platonici come congetture Ideali. La qual cosa fece asserire che Arcesilao negava la certezza della conoscenza tanto sensibile che intellettuale. Forse, con Aristotele, egli riguardava come ipotesi senza fondamento la teoria delle idee ed i miti della reminiscenza; facendo osservare l’opposizione esistente fra queste due ipotesi. — Il suo scetticismo aveva, come quello di Pirrone, una tendenza pratica. Egli ammetteva che il sapiente non segue alcuna opinione; e ne conchiudeva che se dovesse mai il sapiente, approvare un’idea, allora seguirebbe del pari una opinione, e che per conseguenza dee il sapiente ritenere il proprio giudizio. Ammetteva dunque una differenza fra il sapiente e lo stolto, la quale non dovendo consistere nel sapere e non sapere, non si potrebbe cercare che nella condotta pratica. Da ciò i molti precetti pratici che a lui si attribuiscono. Biasimava il metodo minuzioso di giudicare, che in materia estetica si forma la moltitudine, entrando in grandi particolari. Dee invece il sapiente esaminare la propria vita, che gli fornisce ampia ed utile materia a riflessione. Teneva, a dir vero, l’indigenza per un male, ma per un male che ci può servire alla pratica della virtù. Esaminò le leggi e vide, al par di Platone, che ove sieno molte ivi stesso crescono frequenti le colpe e i delitti. Egli non considera la scienza morale che come verisimile, e in generale raccomanda di seguire la verisimiglianza nella scelta del bene e nella fuga del male. — La vera differenza adunque tra gli scettici e la nuova Academia, come la formò Arcesilao, sembra, segue Ritter, consistere in questo, che mentre, gli scettici cercavano lo scopo della vita nella fermezza invariabile dell’anima e non ammettevano, anche tra il bene e il male, come si presenta nella vita reale, che una differenza legale e non naturale, gli Academici per converso non volevano rompere i legami della vita in modo così violento, ma ammettevano che il sapiente, senza divenire insensibile per tutto ciò che è del senso, vive come ogn’altro uomo apprezzando, al modo solito, il bene ed il male, salva questa sola differenza, ch’ei punto non credono vivere in un verace sapere. Quindi è che le bizzarrie della vita di Pirrone non s’incontrano in quella di Arcesilao, il quale nella sua vita morale, rispettava il decoro, ed era anzi inchinato al lusso ed ai piaceri concessi dall’opinione comune al suo tempo.
IV. Non solo inclita Pergamo per armi, ec. — Pergamus haud armis, sed equis quoque clara per orbem. — Dicitur a Pisa quam coluere dii. — Huebnero.
Giovinetto avea caratterizzalo Ione. — Characterem stylumque Ionis expressit. — Ione è un dialogo di Platone in cui molto si parla di Omero. Laerzio, dice il Menagio, allude egli a questo dialogo, o, secondo la sentenza di P. Petit, a Ione poeta tragico e lirico? — Ione chio fu pur filosofo e lasciò libri sulle meteore. Così il Kuehnio, cui assente l’Huebnero.
XI. Alcuno non piglierà costui pel tallone? — [testo greco], l’osso, del piede che si congiugne colla gamba. — [testo greco], gli aliossi, cui quali giuocano i fanciulli. Dicevansi astragali anche certi ossi infilzati in una fune, per uso di tormento. — Il Casaubuono intende giuoco di dadi, Borbeck traduce: alcuno non piglierà costui pel collo.
Fuor quando ha l’uovo. — [testo greco], cum partus adfuerit. [testo greco] significa usura e portato, parto.
Han li venti virtù d’ingravidare
Gli augelletti d’avanti che sia il tempo
Da natura prefisso di lor parto.
- Plutarco delle disp. conv. lib. VII, l. trad. dell’Adriani.
XIII. Si recava al banco de’ cambiatori. — [testo greco]. — Dice Is. Casaubono che qui si tocca di un uso nè da lui nè da altri osservato altrove, non ricordandosi di aver letto ne’ greci scrittori che [testo greco], od [testo greco], e [testo greco], che si facevano nelle processioni. Un solenne erudito afferma che appunto [testo greco], e [testo greco] chiamavano i Greci la mostra di vasi d’oro e d’argento che si portano, nelle processioni, ma che[testo greco] e [testo greco] essendo l’argento e l’oro coniato, [testo greco] ed [testo greco] era la mostra delle monete d’oro e d’argento esposte sul banco de’ cambiatori. — Salmazio de’ Trapez. Foenore. — Interpretando il passo a questo modo il senso corre. L’Aldobrandino, l’Huebnero traducono: Argenteas ad pompas prodibat primus. Enr. Stefano: Argenteis in primis vasis praeferebat. Il Borheck volta: alle occasioni delle presentazioni dello argento. — Il traduttor francese colla solita disinvoltura: «Il ètait le premier „à satisfaire aux contributious.“
XIV. Eumene figlio di Filetere. — Filetere fu mutilato da fanciullo; quindi intendi col Rossi figlio adottivo.
A costui solo di tutti i monarchi facea riverenza. — [testo greco]. — Quocirca et huic soli dicabat libros suos. Huebn. — Ad hunc solum libros suos scribebat. Aldobr. — Quocirca et huic soli studebat. F. Ambrog. — Ad ipsum solum solitus litteras dare. Rossi. — Altre correzioni si sono fatte dal Rossi a questo capo che l’Huebnero per la maggior parte seguì.
XX. Accetto agli Ateniesi come nessuno. — Dice Numenio — in Eusebio — che i concittadini di Arcesilao rifiutavano di credere ciò ch’egli non aveva affermato.
CAPO VII.
Bione.
I. Boristenite. — Di Boristene. Città sul fiume dello stesso nome. Il Nieper.
Chi se’ tu? Di qual gente? ec. — Antigono Gonata, presso il quale i nemici di Bione cercavano di screditarlo, lo interrogò per sapere dell’esser suo, ed egli cominciò dal rispondergli: „Ma quando tu hai bisogno di arcieri non t’informi già dell’origine loro; ma sì li fai tirare al bersaglio, e scegli que‛ ’che il colgono; ora l’è d’uopo fare altrettanto cogli amici e non chiedere ad essi donde provengano, ma ciò che e’ sono.“
Si puliva il naso colla manica. — Stessa cosa dice Svetonio del padre di Orazio. È costume dei pizzicagnoli pulirsi le nari col gomito, per avere le mani piene di salamoia e di salsuggine.
Una scritta sulla faccia. — Frontes literati et capillum semirasi et pedes annulati, disse Apuleio; così, e frontem inscriptam, dissero molti fra gli antichi. — Is. Casaub.
III. Non si può coll’amo prendere il cacio molle ec. — „Quod non cepisset praedam felis pullaria, venabatur ille sub philosophiae velamento adolescentem, et cum non caperet quod cupiebat, illum ad philosophiam ineptum pronuntiavit, ut molliculum. [testo greco], inquit Biones imitatus Epictetus 1. 3, c. 6. —“ Kühn.
La gloria madre degli anni. — Forse perchè l’uom glorioso vive molt’anni nella memoria dei posteri? Forse perchè la buona fama mantiene l’animo tranquillo, che non poco torna utile a vivere lungamente secondo il proverbio che: fama bona dicitur impinguare ossa? Mer. Casaubuono da cui è tratta questa nota preferirebbe [testo greco].
Compiacere altrui della propria bellezza ec. — „Mihi legendum videtur [testo greco], hac sententia: Crebro habebat in ore, optabilius esse aetatis florem alteri gratificari, quam alienum decerpere: corpore enim potius quam animo laedi. Quod ex falsa opinione dicit, videlicet, qui hujusmodi agit, non etiam, qui patitur, flagitium patrare.“ — Rossi.
Chi è giovine usa la forza ec. — [testo greco] — [testo greco]. „Huic dicto acumen suum ut constet, [testo greco] mutandum in [testo greco], aut simili mutatione succurrendum: fortitudine juvenes senescere, prudentia senes vìgere.“ — Wyttembachius ad Plut. moral.
V. Rivestì la filosofia di fiorita eloquenza. — Di molte sue opere, particolarmente morali, rimangono alcuni frammenti conservatici da Stobeo, i quali giustificano ciò che afferma Eratostene.
VI. Nelle quistìoni della corda bassa. — L’[testo greco], od [testo greco] è la corda che manda il più basso suono, la [testo greco] quella che manda il più acuto; e siccome i musici di queste disputavano molte cose, Bione per deridere Archita, lo chiama peritissimo nelle quistioni della corda bassa, come a dire, quistione frivola, parodiando il verso 146 del primo dell’Iliade. — Rossi.
X. Indotto a provvedere amuleti. — [testo greco], ciò che si attacca intorno al collo, amuleto, [testo greco], cartuccia con inscrittovi qualche motto: o laminelte di piombo con segni ec. superstizioni non per anco dismesse!
CAPO VIII.
Lacide.
I successori di Arcesilao ne adottarono anche le dottrine; e non è quindi che una differenza apparente quella che indusse gli antichi a far distinzione tra Academia mezzana e nuova. Questa differenza consiste nell’aver Lacide, discepolo di Arcesilao, scelto per luogo ordinario delle sue adunanze scolastiche un giardino del re Attalo Filometore, nell’Academia, chiamato dal nome del filosofo Lacidio; circostanza che sembra aver fatto dare effettivamente alla nuova Academia il suo nome. Per altro nè Lacide, nè i suoi discepoli Telecle ed Evandro, nè il successore di questi Egesino o Egesilao furono rimarcabili.
III. Nel governo della famiglia di pasta assai dolce. — Il [testo greco] si vorrebbe dal Menagio mutato in [testo greco], tenacissimo, facendo di un balordo un avaro. Noi abbiamo seguito la prima lezione cercando di renderla alla meglio. Del resto racconta ciò stesso anche Numenio, ed aggiugne, che vedendo Lacide scemare le provvigioni, senza mai trovare nè suggello rimosso, nè rottura di sorta, tenne, meravigliato, di avere in questo una prova novella delle illusioni ingannatrici alle quali vanno del continuo esposti i nostri sensi. — Il Brucker la dice una storiella inverisimile, inventata dagli stoici per ridersi delle dottrine academiche. — E forse merita egual fede quello che si narra di sontuosissimi funerali da lui fatti ad un’oca, alla quale era affezionato; e che troverebbero un bel riscontro, se veri, in que’ di un moderno cane, celebrati da un amabilissimo sbarbato filosofo.
VI. La sua morte fu di paralisi per soverchio bere. — Al dire di Ateneo era il primo bevitore del suo tempo!
CAPO IX.
Carneade.
Il busto di Carneade che qui si dà in intaglio è tratto dalla galleria farnesiana. — „La sua fisonomia tutta piena di vivezza e d’ingegno mostra i segni di quell’età, per cui Carneade fu posto fra gli uomini che godettero lunga vita.“ Visconti.
Letti i libri degli stoici ec. ec. — „Hic Stoicorum et Chrysippi libris diligentissime perlectis, eis modice ([testo greco]) reluctabatur, adeoque id verecunde ([testo greco]) faciebat, ut etc.“ — Hueb. et Hen. Steph. „Is cum — legisset, adversus ea bene disputavit. Quod et ita ex sententia successit ut etc.“ — Aldobrand. — „Hic — eos magna modestia refutavit. Adeoque id ex sententia faciebat, ut etc.“ Meibom. — Carneade traeva la sua forza
(pagina mancante)
racchiudono il germe della virtù, ma non si affermò. Il suo scetticismo per altro giunse ad inspirargli fino dei dubbi sulla conformità delle idee morali colla natura. N’è prova il suo discorso contro la giustizia. — In questi dubbi sorpassò Arcesilao, il quale ammetteva l’esistenza di un bene e di un male naturale; e si scostò dalla dottrina platonica più che non area fatto l’Academia mezzana. — Circa il pensiero dell’uomo in generale, cercava egli di mostrare che tutti gli anteriori tentativi della filosofia per trovare un criterio della verità erano rimasti senza successo, e che anzi era impossibile trovare un siffatto criterio. — Sembra per altro che seguendo Crisippo, Carneade, meglio che i suoi predecessori, determinasse la differenza nella sensazione e nella rappresentazione tra ciò che appartiene all’oggetto sensibile e rappresentabile, e ciò che appartiene all’oggetto senziente e rappresentante. — Ai dubbi sulla possibilila di conoscere il vero unì Carneade la sua dottrina sulla verisimiglianza. Questa dottrina si fonda tuttavolta nell’impossibilità in che trovasi il sapiente di sempre rattenere il proprio giudizio, poichè altrimenti sarebbe mestieri ch’e’ si lasciasse morire. Carneade non volea nè pure, con Arcesilao e in opposizione agli Stoici, seguitare l’impressione necessaria e cieca, ma si riserbava la scelta ragionevole tra maniere di agire opposte, pretendendo nonostante che questa scelta non riposi affatto su di una vera scienza, ma unicamente su di una verisimilitudine, or più or meno grande. — Scopo, a dir vero, di questa teorica era evidentemente la vita pratica; pure, siccome la vita pratica non ha per nulla bisogno di sì fatta dottrina, chiedere si potrebbe benissimo perchè Carneade non applicò la sua dottrina della verisimilitudine ne’ suoi discorsi pro e contro la giustizia; perchè parlò contro la giustizia, dopo averne parlato in favore, e perchè non fece l’opposto. Pare, dopo ciò almeno, ch’e’ non s’occupasse della bontà morale della vita. Tolto adunque ci fa supporre uno scopo nascosto sotto quello ch’ei confessava. L’arte colla quale svolgeva lunghi discorsi in favore o contro una tesi; la preferenza ch’ei data alla morale in confronto della fisica, perchè più adatta alla trattazione oratoria; la cura in fine ch’ei poneva alla ricerca dei mezzi pei quali un’opinione può essere resa verisimile; tutto questo ce lo presenta come un uomo cui fortemente sta a petto lo sviluppo dell’arte oratoria. Troppo onore si farebbe alla dottrina di questo nuovo academico, se si volesse derivarla da quella di Platone; poichè la sua dottrina sulla verisimilitudine riduce ogni convincimento al testimonio dei sensi, e non si differenzia da quella degli Stoici sulla conoscenza che in ciò, ch’ella non vuole ammettere, che l’evidenza delle impressioni sensibili sia d’una forza incontestabile e conduca ad un verace sapere.“ — Ritter.
III. Ond’è che per vacare alle lettere. — Osserva E. Q. Visconti che questo passo non fu compreso dal Fabro; ed aggiugne che Carneade, per rendere più pronte le operazioni dell’animo, non isdegnava neppure i mezzi che trarre si possono dalla medicina, e che quindi disponevasi alle dispute cogli Stoici con bibite purgative, usando al dire di Plinio dell’elleboro, al dire di Varrone dell’aceto. — Una fantesca, sua concubina, era costretta, tanto immergevasi ne’ proprii studii, a farlo mangiare. Costei, come si vedrà più innanzi, sollecitata da Metrodoro, destò la gelosia del filosofo, il quale parve sospendere per allora ogni disputa sulla probabilità e sulla incomprensibilità. — Veggasi Bayle.
V. Nelle quistioni invincibile. — L’eloquenza tornò utilissima a questo filosofo per combattere il dommatismo; e, più che tutto, sull’eloquenza fondasi la celebrità di Carneade. Dessa era tale, che, al dire di Cicerone, niuna cosa e’ sostenne mai senza provarla, nè mai ne impugnò alcuna senza distruggerla affatto.
VII. Sembra che il pensiero della morte lo occupasse. — „La sua filosofia lo aveva condotto al godimento di tutti gli agi della vita, ed avea distrutto in lui quella specie di forza assai comune presso gli antichi, che li traeva a prevenire i mali della vecchiaja con una morte volontaria.“ — Anonimo.
L’anno quarto della censessantesima seconda Olimpiade. — Cioè l’anno 129 avanti l’e. v. Essendo morto di 85 anni, la sua nascita viene a cadere l’anno a 213 avanti l’e. v.
Il nostro Diogene in questa rassodia, tra molte cose, omette l’ambasciata, ch’ebbe a sostenere Carneade, l’anno varroniano 599, Ol. 155. Avendo gli Ateniesi saccheggiato Oropo, furono dal senato romano condannati a pagare la somma di cinquecento talenti. Per ottenere qualche sollievo spedirono a Roma Diogene lo stoico, Crittolao il peripatetico, e il nostro Carneade. Fu tale la forza delle costoro parole, che parecchi senatori, secondo racconta Eliano, dovettero affermare, che gli Ateniesi non avevano spediti ambasciatori a persuadere, ma a strappare ad essi ciò che volevano. I tre filosofi, per dare anche al popolo romano un saggio del loro sapere, si posero a recitare arringhe, e a tenere filosofici convegni. Arrossirono quei rozzi conquistatori della loro nobile barbarie, e trassero a calca, massime in gioventù, al novello spettacolo. Carneade primeggiò tra suoi colleghi, e rese attoniti gli spettatori per la grazia, la robustezza, ed una divina quadam celeritate ingenii et dicendi copia. Fu allora ch’ei recitò le due celebrate arringhe, una in favore ed una contro la giustizia: virtù che i Romani tuttora onoravano. Il dubbio, presso gli antichi, avea qualche cosa di solenne e di spaventoso. Al vecchio Catone parve pericolosa la presenza di uomini che persuadevano ciò che volevano, e li fece licenziare. Un senato consulto ordinò loro di abbandonar Roma immediatamente, per tema ebe ne fosse corrotta la gioventù. — Il ragionamento di Carneade contro la giustizia ci fu conservato da Lattanzio; gli argomenti in favore si sono smarriti. — Merita di essere ricordalo questo suo detto: L’arte di cavalcare essere la sola cosa che i principi apprendano perfettamente. Gli altri maestri adularli; lasciarsi vincere que’ che lottano con loro; ma un cavallo rovesciare per terra tutti i maldestri senza distinzione di grado. E un altro che onora questo filosofo per una morale che non teme riscontro: Se si sapesse in segreto che un nemico dovesse venire ad assistersi sull’erba in cui fosse nascosto un aspide, bisognerebbe avvertirnelo, quando pure nessuno potesse sapere che si avesse taciuto. — Biograf. e piò distesamente Bayle.
CAPO X.
Clitomaco.
II. Sia oltre quattrocento libri. — Borek traduce quaranta. Per altro Cicerone, parlando degli scolari di Carneade dice: Declarat multitudo librorum ingenii non minus in hoc, quam in Carneade eloquentiae.
Clitomaco successore di Carneade sostenne e difese nei molti suoi scritti l’incertezza academica. Le sue quistioni sulla divinità, contro gli stoici, lo fecero tenere per ateo. Credette che l’amore della vita fosse un inganno, e preferendo, come miglior cosa, la morte, si uccise di propria mano, dando a divedere che ei non era avverso alle probabilità. Cicerone dice che aveva uno spirito sagacissimo come tutti i Cartaginesi. — Morì l’anno 100, avanti l’e. v.
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