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Compendio de le istorie del Regno di Napoli/Libro IV

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Libro IV

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LIBRO QUARTO

del Compendio de le istorie del regno di Napoli

a lo illustrissimo principe Ercule inclito Duca di Ferrara.

In questo libro quarto si tratta primieramente de’ fatti di Enrico VI imperatore, e del tradimento di Marquardo ne l’occupare il regno di Napoli, e de’ fatti di Gualtiero da Brenna e presa e morte di quello, e de la passata di Ottone IV imperatore e morte di quello; seguitando i fatti di Federico nel reame, e del passaggio di oltra mare, e rebellione del figliuolo, e de la guerra che ebbe con la Chiesa, e rotta de ’armata dei genovesi e de’ pisani, e come esso Federico assediò Parma, come fu rotto e come mori. Seguita poi i fatti di Manfredi suo figliuolo e la passata di Corrado nel regno e i fatti di esso e di Manfredi, e come passasse il duca di Angiò nel reame e rompesse Manfredi e pigliasse il regno, seguitando dappoi la passata di Corradino nel reame e come fusse rotto e morto.


Avemo di sopra narrato come Enrico VI ha dato fine a la casa illustrissima de’ normanni; così dará principio a questo quarto libro, avendo avuto da lui principio il regno di casa di Svevia nel reame di Napoli: del quale avendo qualche cosa detto di sopra secondo fu opportuno per demonstrare il fine del regno de la casa di Normandia, ora ancor di lui brevissimamente replicaremo quanto bisogna per ripigliar l’ordine de l’istoria nostra.

Enrico adunque, primogenito di Federico imperatore primo di questo nome cognominato Barbarossa, vivente il padre e per sua ordinazione, fu coronato re de’ Romani in Aquisgrana; dappoi, sommerso infortunatamente Federico suo padre nel [p. 112 modifica] fiume chiamato Fretto in Armenia minore, come ne le Istorie orientali si legge, fu dichiarato imperatore ne l’anno di Cristo 1190, essendo pontefice romano Celestino III, e da detto pontefice fu chiamato al regno di Sicilia contra normanni, e datoli per donna Constanza monaca come di sopra dicemmo, e con lei fu coronato in Roma ne l’anno 1191. E partito da Roma pose il campo a Napoli e mandò Constanza in Sicilia, ma sforzato a lasciar l’impresa di Napoli per la peste, revocata Constanza con ordine che lo seguitasse in Alemagna, parti d’Italia ne l’anno 1193 lasciando in Romagna un suo barone chiamato Marquardo di Annenveiler, il quale fece duca di Ravenna e di Romagna e marchese di Ancona, e per il governo di Terra di Lavoro un altro chiamato Diepoldo, il quale lasciò ne la rocca di Arce, e un Corrado duca di Spoleto e un Federico Lancia per le cose di Calabria e Filippo duca di Svevia suo fratello, al quale détte il ducato di Toscana con lettere de la contessa Matilda.

Constanza, che gravida era rimasta, seguitando Enrico suo marito per andare in Alemagna, essendo ne la Marca di Ancona, ebbe commissione dal marito che non andasse piú oltra, ma che tornasse ne li confini del reame per certi movimenti che aveva inteso esser suscitati in quello; il perché essendo vicina al parto e trovandosi ne la cittá di Iesi, partorí un figliuolo maschio ne l’anno 1194, il quale dal nome de l’avo fu chiamato P’ederico. E perché essendo attempata e passando cinquanta anni, niuno quasi credea che la fusse veramente gravida; et Enrico primo di tutti ne era stato sospetto, imperocché subito che lui intese lei esser gravida, meravigliandosi di questo, volse averne certezza da lo abbate Ioachino, il quale allora fioriva e aveva fama di spirito profetico, e l’abbate lo certificò lei esser gravida di lui e li predisse che partorirla un figliuolo maschio e li successi tutti de la vita sua, e di lui predisse che aveva entro pochi anni a morire nel territorio di Melazzo, che è vicino a Messina, e li interpretò alcune profezie de la Sibilla Eritrea e di Merlino; per questa cagione/ e per levar via la suspizione di ciascuno, fece Constanza, come [p. 113 modifica] prudentissima donna, ponere un pavaglione ne la piazza pubblica di Iesi e in esso si condusse a l’ora del suo parto e volse che fusse lecito a tutti li baroni e nobili, maschi e femine, andar li a vederla partorire, a fine che ciascuno intendesse quello non esser parto suppositizio. Levata poi dal parto, se ne andò a Gaeta, lasciando a la cura e nutricazione di Federico la duchessa di Spoleto. In questo mezzo Riccardo re d’Inghilterra, il quale andò nel secondo gran passaggio in Terra Santa, come è detto, partito di Soria per private discordie le quali ebbe con Filippo re di Francia e non senza suo gran carico, entrato in mare per tornare in Inghilterra, ebbe per divino iudicio, si come si estima, un grandissimo naufragio, del quale a pena campato con pochi, occultamente e incognito tornava per Alemagna a la sua patria. Leopoldo duca d’Austria, presentendo questo, 10 fece prigione e presentono ad Enrico imperatore, il quale circa un anno e mezzo lo tenne in carcere, in modo che se si volse liberare fu forza che pagasse cento mila marche di argento; e secondo scrivono l’Arcivescovo di Fiorenza e il Dandolo, furono ducento mila marche; quello si sia, concordano 11 scrittori che grandissima somma di denari fu quella che diede Riccardo ad Enrico per suo riscatto. De li quali mandando esso Enrico una gran parte a li suoi capitani in Italia, acquistorono assai paese, e Diepoldo specialmente assediò e prese per forza Salerno, donde ne trasse grandissima preda e arricchinne l’esercito.

L’anno sequente poi 1195 tornò Enrico in Italia con li denari inglesi e fece coronare Federico da li principi re di Alemagna, et entrò nel reame e senza contradizione in un subito ottenne tutto il regno di Napoli e di Sicilia, assediando in quella Sibilla madre di Guglielmo VI normanno, la quale per accordo ebbe in le mani e mandò in Alemagna, come di sopra è detto. Onde fatto re in tutto e avuta vera possessione de l’una e l’altra Sicilia, estinta la progenie de’ normanni e rapite le ricchezze di quelli regni, ritornò a Messina, ove intesa certa nuova rebellione che si ordinava e quella aspramente vendicata [p. 114 modifica] in Sicilia, scrisse in Alemagna che fussino cavati li occhi a li ostaggi e a quelli nobili e baroni di Sicilia che aveva mandati lá prigioni e a li fratelli del vescovo di Salerno e che Guglielmo fusse castrato, come di sopra scrivemo. Finalmente infermato in Messina ne l’anno 1197 in presenza di Constanza sua donna morire fu da lei onoratamente seppellito in Palermo: e fu qualche fama e suspizione che da Constanza fusse attossicato per aver cosi mal trattato Guglielmo VI suo nepote e li altri suoi parenti i quali avea prigioni, benché di tale infamia anche li scrittori alemanni ne escusino Constanza. Cosi in fine mori Enrico, avendo sette anni dappo’ il padre imperato et essendo stato circa quattro in pacifica possessione del regno di Napoli e di Sicilia, lasciando per testamento il regno a Federico pupillo suo figliuolo e Filippo suo fratello tutore, raccomandando molto al pontefice detto suo figliuolo con la Constanza sua madre e Filippo suo zio e tutti li altri suoi baroni e capitani predetti.

Fu Enrico tenuto prudente di ingegno e molto eloquente, di mediocre statura, ma assai decoro di aspetto, debile e tenue di corpo, ma di animo molto aspro e veemente, e però a li inimici suoi sempre fu terribile: fu dedito estremamente a l’esercizio de la caccia e de l’uccellare con falconi e uccelli di rapina, il qual modo di uccellare è fama che Federico suo padre fusse il primo autore che in Italia lo portasse. Morto Enrico VI, successe a lui nel regno di Napoli e di Sicilia Federico suo figliuolo predetto, cognominato secondo di questo nome, sotto la cura e governo di Constanza sua madre: la quale andata a Palermo, poi che ebbe finite le esequie del marito, mandò a tórre detto Federico, il quale appresso la duchessa di Spoleto faceva nutricare, e fattolo venire a Palermo, fanciullo non ancor di tre anni, lo fece coronare re de l’una e l’altra Sicilia e con lui e in nome di esso cominciò il regno a governare. Ma non mancorno in questa infanzia e sotto tal governo le tribolazioni e movimenti nel regno; imperocché non essendo ancor finito l’anno de la morte di Enrico, Marquardo predetto, marchese di Ancona, cacciato di quella da [p. 115 modifica] Innocenzo III pontefice, pretendendosi bailo e tutore di Federico e del regno, sotto quel titolo entrò nel reame cercando veramente farsene signore : e molti popoli di Puglia con fraude e con parole, molti per forza, tirò al voler suo. Il che sentendo Constanza, il diffidò per inimico e ribelle, comandando a tutti li sudditi che lo avessino per inimico. E in questa turbazione accadette che Constanza infermata passò di questa vita e morendo raccomandò Federico, che tre anni aveva, ad Innocenzo pontefice e alla Sede apostolica. Innocenzo volentieri ne prese la cura e mandò prima in Sicilia un messer Gerardo diacono cardinale di Santo Adriano e dappo’ lui un messer Gregorio da Galgano prete cardinale di Santa Maria in Portico suoi legati, i quali in sua vece governassino e amministrassino il regno di Federico, la qual cosa con ottima fede fu eseguita. Tentò Marquardo di corrompere il papa e indurlo a li suoi favori, pregandolo lo lasciasse occupare Palermo, e offeriva donarli venti mila once d’oro e farli omaggio; e acciò che il papa, facendolo, potesse pretendere escusazione onesta per avere giá tolto la tutela e la protezione del re e del regno, si offeriva dimonstrare per testimoni che Federico non era nato di Enrico e di Constanza, ma che era stato parto suppositizio. Non li riusci la impresa, però che il prudente pontefice, reietta in tutto la sua iniquitá, lo fece cacciare per forza d’arme del reame, né mai di lui piú cosa alcuna si intese.

Filippo duca di Sve.via e di Toscana, zio di Federico e tutore, non poteva assistere in questo mezzo al suo governo, occupato da maggior cure: imperocché essendo in discordia per la morte di Enrico predetto suo fratello li elettori de l’imperio, parte elesseno Ottone detto quarto duca di Sassonia, favorito dal papa e dal re d’Inghilterra, parte elesseno detto Filippo favorito dal re di Francia. Filippo dopo molte battaglie e avversitá fu morto a tradimento da Ottone di Vitilsbach conte palatino del Reno in una camera; e però non possette vacare a le cose del reame e del nepote. In questo mezzo adunque che ’l regno sotto il governo del locotenente e legato apostolico si stava e che Marquardo era cacciato del [p. 116 modifica] regno e Filippo occupato in Alemagna, una nuova perturbazione degna di notizia accadette nel regno di Napoli de la natura e modo che appresso scriveremo. Sibilla, donna che fu di Tancredo normanno e madre di Guglielmo VI castrato, la quale dimostrammo di sopra esser stata mandata in Alemagna col detto figliuolo, morto Enrico VI, mentre stavano le cose del regno e de l’imperio ne le turbolenze predette, si parti con destro modo di Alemagna e con le sue figliuole venne a Roma al pontefice, dimostrandoli il regno di Sicilia di ragione appartenere a la sua prima figliuola per successione di Tancredo e di Guglielmo, e dimandògli aiuto a maritarla e restituirla nel regno. Il papa allegando la sua indisposizione e impotenza a tanta impresa, la confortò ad andare in Francia, offerendoli poi tutto quello potesse. Andò Sibilla al re Filippo di Francia e li espose la cagione de la sua andata e il consiglio del pontefice. Il re adunati tutti li baroni del regno a Mellun sopra la Senna, fece consiglio circa la proposta di Sibilla, offerendo conveniente aiuto a chi volesse pigliare la impresa. Era tra li altri baroni un valoroso cavaliero di Campagna, uomo di gran lignaggio nobile e di gran cuore, ma molto povero, chiamato Gualtiero da Brenna (che è terra nel contado di Barro sopra il fiume de l’Auba) figliuolo del conte Gerardo da Brenna e fratello di Giovanni da Brenna, che fu poi re di Hierusalem, del quale piú innanzi forse accaderá far menzione. Questo conte Gualtiero infine accettò l’impresa, e sposata la maggior figliuola di Sibilla, ebbe dal re di Francia venti mila libre di parisini per aiuto. Passò dappoi in Italia Gualtiero con sessanta cavalieri e circa quaranta altri uomini e serventi a cavallo, e presentatosi al papa lo richiese di favore e aiuto a lo acquisto del regno secondo la promessa fatta a la suocera. Dimandandoli il papa con che gente andava, e inteso da lui de li cento cavalli solamente, li disse questa esser molto poca somma, avendo a andare contra tre mila cavalieri e molta gente. Rispose Gualtiero confidarsi piú in Dio e ne la giustizia, che nel numero de li uomini. Allora il papa, il quale non aria piú [p. 117 modifica] voluto todeschi nel regno, li disse, che poiché in Dio tanto credeva, liberamente andasse, perché Dio lo aiutaria: e allora mandò messi e lettere a tutti li principi del regno, con comminazione di escomunica, che dovessino accettare il conte Gualtiero per signore. Appresso li messi papali entrato arditamente Gualtiero nel regno, senza contrasto insino a Capua pervenne, avendo per via acquistato alcune cittá e castelle che volontieri lo ricevetteno. Altri che non Io volseno, ristretti insieme al numero di tre mila uomini, lo assediorno in Capua: Gualtiero, che piú che ducento cavalieri e cento altri cavalli non aveva per aver spartito li suoi per le terre acquistate, uscito animosamente fuora sopra li inimici, li ruppe e molti ne occise e molti ne prese de’ nobili, tra li quali furono li conti di Caserta, di Sora, di Celano e di Aquino e de la Cerra e di San Severino e molti altri potenti in quel regno.

Per questa prima vittoria molti baroni del regno si composeno con lui, e per meglio fondare le cose sue Gualtiero maritò una sua nepote chiamata Margarita a Berardo figliuolo del conte Piero da Celano; passò poi ne la Puglia piana e ottenne molte terre per accordo, e non di meno adunati insieme alcuni suoi inimici, appresso Barletta virilmente li ruppe: in modo che la maggior parte di loro si accordorono con esso. Tra li quali fu il conte Giovanni da Tricarico, al quale maritò una sorella de la moglie, e l’altra sorella chiamata Constanza diede a Pietro Ziano duce di Venezia; al quale essendo morta la prima donna sterile, desideroso di figliuoli e giá grave d’anni, la tolse et ébbene due figliuoli, un maschio e una femina. Avendo adunque giá conquistato la maggior parte de la Puglia e di Terra di Lavoro, cresciuto in reputazione, deliberò andare a la disfazione e ruina del conte Diepoldo alemanno, il quale di sopra dicemmo esser stato lasciato a la Rocca d’Arce e al governo di Terra di Lavoro, e che al primo fatto d’arme di Capua s’era ritrovato contra di lui.

Diepoldo non si sentendo forte a la campagna contra Gualtiero, fornite alcune sue terre al meglio possette, si ridusse ne [p. 118 modifica] castello di Sarno e li si fece forte, avendo con sé il conte Gotfredo, fratello di sua madre, di chi molto si fidava. Gualtiero, inteso che Diepoldo s’era fortificato in Sarno, li andò con l’esercito e strettamente lo assediò standoli intorno piú tempo; per la qual cosa vedendo Diepoldo esser mal condotto e la potenza di Gualtiero ogni ora aumentarsi, deliberò, come uomo disperato, provar sua ventura. 11 perché saltato fuora del castello a l’improvviso una mattina in su l’aurora con cento cavalli e altri tanti a piedi, con grande impeto assaltò il campo de li inimici, e inviatosi al pavaglione di Gualtiero, lo trovò che ancora in letto giaceva nudo, onde levatosi al rumore Gualtiero, volendosi armare e giá posto le braccia ne le maniche de la panziera per vestirsela e ridottosela in capo, li fu tagliato le corde del pavaglione, che li cadde addosso: onde inviluppato da la panziera non ancor vestita, e da la caduta del pavaglione, ferito di piú colpi, rimase prigione. L’esercito suo, che morto lo stimavano, si mise in fuga, il perché a suo bell’agio Diepoldo scoperto il pavaglione, con alcuni altri presi lo condusse in Sarno e con buona guardia in una camera lo pose, dandoli in compagnia un suo cameriere che con lui era stato preso, chiamato Ranaldo da Lesena: poi fatto venire medici da Salerno, comandò che con ogni diligenza fusse curato.

Standosi Gualtiero in questa forma in prigione, andò un giorno Diepoldo a visitarlo e dappoi diversi ragionamenti li disse di volerlo cavare di prigione e oltra questo restituirli il regno, ma voleva che lui li confermasse li stati che ’l teneva e che gliene faria omaggio e saria suo feudatario. Gualtiero che piú cuore e piú orgoglio aveva che in quel tempo non bisognava, li rispose che non era al mondo bene od onor si grande, che lui volesse avere per mano di si vile uomo, come esso era.

Diepoldo forte adirato per simili parole, ritrovandosi in mano un picciolo coltellino da temperar penne, con lo quale si tagliava le unghie, con quello se li buttò al viso con amaro volto e parole, dicendo: — Malvagio uomo e cattivo che voi [p. 119 modifica] séte, questa vostra rabbia e superbia vi fará ancora danno e vergogna: voi séte posto in mia prigione, e ancora vi basta l’animo di farmi oltraggio! Ma sappiate che in vostra mal’ora l’arete fatto. — Gualtiero per questo in tanta furia e rabbia pervenne, che stracciandosi li panni che intorno avea e le bende e pezze con le quali le piaghe e ferite erano ligatc, le proprie intestine ancora che per le ferite uscivano a se medesimo squarzò, dicendo non voler piú vivere in tal miseria; e ostinato al tutto di non volere piú esser medicato, né mangiare né bevere, al quarto giorno finalmente lasciò la vita. Questo fine ebbe il conte Gualtiero da Brenna perdendo per sua pazza e insolente natura il regno, il corpo e l’anima, né altri di sé lasciò che la mogliere e un figliuolo, il quale poi nel contado di Brenna successe. Onde Diepoldo dopo questo caso rimase quasi come signore e amministratore del regno di Napoli, finché Federico fatto grande venne ne lo stato a la paterna successione.

Non stette dappo’ il conte Gualtiero molti anni il regno di Napoli in riposo; imperocché finito lo scisma e la controversia che ne l’imperio era stata per la morte di Filippo sopradetto, essendo rimasto Ottone solo ne l’imperio e venuto a Roma, fu coronato da Innocenzo III ne l’anno 1209. E avendo promesso molte cose al pontefice e tra le altre restituire tutte le terre tenea de la Chiesa e non molestare lo stato ecclesiastico, nondimeno, come perfido, il di sequente la sua coronazione fece tutto il contrario di quello avea promesso; però che entrò ne le terre de la Chiesa e le ridusse a sua obedienza e contra la volontá del papa diede Romagna e il podere de la contessa Matilda a Salinguerra da Ferrara, e la Marca d’Ancona ad Azzo marchese da Este, e il ducato di Spoleto a un suo capitano chiamato Bertoldo. Poi entrò con l’esercito nel reame di Napoli e prese molte altre terre e tra le altre Capua, ove stette uno inverno per stanza, e ottenne molte terre di Puglia fino in Calabria: per il che Innocenzo dopo molte ammonizioni lo escomunicò e depose, e assolvette ciascuno da la obedienza sua. Per la qual cosa il Lantgravio di Turingia e il duca di [p. 120 modifica] Sassonia e il re di Boemia e li arcivescovi di Magonza e di Treveri, che erano con lui, lo lasciorno di fatto e con le lor genti tornorno oltra monti: onde vedendosi destituto, li fu forza ancora lui levarsi da la impresa e tornare in Alemagna. In quel mezzo che Ottone stava ne l’escomunica e contumacia predetta, li principi di Alemagna che a Federico in cuna avevano giurato fedeltá, col consiglio del re di Francia elesseno imperatore Federico giovine di venti anni, di ottima indole e che ne l’aspetto dimostrava aver a riuscire uomo virtuosissimo e valoroso; e li mandorno solenni ambasciatori, i quali per via avessino ad operar col papa che confermasse tale elezione e appresso questo confortassino Federico a passare in Alemagna a recuperare l’imperio contra Ottone deposto. Avea Federico per donna una sorella del re di Castiglia chiamata Constanza, la quale insieme con altri suoi baroni, come teneri e gelosi de la salute e vita di Federico, feceno gran prova per ritenerlo che non andasse in Alemagna, secondo che li ambasciatori procuravano; ma in fine Federico tutto generoso, avendo giá un picciolo figliuoletto di lei chiamato Enrico, lasciando lui e la madre in Sicilia, virilmente prese il cammino per terra, e consigliatosi a Roma con il papa di quello avea a fare, andò a Genova ove fu sommamente onorato e da genovesi poi accompagnato sicuro insino a Pavia, divertendo da Milano come inimico a la casa di Svevia. Da Pavia sino a Trento fu da pavesi e cremonesi fedelmente accompagnato, donde poi per monti e vie difficili e aspre, per essere occupato il paese da inimici, passò in Alemagna sopra il Reno racquistando tutte le terre de l’imperio; e col favore ancora di Filippo re di Francia vinse e debellò Ottone, in modo stringendolo che li fu forza ridursi in Sassonia sua patria, ove senza gloria mori.

Composte le cose di Alemagna, tornò in Italia Federico e da Onorio III allora pontefice con incredibile pompa, plauso e favore fu coronato imperatore il di di santa Cecilia ne l’anno 1220: per la quale coronazione fece molti eccellenti doni, e tra li altri donò Fundi col suo contado, che per ragion [p. 121 modifica] propria e in perpetuo avesse ad essere de la Chiesa, e confermò la promissione, la quale aveva fatta in Aquisgrana a l’altra sua coronazione, de l’andare al soccorso di Terra Santa. Poi mandò in Alemagna Enrico suo primogenito, il qual fece coronare re d’Alemagna in Aquisgrana essendo ancora di etá di otto anni: al quale poi circa tre anni fece dare per donna Agnese figliuola di Leopoldo duca d’Austria. Fatte queste cose entrò nel reame di Napoli, e perché li conti Riccardo e Tomaso di Anagnia, fratelli giá di Innocenzo III, che tenevano alcune terre nel regno, erano stati seguaci di Ottone e occultamente con lui avevano macchinato di tórli il reame edam contra la mente e forse saputa di Innocenzo, deliberò castigarli: onde subito prese Sora e la Rocca d’Arce cacciandone il conte Riccardo, il quale lungamente tenne in ferri a Capua, poi Io mandò in Sicilia. E per forza prese e spianò da’ fondamenti Celano e caccionne il conte Tomaso, il quale si ridusse a Roma e il papa lo ricettò; de la qual cosa Federico piú volte si dolse; e li abitanti di Celano tutti mandò ad abitare in Sicilia. Cavalcò poi per il regno racquistando tutte le terre di Puglia e di Calabria e riducendole a vera obedienza, e composte le cose del regno di Napoli, passò in Sicilia con intenzione di levarla in tutto di mano a’ saracini: onde con potente esercito andando contra Mirabeth saracino, lo debellò in tutto e fecelo impiccar per la gola, et estirpò tutte le congregazioni de’ saracini e cacciolli per le montagne e per li lochi deserti, e alcuna parte ne disperse per il reame n Italia. Dappoi ordinate le cose di Sicilia, in Puglia se ne tornò.

Stando nel reame di Napoli Federico, qual cagione si fusse non è bene esplicata da li scrittori, Onorio pontefice escomunicò e depose Federico. Biondo e Platina ne le loro Istorie alcuna particolaritá non allegano, ma generalmente dicono che per flagizi e perfidie e rebellioni Onorio lo fece; il vescovo di Augsburg ne la Historia svevica dice che per frivole e minime cagioni lievemente mosso lo escomunicò: cosi dicono ancora li altri scrittori alemanni, che in quel tempo si trovorno. [p. 122 modifica] Aperta cagione in somma non ho ritrovato di questa censura: questo è certo, che Federico parendoli a torto esser mal trattato dal pontefice, da quel tempo poi poca amicizia e poca fede ebbe ne la corte romana. Onde provvedendo al futuro e vedendo la nazione dei regnicoli sempre disposta a novitá e rebellioni, fece congregare tutte le reliquie de’ saracini, li quali lui aspramente perseguitando aveva dispersi per Sicilia e per il monte Gargano e altre montagne e lochi deserti del reame, e li consegnò Luceria, terra disfatta in Puglia, comandandoli che la rifacessino e che l’abitassino, e cosi fu fatto: e tanto numero di saracini li convenne che venti mila uomini da portar armi se li condusseno, li quali Federico poi in tutte le sue guerre sempre operò a li suoi bisogni. E da allora in qua Luceria si è poi chiamata Nocera de’ saracini, mutato lo L in N, a differenza de l’altra Nocera, che è in Terra di Lavoro appresso il Sarno, detta Nocera de’ pagani. Damiata in Egitto e Hierusalem in Terra Santa in questo mezzo erano state recuperate dal soldano e li cristiani di Soria oppressi, si come ne le Istorie orientali si legge; e per questo Giovanni conte di Brenna, re di Hierusalem, venne a Roma per sussidio ne l’anno 1222 e tanto operò con il pontefice, che ridusse a grazia Federico per averlo in aiuto a l’impresa di Soria, essendo allora Federico potentissimo e di gran fama per tutto il mondo: e cosi fu fatto. Per maggior vincolo ancora di quello si avea a fare, Giovanni diede per donna a Federico una sua unica figliuola chiamata Iolante, e furono fatte le nozze in Roma, e per dote li diede il titolo e ogni ragione che lui aveva nel regno di Hierusalem; dal qual principio poi, secondo alcuni, tutti li re napolitani si sono re di Hierusalem intitolati, benché un’altra origine di tal titolo piú innanzi riferiremo. Promise Federico passare in Terra Santa, e benché per infermitá e altre ragioni indugiasse piú di un anno in Sicilia il suo passaggio, nondimeno l’anno 1227 fatto un grandissimo apparato e una grossa armata, movendo da Brundusio si mise a la via di levante. Dappoi, qual cagione si fusse (perché in questo le istorie variano) [p. 123 modifica] Federico, lasciando andare tutto l’esercito, con quelli che a lui parse de li suoi, non essendo andato molto innanzi, se ne tornò nel reame in Puglia, dando però speranza a li altri che erano giunti in Soria e a quelli che tuttavia da diverse parti andavano, che presto tornaria a lor favore, giustificando in molti modi la sua tornata.

Era giá morto Onorio prima che Federico da Brundusio partisse, e dopo lui creato pontefice Gregorio IX nel 1227 di marzo. Questo incontinente avea ammonito Federico che passasse in Soria secondo la promessa, e nondimeno, per quanto scrive Riccobaldo, tentò con ogni via fare parentado con Federico, ma Federico mai possette indurre li figliuoli a consentirli: la qual cosa pare che fusse la prima origine de le discordie tra Gregorio e Federico, e forse fu una de le cagioni per le quali Federico, dubitando del stato, facesse la detta tornata occulta e presta nel reame. La quale intesa, Gregorio subito confermò e aggravò le censure di Onorio contra Federico escomunicandolo e privandolo del reame; e in quel tempo mori Iolante sua donna, lasciando di lei un figlioletto chiamato Corrado. L’anno sequente 1228 Federico per l’osservanza de la sua promessa, senza altramente farlo intendere a Gregorio, poi che ebbe ordinate le sue cose del regno e le necessarie per l’andata, partendo d’Italia con potente esercito e arrivato in Cipro e di li in Iudea, in modo condusse le cose con l’autoritá e con la potenza, che si accordò e fece tregua col soldano, il quale li restituí Hierusalem con tutto il regno ierosolimitano, eccetto alcune poche castelle; onde a mezza quaresima l’anno 1229 fu coronato in Hierusalem e fece riedificare la cittá di Joppa, oggi detta il Zaffo. Il che fatto, mandò lettere di letizia e ambasciatori per tutto il ponente a notificare la recuperazione e composizioni di Terra Santa e specialmente mandò al papa pregandolo, che poi che aveva eseguito la promessa e mandatola ad effetto, volesse assolverlo e riceverlo a grazia. Gregorio, a cui forse la troppa prosperitá di Federico non piaceva, non volse farlo, allegando che l’era d’accordo col [p. 124 modifica] soldano per utilitá sua propria e non per beneficio de’ cristiani, e che ne le condizioni de la pace ovvero tregua avea lasciato di patto il Tempio al soldano, acciò che li saracini potessino adorare in esso Maumeth; il perché non solo non volse assolverlo, ma congregò di Lombardia e di Romagna un grosso esercito, il quale si chiamava la milizia di Cristo, de la quale era capo Tomaso predetto conte di Celano e Pandolfo Savello suo cubiculario, e ordinò che Giovanni re di Hierusalem, il quale era tornato in quei di di Francia per passare in Soria, andasse con l’altre genti, e tutti entrassino nel reame di Napoli e lo ricuperassino per la Chiesa. Pandolfo prese il castel de l’Isola ne l’entrar del reame e Giovanni per opera di uno abbate ebbe la torre di Monte Cassino; e cosi entrorno nel reame e presono e accordorno terre assai, intanto che tutto quello era tra terra di Roma e Capua, con essa Capua, racquistorno a la Chiesa con somma letizia del papa. A l’altro esercito del conte di Celano, Ranaldo alemanno, il quale Federico aveva lasciato al governo del regno, e Anseimo di Iustino suo marescalco si opposeno ne la Marca di Ancona a Macerata e a la Ripa Transona e non lo lasciorno passare.

Intendendo queste cose Federico e parendoli immeritamente riceverle, lasciato al governo di Hierusalem e di Iudea il suo siniscalco, partendo con due galee solamente, con somma celeritá tornò in Italia, e arrivato a Brundusio al fine di maggio 1229, stette a riposarsi a Barletta tre settimane, ove li venne incontra Corrado Guiscardo duca di Spoleto, e messisi insieme ambidui cacciorno Giovanni che era a campo a Caiazza; e avendo giá mandato in Alemagna per Corrado suo figliuolo e per Leopoldo duca d’Austria, con moltitudine grande di gente vennero in Puglia e ogni cosa in quindici di racquistorno, eccetto Gaeta e la rocca di Sant’Agata e quella di Sora e quella di San Benedetto, la quale ebbe poco dappoi. E non solo questo, ma seguitando la vittoria e la vendetta contra il papa, insieme con le genti alemanne e con li saracini, che tolse da Luceria, prese [p. 125 modifica] Benevento e le terre circostanti insino a Roma e il Patrimonio, il ducato di Spoleto e la Marca d’Ancona. Mandò nondimeno poi ambasciatori al papa l’arcivescovo di Messina e il maestro de li cavalieri alemanni di Prussia, li quali trattorno l’assoluzione e la pace di Federico col papa: la quale fu fatta e Federico ad Anagnia a li piedi suoi si condusse e fu assoluto da l’escomunica e riposto in grazia, e desinò ad una mensa col papa. Le quali cose furono fatte ne li anni 1230 e 1231.

Ne l’anno poi 1232 avendo Federico per prima pronunziata la corte a Ravenna e convocato li Enrico suo figliuolo e tutti li principi di Alemagna e di Italia per concordar le cose de la Lombardia, e con esse ancora quelle de l’Imperio e de la Chiesa, passando per Pesaro, ove fu incontrato da alcuni prelati di Alemagna, venne a Ravenna del mese di novembre con grandissima comitiva e magnificenza. E tra le altre cose menò con sé molti animali insueti in Italia, elefanti, dromedari, cameli, pantere, leoni, leopardi, girifalchi e falconi bianchi e allocchi barbati, e molte altre cose degne di ammirazione e di spettacolo. Ma essendo stato tutto P inverno in Ravenna senza alcun frutto di concordia per la rebellione de’ milanesi e occulti trattati de li ecclesiastici, non ci essendo venuto il pontefice, secondo la intenzione li fu data, parti da Ravenna e passando per la nobile e famosa cittá di Comacchio (ché cosi la chiama uno istorico) e per Capo di Goro, Loreo e Chiozza, pervenne a Venezia ove fu eccessivamente onorato, e di li per le lagune si condusse in Aquilegia. Ove trovato Enrico suo figliuolo e li duchi di Austria e di Sassonia e tutti li principi di Alemagna che incontra li venivano, essendo giá mossi per il convento ovvero corte indetta a Ravenna, e fatto in Aquilegia corte solenne nel 1233, tornò per mare nel reame di Napoli: e passò in Sicilia e tutta la circondò, castigando molti sediziosi e ribelli, e massimamente messinesi, facendone gran strage. Poi ne l’anno 1234 si ridusse in Italia in Principato e di li, dappoi alcune pratiche, a Riete, ove ebbe molti colloqui e trattati con il papa circa [p. 126 modifica] le cose di oltramare, affermando di fare impresa in Soria, finita che fusse la tregua fatta col soldano; e tornò nel reame. Avendo inteso in questo mezzo Federico che Enrico suo figliuolo re di Alemagna si era occultamente accordato con lombardi contra di lui, partendo ne l’anno 1235 e venendo per la via de la Marca con un legato apostolico e molti ambasciatori, come fu ad Arimino tutti li licenziò, e montato in galea se ne andò in Friuli e di li in Alemagna, ove ottenne gran cose; e infine con l’aiuto del pontefice e sue lettere, le quali impetrò, a li principi di Alemagna, fece pigliare Enrico e mandollo in prigione in Puglia in una terra chiamata San Felice in Basilicata, e poi mori a Cosenza. E nel medesimo anno prese la terza mogliere, sorella del re d’Inghilterra chiamata Isabella, per dispensazione apostolica, essendoli parente, la quale in Ravenna li partorí un figliuolo chiamato Giordano. Poi per la via di Verona l’anno 1236 passò Federico in Lombardia e fece gran fatti acquistando molte terre e domando ribelli. E per amicizia e grazia di Salinguerra, uomo potentissimo in quella terra, ebbe Ferrara a sua devozione e molto si valse di essa, imperocché per Ferrara passorno tutti li eserciti i quali a l’eccidio de’ milanesi lui fece venire di Sicilia, del reame e di Romagna; e ancora dappoi la espulsione e morte di Salinguerra, molto adoperò quelli ferraresi (che fu buon numero) i quali come amici e seguaci di Salinguerra furono espulsi con lui e al Finale e a Modena e a Ravenna si ridusseno e sempre al stipendio di Federico militorno, i quali ne le sue epistole molto sempre commenda.

Nel mese di novembre poi, l’anno 1237, Federico diede quella gran rotta a’ milanesi in un loco chiamato la Cortenova, ove essendo adunati li milanesi con tutti li suoi seguaci lombardi, come bresciani, piacentini e altri, e il legato apostolico, fece un grandissimo fatto d’arme, nel quale con la persona propria fece gran prove e ruppe la lega lombarda e prese il carroccio de’ milanesi e con esso il podestá di Milano che era capitano di quella impresa, il quale si chiamava Piero [p. 127 modifica] Tiepolo patrizio, veneziano figliuolo di Iacopo Tiepolo allora duce di Venezia, e mandollo in prigione in Puglia. E avuto grandissima vittoria, entrò in Cremona in specie di trionfante, menando con sé il carroccio, sopra il quale era legato il podestá per un braccio alto ad un legno e con il laccio al collo, e le bandiere lombarde prese roversate, con li prigioni che seguitavano: et era il carroccio menato da uno elefante, sopra il castello del quale aptamente fatto di legname stavano li trombetti con le bandiere imperiali levate, che in segno di vittoria precedevano, e Federico con l’esercito seguitava. Fu tanta questa vittoria, che in una epistola, la qual trovo scritta in quel tempo per avviso di quella battaglia, sono scritte queste parole: Nec occisis sufficiunt sepulturae, nec Cremonae palatici multitudinem capiunt captivorum ; le quali parole in lingua vulgare suonavano che a seppellir li morti le sepolture non bastavano e li palazzi di Cremona non erano capaci de la moltitudine de’ prigioni. Esso Federico nondimeno in una epistola, la quale scrive al collegio de’ cardinali in letizia di questa vittoria, di dieci mila uomini solamente tra morti e presi significa.

Per piú chiara notizia è da sapere che il carroccio che allora si usava in Italia era un carro molto grande, menato da molte para di bovi, concio a gradi intorno in forma di tribunale e di pulpito, molto ben lavorato e coperto e carico di ornamenti, sopra il quale si portavano li stendardi e le bandiere del popolo, di chi era il carroccio, e de le comunitá che allora in lega si trovavano. Et era il carroccio ne li eserciti come il pretorio e il tribunal comune ove si riduceano li soldati come a la corte e capo de l’esercito, e ove tutti li magistrati e tutta la forza e la miglior parte del campo stavano a la guardia; e allora veramente si tenea rotto e sconfitto il campo quando il carroccio si perdeva. Questo si legge che usorno massimamente milanesi, bolognesi, parmesani e cremonesi, fatto per segno di unitá e acciò che men pronti fussino al fuggire, vedendo che non erano il capo de l’esercito e le bandiere facili a muovere e salvare per fuga, per la [p. 128 modifica] grandezza de lo edificio. Questo adunque fu il carroccio, che da Federico come trionfante fu menato in Cremona.

L’anno sequente Gregorio pontefice impaziente de la potenza e grandezza di Federico in Italia, non ostante che da la parte di Federico ogni emendazione umilmente si offerisse di quello che ragionevolmente potesse essere imputato, come per molte sue epistole a li principi cristiani e al collegio dei cardinali si vede, prima trattò e concluse pace tra veneziani e genovesi, allora per le cose marittime inimici, poi fece lega con veneziani, con patto che a comune spesa loro e sua facessino un’armata di venticinque galee a danno del reame di Napoli per ridurlo al dominio de la Chiesa. Poi la domenica de l’olivo pronunciò Federico escomunicato; il che intendendo Federico, poi che ebbe composto le cose di Lombardia se ne venne a Pisa, l’anno 1239. E l’anno sequente i veneziani mandomo le venticinque galee in Puglia, le quali diedeno la caccia a dodici galee di Federico, e preseno Termole, Campomarino e Rodi, e Vestie e Peschicie, mettendole a fuoco e sacco, e per forza preseno una nave grossa di Federico, ove erano mille uomini, la quale per fortuna si era ridotta sotto il Monte Sant’Angelo nel golfo di Siponto; e allora ad una torre di Trani sopra la marina fu impiccato Piero Tiepolo veneziano predetto podestá di Milano, si che l’armata veneziana il possette vedere.

Trovo che in questo medesimo anno, mentre che Federico per Toscana passava al soccorso del regno, occupato ancora circa Roma, come appresso diremo, Gregorio da Montelongo legato apostolico con un grossissimo esercito in nome del pontefice stette in assedio intorno a Ferrara cinque mesi: ove oltra li ecclesiastici ebbe con sé li eserciti di tutte queste comunitá, Milano, Venezia, Brescia, Piacenza, Mantua con tutti li loro capitani e podestá, e li fu il duce di Venezia, Azzo marchese da Este, il conte di San Bonifacio, Alberico da Romano, Paolo Traversaro da Ravenna con tutte le loro forze. E infine non essendo chi la soccorresse ne l’anno 1240 fu trattato l’accordo, per il quale Salinguerra, che per l’imperio [p. 129 modifica] governava la terra, sotto salvocondotto venne fuora di essa a colloquio col legato per opera e prodizione di uno da Ferrara chiamato Ugo di Ramberti; e venuto, non ostante la fede data e l’onor de la chierica, fu preso e mandato a Venezia, ove in fine per malinconia mori in prigione vecchio di ottant’anni e fu sepolto a San Nicolò del Lio, ove ancora il monumento con la iscrizione si vede. E Ferrara fu data in governo ad Azzo marchese da Este, e podestá de la terra fu fatto Iacopo, ovvero (secondo alcuni altri) Stefano Badoero patrizio veneziano: e allora ebbe la origine il felice e santo governo e signoria de la inclita e vetustissima casa da Este in Ferrara.

Tornando a l’istoria, Federico pieno d’ira partendo di Toscana per tornare nel regno, venne a Viterbo con grandissimo furore contra i romani. 11 pontefice spaventato, dappoi molte prediche e processioni facendo tórre la croce e dando indulgenze plenarie a chi andava contra Federico, portò per Roma le teste di san Piero e di san Paolo commovendo ed irritando il popolo a l’impresa. E infine venuti a le mani molti de la parte del papa innanzi a le porte di Roma, Federico li fece grandissimi danni e molta occisione, usando sevizia assai contra quelli de la crociata e che contra lui avevano preso la croce: imperocché a molti di essi facea dare quattro ferite in forma di croce, a molti fender la testa in croce in quattro parti, a li preti facea tagliare la codiga de la chierica in croce, e molte cose di questa natura fece con gran mestizia e dolore del pontefice. Poi passò in Puglia, e fermatosi a Foggia e li adunata grandissima somma di denari di tutto il regno di Sicilia e di Italia, venne a Luceria, di donde mandò a mettere a sacco e bruciare e buttare le mura a terra di Benevento, di Monte Cassino e di Sora, che li erano state contrarie; e nel medesimo tempo, essendo sparsi per le montagne de l’Abruzzo tra Amiterno e Furcone, terre antiche disfatte, li popoli di esse, comandò che raccolti tutti insieme edificassino una terra in un loco opportuno a le difensioni del regno da quella banda, chiamato Aquisa, e mutandoli il nome volse che per onore [p. 130 modifica] de l’imperio fusse chiamato Aquila, si come lui ne le sue epistole apertamente comanda. Cosi fu edificata l’Aquila, la quale in poco tempo fece grandissimo augumento e oggi è reputata potentissima terra nel regno. Fatto questo, venne a Capua Federico e di li partendosi passò ne la Marca d’Ancona e saccheggiò Ascoli e per la via diritta se ne venne a Ravenna con intenzione di subiugare tutta la Romagna; e al fine d’agosto l’anno 1240 con grossissimo esercito pose campo a Faenza, la quale in quel tempo era grossa cittá di giro di cinque miglia e molto potente in Romagna e ben difesa, essendone podestá un Michele Morosino patrizio veneziano. Durò l’assedio con somma ostinazione sette mesi, tutto l’inverno, die furono acque e nevi eccessive, ma li fece intorno case e alloggiamenti e ponti, tanto che l’esercito come in un’altra cittá posava a coperto; e infine l’ebbe per accordo. Ma una cosa degna di memoria fece in questo assedio Federico, riferita dal beato Antonino arcivescovo fiorentino ne le sue Croniche , la quale non mi pare sia da pretermettere. Avea consumati per le gran spese occorse tutti li suoi denari e gioie e argenti Federico, e volendo trovare rimedio alla indigenza nella quale l’esercito si trovava, fece formare una moneta di corame, la quale aveva da un lato la sua effigie, da l’altro l’aquila imperiale, e poseli per decreto il valore di un augustano d’oro che allora valeva un fiorino e un quarto, e comandò per tutto che quella moneta di corame a quel prezzo da tutti, venditori e compratori, in quella guerra si spendesse, promettendo per pubblico editto che finita la guerra qualunque si ritrovasse avere di quelle monete e a la camera fiscale le presentasse, li faria commutare e restituire per ciascuna di esse un augustano d’oro. Tutto fu inviolabilmente osservato: manifesto esempio che non la natura ma la estimazione de li uomini e la legge, con la consuetudine e opinione, fanno il valore e il prezzo a li metalli segnati.

In questo mezzo Gregorio pontefice chiamò concilio universale a Roma contra Federico, e avendo mandato in Francia a convocare li prelati occidentali per questo effetto, tre legati, [p. 131 modifica] cioè messer lacobo cardinale prenestino legato in Francia, Oddo cardinale di San Nicolò in carcere Tulliano legato in Inghilterra e Gregorio da Montelongo legato a Genova, feciono la loro commissione; et essendo per ritorno a Nizza di Provenza né potendo sicuramente venire per terra a Roma per le vie occupate da li eserciti di Federico, il papa fece che genovesi con quaranta tra navi e galee, essendo capitano di esse messer Guglielmo di Briachi, li andorno a levare per condurli a Roma. Inteso questo Federico mandò a Pisa alcune sue galee, e capitano di esse Enzio re di Sardegna suo figliuolo, comandando a’ pisani che ancor loro armassino e investendo l’armata de’ genovesi facessino ogni prova di pigliare tutti quelli prelati. Feciono i pisani l’armata e col re di Sardegna e messer Ugolino lor capitano con quaranta galee ben in punto uscirono Cuora, e facendoseli incontra tra l’isola del Giglio e l’isola di Montecristo, che sono isole tra Porto pisano e Corsica, la investano il di di Santa Croce terzo di maggio 1241. E benché li prelati avessino molto pregato messer Guglielmo che si tirasse in alto e scampasse senza fare fatto d’arme, nondimeno lui furibondo non volendo per vergogna cedere a l’animositá de’ pisani, non volse obedirli; onde fatta una crudele e sanguinosa battaglia, infine i genovesi furono superati e vinti e tre lor galee con tutti li uomini et armamenti sommerse, e ventidue ne furono prese e in esse li tre legati con quasi tutti li altri prelati oltramontani e latini che vi erano. Li due cardinali prigioni furono mandati a Melfi, li altri prelati spartiti per le prigioni del reame; soli li francesi a istanza del re di Francia furono rilasciati.

Né mi pare da omettere qui li due festivi versi, i quali scrisse Federico al re di Sardegna rispondendo a la sua domanda di quello avesse a fare poi che avesse presi li prelati; i quali versi sono da Giovanni Andrea sommo iurista nostro ne li suoi libri rescritti: Omnes praelati papa mandatite vocati et tres Legati veniant huc usque ligati. [p. 132 modifica] Li quali versi posti in rima vulgare, si come in latino ancora son scritti in rima, dicono in questo modo: Tutti i prelati — che dal papa son chiamati e li tre suoi legati — a me vengan qui legati.

La iattura de li ecclesiastici in fine fu grande; però che oltra li prelati fatti prigioni fu guadagnata una grandissima preda, e trovate tutte le scritture e lettere e macchinazioni contra Federico, le quali molto giustificavano la causa sua. Mandò il papa a Federico un priore di san Domenico per impetrare la liberazione de’ prigioni; rispose Federico che non voleva farlo, non essendo cosa da uomo savio lo esaudire l’inimico, e per fin che il papa perseguitaria lui temporalmente, esso ancora temporalmente non cessaria mai perseguitar lui e li suoi: e cosi vacuo ne rimandò il priore. Poi composte le cose di Romagna, voltatosi a la via de la Marca accordò Pesaro e assediò Fano e miselo a saccomanno; andando poi nel ducato accordò Todi e saccheggiò Sangemini e Narni e andò a Riete, dove ebbe nuova che Tibure se li era data, ove andò con tutto l’esercito e di li passò nel reame. Vedendo tanta ruina il papa l’agosto sequente questa vittoria, vinto da li anni e da l’affanno, passò di questa vita.

Morto Gregorio IX, in suo loco fu creato Celestino IV, che fu milanese e visse in papato diciotto giorni. Vacò la Sede apostolica ventun mesi prima che l’altro pontefice fusse eletto, nel qual tempo essendo giá tornato nel reame Federico, venne con potente esercito a Roma contra li romani ribelli per la via de li acquedotti, facendo gran danni in fine in su le porte; ma mosso da le preghiere de’ cardinali, i quali dicevano non poter fare legittima elezione fin che lui stava armato intorno a Roma e finché li dui cardinali, che erano a Melfi in prigione, non erano liberati, scrisse subito che fussino liberati con tutti li altri prigioni, e lui se ne tornò pacifico nel reame. 11 Collegio che era in Roma, inteso che li dui cardinali venivano, tutti li andorno incontra insino ad Anagnia, e li [p. 133 modifica] fallo il conclave insieme del mese di giugno del 1243, elesseno messer Sinibaldo del Fiesco genovese, prete cardinale di San Lorenzo in Lucina, grandissimo iurista e lo chiamorno Innocenzo IV. 11 quale in cardinalato era amicissimo di Federico; il perché subito li corseno piú messi a regata per nunciarli la letizia di tale elezione; ma lui solo, essendo tutti li altri suoi allegri, si dolse, e prognosticò che avea perduto un buon amico cardinale, il quale fatto papa li saria inimico: come fu poi. Perché avendoli Federico mandato li suoi dui primi uomini, giudici de la corte, ambasciatori, cioè messer Taddeo da Sessa e messer Piero da le Vigne, credea tutto il mondo che la pace universale de l’imperio e del sacerdozio allora dovesse seguire; ma Innocenzo occultamente mandò un messer Raniero cardinale con gente d’arme e tolse Viterbo, il quale si tenea per l’imperatore. Il perché Federico venne con l’esercito nel Patrimonio contra Viterbo e trattato certo accordo per alcuni cardinali, lasciò Viterbo e forni Montefiascone e di li andò ad Aquapendente; e stando li mandò l’imperatore di Constantinopoli Balduino, che allora era con seco, e il conte di Tolosa detto di sant’Egidio e li due giudici predetti de la sua corte a Roma a trattar la pace col papa. Quello che in secreto trattassino non trovo scritto: questo si sa, che la settimana santa il conte di Tolosa e li due giudici col mandato autentico di Federico, che fu letto in capella, giurorno che Federico staria in ogni cosa a l’obedienza del pontefice; onde ne la predicazione pubblica Federico fu pronunziato principe cattolico, e la fama andò per tutto Federico esser d’accordo col papa. Onde fece aprire tutti li passi per quelli che volevano andare a Roma; ma pare che essendo la settimana santa e li di di penitenza e di Pasqua fussino fatti quelli atti demonstrativi di pace e di concordia, ma che nondimeno restassino molte cose a concludersi. Per la qual cosa li predetti tre ambasciatori molte volte andorno poi a Roma e tornorno per fornire quello avevano cominciato de la pace; et essendo persuasi che finché il papa stesse in Roma mai concordia seguirla, fu operato che ’l papa venisse a Civita [p. 134 modifica] Castellana e l’imperatore in campo nel territorio d’essa. Stando in questo modo li dui principi e andando ogni di messi da una corte a l’altra, un di il papa se n’andò occultamente a Sutri menando con sé li ambasciatori genovesi, i quali erano venuti a farli reverenza a Civita Castellana e ordinò che le loro galee che erano a Ostia, con le quali erano venuti, fussino menate a Civitavecchia; e tacitamente la notte de la vigilia di san Piero 1244, accompagnato da sette cardinali e altri vescovi e prelati, e deposti li panni clericali, armati con silenzio si partirno, e giunti a Civitavecchia e li montati ne le predette galee, a la volta di Genova se n’andorno, lasciando Federico deluso. Il quale, veduti questi modi del papa, forni tutte le terre del Patrimonio e le terre intorno a Roma, le quali lui tenea, e a Pisa se ne venne e mandò Piero da le Vigne a confirmare le cose di Parma per li molti e gran parenti che li avea dentro Innocenzo pontefice. Dappoi confirmate le cose di Toscana, montando sopra l’armata de’ pisani, se n’andò nel regno di Napoli.

Innocenzo condottosi da Genova a Lione in Francia, indisse il concilio universale e ogni di ne le predicazioni pubbliche chiamava ad alta voce Federico che comparisse a sua defensione al concilio. Federico, fatti li tre di di Pasqua in Capua, l’anno 1245 parti dal reame e venne a Trani nel ducato e di li mandò a dare il guasto a Viterbo; poi venne ad Ameria e Aquapendente e Siena e Pisa e di li per Lunisiana a Pontremoli, Parma e Bressello, e li passato il Po per il ponte, andò a Casalmaggiore e di li a Verona. Ma prima che partisse da Parma mandò il patriarca di Antiochia, che nuovamente era venuto di Soria, e l’arcivescovo di Palermo e messer Taddeo da Sessa suo giudice de la corte e dui altri dottori cremonesi al concilio per trattar la concordia tra il sacerdozio e l’imperio, e da l’altro canto ordinò ad Enzio re di Sardegna suo figliuolo e a Federico principe di Antiochia pur suo figliuolo, che con l’esercito andassino a dare il guasto a Piacenza. In Verona tenne solenne corte, ove fu Corrado re di Alemagna suo figliuolo e li principi alemanni e Balduino [p. 135 modifica] imperatore constantinopolitano, il quale chiamato al concilio, pel reame e per la Marca venne a Verona a parlare a Federico e da lui fu licenziato et esortato a dar favore a la concordia appresso al pontefice. Mosse poi verso Cremona l’imperatore con intenzione di transferirsi ancor lui personalmente a Lione, e in Cremona fece cavaliere Federico suo figliuolo predetto e di sua mano li cinse la spada, poi con onorevole compagnia movendosi per Lione, si condusse insino a Torino. In quel mezzo li oratori di Federico appresso al pontefice (che properava a la sentenza) instavano che si aspettasse la persona e presenza de l’imperatore, e non possetteno ottenere; anzi il pontefice avendo giá proposto ne l’animo quello volea fare, per provvedere al pericolo de’ suoi, scrisse in secreto a tutti li suoi amici e parenti, i quali molti e nobili avea in Parma, che se bene dovessino uscir nudi, si levassino incontinente con tutto il lor meglio di Parma. La qual cosa come intese esser fatta, senza piú differire fulminò la sentenza de la deposizione contra Federico senza udire o ammettere umiliazione ovvero offerta alcuna che li suoi mandatari facessino; e in quell’anno partirno da Parma e da la devozione de l’imperio Gerardo da Correggio e li suoi figliuoli e li altri di casa Correggense e messer Bernardo de’ Rossi, nobile parmesano.

Veduta la ostinazione e furia del pontefice Federico, e che il disegno suo del comparire a Lione non succedeva, congregò tutta la milizia imperiale del Piemonte e fece molte correrie e danni a’ milanesi e tornò a Lodi, ove fece cavare un occhio per uno a sessanta balestrieri genovesi che furono fatti prigioni nel guasto di Milano, poi passò in Toscana l’anno 1246. Era allora Fiorenza divisa in parti e la cittá in arme: onde per componere le cose loro, una parte e l’altra li venne incontra e li diede la terra e pieno dominio di essa; per la qual cosa il conte Pandolfo, che era capitano in Toscana per l’imperio, entrò dentro la cittá con tutto l’esercito e insieme con messer Taddeo da Sessa, che era allora tornato da Lione, ordinò la terra e fecene podestá Federico figliuolo de Firn[p. 136 modifica] peratore, il quale e da la cittá e da tutto il contado tolse il giuramento di fedeltá, e stato un pezzo a piacere per il contado, lasciando in suo loco un altro podestá genovese si parti, lasciando Fiorenza nel dominio de l’imperio.

Federico imperatore in questo mezzo si stava a piacere con falconi a Grosseto in Maremma di Siena con intenzione di riposarsi alquanto e ricrearsi in quel loco, quando li fu scoperto un trattato di alcuni baroni del regno contra la persona e stato suo. Capi del trattato erano Pandolfo da Fasanella e Iacobo da Morra, compagni ne la prodizione erano Tebaldo Francesco e Guglielmo da San Severino, Riccardo e Roberto da Fasanella, Gotfredo da Morra e Gisulfo da Mannia, e aveano con loro indotto un Andrea Cigala capitano molto amato da Federico. Et era posto l’ordine di ammazzarlo; finalmente scoperta la cosa per avviso del conte di Caserta, il quale li mandò un suo messo secreto chiamato Giovanni da Presenzano, Pandolfo e Iacobo che erano appresso l’imperatore se ne fuggirono da la corte, li altri tutti con loro seguaci occuporono due castelli in Principato, Scala e Capaccio, e in quelli si ferono forti. Li servitori, amici e soldati di Federico, che si trovorno in quel paese, subito si strinseno insieme con gran sforzo a la persecuzione de li traditori e in pochi di ottenneno Scala: Capaccio, li stetteno dal principio di primavera sino al luglio e finalmente lo vinseno per forza, e fu saccheggiato e bruciato e li abitanti tutti grandi e piccioli mandati per il filo de le spade. Li proditori ridotti ne la rocca furono presi a man salva e de la pena, la quale secondo le leggi civili si dá a li parricidi che il padre o la madre occideno, furono puniti: imperocché cuciti in sacchi di cuoio e con ciascun di loro postovi dentro un cane, una scimia, un gallo e una vipera, furono gettati in mare, acciò che privati de l’uso di tutti li elementi, fussino ancor vivendo da quelli animali insieme inimici e per fame rabbiosi, lacerati e consunti. Federico in quel mezzo nel reame si ridusse per componere le cose per la novitá di questo caso turbate; et oltra Capaccio, Altavilla ancora fu distrutta e quanti [p. 137 modifica] si trovorno in quarto e quinto grado attinenti a li traditori, a tutti furono cavati li occhi e poi furono bruciati, in modo che quasi tutto il reame di tal vendetta senti.

Avea Innocenzo, poi che ebbe data la sentenza de la deposizione di Federico, fatto eleggere imperatore in suo loco il Lantgravio di Turingia, ma Corrado per forza d’arme lo tenne che mai possette entrare in Alemagna; anzi, morto in breve tempo, Corrado entrò in possessione di certi suoi beni di valuta di cento mila marche d’argento. E avendo li elettori in loco del Lantgravio per commissione del papa eletto Guglielmo conte di Olanda, ancor lui in breve spazio mori, si che niuno innanzi o poi Federico ebbe grazia d’imperare. In questo mezzo estirpati in tutto li traditori, Federico usci fuora a la campagna con un potentissimo esercito e comandò che ognuno fusse in punto per tornare in Lombardia e domar li ribelli; però che aveva inteso che il papa voleva venire a Genova e a Milano e col nuovo eletto imperatore recuperare Lombardia e Romagna, ove li ecclesiastici faceano fama che l’era in modo riserrato nel reame, che piú non ne poteva uscire. Venuto adunque in campo e congregati tutti li suoi capitani e baroni e legati de le comunitá, fece un parlamento ovvero dieta, ne la quale denunziò la sua andata in Lombardia e costitui locotenente nel reame Enrico picciolo suo figliuolo, il quale aveva avuto da la sorella del re di Inghilterra; e li diede un gran numero di baroni al suo consiglio che l’avessino a governare. E Federico suo nipote, figliuolo che fu giá del primogenito suo Enrico che mori in prigione, lo fece capitano sopra le genti d’arme dandoli mille uomini d’arme e mille balestrieri a cavallo e comandandoli che procedesse nel fatto de le guerre secondo il consiglio de li baroni, i quali lasciava al consiglio e governo del regno, e Federico suo figliuolo, principe di Antiochia, constimi capitano di Toscana e di Maremma insino al Ducato e la Marca e Romagna esclusivamente, e dichiarò Enzio re di Sardegna generai legato di tutta Italia, come era prima, e Riccardo conte di Civita di Chieti, pur suo figliuolo, creò capitano [p. 138 modifica] generale ne la Marca, nel Ducato e in Romagna, deputando a tutti certo numero di gente d’arme; poi fece che tutti giurorno fedeltá e di bene esercitare li suoi offici, comandando a tutti li sudditi che li prestassino plenaria obedienza. Ordinate le cose in questa forma, disciolse la dieta e per la via che altre volte aveva fatto componendo le cose de le terre che aveano bisogno di riformazione, a Siena e Pisa e poi in ultimo a Cremona pervenne, e ivi si fermò.

Fermato in Cremona il suo proposito Federico di transferirsi personalmente a Lione per concordarsi col papa, fece una mirabil comitiva di uomini togati, letterati e militari tutti eccellenti, in tanto numero, che mai di alcuno imperatore si legge né antico né moderno facesse il simile; e con questa mosse da Cremona l’anno 1247 e andò a Torino, ove tenuta corte solenne e fatta una bellissima dieta, mandò onorati ambasciatori al re di Francia facendoli intendere la sua andata a Lione per impetrar pace e concordia dal pontefice. E mise a la via de’ monti la camera e marescalcia sua. La quale giá due giornate era camminata innanzi, quando ebbe avviso che li fuorusciti di Parma con li altri ribelli de l’imperio, bresciani e piacentini, col legato apostolico erano entrati in Parma del mese di giugno, e avevano occupata la cittá e morto Enrico Testa, che in quella era podestá de l’imperio. Intesa questa novella Federico, conoscendola opera papale, mosso da indignazione e furore revocò l’andata di Lione e con tutte le legazioni et esercito e compagnia che avea con sé ritornò a Parma, intorno la quale con un esercito di sessanta mila persone si pose in assedio; e per poterli star sicuro li edificò ad un breve tratto a l’incontro un’altra cittá di legname e atterrati, la quale chiamò per nome Vittoria e li dedicò una chiesa sotto titolo di Santo Vittore, come patrono di essa, e feceli battere una moneta, la quale chiamò vittorini. Fu la lunghezza di questa cittá 800 canne e la larghezza 600, et era la canna di nove braccia: e aveva otto porte e le fosse larghe e profonde d’intorno, ne le quali mise l’acqua che prima a Parma correva, facendoli in essa [p. 139 modifica] abitazioni e corte e piazze e botteghe e tutte l’altre cose a forma di una cittá di molti anni.

Stando ne la cittá di Vittoria a l’assedio di Parma, Federico due novelle ebbe vittoriose: la prima, che il conte Roberto da Castiglione vicario imperiale ne la Marca, che stava a Macerata, aveva rotto ad Osimo l’esercito ecclesiastico, del quale era capo un Marcellino vescovo di Arezzo, e aveva preso e posto in ferri detto Marcellino e fatto gran numero di prigioni e morto circa quattro mila uomini e guadagnato molte bandiere de le cittá ribelli che tenevano con esso, e massime di anconitani, e tra quelle la bandiera che mandò a donare Emanuele imperatore constantinopolitano a li anconitani, quando li sottrasse da la obedienza di Federico Barbarossa; la seconda novella fu che l’anno 1248 del mese di gennaro guelfi e ghibellini di Fiorenza si levorono in arme tra loro e una de le parti avea posto fuoco ne le case de l’altra, talmente che mille case erano bruciate. Li ghibellini chiamorno al loro aiuto Federico principe di Antiochia, il quale essendo governatore di Toscana, due miglia lontano da la terra si trovava et entrato dentro corse la terra per l’imperatore suo padre; li guelfi impauriti, lasciate lor robe, mogliere e figlioli, si ridusseno a Bologna e non volendo tornare a giurare fedeltá furono banditi e il loro avere a la Camera imperiale confiscato e minatoli le case: Fiorenza al dominio imperiale rimase. Ma non fu lunga la letizia di tali novelle, però che non ben forniti ancora dui anni de l’assedio, essendo stato alcun di gravato d’infermitá Federico, poi ch’ebbe riassunto alquanto le forze, uscito con circa cinquanta cavalli di Vittoria, andò per ricreazione ad uccellare a falconi l’ultimo di di febbraio del detto anno 1248; il resto de l’esercito, tra per l’assenza de l’imperatore, tra per troppa vigoria poco estimando li inimici, ancor lui vagabondo e ozioso per la campagna ne andava. Da questo presa la occasione, il legato e popolo di Parma con tutto il suo sforzo usci fuora a 1 * improvviso e assaltò il campo da la parte di sopra di Vittoria, e non di verso Parma ove era meglio munita. La campana che era [p. 140 modifica] sopra una torre di guardia di Vittoria, sonando a l’arme, fu intesa da Federico; onde subito volando al soccorso trovò li parmesani che aspramente combattevano contra il marchese Malaspina, che era stato il primo assaltato e animosamente si difendeva, il perché subito ne andò al soccorso suo. Vedendo questo i parmesani fatto un grosso squadrone corseno verso lui. Federico vedendosi con pochi a gran disavvantaggio si ridusse a le sbarre et entrò in Vittoria facendo le provvisioni in tanto tumulto possibili; ma i parmesani bruciate e rotte le sbarre e ripari, con gran moltitudine e impeto per forza ancor loro entrorno in Vittoria, tagliando a pezzi quanti glie ne venivano innanzi come disordinati, tra li quali fu messer Taddeo da Sessa nominato di sopra, giudice de la corte imperiale. Federico poi che fu stato un pezzo, vedendo la cosa senza alcun rimedio perduta né si trovando appresso piú di quattordici cavalieri, con essi ne usci di Vittoria e andò verso il Borgo san Donnino. I parmesani perseverando ne la battaglia feceno gran strage; ma con gran fatica e molta occisione de li lor propri vinsono il carroccio de’ cremonesi, il quale fece asperrima e sanguinosa difesa. In ultimo Vittoria fu vinta, e la camera e la capella e la cancellaria e la corona e ogni preziosa cosa de l’imperatore, tutto fu guadagnato da’ parmesani a man salva e Vittoria bruciata, e le fosse riempite e spianate; e in loco evidente questi due versi li poseno i parmesani: Per te, Rex alme, cessit victoria Parmae: antiphrasi dieta, cessit zactorta meta.

I quali versi tradotti in rima vulgare porriano in questo modo in effetto tradursi: Per te, Dio, Parma ha la vittoria estinta: Vittoria, detta per contrario, è vinta.

Al carroccio de’ cremonesi, il quale in vilipendio feceno tirare a li asini in Parma, scrisseno questi altri due versi: Carrotii flet damna sui miseranda Cremona: imperii, Friderice, lui fugis absque corona. [p. 141 modifica] E questi ancor porriano in questo modo vulgarmente sonare: Piange il carroccio suo mesta Cremona: fugge Fedrico e lascia la corona.

L’imperatore dappoi si notabile iattura niente perduto di animo, se ne venne a Cremona, al quale le femine tutte e li fanciulli con tutto il popolo vennero incontro lacrimando e ringraziando Dio che da tanto pericolo l’avea liberato. Lui confortatoli andò a Guastalla e al ponte di Bressello trovò il re di Sardegna suo figliuolo con li fuorusciti ferraresi suoi fedeli, che avevano dato una gran rotta a’ mantuani nel fiume del Po, i quali • venivano al soccorso di Parma, e avevano preso 50 barche e 300 uomini de’ loro; e impiccatoli sopra la ripa del fiume e lasciando a la guardia del ponte buon numero di gente, mandò il re di Sardegna in Lunisana ad assicurare quella strada, la quale pareva tendesse a rebellione, e lui se ne tornò al Borgo San Donnino per rimettere insieme le reliquie de l’esercito, con intenzione col tempo ritornare a Parma. E stando nel Borgo, il lunedi santo ebbe una gran somma di denari, i quali li mandò Carloianne Batacio suo genero, e intese il conte Riccardo suo figliuolo aver dato una rotta di due mila tra presi e morti a Civitanova ne la Marca di Ancona a Ugolino di Novello capitano ecclesiastico e a Pandolfo da Fasanella e Iacobo da Morra proditori regnicoli, de li quali avemo detto di sopra, e il detto Ugolino esser stato morto insieme con Matteo da Fasanella fratello di Pandolfo.

Partito poi dal Borgo San Donnino Federico, tuttavia provvedendo al rimettere de l’esercito, si ridusse a Cremona l’anno 1249 del mese di settembre, ove ebbe avviso il re di Sardegna aver espugnato un castello di Regio chiamato Ardo e aver impiccato innanzi a le porte d’esso novantasette ribelli de l’imperio, quali dentro li avea trovati; nondimeno vedendo tutta la Lombardia volta a rebellione e la difficoltá grande in quelle parti e tra alcuni de li suoi qualche spirito di prodizione, e intra li altri in Piero da le Vigne, il quale era giudice [p. 142 modifica] de la corte e secretarlo, e fu il primo uomo che appresso di sé avesse, lo fece pigliare, e del mese di aprile sequente si parti di Lombardia con intenzione di andare in Puglia e poi tornarvi l’agosto sequente.

Passando adunque per Toscana trovò il principe di Antiochia suo figliuolo con li fiorentini a campo a Caprara ove si erano ridotti li guelfi suoi ribelli, i quali si ingegnavano di far rebellare tutta Toscana e massime il castello San Miniato: li fece dar la battaglia et espugnarlo e li guelfi fatti prigioni ordinò si menassino con seco nel reame.

E perché quelli di San Miniato corrotti da’ guelfi avevano giá preso il veneno de la rebel bone e titubavano in modo che non era da aver fede in loro, e non voleva l’imperatore perderli tempo attorno, deliberò con astuzia averli, la qual fu in questo modo. Imperocché dissimulando la perfidia loro, tolse buon numero de li suoi migliori soldati fedeli e animosi e feceli catenare in modo che parea fussino prigioni lombardi, e fece cargar li muli di molti forzieri pieni d’arme d’ogni sorte e coprire le some di tappeti e coperte, in modo che pareva la camera e la salvaroba sua; e quelli simulati prigioni con Piero da le Vigne innanzi, il quale era veramente prigione e ben legato, e tutte dette some di forzieri le mandò con suoi messi fidati a San Miniato, che dicessino a quelli uomini da parte sua, che non avendo in Toscana l’imperatore la piú fedel terra di San Miniato né in che piú si fidasse, volendo andar con prestezza senza impedimento nel reame con intenzione di tornar presto, li mandava questi prigioni che erano di importanza e la piú cara roba sua, e li pregava volessino conservarli ogni cosa con diligenza sino a la sua tornata. I samminiatesi vedendosi l’imperatore armato appresso, ancora che si sentissino sospetti, estimando che non poteano perdere in tutto partendo l’imperatore e lasciando li quella roba e quelli prigioni, dissimulorono anche loro e dimostrandosi molto fedeli accettorono ogni cosa con buon volto, e ne la terra li intromiseno. Li buoni soldati, quando li parse il tempo secondo l’ordine dato, in un momento buttorno in terra [p. 143 modifica] le catene, le quali erano in modo acconcie che subito si scioglieano, e preseno l’arme virilmente gridando: — Imperio, imperio —; e ammazzando uomini e pigliando le porte e intromettendo l’esercito, preseno di subito il castello. E li traditori morti e le lor case ruinate, fu stabilito quel loco al dominio de l’imperatore.

Fatto questo, nel medesimo castello San Miniato fece cavar li occhi a Piero da le Vigne, il quale essendo stato il primo uomo de la sua corte e notissimo a tutto il mondo, non potendo sostenere di vivere piú senz’occhi e stimolandolo la coscienza de l’aver tradito il suo signore, se medesimo in conspetto pubblico ammazzò. Questo fine ebbe Piero da le Vigne, iurista di molta dottrina et esperienza, tra li pochi di quelli tempi nominato grandemente e avuto in gran reputazione. Lasciando San Miniato Federico per il cammin dritto, senza toccare il territorio fiorentino, se ne andò a Siena e di li in Puglia a Foggia l’anno 1250, ove intese il re di Sardegna suo figliuolo, essendo stato chiamato da’ modenesi per sussidio contra bolognesi, due miglia lontano da Modena virilmente combattendo esser stato preso e menato a Bologna in prigione il mese di maggio. E per questo il legato apostolico e l’altre genti ecclesiastiche e guelfe per Lombardia e per Romagna e per Toscana, come libere per l’assenza sua e prigionia di Enzo, scorrevano il paese e per prodizione e per forza e per accordo tutti li stati imperiali rebellando e voltando occuporno; onde Federico con piú animo che mai si diede a far denari e gente d’arme per tornare potentissimo in Lombardia e far aspra vendetta de’ suoi nemici.

E non è dubbio che Federico aria fatto grandissime cose, se ’l comun fine de li uomini in quell’anno infelice e avverso non vi si fusse interposto, contra l’opinione e credere suo; però che essendo ancor fresco di etá e vigoroso, era persuaso non aver a morire altrove che in Fiorenza, ovvero territorio fiorentino; e però nel prossimo suo ritorno qual fece di Toscana in Puglia, schivò il paese fiorentino, essendo premonito da un divinatore, il qual diceva avere colloquio con un spirito, [p. 144 modifica] che l’aveva a morire in Fiorentino. Onde infermato gravemente di febre in un castelletto sei miglia lontano da Luceria in Puglia, chiamato Fiorentino, come quello che era di acutissimo ingegno e ben sensato, ricordandosi del prognostico e di questo nome Fiorentino, cognoscette il fine suo essere venuto. Per la qual cosa prima si ridusse in colpa e in man de l’arcivescovo di Palermo e molti altri religiosi, con consiglio ancora di uomini prudenti, si pose ne le mani di Santa Chiesa, giurando di stare e obedire ad ogni comandamento di essa. E secondo il rito cristiano si confessò con tanta contrizione, che scrive Mainardino vescovo di Imola, il quale ridusse in scritto molte cose di Federico, che per tale confessione si può credere che ’1 fusse vaso eletto da Dio: e Guglielmo da Podio scrive ne le sue Croniche e riferisce il Dandolo ne la sua Istoria, che dolendosi de li errori suoi a la morte Federico, fece proibizione a li suoi del fare le esequie onorate e pompose, secondo il costume imperiale.

Fece poi testamento, nel quale lasciò molte migliaia di once di oro a li cavalieri Templari di Hierusalem e ospitalari di San Giovanni per satisfazione de li frutti de li loro benefici che avevano nel regno, i quali mai durante le guerre avevano riscossi. Poi lasciò un’altra gran quantitá di denari a la recuperazione di Terra Santa, la quale si avesse a spendere secondo il parere e provvisione de’ detti cavalieri. A tutti li suoi inimici ribelli e infedeli de l’imperio con pia compunzione di cuore perdonò, eccetto a li regnicoli i quali ingratamente li erano stati traditori, rimettendoli a la determinazione di giustizia; comandando a li figliuoli che fussino liberati tutti li prigioni che in qualunque loco del mondo si ritrovassino per sua commissione detenuti, ordinando appresso che tutte le terre che di ragione spettavano a la Chiesa e tutte le ragioni de le chiese fussino liberamente restituite.

Lasciò erede universale del regno di Napoli e in tutto l’imperio di Roma suo figliuolo Corrado re di Alemagna: ad Enrico minor suo figliuolo ancora legittimo lasciò il regno di Sicilia oltra il Faro, il quale però avesse a tenere secondo la [p. 145 modifica] volontá di Corrado predetto, e lasciògli centomila once d’oro: a Federico suo nepote figliuolo di Enrico maggiore, suo primogenito che mori in prigione, lasciò il ducato di Austria e dieci mila once d’oro: Manfredi suo non legittimo figliuolo, principe di Taranto, lasciò bailo e governatore per dieci anni de l’imperio da Pavia insino per tutto il regno di Puglia in loco di Corrado, eccetto se Corrado si ritrovasse in persona nel regno: pur comandò a tutti li altri suoi figliuoli, che in ogni cosa fussino obedienti e fedeli a Corrado come vero re e imperatore. E in questo modo avendo satisfatto al mondo e a Dio, con dare quello che era di Cesare a Cesare e l’anima che è di Dio raccomandandola a Dio, devotamente passò di questa vita, avendo visso anni cinquantasei e imperato trentatre: lasciando da parte la falsa opinione di alcuni che scrivono essere stata fama che Manfredi suo figliuolo col ponerli un cuscino sopra la bocca li accelerasse la morte, non avendo tal cosa possibilitá né verisimilitudine alcuna e trovandosi scritto il contrario da uomini ecclesiastici, scrittori di quelli tempi.

Mori adunque Federico il di di santa Lucia 13 di dicembre l’anno 1250 in Fiorentino castello di Puglia; e non in Fiorentino di Campagna di Roma né in territorio fiorentino: esempio non nuovo de la fallacia de li spiriti maligni e de li demoni e de la necessitá fatale, in quanto né lui possettc schivare la morte schivando Fiorenza, et il spirito divinatore sotto confusione di un medesimo nome la curiositá di Federico venne a beffare. Manfredi fece con somma pompa e onore portare il corpo suo in Sicilia a Monreale sopra Palermo e li onoratamente seppellirlo: sopra la sua sepoltura tre versi in testimonio de la sua virtú e grandezza furono scolpiti, composti da un sacerdote aretino, i quali a molti altri epitaffi presentati da li dotti di quelli tempi furono preferiti: Si probitas, scnsus, virtutum gratin, census, nobílitas orti possent obsistere morti, non foret cxtinctus Fridericus, qui iacet intus. [p. 146 modifica] Suonano questi versi in lingua vulgare in questo modo: Se nobiltá, virtú, roba, intelletto contra ’1 morir valesse, Federico giá morto non saria, che è qui ristretto.

Avendo noi di quell’inclito re detto quanto spetta al proposito nostro circa il regno di Napoli, non sará inconveniente per reverenza de la sua virtú fare un breve epilogo di lui, attento che fu uomo valorosissimo e che di lui variamente si trova scritto, e chi bene e chi male ne dice per esser imputato da scrittori ecclesiastici persecutore de la Chiesa. Tuttavia di lui dicono questo li autori, ch’atri li reputati santi uomini, che fu bello e formoso de la persona, di giusta statura e membri quadrati, di pelo alquanto rosso e volto allegrp. Ebbe grandissimo sentimento naturale e fu prudente sopra tutti li uomini, perito artefice di tutte le arti meccaniche, a che lui per ventura ponesse la fantasia. Dotto in lettere, ebbe piú linguaggi, però che parlava in lingua italiana, latina e vulgare, in lingua germanica, lingua francese, lingua greca e lingua saracinica. Magnifico, liberale e magnanimo, grandissimo rimuneratore de’ benefici e di uomini fedeli, severissimo vendicatore de la perfidia; per tutte le nobili cittá del regno di Puglia e de l’isola di Sicilia fece fare nobilissimi edifici che saria superfluo a raccontarli: ma tra li altri in Abruzzo la cittá de l’Aquila, in Napoli il castello di Capuana, la torre e il ponte di Capua, il castello di Trani, in Toscana il castello di Prato e la rocca di San Miniato, in Romagna la rocca di Cesena, di Bertinoro, di Faenza e di Cervia, palazzi e chiese per tutto. Compose molte leggi ad onor de la fede cristiana e conservazione de la libertá ecclesiastica e per la sicurezza d’Italia e in favore de l’agricoltura e de li naviganti e in favore de li studenti e letterati, de li quali fu sommamente amatore: le quali leggi tutte sono inserte e approbate in un libro di ragion civile chiamato codice Iustiniano. Fece compilare un libro di legge approbato, e che per li Studi si legge, [p. 147 modifica] chiamato V Uso de’ feudi, ovvero Decima collazione , e similmente in un altro libro le Constituzioni del Regno. Fece tradurre quello che sino a questi nostri tempi si è letto e legge per li Studi de le opere di Aristotile, e di medicina di lingua greca e arabesca, e mandolle a presentare allo Studio di Bologna, come per le sue Epistole appare. Institui lo Studio universale in Napoli con molti privilegi, li quali ho letti e veduti, e li convocò dottori di tutte le facoltá. Ebbe appresso di sé sempre uomini dotti, tra li quali fu ancora suo generale giudice de la corte Roffredo beneventano nostro iurista, le cui opere ancora si leggono. Fu valoroso ne l’arme e invitto di animo; ma quello che a grande e sol vizio li fu imputato ebbe, che fu troppo amatore di femine, et ebbe molte concubine e avea con seco una gregge di bellissime gioveni. E sopra modo si dilettò di falconi. Ebbe tre mogliere, Constanza sorella del re di Castiglia, Iolante figliuola del re di Hierusalem, Isabella sorella del re d’Inghilterra: di tutte ebbe figliuoli, come è detto. Ebbe bella progenie di figliuoli legittimi e non legittimi: di Constanza Enrico primo che fu re di Alemagna, di Iolante Corrado che fu re del reame di Napoli dappo’ lui, di Isabella Enrico che fu re di Sicilia, morto fanciullo; de’ non legittimi Enzio fu re di Sardegna, Manfredi re de l’una e l’altra Sicilia, Federico principe di Antiochia e molti altri, i quali a suo loco in arbore di genealogia di casa di Svevia descriveremo. Fu molto potente di ricchezze, imperocché oltra le ragioni de l’imperio il quale tenea, fu re de l’una e l’altra Sicilia per ragion materna, re di Hierusalem per la mogliere, re di Alemagna per elezione, duca di Svevia per ragion patrimoniale de li suoi antecessori.

In tante doti e grazie quante ebbe, fu reputato e chiamato persecutore de la Chiesa, e pare che ben si confermi essere stato cosi per la sentenza contra a lui data da Innocenzo IV, canonizzata nel sesto libro del Decretale. Il perché forse convenga non dirne piú oltra; nondimeno per quello che ne li suoi gesti soprascritti appare e per molte altre cose che in notabili autori si leggono e per quanto le epistole e scritture [p. 148 modifica] sue dimostrano, non so se per avere lui detto troppo il vero di ecclesiastici o per aver desiderato in loro vita e costumi apostolici o per aver voluto difendere e sostenere la ragion de l’imperio o per esser stato, contra il lor proposito, troppo grande in Italia, lo hanno fatto giudicare persecutore de la Chiesa: il iudicio sia di chi legge con buona mente le cose sue. Ma quando io penso che Cristo signor nostro, del quale sono li pontefici vicari, disse a loro che lo dovessino imitare et essendo loro suoi ministri seguitar lui come loro maestro, e che li comandò che dovessino riponere la lor spada ne la sua vagina e che non solamente sette volte, ma settanta volte sette dovessino perdonare; da l’altro canto vedo tante insidie, tante prodizioni fabricate contra Federico, tanti legati, uomini ecclesiastici chiamati pastori, nel reame, ne la Marca, in Lombardia, in Romagna contra lui mandati, tante cittá per questa cagione saccheggiate e disfatte, tanto sangue di cristiani sparso, e considero lui essere stato non di meno vittorioso e li eletti contra lui per li pontefici, infortunati e mal condotti e morti, non so altro che dire se non che vero sia quello che scrive Pio pontefice ne V Historia austriaca , cioè che niuno eccellente male si fa ne la Chiesa universale, che l’origine di esso da’ sacerdoti non nasca, ovvero che troppo grandi e oscuri sieno li iudicii di Dio. Molte epistole di Federico si trovano, le quali ho lette, scritte a pontefici, a cardinali, a diversi principi cristiani, a particolari e private persone: niuna cosa in esse si legge contra la sostanza de la nostra fede, niuna eretica, niuna in depressione di Santa Chiesa, niuna che suoni contumacia, si bene querele, lamentazioni, ammonizioni de l’avarizia e ambizione del clero, de l’ostinazione del pontefice in non voler esaudire le sue giustificazioni e le ragioni de l’imperio, de le insidie che contra di lui si facevano. Chi volentieri ammira il vero e la virtú de’ gran principi legga una sua epistola scritta a tutti li principi cristiani, la quale comincia: Collegerunt principes, pontijíces et pharisaei consilium in unum et adversum principem Christum Dei convenerunt etc., e una, la quale scrive al collegio de’ cardinali, confortandoli a dissua[p. 149 modifica] dere al pontefice la discordia tra il sacerdozio e l’imperio, e comincia: In exordio nasccntis mundi ; un’altra ancora che comincia: Infallibilis veritatis testem et supremae iustitiae iudicem obtestamur etc., ne la quale dice queste parole, le quali io per piú brevitá transferendo ponerò in lingua vulgare, e sono queste: «Noi con la sacrosanta romana Chiesa madre nostra discordia alcuna non avemo, ma propulsiamo la iniuria, e da l’impeto di questo romano pontefice la giustizia del nostro imperio difendemo; e nondimeno sempre avemo desiderato di avere pace con lui e ancora desideriamo». — Leggasene un’altra ancora, pur scritta a li principi cristiani, nel fine de la quale sono queste parole, le quali ancora son contento ponere in questo compendio, non tanto per la eleganza quanto per la veritá di esse, che forse a questi nostri tempi ben quadrando ad alcuna bona mente porriano a proposito accadere, e son queste: «Vogliate credere quello che li nostri mandati vi hanno riferito e tenetelo fermissimo, non altramente che se san Piero proprio l’avesse giurato, né vi parrá per questa nostra dimanda che per la sentenza de la deposizione contra noi data la grandezza de la imperiale maestá si abbassi; perché avemo la coscienza de la puritá nostra, e per consequente Dio è con noi: la testimonianza del quale noi invocamo, che la intenzione de la volontá nostra è sempre stata indurre li clerici di qualunque religione, e specialmente li maggiori, a perseverar tali ne la fede, quali giá furono ne la primitiva chiesa, mentre che la vita apostolica seguitavano e la umilitá del Signore Cristo imitavano. Solevano quelli tali clerici vedere li angeli, solevano risplendere di miracoli, curare li infermi, suscitare li morti, e non con l’arme ma con la santitá subiugar li principi; ma questi che al presente sono clerici dediti al secolo imbriacati ne le delizie, si inetteno Dio di drieto le spalle e da l’abbondanza de le loro ricchezze la nostra religione è soffocata. Sottraere adunque a tali clerici le superflue facoltá che nocive li sono e che dannabilmente li gravano, opera è certo di caritá, sapendo che quelli che, deponendo le cose superflue, del poco si contentano, servono bene a Dio. E voi principi, ogni [p. 150 modifica] diligenza far dovete, acciò che a Dio ben servano quelli che vogliono essere addimandati clerici».

Per queste cose adunque tennero forse allora li prelati che Federico meritasse nome di persecutore de la Chiesa; ne la qual cosa, come ho detto, di altrui sia il iudicio, facendo qui fine a quanto occorre di Federico II.

Manfredi, poi che ebbe celebrate le esequie e sepoltura del padre, si come bailo e governatore del regno in nome di Corrado suo legittimo fratello, il quale era in Alemagna, tutto il regno di Napoli facilmente ebbe in suo dominio; solo Napoli, Capua e Aquino si rebellorno per instigazione del conte di Caserta, il quale fu il primo a dar volta, non ostante che era cognato del detto Manfredi, però che aveva una figliuola di Federico per donna.

Rebellate le dette terre si detteno a la Chiesa e il papa le accettò con promissione di mandarli soccorso, e benché Manfredi désse per piú vie molte molestie a Napoli, nondimeno mai la possette ridurre a sua devozione. Innocenzo in questo mezzo l’anno 1251 con intenzione di occupare il reame parti da Lione e venne a Genova, facendo molte minacce e congregazioni di arme, e investi del regno un Ciarlotto fratello del re d’Inghilterra, il quale accettò e ne le lettere si scriveva re di Sicilia; nondimeno non venne mai in Italia e la sua investitura mai ebbe effetto alcuno né il papa alcun sussidio mandò nel reame.

Corrado in questo mezzo, intesa la morte del padre, movendo subito con grande esercito passò per Marca Trivisana in Lombardia, la quale tutta era volta a rebellione eccetta Cremona fedelissima con li suoi seguaci; e stato in quella un pezzo e composte le cose de’ suoi fedeli, tornò per la via del Friuli a Porto Naone per consiglio di Ezelino da Romano locotenente imperiale in quelli lochi, di dove per via di mare e per il seno Adriatico, e con l’aiuto de’ veneziani e lor legni, entrò nel reame, ricevuto con gran letizia e onore da Manfredi nel porto di Capitanata ove fu poi Manfredonia. E subito pieno d’ira e di furore scorrendo il paese, fece [p. 151 modifica] venire a devozione sua Tomaso conte de la Cerra et ebbe per accordo San Germano e tutto lo stato del conte di Caserta, il quale fuggendo si ridusse in Capua. Corrado andò a campo a Capua e poi che li ebbe dato il guasto universale di tutte le belle cose che aveva intorno, ebbe la terra e feceli spianare le mura e il conte fece prigione. Andò poi ad Aquino allora nobil cittá, e per forza la prese e saccheggiata la bruciò. Ritornato poi a Napoli li pose il campo attorno e l’assediò per mare e per terra, si che alcuno li poteva né entrare né uscire. Li napolitani si difendevano virilmente, pur aspettando sussidio dal papa, il quale non d’altro che di speranze e parole li aiutava, e in modo si difendevano che qualche volta Corrado fece pensieri di levarsi da l’assedio, se non fusse che un secreto suo fedele, che era ne la terra, lo confortava a stringere la terra e perseverare ne l’assedio, sapendo li cittadini essere stracchi; e spesso li mandava fuora alcune letterine, le quali legate con li verrettoni, ovvero scritte a le penne di essi che eran di carta, mandava nel campo de’ todeschi, e tra le altre una volta ne scrisse una in versi latini di questo tenore e modo qui infrascritto: Mutus regalis latita tis in Parthenopaeo vera referre studet, auxiliante Deo.

Parthenope se fessa dabit libi qui dominarti, si bene claudantur ostia clausa maris.

Persia: et infesta futida, quae marmora iacit; nani mora victorem continuata facit.

Suonano in lingua vulgare questi versi in questo modo: Il regai muto in Napoli nascoso, aiutandolo Dio, dir ver s’ingegna.

Se chiudi bene il mar, re glorioso, Napoli stracca è forza che a te vegna.

Il mangan che trae sassi è ancor noioso: persevra, ché chi dura vince e regna. [p. 152 modifica] Corrado intendendo per questi versi li napolitani esser stracchi e che un mangano, ovvero briccola, che tirava sassi ne la terra faceva gran danni et era molto tedioso a li cittadini, e appresso che essendoli ben serrata la via del mare si renderiano, perseverò otto mesi ne l’assedio e finalmente l’ebbe per accordo ne l’anno 1253 salve le persone e li edifici; nondimeno come fu entrato ne la terra, fece ruinare le mura e le fortezze di Napoli e molte nobili case di gentiluomini. Gran quantitá di cittadini e nobili uomini mandò in esilio, e tra li altri Riccardo Filangeri con tutta la sua casata, e tutta la casata de’ Grifoni e Guglielmo di Palma perché erano stati principali e capi de la defensione de la terra contra di lui. Andò poi a la chiesa maggiore e in mezzo del campo di essa era un cavallo di bronzo senza briglia, statua antica riservata li in quel loco per ornamento e forse per insegna de la terra; Corrado li fece mettere un morso in bocca e sopra le redine questi due versi fece scolpire: Hactenus effrenis, domini nunc paret habenis.

Rex domai hunc aequus Parthenopensis equum. Restringendoli in versi vulgari al meglio che si può. essendo posti in segno di dominio, cosi si possono interpretare: Cavai giá senza freno, or paziente: Domato dal re giusto, et obediente.

Avuto adunque Napoli in questo modo, Corrado fu re universale del regno senza alcuna contradizione, e la riformazione d’esso commise ad Enrico vecchio conte di Rivello, il governo di Napoli ad uno chiamato Brancaleone. Stando adunque in stato pacifico vólto a li piaceri, Enrico putto suo fratello, figliuolo de la regina Isabella, parti di Sicilia, al quale Federico l’aveva lasciata, per venire a fare reverenza al re. In sua compagnia era un capitano saracino chiamato Giovanni Moro, il quale come fu in San Felice castello di Basilicata, [p. 153 modifica] lo menò occultamente in una camera e di commissione di Corrado l’uccise, cosa biasimata da tutto il regno e piena d’empietá, massimamente perché il piú prestante e piú specioso giovine e di migliore indole era che alcun altro de li figliuoli di Federico. Ma non fu troppo lontana la vendetta; imperocché cinque mesi dappoi la morte di Enrico minore, Corrado attossicato (e, per quanto si dice, da Manfredi) mori; e a Giovanni Moro e al marchese Bertoldo, Manfredi fece tagliar la testa, come a quelli a chi per giusto iudicio tal morte era debita, per essere loro stati, oltra de la predetta morte, ancor ministri de la morte di Federico minore nepote di Federico imperatore, il quale, come di sopra è narrato, fu lasciato da l’imperatore per testamento duca d’Austria con dieci mila once d’oro. Era venuto il meschin giovine per aver le dette dieci mila once d’oro e passare in Austria. La commissione fu data da Corrado, poi la morte del padre, a Giovanni Moro: Giovanni sotto specie di volerli numerare, lo invitò con sé a cena a Melfi e dandoli a mangiare di un pesce attossicato, pur col consiglio del marchese Bertoldo, li tolse la vita. Questo infelice fine ebbeno in poco tempo li due figliuoli e un nepote di Federico II imperatore e li due ministri e consiglieri de la lor morte.

Fu Corrado uomo inumano e crudele, e di prudenza e di virtú molto dissimile al padre, né di lui laude alcuna trovo scritta, se non che Riccobaldo scrive che di bellezza fu un altro Absalon. In una sol cosa si può dire che fu utilissima la sua venuta in Italia, non per sua bontá ma per accidente, in questo modo. Fuggendo li conti di Aquino in diverse parti la sevizia di Corrado nel tempo de la calamitá de la lor patria, avendo uno di loro un figlioletto piccolo chiamato Tomaso, lo menò per salvarlo al monastero di Monte Cassino e a quelli monachi lo raccomandò. Il fanciullo si diede a la vita religiosa e a le lettere e fu poi quel san Tomaso, il quale per santitá e per dottrina fu lume non solo de l’ordine de’ predicatori nel qual si pose, ma di tutta la filosofia e teologia e de la fede e religion cristiana. [p. 154 modifica] Venuta la novella al pontefice Innocenzo IV de la morte di Corrado e trovandosi in Perosa, oltra al debito che li pareva avere di recuperare lo stato ricaduto a la Chiesa, excito e promosso ancora da la importunitá di molti baroni e gentiluomini napolitani e regnicoli espulsi del regno, convocato in un subito un buon esercito di Lombardia, Toscana e terra di Roma, se ne andò in persona nel regno et entrò in Napoli, giá racconcie e fortificate le mura: ove quasi tutti li regnicoli andorno. E perché nel reame si trovavano alcuni parenti de la madre di Corradino, figliuolo che fu di Enrico primogenito di Federico II imperatore (il quale inori in prigione come dicemmo), li quali come tutori volevano intromettersi a governare il regno di Napoli, Manfredi per escluderli astutamente e per batterli, si era fatto de la parte del papa et crasi riconciliato con esso. Onde ancor lui con li altri baroni, come principe di Taranto, si trovò a Napoli a far reverenza al papa, al quale gran parte del regno si détte, e non è dubbio che facilmente era per recuperarlo tutto, se non che la morte vi si interpose; però che in quell’anno che fu 1254, essendo in Napoli, passò di questa vita e cosi furono tutti li disegni interrotti.

Il collegio de’ cardinali, subito nel medesimo loco entrati in conclave, elesseno pontefice Alessandro IV, a li quali fu forza accelerare l’elezione, però che Bartolin Tavernaro, cognato che era stato di Innocenzo, creato da lui podestá di Napoli e allora preposto a la guardia del conclave, li sottrasse il cibo acciò che facessino piú presto, estimando, come poi successe, che Manfredi si ingegnaria turbare ogni cosa. Manfredi sagace, subito che intese il papa esser ammalato, occultamente andò a Taranto e di li a Luceria, e messi insieme tutti li saracini di quel loco con altri suoi andò con ogni celeritá a Foggia, ove Innocenzo aveva mandate tutte le genti d’arme che avea menato con seco nel reame, per non gravare, non bisognando altramente, i napolitani. Costoro adunque Manfredi li assaltò a l’improvviso e messeli a sacco, ammazzandone e pigliandone quanti glie ne parse. Dappoi [p. 155 modifica] ingrossato di gente d’arme, scorrendo per il regno sotto titolo di tutore di Corradino suo nepote assente, recuperò tutti li lochi dove si presentò.

Alessandro nuovo pontefice volendo andare ad Anagnia lasciò messer Ottaviano de li Ubaldini cardinale legato in suo luogo a resistere a l’impeto di Manfredi, e lui come fu in Anagnia subito l’escomunicò e cominciò a dare opera di far gente d’arme da mandarli incontra; e in quel mezzo il legato, che poche forze aveva e manco gente che Manfredi, quasi come assediato in ozio a Napoli si stava. E Manfredi, che giá avea premeditato e proposto farsi re di Sicilia, avendo come tutore racquistato la maggior parte del regno, escogitò una nuova arte. Imperocché fece venire alcuni Germani subornati di Alemagna vestiti in abiti negri e lugubri, i quali portavano simulate novelle de la morte di Corradino: per la qual cosa lui ancora tutto lacrimoso e vestito di bruno comparse in pubblico dolendosi e fece fare esequie e funerali onorevoli per tutte le chiese per l’anima di Corradino, che ancor viveva. Poi in breve spazio comparse vestito in abito regale e fecesi chiamare e salutare per re, e oltra questo ancora si fece coronare. Fu ancor fama che Manfredi mandasse alcuni suoi in Alemagna sotto specie di visitazione e congratulazione a Corradino, con certi doni da mangiare, cose puerili e confetti di zucchero preziosi in quel loco, con proposito che Corradino volenteroso e avido ne avesse a mangiare et essendo venenati li avessino a indurre la morte; ma che la madre, tenera e gelosa de la salute del figliuolo e per questo ancor prudente, á quelli mandati di Manfredi non Corradino, ma un altro di quella etá, domestico di casa, monstrasse, e quello decepto da li mortali doni morisse: quello si fusse, falsa fu la fama de la morte di Corradino, ma si bene procurata e cercata come avemo detto.

Manfredi adunque in questo modo fatto re ebbe tutto il tesoro e li denari de li suoi predecessori, li quali erano ne la rocca di Palermo, e fece venire a li suoi stipendi saracini di Africa per esser piú forte; benché dal legato poco impedimento [p. 156 modifica] li potesse esser dato, perché tutti li capi e li migliori de le sue genti, corrotti per denari da Manfredi, lo avevano lasciato. Anzi fu creduto, per esser Manfredi fautore de’ ghibellini, il cardinale legato che era de la casa de li Ubaldini, che son sommi ghibellini, per aver Manfredi favorevole a li amici e parenti di quella parte, si portasse lentamente in quella legazione. Per la qual cosa Manfredi, cresciuta la reputazione con titolo di re, non avendo ostacolo, volendo farsi de li amici ancora fuora del regno, mandò gente d’arme in aiuto de’ sanesi e di tanti altri ghibellini di Toscana e fece lega co’ veneziani, senza esser però lui obbligato ad altro che a mandare armata con loro contra genovesi soli e non altra nazione. Onde Ottaviano, poco fortunato legato, si parti lasciando Napoli libera e ogni altro pensiere de le cose di quel regno, ne l’anno 1261, nel quale Alessandro IV moritte e in suo loco in Anagnia fu creato pontefice Urbano IV.

Manfredi seguitando il suo concetto di vendicarsi del papa e ampliare lo stato, mandò li saracini, i quali aveva condotti d’Africa, insieme con li altri di Luceria, in Campagna di Roma, la qual tutta insino a Frosolone scorseno e saccheggiorno. Urbano che questo avea antiveduto, avea giá mandato in Francia a predicar la croce e invocare aiuto contra Manfredi e li saracini, e avevaio impetrato, e fatto un buon esercito: capi del quale erano crucesignati Guido vescovo autissiodorense, Riccardo conte di Vindozzo e Roberto figliuolo del conte di Fiandra, genero di Carlo conte di Provenza e di Angiò. Questi, mettendosi insieme ad Alba di Piemonte, passando per Lombardia arrivorno in Campagna, de la quale senza fatica e senza sangue cacciorno li saracini, i quali subito si levorno e passorno il Garigliano, e in modo si alloggiorno forti e ben muniti, che sufficienti non erano le forze de’ crucesignati ad espugnarli.

Per la qual cosa avendo al tutto deliberato Urbano di cacciare Manfredi, prese un altro maggior partito. Aveva il re Lodovico santo di Francia tre fratelli, e tra essi Carlo duca d’Angiò e conte di Provenza, molto nominato per uomo [p. 157 modifica] UBRO QUARTO 157 valoroso, che per donna aveva Beatrice, che fu figliuola di Raimondo Belingieri conte di Provenza, per la quale lui ancora conte di Provenza si intitolava. A costui deliberò Urbano dare il regno di Sicilia citra et ultra il Faro, con questo che a le sue spese se l’acquistasse e lo riconoscesse da la Chiesa pagandone il debito censo. E cosi, fatto solenni lettere e bolle di tale elezione e investitura, ne l’anno 1262 per un cardinale legato per questo, le mandò a Carlo in Francia. Carlo consigliatosi col re Ludovico e con Roberto conte di Artois e Arnolfo conte di Pittiers suoi fratelli, e con Beatrice sua donna, la quale per aver tre sorelle regine, vedendosi contessa, molto infestò il marito ad accettare per venire ancor lei al titolo di regina, accettò la impresa e cominciò a mettersi in ordine con aiuto del re Lodovico e de li altri suoi fratelli, baroni e amici e de la sua donna ancora, la quale tutte le sue gioie impegnò e vendette per aiutarlo.

Intendendo queste cose Manfredi, oltra che si fortificasse nel regno, fece armare nel reame e a’ genovesi e pisani piú di trenta galee, e in Lombardia fece condur gente dal marchese Palavicino suo parente e amico e a lui molto simile, acciò che quelle galee per mare e il Palavicino per terra ostassero al passar de’ francesi nel regno di Napoli. In questo mezzo mori Urbano IV con opinione universale che tal morte avesse a disturbare l’impresa di Carlo, ma subito fu eletto a Viterbo Clemente IV, il quale era assente in legazione in Francia et era di nazione provenzale: il quale, intesa la elezione, venne subito in Italia e per sospetto de la provvisione di Manfredi, travestito da mercatante pervenne a Perosa, ove scopertosi fu da’ cardinali con la corte solenne condotto a Viterbo, a niun’altra cosa piú attendendo che a la spedizione cominciata da Carlo d’Angiò contra Manfredi. Apparse in questo tempo una grandissima cometa, de la quale per memoria di uomini mai fu veduta la maggiore: si levava la sera da oriente con eccessivo splendore e andava insino a la linea di mezzo di verso ponente tirandosi drieto una lunga e luminosa coda. Durò piú di tre mesi e [p. 158 modifica] in quella notte appunto che Urbano passò di questa vita la cometa predetta disparve.

Era giá partito da Marsilia Carlo a la volta di Roma con trenta galee e aveva inviato per terra le sue genti francesi sotto il governo del conte Guido di Monforte. Fatta la Pasqua di resurrezione e dappo’ alcun pericolo di mare e de Tarmata di Manfredi, arrivò a salvamento ne la foce del Tevere del mese di maggio 1265 e di li a Roma, ove ricevuto onoratamente dal papa e dal popolo, fu creato senatore di Roma, aspettando le sue genti che venivano per terra: le quali venendo strette e con buona guardia per Lombardia, giunseno a Roma del mese di dicembre del detto anno, e con loro si erano congiunti a Parma quattrocento cittadini di parte guelfa fiorentini, sotto il governo di Guido Guerra, cacciati da la lor patria per opera di Manfredi fautore de’ ghibellini, tutti a cavallo e bene armati, e da Clemente pontefice raccomandati a Carlo; il perché tutto l’esercito insieme a Roma con gran letizia si vide. Il di de la Epifania sequente ne Tanno 1266 Carlo e Beatrice sua donna ne la chiesa di San Giovanni Laterano furono coronati del regno di Sicilia citra et ultra il Faro per le persone loro e de li loro successori ancora femine, con due condizioni: la prima che ogni anno pagassino a la Sede apostolica quaranta mila ducati, la seconda che né lui nè suoi successori potessi no essere imperatori né accettar l’imperio ancor che da li elettori fussino chiamati. Finita la solennitá de la sua coronazione s’inviò senza indugio verso il reame, pigliando la Campania senza spada, ove trovò ambasciatori mandati da Manfredi o per pace o per tregua. A li quali Carlo in poche parole rispose che tornassino pur al loro signore, ché altro che guerra non voleva e che o lui metteria Manfredi ne l’inferno ovvero Manfredi metteria lui in paradiso. Seguitando poi il suo cammino passò il ponte di Ceperano, non ostante che ’l fusse stato fortificato di molta gente e di munizione sotto la guardia del conte Giordano d’Agnano e del conte di Caserta, che era di casa di Aquino chiamato Rinaldo, con molti saracini. Passò senza [p. 159 modifica] battaglia per tradimento del conte di Caserta, il qual non volse che Giordano combattesse, dicendoli essere meglio che lasciasse passare una parte per avere a combattere con manco numero, e quando fu passata disse poi che erano troppi li nimici e che non era da combattere a disavvantaggio. E prese la via verso le terre sue e lasciò deluso Giordano, tradendo il suo signore; benché quelli che lo escusano dicono che lo fece per vendetta, imperocché Manfredi per forza li aveva adulterato la donna. La qual cosa a molti altri pare mal verisimile, perché la donna del conte era sorella di Manfredi; onde alcuni giudicano che ’l fusse pur vero tradimento, non alieno da’ regnicoli.

Preso Ceperano pigliorno Aquino senza contrasto e Rocca d’Arce per forza, e poi andorno a campo a San Germano, nel quale erano mille cavalli e sei mila fanti e molti de li saracini di Luceria: e per caso o pur per volontá di Dio lo preseno in un subito. Imperocché venuti a le mani li ragazzi di dentro con quelli di fuora ne l’abbeverare dei cavalli con dirsi parole ingiuriose ne l’esaltar ciascuno li suoi, il campo francese dubitando d’altro si mise in arme e corse a rumore; e li primi furono il conte di Badamonte e messer Giovanni suo fratello, i quali cacciando li ragazzi ne la terra, insieme con loro vi entrorno dentro, e appresso di loro seguitò il conte Guido Guerra con li suoi guelfi, e combattendo virilmente poseno una bandiera su ’l muro. Il che vedendo il resto del campo si diede a la battaglia atrocissima con gran furore da piú parti de la terra, in modo che quelli che non aveano elmetti da battaglia smontavano da cavallo e con le selle in capo andavano sotto le mura. E un’altra disgrazia accadette ancora a la parte di Manfredi, che li saracini che erano a la difesa si portorono lentamente e infedelmente per una questione e un tumulto stato il di innanzi con li italiani, ove avevano loro avuto la peggiore. Per le quali cose tutte, in un subito la terra fu presa e molti se ne fuggirono e molti ne fumo presi e molti morti: onde Carlo alcun di riposò ne la terra per intendere li andamenti di Manfredi. [p. 160 modifica] Preso San Germano, Manfredi con buon consiglio si ritirò a Benevento per poter impedire il passo a Carlo, che altra via non aveva d’andare a Napoli o in Puglia, e per avere in sua facoltá il pigliare o non pigliare fatto d’arme, essendo appresso una forte e grossa terra, e per potere ancora a sua posta ritirarsi in Puglia. Carlo sentendo questo, parti da San Germano, e non potendo andare per Terra di Lavoro per rispetto de la torre di Capua e per la grossezza del Volturno, passò su alto al monte e per la via di Alife per aspre vie e montagne e con gran disagio di vittuaglie calò in su la valle a pie’ di Benevento due miglia appresso il fiume Calore, circa l’ora di terza in di di Venere a li 6 di febraro 1266. Come Manfredi vide li inimici, con mal consiglio deliberò far fatto d’arme, credendo fusse meglio assaltarli cosi stracchi; ché soprastando li avria vinti a man salva, perché non avevano di che vivere né per loro né per li cavalli, e le genti di Manfredi, che erano sparse in diversi lochi del regno, si sariano messe insieme con lui. Ma essendo venuta l’ora sua fatale, poco valevano li consigli; il perché passato il Calore per il ponte usci nel piano di Santa Maria de la Grandella, in un loco chiamato la Pietra di Rossetto, dove fermato fece del suo esercito tre squadroni, in questo modo: uno fece di lombardi, toscani e todeschi di mille uomini d’arme, i quali guidava il conte Giordano d’Agnano, il secondo tutto di todeschi di mille e ducento uomini d’arme sotto governo del conte Galvano Lancia, il terzo de’ saracini di Luceria e di pugliesi e d’altri regnicoli di mille e quattrocento uomini d’arme, de li quali esso Manfredi volse esser capo; oltre li fanti e arcieri saracini in gran numero.

Da l’altra parte Carlo valoroso e volonteroso di combattere fece ancor lui tre squadroni principali, ma uno partito in due, in questo modo: il primo di mille uomini d’arme francesi, guidato da messer Filippo di Monforte marescalco del campo, il secondo di mille e novecento uomini d’arme, di suoi baroni e cavalieri e di provenzali de la regina e di romani e campagnini; e questo era partito in due parti, una ne [p. 161 modifica] guidava il re Carlo proprio, ove portò in quel di l’insegna regale messer Guglielmo Stendardo uomo di gran valore, l’altra parte governava il conte Guido di Monforte; il terzo squadrone era di mille e ducento uomini d’arme, di francesi, borgognoni, fiammenghi e piccardi, capo di esso Roberto conte di Fiandra genero di Carlo, col suo maestro messer Egidio il Bruno conestabile di Francia. Era poi oltra questo uno squadrone di quattrocento uomini d’arme di guelfi fiorentini, capo Guido Guerra, con la loro insegna che li aveva donato Clemente pontefice, che era un’aquila rossa in campo bianco, che sopra la testa aveva un giglio rosso piccolo e ne le branche ovvero artigli aveva un serpente verde, molto bene in punto. Ordinate le schiere cosi come avemo detto, dicesi che Manfredi contemplando l’ordine de li inimici dimandò chi erano quelli che cosi risplendeano ne l’arme: li fu detto che erano li guelfi di Toscana. Allora dimandò ove erano per lui li ghibellini, per li quali aveva giá fatto tante spese e datoli tanto favore; e non se ne mostrando né comparendo alcuno, disse che quelli guelfi in quella giornata non potevano se non vincere, volendo inferire che se rimaneva vincitore lui, lasciarla li ghibellini e favoriria la parte guelfa. Détte poi Manfredi il segno a li suoi, che gridassino S ve via. Da la parte di Carlo il vescovo di Cosenza, legato apostolico, assolvette di colpa e di pena tutti li combattenti per Carlo, come cavalieri di Santa Chiesa e diede la benedizione al campo. Dipoi si cominciò il fatto d’arme da li primi due squadroni, todeschi e francesi. Il primo assaltatore fu il conte Giordano, e l’assalto de’ todeschi fu si potente che tolse terreno a li francesi; per la qual cosa Carlo col suo squadrone e con li guelfi, che mai da lui si partivano, ristorò li suoi, c nondimeno li todeschi stavano ancor superiori per il peso de le spade e la possanza de le persone loro. Per il che Carlo fu buttato a terra e la voce andò che l’era morto; tuttavia rilevato presto, e veduto, levò la voce: — A li stocchi, a li stocchi, a ferir cavalieri! — Onde fattisi innanzi li suoi il conte di Fiandra e messer Egidio e scontratisi col conte Giordano, [p. 162 modifica] il fatto d’arme fu molto crudele e stretto, e massimamente da la parte de’ piccardi, i quali facevano gran strage e come avevano morto uno, lo spogliavano. Iacobo Cantelmo da l’altra parte e Giordano di Lilla e li due traditori di Federico II, fuorusciti del regno, Pandolfo da Fasanella e Roggero da San Severino, facevano aspra battaglia, in modo che la parte di Manfredi e li todeschi cominciorno ad essere ributtati. Il che vedendo Manfredi volse fare innanzi il suo squadrone, ma la maggior parte de li baroni pugliesi e regnicoli 10 abbandonorno: tra li quali furono il conte de la Cerra, il conte di Caserta, il conte Galvano, per viltá e infedeltá, come è scritto, essendo gente vaga di avere nuovi signori. E chi fuggi verso Abruzzo e chi in Benevento.

Per la qual cosa Manfredi come franco signore e cavaliero, volendo piú presto morire che lasciar li suoi vilmente fuggendo, deliberò con quelli pochi che erano rimasti soccorrere. E volendosi porre l’elmetto in testa, un’aquila d’argento, la quale lui di sua mano aveva ben confitta per cimiero, li cadde sopra l’arcione d’innanzi, il che ebbe per malo augurio e disse in lingua latina: Hoc est signurn Dei , cioè: Questo è segno di Dio. E nondimeno cosi senz’altro cimiero si cacciò virilmente ove la battaglia era piú stretta tra li piccardi, e francamente combattendo faceva gran prove e gran strage de 11 inimici. Infine un piccardo menando una lancia manesca diede ne l’occhio del cavallo e glie lo cavò de la testa: il cavallo si levò si alto in piedi d’innanzi per la doglia, che cadde sopra Manfredi. Li piccardi li fumo addosso e senza sapere altramente chi fusse, di molte ferite Io ammazzorno e spogliorno lasciandolo nudo. Allora cominciò la vittoria di Carlo essere indubitata e la occisione fu grande; e quasi tutti li primi condottieri di Manfredi e li piú virili furono presi: e tra li altri il buon conte Giordano e Manfredo suo fratello, il conte Bartolomeo Semplice e il suo fratello, il conte Bonifacio Maletta, Piero de li Asini da Fiorenza uomo molto gagliardo, Guglielmo Grosso provenzale, Albertazzo e Stefano Tartaro e Marino e Giacomo Capecci napolitani con molti [p. 163 modifica] altri, i quali poi furono mandati in Provenza e li morirno in prigione. Erano ancora dieci de li cavalieri di Manfredi, per la maggior parte napolitani, che avevano giurato la morte a Carlo, -da li quali Carlo con gran valore e pericolo e fatica si era difeso; e nove di loro furono morti, solo messer Corrado Capeccio facendosi la via per forza con la spada, scampò e fuggi in Sicilia a salvamento, dappoi molti pericoli. Rotto e sconfitto in tutto il campo di Manfredi, e lui morto, Carlo sopra sera entrò in Benevento e non ostante che ’l vescovo e il clero tutto con le croci e con le reliquie apparate li venissino incontra e tutti li vecchi e matrone, dimandando venia e perdono, la terra fu posta a sacco e il vescovo primo battuto e spogliato e tutti li altri sacerdoti, ogni cosa messa a fuoco e a rapina e in pubblico violate vergini e le mura buttate a terra, e insomma Benevento miserabilmente disfatto. Del fine di Manfredi niuna certezza si aveva, ancora che Carlo grande inquisizione ne facesse fare, se non che ’1 terzo di, secondo alcuni, un villano il trovò e avendolo posto attraverso a un asino, andava gridando: — Ecco il re Manfredi ! Per la qual cosa da un barone francese ebbe molte bastonate. Ma secondo altri scrittori piú verisimili, menando un piccardo il cavallo che fu di Manfredi a mano, che era molto bello ancorché fusse senza un occhio, fu riconosciuto da molti, e detto a Carlo, che fattosi venire il piccardo e il cavallo, li dimandò come l’aveva avuto e guadagnato: il piccardo li disse come e dove. Fu mandato nel loco e cercato tra quelli corpi e mandati prigioni che lo potevano conoscere, e fu ritrovato Manfredi in quel loco che il piccardo designò. E lavato tutto il corpo di vino, però ch’era di fango e di sangue tutto sordido, lo fece portare a la presenza de li baroni presi, che piú intrinseca notizia ne potevano avere, e dimandare se quello era il corpo di Manfredi. E rispondendo alcuni timidamente, il conte Giordano, e chi dice il conte Bartolomeo Semplice, come lo vide, subito il conobbe e levato un gran strido con infinite lacrime se li gittò addosso baciandolo e dicendo: — Ohimè, signor mio, signor buono, signor savio, chi ti ha [p. 164 modifica] cosi crudelmente tolto la vita? Vaso di filosofia, ornamento de la milizia, gloria de li re, perché mi è denegato un coltello da ammazzarmi per accompagnarti a la morte? — E dicendo molte parole tutte meste e lacrimevoli, le quaH sono scritte da un autore venosino, a pena se li poteva levar da dosso. Per la qual cosa fu molto commendata la fedeltá sua da quelli signori francesi.

A Carlo in fine non parse, essendo morto escomunicato, onorar quel corpo di sepoltura regale, quantunque da molti suoi baroni ne fusse pregato; ma lo fece ponere in una fossa appresso il ponte di Benevento, ove quasi ogni soldato buttò un sasso. Ma il vescovo di Cosenza di mandato del papa lo fece cavare e seppellire fuora del regno a li confini di Campania e del regno, a la ripa del fiume detto il Verde, acciò che in Benevento, terra di Chiesa, ancor morto non stesse. Sopra la sepoltura questo epitafio li fu posto: Hic iaceo Caroli Manfredus Marte subactus: Caesaris haeredi non fuit urbe locus.

Sum patris ex odiis ausus configgere Petro: Mars dedit hic mortem, tnors mihi cuncta tulit.

Basterá tradurre l’efietto e la sentenza di questi versi latini in lingua e versi vulgari, ancor che il numero di essi e ogni cosa a punto non si scontri per la difficoltá del vulgare, come in molti altri ho fatto. Ma vulgarizzandoli dico in questo modo: Manfredi dal re Carlo son qui vinto, non in cittá sepolto, e successore di Cesare fui pur! ma fui sospinto dal paterno odio al bellico furore.

Pugnai con Santa Chiesa: ella piú forte mi uccise, e tutto ne portò la morte.

Questo fine infelice ebbe il re Manfredi, avendo regnato dieci anni; lasciò donna e figliuoli, i quali si salvorno in Luceria de’ saracini, e dappoi alcun tempo, quando Carlo ebbe [p. 165 modifica] Luceria (che fu l’ultima terra ad avere) li furono dati in mano, e lui li fece morire in carcere.

Fu Manfredi uomo di persona bellissimo, dottissimo in lettere, instruttissimo in filosofia e grandissimo aristotelico, affabile con ogni uomo, animoso e gagliardo de la sua persona; astuto molto e reputato liberalissimo sopra tutti li altri signori, in modo che Riccobaldo istorico scrive di lui che di ingegno e liberalitá e beneficenza ragionevolmente si poteva equiparare a Tito imperatore figliuolo di Vespasiano, che fu reputato le delizie de la generazione umana. Edificò Manfredi una cittá nel seno, ovvero golfo di Siponto e chiamolla del suo nome Manfredonia: degno veramente di miglior sorte, se il fato o la provvidenza altro di lui non avesse ordinato.

Carlo, duca di Angiò e conte di Provenza, primo re di Napoli di questo nome, rimasto vincitore come è detto, ebbe in pochi di tutto il reame di Napoli e di Sicilia l’anno 1266, eccetto Luceria de’ saracini: a la quale essendo andato a campo, né potendo espugnarla, fattoli intorno molte bastie ben guardate, la lasciò assediata e non l’ebbe se non passata la guerra di Corradino, de la quale diremo innanzi. Et ebbela per accordo, con patto che li saracini rimanessino in essa e dessino prigioni a Carlo tutti quelli che erano in Luceria d’altra nazione che saracinica, e appresso la mogliere e il figliuolo di Manfredi, il quale carcerato nel Castel de l’Ovo e in quello fatto cieco, miseramente fini sua vita.

Andò poi Carlo a Napoli, ove regalmente ricevuto in Capuana, trovò tutto il tesoro di Manfredi in oro e fattoselo mettere innanzi sopra tappeti, ove era sola la regina e messer Beltramo dal Balzo, fece venire le bilance dicendo a messer Beltramo che lo partisse. Messer Beltramo rispose non bisognar bilance a questo, ma montandoli sopra con li piedi ne fece tre parti dicendo: — Una è del re, l’altra de la regina, la terza de li vostri cavalieri. — E cosi fu dispensato; e allora il re Carlo lo fece conte di Avellino.

Fece poi liberare tutti li prigioni pugliesi, e li baroni mandò a li suoi contadi, chi in Italia e chi in Sicilia; e non li [p. 166 modifica] piacendo abitare in Capuana per esser di legge todesca, ordinò fusse edificato il Castel nuovo. Poi per due anni ad altro non attese che ad assettare le cose di Toscana e di Roma e de li amici suoi, e fu fatto da Clemente vicario de l’imperio in Italia, oltra che fusse senator di Roma; e spesso cavalcò fuora del regno e fu a Fiorenza e a Viterbo e a Roma, le qual cose ometteremo per non esser pertinenti al regno di Napoli, del quale avemo a parlare. Né stettono le cose troppo quiete dappoi l’acquisto di Carlo nel regno; però che, a pena essendovi stato due anni pacifico, passò in Italia Corradino svevo, giovinetto figliuolo che fu di Enrico maggiore primogenito di Federico imperatore II, a la recuperazione del regno di Sicilia e di Napoli, la successione del quale per rispetto de l’avo e per li zii pretendeva che a lui appartenesse. E fu Carlo in qualche pericolo di perderlo; e per dare chiara notizia de l’impresa, trovo che fu in questo modo.

Fernando III di questo nome, re di Castiglia, tra molti figliuoli ne ebbe tre, Federico, Enrico e Constanza. Constanza da Alfonso X re di Castiglia suo fratello poi la morte di Fernando suo padre fu data per donna a Federico II imperatore (come di sopra avemo detto) e di lei nascette Enrico maggiore primogenito di Federico II, che mori in prigione. Questo Enrico maggiore ebbe due figliuoli, cioè Federico lasciato da l’avo duca d’Austria e tossicato a Melfi, si come è detto, e Corradino del quale ora avemo a parlare. Li due fratelli di Constanza, cioè Enrico e Federico castigliani, essendo in poca grazia del padre partirno di Spagna in puerizia, e Federico andò in Francia, Enrico passò in Barbaria e militò gran tempo sotto il re di Tunisi e fecesi ricchissimo; e per esser fratello di Alfonso X, parente di Bianca figliuola di Alfonso VIII madre del re Carlo, veniva ad esser ancor parente al re Carlo, e per esser stato fratello di Constanza ava di Corradino, veniva ad essere zio maggiore di Corradino.

Questo Enrico adunque, sentendo Carlo suo parente esser vincitore e fatto re di Sicilia, parti di Barbaria bene accompagnato e ricco e venne in Italia a visitar Carlo, e un tempo [p. 167 modifica] si stette ben veduto da lui e prestògli ne li suoi bisogni, essendo esausto per le guerre, quaranta mila doble d’oro; e non potendo al termine riaverle, giurò di farne vendetta. Onde dissimulando lo sdegno, tanto sagacemente operò col favore di Carlo e con la buona amicizia presa con Clemente pontefice, che fu fatto senatore di Roma in loco del re Carlo; poi attese ad acquistare la grazia e favore dei romani, e in quel mezzo non cessò per via di secreti e fedeli messi indurre Corradino a concitare li principi di Alemagna e passare nel reame e recuperare il regno de l’avo e del zio, offerendoli il consiglio e favor suo, come poi fece.

Corradino mosso da l’esortazioni di Enrico e consigliatosi con li suoi, menando con seco il duca d’Austria suo coetaneo e parente, entrò in Italia e venne a Verona, e li aspettò tanto che tutto lo apparato de la guerra per mare e per terra fu in punto. Poi col favore de’ veronesi e de’ pavesi si condusse in riviera di Genova, ne le terre de’ gentiluomini Dal Carretto, e di li sopra le galee pisane se ne venne a Pisa. Mentre che stette a Pisa, si congiunseno con lui gran numero di ghibellini, lombardi e romagnoli, e il conte Guido da Montefeltro parti da Urbino e venne ad unirsi con lui. In quel mezzo la guerra si ruppe per mare; imperocché Federico spagnuolo, fratello di Enrico senatore, con un’armata di saracini passò in Sicilia, e da Messina, Siracusa e Palermo in fuora, tutta la voltò a devozione di Corradino. Da l’altro canto l’armata pisana di quaranta galee, capi de la quale erano Corrado Trincio, Marino Capeccio e.Matteo da Vallone, scorseno per li liti del reame e rivoltorno Ischia, preseno Castellamare, Surrento e Passettano, e feceno molti danni per riviera; e dando la caccia a le galee di Carlo, corseno insino a Messina e li preseno e bruciorno molti legni e miseno a sacco Melazzo.

Carlo ne la venuta di Corradino a Verona si ritrovava in Toscana a Poggibonzi; onde tornato a Napoli e messo in punto tutto quello poteva fare, se ne era venuto verso li confini del reame per contraponersi a Corradino. Il qual mosso da Pisa, ruppe un marescalco di Carlo ad Arezzo, che se li volse [p. 168 modifica] opponere con li guelfi di Toscana, e nel fatto d’arme fu morto; poi venne a Siena, ove li mandati del papa lo ammonirono che non dovesse andare contra Carlo né impacciarsi del regno di Napoli, che era cosa ecclesiastica, altramente lo pronunziavano escomunicato. Corradino, poco curando tale ammonizione e comminazione d’escomunica, e sollecitato dal senatore, in quattro di si condusse nel piano di Viterbo.

A la fama de la venuta di Corradino, la Puglia per sua natura mobile, e per essere lacerata e mal trattata da un Guglielmo Landa da Parise, che la governava per Carlo, cominciò a rebellare, essendo Carlo in Abruzzo e il paese vuoto di soldati: Luceria fu la prima, e Andria, Potenza, Venosa, Matera e Terra d’Otranto e tutte le terre che non avevano rocche né presidio di francesi. Capi de la rebellione furono Roberto da Santa Sofia, che fu il primo che spiegò la bandiera de l’Aquila e Raimondo suo fratello, Piero e Guglielmo fratelli conti di Potenza et Enrico il vecchio conte di Rivello e un Enrico Pctrapalomba todesco; e appresso loro queste case nobili: casa Castagna, casa Scornavacca, casa Filangheria e casa Lotteira. Questi scorrendo la Puglia e Capitanata e Basilicata, ogni cosa rivoltorno, mettendo a sacco le terre che facevano resistenza, come la Spinacciola, Lavello, Minervino, Montemilone, Guaragnone e altri lochi. Sole queste terre si tennero che non rebellorno, perché avevano fortezze e presidio di francesi: Gravina, Montepiloso, Melfi, Troia, Barletta, Trani, Molfetta, Bitonto e Bari. Foggia volendo ribellarsi fu posta a sacco e ruinata da Guglielmo da Parise, e cosi alcuni lochi di Capitanata.

Movendo del pian di Viterbo Corradino a la volta di Roma con grosso e bene ordinato esercito e passando appresso le mura di Viterbo, il pontefice Clemente, che allora era in quella terra, vedendo dal suo palazzo passare questo esercito, mosso da spirito profetico disse a li circostanti: —Vedete voi queste genti d’arme cosi splendide e quel giovine che con tanta fiducia di si bell’esercito se ne va? Io ho gran compassione a si nobil giovine. Vedo che egli ha a portare la pena de’ peccati de’ [p. 169 modifica] suoi maggiori; imperocché Pè menato come agnello a la occhione. — E dubitando alcuno de li astanti di questo prognostico per il grande apparato e numero di quello esercito, il pontefice li replicò che tutto quello esercito come fumo al vento saria dissipato.

Corradino in somma andò a Roma, ove dal senatore e da’ romani fu ricevuto e condotto in Capitolio con quell’onore e pompa che se imperatore fusse stato. Dappoi lasciando il conte Guido da Montefeltro a la guardia di Roma in Capitolio in loco di senatore, Corradino, con Enrico e con buona gente spagnuola congiunta a l’altro esercito, si inviò verso il regno di Napoli; e intendendo che Carlo in persona guardava il passo di Monte Cassino, guidato da romani per la via di Tibure passò nel contado di Tagliacozzo e discese nel piano de’ Marsi appresso al lago Fucino, detto de’ Marsi ovvero di Celano. Li intendendo che il re Carlo ancor lui veniva, né era molto lontano, cominciorno ad andare ordinati e stretti in squadra, lasciando da man destra le muraglie antique de li acquedotti che conducevano da quel lago a Roma l’acqua, e giunseno in una pianura sopra il lago, chiamata il piano di Palenta, ovvero li campi Palentini. Ha questo piano da man destra il lago, da la sinistra li monti de’ Marsi altissimi che lo circondano, e dinnanzi in fronte è una collina che chiude quel piano: e comincia a la terra di Alba e si estende circa un miglio e un quarto. Di lá da quella collina è una valletta di giro di circa un miglio, cava talmente, che dal piano di Palenta non si può in quella alcuna cosa vedere. In questo piano di Palenta adunque si condusse Corradino col suo esercito con proposito di fare fatto d’arme. Il re Carlo, avendo parte de le sue genti in Messina contra Federico spagnuolo, parte a la guardia de le marine, parte contra pugliesi e parte perduta ad Arezzo, e per questo trovandosi assai inferiore di forze a Corradino, stava in pensiero assai di quello avesse a fare, quando li fu detto essere arrivato a Napoli un gentiluomo francese che veniva dal Sepolcro e per compimento del suo voto voleva passare per Roma in [p. 170 modifica] Francia: e chiamavasi Alardo il vecchio, uomo di grande esperienza ne l’arme. Carlo fece venire a sé questo Alardo e pregollo che li désse qualche salubre ricordo a quest’impresa. Ricusò prima Alardo per coscienza e per rispetto del voto di darli alcun ricordo; ma dappo’ molte preghiere essendo scongiurato per amore del re di Francia suo signore, fu contento, volendo però che Carlo li promettesse voler seguitare in tutto il suo consiglio, e cosi li promise.

Alardo adunque il di de la battaglia, che fu il di di santo Augustino a’ 23 di agosto 1268, fece di tutte le genti tre squadroni, e li dui primi mandò ne la pianura di Palenta poco piú di un miglio innanzi, e capo di loro fece il marescalco del re Carlo messer Filippo di Monforte, vestito e ornato con le insegne a punto regali di Carlo, con ordine che lui nel secondo squadrone avesse a comparire; il terzo squadrone, fatto de li migliori uomini e piú fidati di Carlo, insieme con la persona sua, fece restare in quella valletta piccola sopra detta senza saputa deli inimici: e lui si mise sopra la collina di Alba predetta, tra la vailetta e il piano, per attendere secondo il bisogno a ogni successo.

Corradino avendo fatto ancor lui dui squadroni, nel primo aveva messo romani e tutti li italiani e spagnuoli e altra gente, nel secondo con li stendardi era lui con tre mila uomini d’arme todeschi de la guardia sua e con il duca d’Austria, giovinetto coetaneo suo. Enrico senatore non era in squadrone alcuno, ma volse restare libero a discorrere qua e lá a le provvisioni opportune e a qualunque bisogno de la battaglia. Vedendo il marescalco del re Carlo essere tempo di assaltare li inimici, fatto sonare le trombette a l’arme, spinse innanzi il primo squadrone e attaccò il fatto d’arme. Li fu risposto virilmente da li inimici, i quali fieramente ferendo li francesi, li diedeno la peggiore: onde cominciorno ad allentare. Il che vedendo il marescalco si fece innanzi lui in persona, reputato si da li suoi come da li inimici essere il re Carlo. Era il marescalco molto fedele e valoroso cavaliere e per virtú e forza sua francamente combattendo fece grande [p. 171 modifica] occisione de li inimici, in tanto che sostenne tre ore continue la battaglia, che non si poteva comprendere qual parte avesse il vantaggio. Infine spinto da una gran furia di italiani e di spagnoli ristretti in un globo, fu rotto e buttato per terra e ultimamente dappoi molte sue prodezze e difensioni fu morto. Il rumore si levò per il campo il re Carlo esser morto e la impresa vinta, onde quelli di Carlo volti in fuga e disordine si miseno per rotti: per la qual cosa quelli di Corradino, come vittoriosi e allegri, cominciorno a rubare e spogliare e godere il frutto de la vittoria con molti segni e gridi di letizia. Cosi li todeschi che erano a la guardia di Corradino, lasciandolo solo col duca e altri garzoni e la gente disutile de’ suoi cortegiani, corseno ancor loro disordinatamente a rubare, spargendosi in vari lochi de la pianura. Alardo che sopra la collina mirava attentamente il tutto, parendoli il tempo e la occasione designata fusse venuta, fece muovere il re Carlo de la vailetta e ordinatamente e stretto smontare la collina, e con impeto dar dentro a li inimici carichi di preda e disordinati e anche in buona parte disarmati. Carlo fece a punto il bisogno con grande ordine e franchezza e non ebbe molta fatica a romperli. Onde quasi tutti o presi o morti o malmenati e in fuga lasciorno Carlo in campo vincitore de la battaglia, in testificazione perpetua de la quale è ancora in quel loco una chiesa chiamata Santa Maria de la Vittoria.

Carlo vincitore ad altro non attese che a fare ricercare Corradino per il campo tra morti e tra vivi e li altri principali de la compagnia sua, crudelmente portandosi contra li prigioni, de li quali molti ne fece impiccare e ammazzare di ferro e molti carcerare in perpetuo. Don Enrico senatore di Roma castigliano essendosi ridotto ad un monasterio a Riete, lo abbate lo ritenne e presentono al papa. Il conte Gerardo da Pisa era ridotto a Roma; il papa lo fece pigliare e lui e don Enrico diede in mano di Carlo. Don Enrico fu mandato in prigione in Provenza e li fini li suoi giorni incarcerato. Corradino e il duca d’Austria, meschini giovini, accompagnati da Galvano Lancia e Galeotto suo figliuolo e uno [p. 172 modifica] scudiero, vestiti in abito di asinari, avendo errato tre di per li boschi né sapendo dove andare, finalmente pervennero per sua mala sorte nel bosco di Astura in ripa romana sopra la marina, ove vedendo una piccola barca di un pescatore, lo pregorno li volesse condurre a li liti di Siena ovvero di Pisa, e li feceno molte gran promesse. Il pescatore accettò di farlo, ma bisognandoli pane e per loro e per lui, né avendo alcun denaro da dare al pescatore che ne andasse a comprare, Corradino si trasse un anello di dito e diedelo al pescatore, acciò che impegnandolo a la terra potesse comprar del pane e venire a la barca. Il pescatore andò a la terra in Astura e dimandando del valore de l’anello e denari sopra esso, ragionando, come accade, disse de li dui giovini di buono aspetto, ma mal vesdti, che erano venuti a la sua barca e lo aveano condotto; e tolto il pane se ne tornò a la marina e dati li remi in acqua, levando costoro, si inviò al cammino designato. La fama di questa cosa andò per la terra e pervenne a le orecchie di Giovanni Frangipane gentiluomo romano e signore di Astura, il quale subito si avvisò uno di quelli dui giovini essere Corradino, il quale Carlo con tanta diligenza facea cercare. Onde subito armato un galeone, lo mandò a la volta de la barca del pescatore, e quella giunto, e senza fatica presi li poveri e meschini signori, li condusse ad Astura. La fama velocissima de la presa di Corradino andò al re Carlo e lui per non perder tal preda con mirabil celeritá cinse Astura per mare e per terra con le genti d’arme: o che lo facesse per servar l’onore di Giovanni Frangipane, che volesse parere essere sforzato, secondo alcuni scrittori, o pur per aviditá estrema che avea di avere ne le mani Corradino, non si fidando; tanto fece che l’ebbe ne le mani e con lui li suoi compagni. Menando sempre con seco questi prigioni, andò a Roma e dispose le cose de la terra lasciando in suo loco senatore Iacobo Cantelmo; poi, come fu a Ginezzano, fece tagliar la testa a Galvano e Galeotto in vendetta de la morte del marescalco suo, morto nel fatto d’arme. Poi se ne venne a Napoli, e Corradino e il duca d’Austria [p. 173 modifica] pose in prigione, ove li tenne un anno in deliberare quello avesse a far di loro. Fece poi convocare a Napoli tutti li sindici de le prime cittá del reame, e fatto un generai consiglio, volse il parere di tutti circa quello si avesse a fare di Corradino; e tutti, e specialmente quelli di Napoli, Capua e Salerno, consultorno che Corradino fusse morto: benché sia chi scriva che il consiglio fu dato secondo che volse il re Carlo che si désse. Scrive ancor Enrico Gundelfinger constanzense ne le Croniche d’Austria , che il re Carlo consultò papa Clemente quello avesse a fare di Corradino e che Clemente li rispose queste parole: Vita Conradini rnors Caroli, mors Conradini vita Caroli, cioè: la vita di Corradino è la morte di Carlo e la morte di Corradino è la vita di Carlo. Li baroni e gentiluomini francesi in niun modo volseno prestare assenso nel consiglio a questa morte; e specialmente il conte di Fiandra genero di Carlo, il quale era tutto generoso, fieramente se li contrappose, dicendo che a un giovine di si nobil sangue in niun modo era da dar la morte, ma si doveva liberare e farlo amico, con fare parentado con lui. Cosi giudicorno molte gentil persone, che avevano l’animo libero da passione: in fine prevalse la sentenza de la morte.

L’anno sequente adunque la cattura, a di 26 di ottobre, furono distese in terra coperte di velluto cremisino nel mercato di Napoli, nel loco dove poi fu posta una colonna davanti a la chiesa del Carmine, la quale la madre di Corradino per sua memoria fece poi edificare. E li furono menati sopra li panni distesi Corradino e il duca d’Austria e il conte Gerardo da Pisa, che fu capitano de’ toscani ne la battaglia, e un cavaliero todesco pur preso in battaglia, chiamato Urnaiso, e don Enrico di Castiglia. Appresso questi furono menati ancora quattro, Riccardo Rebursa, Giovanni da la Grutta, Marino Capeccio e Ruggiero Busso, in grandissima frequenza di popolo, non solo di napolitani e francesi, ma di tutte le terre vicine, che erano concorse a si crudele spettacolo: il quale vide ancora il re Carlo, benché stesse lontano ad una torre, mirando tutto quello si faceva. Montò poi sopra un tribunale [p. 174 modifica] fatto per questo messer Roberto da Bari protoscriba del re Carlo e lesse la sentenza con tra li predetti nove prigioni, condannandoli tutti a la morte, eccetto don Enrico di Castiglia, il quale condannò a carcere perpetuo; e questo per osservare la fede data a lo abbate che lo prese, il qual volse promissione che di lui non ne faria vendetta di sangue. Li capi de la sentenza furono questi: per aver turbato la pace de la Chiesa, per avere assunto il nome falso di re di Napoli, per avere voluto occupare il regno di Napoli, per avere intentato la morte del re Carlo. Queste furono le cause principali de la condannazione sua lette ne la sentenza.

Data la sentenza, scrive un iurista napolitano di quelli tempi che a colui che pronunciò la sentenza Corradino disse: — Servo ribaldo, servo ribaldo, tu hai condannato il figliuolo del re, e non sai che un pari contra l’altro suo pari non ha imperio alcuno; — parlando in lingua latina. Poi negò mai avere voluto offendere la Chiesa, ma acquistare solamente il regno a lui debito che indebitamente li era negato; ma che sperava che la stirpe e casata di sua madre e li suoi todeschi e li duchi di Baviera suoi parenti non lasciariano la morte sua senza vendetta. E dette queste parole, trattosi un guanto di mano lo buttò verso il popolo quasi in segno d’investitura, dicendo che lasciava suo erede don Federico di Castiglia figliuolo di suo zio; e scrive Pio pontefice che quel guanto fu raccolto da un cavaliero e portato poi al re Piero di Aragona. Fatto questo, il primo a chi fu tagliata la testa fu il duca d’Austria. Corradino prese quella testa, che ancor poi che fu tronca due volte chiamò Maria, e baciolla teneramente e stringendosela al petto pianse la iniquitá de la fortuna sua, accusando se medesimo, che era stato cagione de la morte sua, avendolo tolto da la madre e menatolo con sé a cosi crudel sorte. Poi si pose inginocchione e levando le mani al cielo, dimandò perdonanza; e in quello il ministro di tale officio li tagliò la testa; e poi al conte Gerardo e ad Urnaiso. A quel ministro che tagliò la testa a Corradino un altro, apparecchiato per questo, tagliò subito la testa, acciò che mai [p. 175 modifica] vantar si potesse aver sparso si alto sangue. Li altri quattro baroni regnicoli furono sopra una forca impiccati: li corpi tronchi si stetteno in terra né fu uomo ardito di toccarli, finché Carlo non comandò che fussino seppelliti. Furono adunque sepolti in terra, e sopra Corradino posto questo epitafio: Asturis ungut leo pulitini rapiens aquilinum, hic deplumavit acephalumque dedit.

Tradotti in lingua vulgare al meglio che si può, questi versi dicono cosi: Con l’unghie de l’astor prese il leone un aquilino; or senza le sue piume e senza capo in questo loco il pone.

Questo infelice fine, lacrimato da quanti uomini il videno, ebbe il meschin giovinetto Corradino, col quale ancora la nobilissima casa di Svevia si estinse, la quale per linea mascolina e femmina da li Clodovei e da li Carli di Francia e da li imperatori di casa di Baviera discese: le quali casate produsseno in Francia e in Alemagna e in Italia molti imperatori e re e duchi e principi senza numero, onde meritamente qualunque altra casata di Germania facilmente di nobiltá trapassava. Dannarono molti scrittori il iudicio di Carlo in farlo morire, non parendo cosa regale né cristiana verso un signore di quella etá e nobiltá incrudelire, essendo scritto che egualmente bella e onorevole cosa è conservare li signori come vincerli, e che avuta la vittoria, la spada si deve riponere e non piú imbrattarla di sangue vinto, e massime cristiano. La qual cosa piú enorme ancora parse in Carlo, perché oltra molti esempi, che di prossimo erano stati, di alcuni signori presi e conservati, a Carlo proprio tal beneficio di clemenza e al re di Francia suo fratello era stato usato, e non da cristiani, ma da infedeli, che solo con la legge di natura in questo caso si governano. Imperocché ne la espedizione che fece Lodovico re di Francia, [p. 176 modifica] che fu poi santificato, in Damiata di Egitto, menò con seco il re Carlo predetto suo fratello, e ambidui furono in battaglia presi da’ saracini, e furono regalmente tenuti e regalmente rilassati. E però il re Piero d’Aragona esprobrando in una sua lettera a Carlo la sua iniquitá, che non aveva servato quella ragione verso Corradino, che avevano servato li saracini verso lui, tra le altre li dice queste parole: Tu Nerone Neronior et Saracenis crudelior, cioè: Tu sei stato piú Nerone che Nerone e piú crudele che li saracini. E però molto ancora errarono li iurisconsulti di quelli tempi a interpretare male una sentenza di Augustino dottore ecclesiastico, il quale dice, nel Decreto, che il vincitore è obbligato fare misericordia al vinto, massimamente ove non è sospetto di turbazione de la pace. Ugolino, commentator ilei Decreto, interpretò quella parola massimamente che volesse dire solamente: in questo senso secondo loro, che a quelli solamente perdonare si deve, da chi non si teme turbazione di pace, e non ad altri. Per la quale interpretazione inumana e fuora d’ogni latina intelligenza e contra la mente di Agostino, dice Giovanni da Lignano eccellente canonista che a Corradino fece il re Carlo tagliar la testa. La qual cosa in tanto dispiacque ancora a li amici del re Carlo, che si legge che Roberto conte di Fiandra, che era suo genero, pieno di generosa indignazione, passò con uno stocco.e ammazzò colui che lesse la sentenza, parendoli indegno di vita quello che, essendo di vilissima condizione, contra un principe di si alto lignaggio li fusse bastato l’animo leggere una sentenza di morte.

Questo è quanto de la signoria de’ Germani e casa di Svevia nel regno di Napoli ho trovato; e però con loro questo quarto libro finiremo.