Cristoforo Colombo (de Lorgues)/Libro I/Capitolo XI
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Traduzione di Tullio Dandolo (1857)
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CAPITOLO UNDECIMO.
Arrivo della Nina a Palos. — Ricevimento fatto a Colombo. — Arrivo della Pinta. — Fuga precipitosa di Martin Alonzo Pinzon. — Colombo adempie i voti fatti. — Egli ritorna alla sua cella — Sua partenza per la Corte. — Suo viaggio trionfale. — Le popolazioni corrono sulle strade. — Sua entrata in Barcellona. — Accoglienza d’Isabella. — La notizia della scoperta suona per tutto. — Testimonianza della Santa Sede in favore di Colombo. — Onori resi al suo genio. — Del racconto dell’uovo. — Apparecchi per la seconda spedizione.
§ I.
Un sentimento di vaga inquietudine travagliava allora la piccola città di Palos. Ogni famiglia si preoccupava dolorosamente per qualche parente od amico. Da sette mesi e dodici giorni, perocchè si contavano i giorni, non si avevano notizie di que’ figli del paese, che un ordine del re aveva costretti a seguire quel genovese, gran promettitore, di cui non vi aveva una madre od una sposa che non maledicesse la memoria nelle meste lor veglie. Che n’era riuscito di loro? nessuno poteva dirlo nè i primi alcaldi, nè l’intendente marittimo Diego Prieto che aveva relazioni alla corte: temevano tutti a vicenda di confessarsi i propri timori: tenevano gli assenti perduti negli abissi del mar tenebroso, e nessuno osava esprimere qual genere spaventevole di morte avessero patito quegli infelici, sacrificati all’ambizione di un visionario straniero.
I cittadini versavano in tali paure, quando il venerdì 15 marzo, all’ora del mezzodì, que’ che oziavano sul porto videro una caravella che, spinta da legger vento risaliva l’Odiel, e in breve riconobbero alla sua forma la Nina, che portava sventolanti a’ suoi alberi l’insegna della spedizione, e il vessillo reale di Castiglia. Uno scoppio di gioia risonò incontanente dall’un capo all’altro di Palos.
In un baleno, la notizia del ritorno della spedizione e delle sue maravigliose scoperte volò dalla spiaggia alle case. Per un movimento spontaneo, tutte le botteghe si chiusero, e tutti traevano in calca a vedere la caravella: le campane sonavano a festa; le artiglierie tonavano; le finestre erano adorne di fiori; le contrade addobbate di drappi e di tappeti. «Sbarcando, Colombo, fu ricevuto coi medesimi onori che si sarebbero resi al Re. Tutto il popolo in procession solenne accompagnò lui e le sue genti, alla Chiesa, ove andarono a ringraziar Dio di aver favoreggiato a quel modo il viaggio più lungo e più importante che unqua fosse stato fatto. Dopo sì gran timori e perplessità, quale non doveva essere l’ebbrezza delle famiglie, ricuperando coloro che disperavano di non più rivedere!
Alquante ore dopo, mentre tutta la città, trasportata da una indicibile allegrezza, offeriva le sue gratulazioni e i suoi omaggi all’ammiraglio, e col suon festoso delle sue campane annunziava alle vicine borgate un avvenimento straordinario, si vide giungere vicino alla Nina un’altra caravella assai conosciuta dagli abitanti, la Pinta, condotta da Martin Alonzo Pinzon: in capo ad alcuni minuti, una scialuppa se ne spiccò furtivamente e ridiscese il fiume: era il capitano che fuggiva.
Sospinto dalla tempesta nel golfo di Biscaglia, Martin Alonzo Pinzon, persuaso che colla sua vena d’acqua, i tanti suoi guasti, la povera piccola Nina non avrebbe potuto salvarsi dalla procella, aveva indirizzata ai Re una relazione della scoperta, che attribuiva a sè stesso, e dimandava l’autorizzazione di andare alla Corte per rendere conto della spedizione: in aspettazione della loro risposta veniva nella sua città natale a godere dell’usurpato trionfo: ma, vedendo sventolare la bandiera ammiraglia sull’albero maestro della Nina, fu preso da confusione; e pel timore che il suo Capo lo facesse imprigionare, come n’aveva diritto, fuggì vergognosamente colla rabbia in cuore, alle grida del trionfo di colui che avea sperato soppiantare.
Di tutto l’equipaggio della Pinta non mancava pur un uomo; e fra’ lasciati ad Ispaniola non ve n’era alcuno natio di Palos. Colombo poteva a buon diritto indirizzare alle genti di questo porto che lo avevano detestato e maledetto, le parole del Buon Pastore: «io non perdei nessuno di quelli che m’avete dato.» Perciò la gioia degli abitanti era al suo colmo. Vedendo che l’ammiraglio riconduceva loro tutti quelli che avevangli fidato, non sapevano com’esprimergli la lor profonda ammirazione.
Testimoni dell’accoglienza fatta dalle loro famiglie a’ marinai di Palos, gli altri marinai originarii dei dintorni, desiderosi di simile conforto, avrebbero voluto partir la sera medesima alla vôlta delle loro famiglie: ma le allegrie, i trasporti e l’entusiasmo di cui eran oggetto, non potevano cancellare un istante dall’anima così teneramente pia di Colombo l’obbligo preso durante la tempesta delle Azzorre. L’ammiraglio non concedette congedi prima di avere adempiuto il voto che la perfidia del governatore portoghese di Santa Maria aveva sacrilegamente interrotto. Aveva promesso andar nella prima Chiesa dedicata a Nostra Signora, vicina al luogo in cui la Nina potrebbe approdare: ora il luogo era Palos: la Chiesa, Nostra Signora della Rabida, nel convento in cui era guardiano Giovanni Perez de Marchena.
Così il generoso Francescano, che aveva celebrato la messa solenne per l’imbarco, celebrò quella di ringraziamento pel ritorno. Parve che la Provvidenza gli avesse procacciata questa soddisfazione. La vigilia ringraziarono Dio del benefizio della scoperta; la dimane ringraziarono la Vergine della Salute, l’áncora di speranza del povero marinaro. Questa fu cerimonia commoventissima. Tutti que’ navigatori a piè nudi e in camicia, dall’ultimo sino all’ammiraglio, nel compassionevole aspetto di naufragati, salvi dai flutti, avviati a render grazie a Maria, la stella del mare, per avergli strappati dagli abissi dell’Oceano infuriato, erano seguiti da una pressa di gente che si associava di cuore alle loro preghiere e alla loro gratitudine.
Allora ogni marinaio si vedeva attorniato, ascoltato come un oracolo, e la sua famiglia andava superba di lui: tutti se lo contendevano: i suoi parenti si raccoglievano insieme per festeggiarlo; ma l’ammiraglio, in mezzo agli onori ed alle lodi, si trovava a Palos come uno straniero: non vi aveva alcun parente: la sua famiglia era quella di San Francesco; i suoi fratelli erano i frati dell’Ordine Serafico che lo aspettavano alla Rabida: tornò pertanto a loro, e ripigliò la cara cella che il padre Guardiano riserbavagli.
È facilmente indovinabile la gioia e la contentezza dei due amici in riunirsi. Il pensiero che separatamente l’uno dall’altro avevano dianzi avuto, la speranza che coltivarono di rivedersi, e la lor fede paziente che seppe trionfare dell’orgoglio e dei pregiudizi della scienza, conseguivano finalmente la meritata ricompensa. Così dunque il padre Giovanni Perez di Marchena non si era ingannato! Al di là della linea azzurra dell’Occidente che il suo sguardo interrogò sì spesso, esistevano dunque come aveva presentito, terre abitabili e popoli da condurre al Salvatore! Il segno della Redenzione era stato mostrato agli indigeni, e salutato da quegli schietti figli delle foreste: or si potrebbe adempiere il desiderio del serafico Francesco d’Assisi. Ciò che v’ebbe allora di gioia serena, di soddisfazione evangelica e d’intima consolazione nella piccola comunità della Rabida non potrebbe esprimersi a parole.
Si può certificare che in nessun congresso fu discusso mai progetto diplomatico più importante di quello, di cui sette anni prima, Colombo e il dotto Francescano avevano esaminato le basi in quell’umile monastero: ma del paro non fu concepita mai combinazione più ardita di quella, di cui, la dimane del suo arrivo, Cristoforo Colombo tesseva il piano in pro della Castiglia. Per l’interesse della Monarchia Spagnola, il lavoro che egli tesseva così in fretta nel silenzio della sua angusta cella, era forse più immenso e più immediatamente vantaggioso della sua scoperta stessa.
.ln quella cella, Cristoforo Colombo, compiendo il breve dispaccio che aveva spedito da Rastello alla Corte di Castiglia, tesse il riassunto della sua scoperta.
Da quella cella, consigliò ai due Re di fare omaggio alla Santa Sede delle terre nuovamente trovate, e di ottenere la sua benedizione su questa impresa con una Bolla che proteggerebbe le sue conquiste.
Da quella cella altresì, egl’indicò, come per evitar conflitti ulteriori, dovrebbe farsi lo scompartimento delle terre da scoprire fra le due potenze marittime, che aspiravano in quel tempo alla signoria dell’Oceano.
A tale effetto, Colombo imagina di far attribuire dal Sommo Pontefice, per le scoperte de’ Castigliani nell’ovest, uno spazio eguale a quello che avrebbero i Portoghesi nell’est. E affine di determinare i confini dei due regni sui piani illimitati dell’Oceano, propone un mezzo di una semplicità divina.
Altrettanto securo, che se avesse tenuto sotto i suoi piedi lo spazio intero del globo, di cui più di due terzi erano ancora ignorati, egli fa con una sublime audacia, o meglio con una calma angelica, la sezione dell’Equatore, che nessuno aveva oltrepassato: disegna attraverso l’immensità una demarcazione gigantesca; tira da un polo all’altro una linea ideale, che dividerà la terra, passando ad una media distanza di cento leghe, presa fra le isole del Capo Verde, e quelle delle Azzorre. Per operare questa sorprendente separazione geografica, elegge precisamente il solo punto del nostro pianeta che la scienza sceglierebbe a’ nostri giorni; nella curiosa regione della linea ove cessa la declinazione magnetica, la trasparenza delle acque, la soavità dell’aere, l’abbagliante limpidezza dell’atmosfera, l’abbondanza della vegetazione sotto marina, lo splendore tropicale delle notti, la fosforescenza delle onde, indicano nel mobile impero delle onde una demarcazione misteriosa segnata dal Creatore.
Questa colossale divisione era il più ardito concetto che fosse mai uscito da umano intelletto. Proporzione sì gigantesca non era entrata mai in un calcolo di misura. Nondimeno Colombo senza stupire, senz’esitare, non sospettando forse neppur egli del prodigio della sua operazione, traccia la sua proposta e dimanda con semplicità che la si mandi a Roma.
Sicuramente tutto quello ch’egli esponeva nelle sue considerazioni, per questa divisione delle regioni inesplorate fra le due corone di Castiglia e di Portogallo, era altrettanto razionale che ardito; e tanto ardito quanto novissimo al rimanente degli uomini; e per questo appunto, a motivo degli ostacoli, che prova sempre la novità, doveva provocare obbiezioni, dubbi e perciò resistenze. Ma il Messaggero della salute aveva fede nell’infallibile sapienza della Chiesa, depositaria delle verità del Verbo. Noi vedrem più innanzi, come il Papato giustificò quella nobile fiducia.
§ II.
Tutti gli uomini tornati coll’ammiraglio potevano riposarsi, gustar la calma del riposo dopo tante fatiche e sì gran travagli e pericoli. Ma egli, che la sorte aveva eletto per l’espiazione di tutti, doveva adempiere i voti onde lo gravava una predilezione misteriosa.
Primieramente, dovette andare a Nostra Signora di Guadalupa, portando un cero acceso di cinque libbre. In questo ritiro, provò grandi consolazioni spirituali: conversò con santi uomini e strinse con essi tali relazioni che continuarono: promise a que’ Religiosi, in memoria delle loro simpatie di imporre il nome del loro monastero ad una delle isole che Scoprirebbe; e in breve attenne la parola.
Indi Colombo tornò presso Palos e Moguer, al convento di Santa Chiara, a cui naturalmente lo affiliava il cordone di San Francesco, che portava sotto le sue vesti. Quivi fu celebrata una messa solenne in ringraziamento. Poscia, quando fu sera, entrò solo nella cappella, le cui porte si chiusero: doveva passarvi in orazione tutta la notte. Il vacillante luccicar della lampada del santuario si rifletteva sui quadri, sui bassi-rilievi del coro, e disegnava confusamente le guerriere effigie dei Conti di Puerto-Carrero, antichi signori del luogo, prodi cavalieri della Croce, che s’illustrarono contro i Mori. Con un’ereditaria fedeltà della loro schiatta avevano per diversi secoli combattuto valorosamente la mezza-luna. ll sangue dei Puerto-Carrero e collegato, come è noto, cogli avi della contessa di Teba, l’imperatrice Eugenia. I conti di Puerto-Carrero dormivano il loro sonno in quella chiesa, di cui erano stati benefattori. Le statue di alabastro delle loro mogli e delle loro figlie, messe in linea lungo le pareti, notavano il luogo dei loro sepolcri. Il dubbio chiarore della lampada nelle sue vacillazioni sembrava là, per l’ingrandimento delle ombre, imprimere un movimento fantastico all’immobile bianchezza di quelle tombe. Un’anima di meno forte tempera di quella di Colombo non avrebbe potuto pregare con perfetta calma. Il messaggero dell’Altissimo, prostrato dinanzi al tabernacolo, alla presenza di Gesù Cristo vivente nella Santa Eucaristia, scrutò di nuovo il suo cuore tra queste funebri imagini del nulla e delle pompe umane. La dimane, dopo soddisfatto al dovere, rivide i suoi antichi amici, l’abate Sanchez e Cabezudo, gli invitò a venirlo a trovare a Palos, e mostrò loro gli Indiani, e l’oro del Nuovo Mondo.
L’obbligo di Colombo non era per anco interamente soddisfatto: doveva andare a Nostra Signora della Cintura, nella medesima provincia di Huelva. È noto che vi andò umilmente, a piè nudi e in camicia, secondo il tenore del voto.
Dopo soddisfatti, per quanto era da lui gl’impegni de’ suoi voti, Colombo tornò alla sua guida spirituale, il padre Giovanni Perez de Marchena. Per oltre sette mesi egli era stato privo degli alimenti sacri della fede e del pane dei forti: sentiva il bisogno di ravvivare l’anima sua, di rinfrescarla colla calma benefica della regola, di gustare il riposo ristoratore del chiostro. Egli depose nel seno del suo amico segreti che nessuno ha conosciuti. Ciò che aveva patito dagli uomini, ciò che aveva ricevuto da Dio, le sue congetture particolari, ciò che non confidò alla carta, i suoi dubbi, cosmografici, le vedute indefinite, gli abbozzi del suo pensiero, gli arditi corollari della sua intuizione, tutto fu versato in quel vasto cuore, che le rustiche lane di San Francesco ricoprivano. Come l’espansione di queste due anime così ardentemente invaghite del bello e dell’imperituro, come la libera comunicazione di questi due spiriti che si riflettevano l’uno sull’altro, semplici nella loro fede, sublimi nella loro intuizione, dovevano essere feconde di lumi superiori, e di aspirazioni verso quel Verbo divino, nostro Redentore, da cui deriva ogni amore ed ogni carità fra noi!
L’ammiraglio non potè rimanere altro che sette giorni alla Rabida: doveva andare a Siviglia per quivi aspettar gli ordini dei Monarchi, e giunsevi poco innanzi il dispaccio della corte, in data del 30 marzo, direttogli con questo significativo indirizzo: «A don Cristoforo Colombo, nostro ammiraglio del mare Oceano, Vice re e governatore delle isole scoperte nelle Indie.»
ll dispaccio conteneva gratulazioni del suo felice viaggio, lo chiamava a Siviglia a far i necessari provvedimenti per una nuova spedizione più in grande, e lo invitava ad andare il più presto possibile a Barcellona.
Col ritorno del messaggero, Colombo mandò ai sovrani un piano particolarizzato per tale armamento, fece a Siviglia tutto quello che gli permettevano le disposizioni locali, indi si mise in via coi sette Indiani, che avevano resistito ai patimenti del viaggio, e colle curiosità che recava dal Nuovo Mondo.
Martin Alonzo Pinzon ardì rientrare a Palos, ma solamente dopo partito Colombo per Siviglia: anch’egli ricevette una risposta dalla corte; ma era opprimente pel suo orgoglio, ed integrava colla sua severità il castigo della invidia. Questo colpo distrusse la sua ultima speranza. La gelosia e l’odio gli suscitarono tal febbre che in breve lo consumò. Uom pratico del mare, Martin Alonzo avrebbe potuto conservare un posto glorioso allato dell’ammiraglio, e associarsi all’immortalità della sua scoperta, se, per usare l’espressione dello stesso Colombo, avesse saputo comprendere l’onore, che avevagli fatto di condurlo seco. Per aver voluto essere il primo, quando non era sortito che al secondo posto, perdette il frutto delle sue fatiche, il premio de’ suoi pericoli, e perfino ciò che possedeva prima della partenza, felicità, fortuna, e stima: abbreviò la propria vita perchè la disonorò colla diserzione, colla disobbedienza e colla impostura.
§ III.
Intanto colla rapidità di una comunicazione elettrica, la fama aveva già diffuso sino alla frontiera della Spagna l’annunzio del prodigioso avvenimento che si celebrava a Palos, a Siviglia ed a Barcellona. E siccome la via che doveva correre Colombo per andare a corte passava in mezzo alle provincia più fiorenti e più popolose, così un’immensa moltitudine si accalcava sul suo passaggio; i popoli di Murcia, di Valenza, di Aragona e di Castiglia accorrevano per andare ad incontrarlo dai più remoti villaggi. «Tutto il suo viaggio fu per lui un continuo trionfo. Le grandi strade e le campagne risonavano degli applausi de’ popoli che abbandonavano ogni cosa per vederlo. Da tutte le città uscivano per incontrarlo.» Gl’impedimenti che cagionava il suo arrivo ritardavano il suo cammino; era costretto di fermarsi ne’ borghi e nelle città poste sulla sua via.
Questo corteo, più strano che pomposo, cominciava co’ marinai della Nina sotto le armi, i quali scortavano lo stendardo reale della spedizione, portato da un piloto. Indi venivano marinai, gli uni carichi di rami d’alberi sconosciuti, di canne gigantesche, di felci arborescenti; gli altri recando cotone non lavorato, frutti di cocco, di zenzero; altri corone d’oro, braccialetti, cinture, maschere, corone di piume, conchiglie, lance e spade di quel legno che si chiama di ferro, e frecce senza acciaio: portavano vegetabili ed animali ignoti, alcuni vivi, altri impagliati. L’aspetto orribile di due mostri, appesi ad un palo destava spavento e curiosità; erano due iguani: intorno ad essi gracchiavano e battevano le ali quaranta specie di papagalli. Venivano poscia i sette indiani nella pompa dei loro ornamenti nazionali e studiosamente pinti in bianco e rosso. Finalmente giungeva l’ammiraglio nell’assisa delle sue dignità, sopra un cavallo che guidava con bella disinvoltura: dietro a lui i suoi tre scudieri si sforzavano di contenere la calca avida di accostarglisi. Ad ogni momento, confusi e quasi spaventati della romorosa curiosità che suscitavano, i sette indiani si volgevano a guardare l’ammiraglio lor protettore, il cui sorriso assecurava la loro debolezza.
La storia dichiara che la gran calca non si formava solamente, e specialmente per vedere gl’indiani e gli strani oggetti che si portavano scopertamente; una più nobile curiosità giustificava quella sollecitudine: tutti volevano contemplare l’ammiraglio, e scolpire nella memoria i lineamenti dell’uomo favorito dal Cielo, il quale aveva valicato il mar tenebroso ed ampliati i confini della Terra. Tutte le braccia si agitavano; tutte le fronti si scoprivano al suo approssimarsi; era una salutazione immensa. Le madri lo additavano ai loro figlioletti e pregavano per lui. Egli si avanzava così a piccole giornate, ricolmo di segni di ammirazione e di entusiasmo, ricevendo gli applausi e le benedizioni delle moltitudini. L’eroe cristiano, dolcemente commosso da queste dimostrazioni, riferiva a Dio solo un tale trionfo. Tuttavia quella sollecitudine incomparabile delle popolazioni gli era una conferma della grandezza dell’opera, per la quale la Provvidenza aveva degnato d’eleggerlo.
Nel suo entusiasmo, avendo il popolo preceduto con questa ovazione gli ordini dei Monarchi, l’etichetta così rigorosa della corte dovette cedere dinanzi a quel voto unanime. Così per soddisfare all’opinione, come per rimunerare di un segno senza pari un servizio che non aveva l’eguale, i Monarchi prepararono all’ammiraglio un’accoglienza sino allora inudita.
Il15 aprile, in cui Colombo doveva entrare a Barcellona, una gran parte de’ cittadini era andata ad incontrarlo; il fiore della gioventù lo precedeva a cavallo: una deputazione della corte, mandatagli incontro, lo aspettava fuor delle porte della città. Come per compiere e crescere quella solennita, l’orizzonte era tutto dolcezza e luce. La natura precoce del paese facea pompa delle primizie delle sue ricche produzioni. Il sole splendeva nel più bel sereno. Il vento del mare spandeva, insiem colla sua freschezza, i profumi delle rose e de’ fiori d’arancio che cominciavano ad aprirsi. Nel palagio dei re, per nuova disposizione, era stata ingrandita la vasta sala delle cerimonie, res’accessibile al popolo e splendidamente decorata. Sotto un magnifico baldacchino di broccato d’oro stavan rizzati due troni, un seggio coperto di velluto con frange d’oro, e accanto ad esso, posta alquanto innanzi, una ricca seggiola a bracciuoli.
Poco prima del suo arrivo, preceduti, secondo il cerimoniale usato, dai loro araldi di armi, dalle trombe, dai messaggeri e dalla loro casa militare, i due Monarchi, cinta la fronte della loro corona, e vestiti di tutti gli attributi della sovranità, entrarono, e si assisero ciascuno sopra il suo trono.
ll Principe reale sedette sul secondo seggio.
La seggiola a bracciuoli rimase vuota.
I grandi ufficiali delle due case reali, i ministri, i consiglieri di stato si ordinarono a destra e a sinistra alquanto dietro ai troni. I dignitari d’Aragona da un lato; i dignitari della Castiglia dall’altro; e più lungi gli impiegati delle due case civili, i cavalieri, gli scudieri, i paggi, ciascuno secondo il suo grado. In luogo riservato avevano preso posto le dame del palazzo, i prelati, i ricchi signori, la nobiltà; al di fuori della balaustrata stavano in piedi gl’intendenti delle due corone, e i borghesi che qualche dimestico della corte avea introdotti colà per favore.
Al di fuori si udiva il fremito indescrivibile della moltitudine; le strette contrade di Barcellona erano stivate di una calca impaziente di vedere. A tutti i balconi adorni di fiori, di tappeti e di donne, si agitavano mazzi di fiori, ventagli e mantiglie. Da ogni terrazzo, e perfin dai tetti carichi di spettatori, partivano mille voci confuse e tutte festose. A poco a poco quell’immense e sordo romore si fece più grande, si rinforzò, crebbe e si tramutò in tonanti plausi.
Le grida della calca e il ritorno de’ signori mandati alle porte della città, annunziarono l’arrivo del corteo. E tosto si vide entrare intorniato dagli ufficiali della spedizione, il vessillo reale, cosi felicemente ricondotto dall’altra riva del mar tenebroso: furono guardati con ammirazione quegli uomini dal colorito abbronzato che lo avevano seguito in mezzo a tanti pericoli. La curiosità divorava, per così dire, cogli occhi gli oggetti sconosciuti portati da quel Nuovo Mondo: le piante, gli animali vivi o conservati, sepratutto gl’Indiani ignudi e timidi, dipinti il corpo in quella strana foggia.
Alla perfine apparve Colombo altrettanto semplice quanto modesto nella magnificenza della sua assisa. Ma il sue cuore era innondato da santa gioia, e la sua fronte raggiava di una serenità sublime. Trasparivangli dai lineamenti del viso il sentimento dell’augusta missione da lui adempiuta.
Scorgendo il rivelatore del Nuovo Mondo, per un moto improvviso, i due Monarchi, alzandosi da sedere, fecero qualche passo innanzi, come per andare verse di lui, e gli stesero graziosamente le mani. Sempre sottomesso all’autorità, Colombo andava in segno di omaggio per baciar le mani reali, piegando il ginocchio secondo l’etichetta di Castiglia; ma Isabella e Ferdinando non lo consentirono. La Regina, confusa a tale atto di modestia, lo fece sedere accanto a lei nel seggio che gli era stato preparato. «Don Cristoforo Colombo, disse Isabella, copritevi davanti ai vostri Monarchi: Sedete accanto a loro. Sedete, ammiraglio dell’Oceano, vice re del Nuovo Mondo.» Cogli occhi, che brillavano di gioia, di tenerezza e di ammirazione, la Regina «non sedette se non dopo che, comandato da lei, Colombo si fu coperto come un grande di Spagna, e si collocò nella seggiola stata collocata espressamente davanti al trono. Poscia che si ebbero gratulato con lui, i Re lo invitarono a far loro il racconto della sua scoperta.
Indarno fu le molte volte descritto il ricevimento di Colombo a Barcellona. Tutti gli storici, trascurando la parte spirituale e cristiana di questa solennità, hanno quasi passato sotto silenzio il discorso di Colombo per cosiffatta inaugurazione del Nuovo Mondo.
Siaci dunque permesso riparare questo oblio; e poichè il testo medesimo di tale allocuzione non ci è stato trasmesso fermiamo almeno l’ordine dei fatti e delle nozioni generali, la cui esposizione occupò quella seduta.
Invitato a ciò, il rivelatore del Nuovo Mondo, volgendo intorno il suo tranquillo sguardo, come per pigliare a testimonio delle sue parole tutta quanta l’assemblea, dopo avere provato che il vero carattere della spedizione da cui tornava era anzitutto cristiano, e in secondo luogo scientifico e politico; dichiarò che i favori che Dio degnava di concedere, per mezzo della sua impresa , alla Spagna, parevangli la ricompensa della pietà religiosa dei Monarchi di questa. Egli mostrò lo spazioso Oceano sin allora interdetto alla curiosità de’ mortali, oggimai aperto alla flotta della Spagna, e il glorioso vessillo della Castiglia portato nell’emisfero degli antipodi. Fece poscia il racconto compendiato e metodico del suo viaggio, dalla sua partenza dalle isole Fortunate sino al momento in cui aveva abbandonate quelle regioni senza nome.
Collo spirito di classificazione e di ordine che gli era proprio, prese a descrivere il suolo, l’aspetto geologico e mineralogico delle terre scoperte; le ricchezze del regno vegetale che lo avevano abbagliato; le diverse specie di animali acquatici e terrestri che aveva osservate.
A provare la verità di quella generale esposizione delle produzioni del Nuovo Mondo, essendo stati recati a comun vista i saggi di quanto aveva seco recato, il dimostratore della creazione pose ad ora ad ora, e secondo la lor classificazione, sotto gli occhi dell’augusta ragunanza.
Del succino, diverse specie di ambra, frammenti di terre colorate, proprie alla pittura, minerali, conchiglie, madreperle, pietre preziose, oro nel suo inviluppo, oro in polvere, oro in granelli, oro puro, oro lavorato.
Trapassando ai vegetabili, mise fuori gomme, resine, piante medicinali, erbe aromatiche, spezierie, legni da tintura, lavori in legno a colori, mais, patate, farina di manioc, canne succulenti, e quel tubercolo feculoso, diventato l’alimento del povero, e che oggidì si chiama il pomo di terra.
Indi, a meglio far conoscere la differenza delle produzioni di quelle nuove regioni comparativamente alle congeneri del mondo anticamente conosciuto, il rivelatore del globo mostrò curiosi animali; gli uni terrestri, gli altri anfibii; quelli impagliati, questi imbalsamati, altri viventi.
Terminato ch’ebbe questa poetica rivista dei tre regni della natura, venuto finalmente alla storia dell’uomo, che n’è il compimento, richiamo l’attenzione sopra i sette indigeni presenti; additò le differenze caratteristiche della loro razza; dipinse il loro stato sociale, la semplicità dei loro costumi, la loro credenza religiosa, ristretta e confusa, ma che sembrava esente da superstizioni idolatriche, e che perciò li disponeva a ricevere con maggior frutto il Vangelo.
Lo sguardo luminoso di Colombo, la dignità della sua attitudine, il suo fare persuasivo, la poesia delle sue imagini, l’ardimento delle sue locuzioni, e l’autorità del suo gesto, pareggiavano la maestà dell’argomento, e tenevano sospesa l’attenzione. L’espansione dell’anima sua, penetrata delle maraviglie di Dio, si trovava in intima armonia collo spirito di quel tempo, e coi sentimenti particolari di quella corte guerriera, che l’anno innanzi aveva inalberata la Croce su tutte le torri del maomettismo. L’assemblea ascoltava conquisa di stupore quella lezione di geografia descrittiva e di storia naturale comparata, che il dimostratore della creazione dava con tanto ardimento ai personaggi più illustri della Spagna. Non vi fu noia, stanchezza durante quella enumerazione delle maraviglie del Nuovo Mondo.
La scoperta era stata sopratutto tentata nel pensiero della gloria di Dio, della propagazione del cristianesimo, per far benedire il nome di Gesù Cristo all’estremità della terra: e siccome, terminando il suo discorso, il rivelatore del globo assicurava che una moltitudine infinita di anime, sino a quel giorno prive della luce, entrerebbero in grembo alla Chiesa, e, la merce della pietà de’ Monarchi, parteciperebbero a’ benefizii della redenzione; siccome l’accento della sua ardente fede, e la sua tenera carità infondevano ne’ cuori questa consolante speranza, il rapimento, il fervore erano al colmo, una emozione indescrivibile, mista di tenerezza e di ammirazione colse l’assemblea, la quale ruppe in grida d’entusiasmo. Incontanente, per un impulso irresistibile, la Regina, il Re, la corte, il popolo, gittandosi ginocchioni, levarono le mani al cielo lodando Dio, e versando insiem con Colombo lagrime di felicità. ln quell’istante medesimo eccheggiò il canto della Vittoria, il trionfale Te Deum, intonato dai coristi della cappella reale. La gran voce del popolo rispose loro; e si andò prolungando al di fuori, nella calca, per tutta la città, con tal empito gaudioso, che le anime cristiane, secondo ch’ebbe a dire il venerabile vescovo di Chiapa, n’ebber a pregustare le allegrezze del paradiso.
Immediatamente dopo, Colombo, raggiante ancora di sublimità, tocco dall’entusiasmo che suscitava, attorniato da un’aureola di rispetto, prese congedo dai Monarchi, e andò alla dimora che gli era stata preparata. I signori della corte, i primi gentiluomini lo accompagnarono sino alla porta, circondati da una calca che non poteva saziarsi di contemplare e di applaudire il grand’Uomo, manifestamente ministro della Provvidenza.
§ IV.
La fama dell’avvenimento più vasto e più importante per la scienza e per l’intera umanità che unqua avvenisse correva su tutto il litorale dell’Europa, giungeva ai popoli di mezzo, e in breve penetrava nell’Oriente.
Da Lisbona, da Cadice e da Barcellona, la notizia partiva sopra ogni nave, e scendeva insiem colle genti di mare ne’ luoghi ove approdavano; a tal che, per la via di Pisa e di Livorno arrivava a Firenze ed a Siena in quella che il Senato di Genova l’udiva per bocca de’ suoi ambasciatori, Francesco Marchesi e Giovanni Antonio Grimaldi. Pietro Martire di Anghiera fu sollecito di scriverla a Milano al conte Giovanni Borromeo, cavaliere della milizia d’oro. L’annunzio di questo prodigio corse in breve gli stati cristiani, e dall’Adriatico alla Gran Brettagna cagionò in tutti i marinai una tale sensazione che difficilmente si potrebbe esprimere. Il celebre Sebastiano Cabot, che si trovava allora alla corte d’Inghilterra, confessa che tale scoperta vi fu considerata quale opera più divina che umana.
Ma dove questa notizia suscitò più profonda sensazione si fu nella metropoli del mondo cristiano.
Roma ne andò ebbra di gioia. ll Sommo Pontefice manifestò pubblicamente la sua allegrezza, e ringrazio solennemente Dio di aver permesso che quelle nazioni, assise tuttavia nelle ombre della morte, vedessero spuntare l’aurora della salute.
Come il sacro collegio e gli uomini di Dio, così il mondo dotto si abbandonava alla gioia. Gli eruditi, i cosmografi della biblioteca papale prevedevano cose infinite da questa scoperta, la quale non era che un principio. ll gran maestro della letteratura classica, l’oracolo de’ suoi contemporanei, Pomponio Leto, pianse di gioia udendo un tale prodigio. Da quel punto gli eroi de’ primi tempi, i semidei del paganesimo, le spedizioni favolose o storiche dell’antichità giacquero eclissate. La realtà veniva a cancellare la mitologia, ed a superar l’imaginazione.
ll segno della redenzione era stato portato per mezzo ai terribili spazi dell’Oceano tenebroso, al di là dell’incerto Atlantide, da un uomo, il cui nome, maravigliosamente simbolico della salute, ricordava la colomba, emblema dello Spirito Santo, e significava Porta Croce, Porta Cristo, Cristoforo. E questo eroe era un modello cristiano. Non si potevano porre in dubbio i suoi sentimenti; perocchè sin dal 15 aprile, per conseguenza dieci giorni dopo il suo trionfo a Barcellona, una copia della sua lettera a Raffaele Sanchez, giunta già a Roma, eravi tradotta in latino da Aliandro di Cosco, e coll’autorizzazione pontificia, stampata nella tipografia di Eucario Argentino. Nove giorni dopo il Santo Padre attestava di sua mano la sublimità del mandato commesso dalla Provvidenza al «suo amatissimo figliuolo» Cristoforo Colombo.
Dopo questa prova solenne della sua scoperta, Cristoforo Colombo avrebbe potuto morire contento. Quantunque egli non avesse trovato altro che isole, sentinelle avanzate di un continente affatto sconosciuto, pur con esse sole era trovato il Nuovo Mondo: egli aveva compiuta l’opera sua. Ma Dio destinava al suo zelo altre prove, ed altre ricompense.
Una certa scuola si ostina a non vedere in questa scoperta che il frutto del caso, e tutt’al più un’idea nuova in idrografia. Si riduce il merito e il prodigio di questa invenzione ad un semplice mutamento di strada. I Portoghesi, dicono, tentavano di giungere alle Indie per l’Oriente, seguendo la costa africana, lorchè Cristoforo Colombo imaginò di arrivarvi per l’Occidente a traverso l’Atlantico: trovò isole che credette esser Asia: dunque non trovò quello che cercava, e trovò ciò che non cercava.
Noi facciamo qui appello al buon senso universale: il movimento delle popolazioni, lo stupore, l’entusiasmo, le benedizioni de’ popoli nelle Azzorre, sulle rive del Tago, in Ispagna, del paro che in tutta la cristianità, sarebbero stati suscitati da un semplice mutamento di strada? Sicuramente non sapevasi allora in che consistesse la scoperta, non se ne conosceva per anco nè l’estensione, nè il vero nome; ma i presentimenti dei popoli indicavano già la grandezza dell’avvenimento. Quando si scoprirono le Canarie, le Azzorre, le isole del Capo Verde, erano forse scoppiate simili Speranze? Le preoccupazioni del mondo incivilito erano altrettanto nuove quanto la loro causa: questa curiosità senza esempio indicava un avvenimento senza pari.
L’immensità dell’emozione pronosticava la grandezza della sua causa. Le moltitudini non erano trasportate di gioia perchè la via dell’Asia era mutata; ma perchè un nuovo mondo era stato scoperto: e la divisa data a Colombo per le sue armi n’è una prova. «Per la Castiglia e per Leone, Colombo trovò un Nuovo Mondo.»
Quelli che attribuiscono la scoperta alla mera sagacità di Colombo vengono contraddetti da lui medesimo. Egli ha detto. positivamente che la scienza, i mappamondi, le matematiche gli erano state di ben picciolo aiuto nell’opera sua. E questo si rileva da ogni fatto.
Uno de’ nostri vecchi viaggiatori francesi, che aveva avuto occasione di parlare con marinai che avevano fatto parte delle spedizioni di Colombo, Thevet, dice che «l’ammiraglio non era molto sperto nelle cose della marineria.» Nella sua Cosmografia, pubblicata a Milano nel 1556, Geronimo Girava Terracones giudicava «Cristoforo Colombo di Genova, grande uom di mare e cosmografo mediocre:» Humboldt dichiara «Colombo poco familiare colle matematiche,» lo accusa di «false osservazioni fatte in vicinanza delle Azzorre,» parla del suo «diffetto assoluto di cognizioni in istoria naturale.» Un membro dell’accademia imperiale delle scienze trova «Aristotile molto più avanti in geografia di Cristoforo Colombo,» e stupisce dell’ignoranza di quest’Uomo in materia di cosmografia.
Non si può, dunque, attribuire alla superiorità scientifica di Colombo l’opera della sua scoperta. Inoltre, al suo tempo, diversi uomini di mare pretesero di essere più abili di lui e furono posti più alto di lui dalla opinione. Poichè non si deve riferire al genio di Colombo il merito della sua opera, a chi dunque lo si attribuirà?
Noi lo diremo schiettamente.
La superiorità di Colombo, ciò che distingue il suo genio, ciò che forma la sua grandezza, è la sua fede.
Evidentemente la fede non gli avrebbe infusa la scienza nautica, frutto della pratica e dell’osservazione: ma la sua fede avendo conseguita grazia appo Dio, egli fece ciò che gli altri non avrebbero osato fare: egli giustificò anticipatamente col suo esempio queste memorabili parole dell’illustre Donoso Cortes: «L’uomo abituato a conversare con Dio, e ad esercitarsi nelle contemplazioni divine, in pari circostanze supera gli altri o per l’intelligenza e la forza della sua ragione, o per la sicurezza del suo giudizio, o per la penetrazione e la finezza del suo spirito; ma sopra tutto io non so di alcun di questi, che, a circostanze pari, non superi ogni altro per quel senso pratico savio che si chiama buon senso.»
La sua contemplazione assidua della natura avendo persuaso Colombo che la forma sferica è quella de’ grandi corpi della creazione, degli astri e dei mondi, partì dal principio della rotondità della terra. Il suo modo di concepir l’opera divina proporzionandosi alla sua nozione elevata del Creatore, e la sua fede al Redentore pareggiando la sua credenza al Verbo, da cui è stata ordinata ogni cosa, egli trovò in breve nella sua conoscenza delle Sante Scritture la conferma delle sue idee cosmografiche. Fu persuaso che tutto questo mondo è stato fatto con calcolo; che in nessuna parte la face del giorno è distruggitrice della vita; che non vi sono zone inabitabili; che il mar tenebroso non poteva separare per sempre le nazioni, e privare eternamente certe razze della conoscenza del Verbo. Colombo credeva fermamente che non erano vane le parole del profeta, il quale annunziava che i confini della terra vedrebbero la salute inviata da Dio; che i popoli si spingerebbero dalle regioni dell’aquilone alle terre australi al di là dei mari. Per conseguenza non ammetteva che il Creatore avesse abbandonato alcuna parte del nostro abitato in preda a mostri ed a bruti invincibili. Dalla sua fiducia in Dio procedevano la sua fermezza, la sua pazienza, la sua risoluzione, la sua tranquillità d’animo, i mezzi d’intraprendere e di eseguire l’opera sua.
Ecco nella loro semplicità i primi motivi di Colombo, la base sulla quale egli posò la sua determinazione di scoperta. Le matematiche non hanno qua nulla da vedere, nè da fare. Le considerazioni tratte dalla geografia non vennero che in appoggio delle sue deduzioni teologiche. Per lui il calcolo non fu che la verificazione e la prova dell’esattezza della sua credenza cattolica in fatto di cosmografia. La scienza pura non poteva profittargli, poichè il suo più capitale insegnamento non era che un errore: essa professava allora che il mare occupa solamente la settima parte della terra, mentr’esso ne occupa realmente più dei due terzi.
Nondimeno la lucidità di ragione, la superiorità del colpo d’occhio, l’ardore della fede non bastano a spiegare il maraviglioso effetto della sua impresa.
Noi dobbiam dirlo schiettamente: sarebbe inutile di volere spiegare umanamente l’opera sovrumana della scoperta. Tutti quelli che hanno studiato la vita di Colombo, nessuno eccettuato, gli storici suoi contemporanei, gli storiografi delle Indie, che ebbero i documenti ufficiali sotto gli occhi, furono recati a riconoscere nelle circostanze dell’arrivo di quest’Uomo in Ispagna, in quelle che ve lo rattennero, in quelle che permisero l’esecuzione della sua impresa, un componimento ed accordo superiore alle previsioni mortali.
A meno di negare radicalmente ogni azione provvidenziale sull’umanità, non si potrebbe disconoscere la mano divina da cui fu guidato Colombo. Se mai la Podestà superiore che presiede al governo dei Mondi, dovette manifestarsi, questo dovette avvenire lorchè compiessi il fatto maggiore del nostro pianeta. Quando si considera tutti i particolari della scoperta, troviamo con Cladera, dotto autore delle Ricerche storiche sulle scoperte degli Spagnoli nell’Oceano, che bisognerebbe far violenza alla propria ragione per non credere che in una tale opera Colombo traesse dall’alto il suo primo sostegno. L’ammiraglio confessa col suo modesto laconismo che Cristo gli appianò la via. E appunto perchè nel suo concetto lo scopo finale della scoperta si collegava essenzialmente col trionfo della Croce sulla Mezza-luna e colla liberazione de’ Luoghi Santi, venne scorta una coincidenza singolare e fenomenale fra certi rapporti ed anche fra certe date di questo viaggio.
Il venerdì, giorno della Redenzione, giorno del conquisto di Gerusalemme, giorno della resa di Granata, sembra notare i principali incidenti di questa spedizione cristiana.
Il venerdì Colombo spiega le vele.
Il venerdì compie l’importante osservazione della variazione magnetica.
Il venerdì, a primi segni del Nuovo Mondo, sono veduti gli uccelli del Tropico.
Il venerdì appare il mar d’erbe, gran fenomeno oceanico.
Il venerdì 12 ottobre, si discopre la Terra.
Il venerdì, medesimo giorno, Colombo pone la prima Croce su quel nuovo suolo.
Il venerdì 19 ottobre, scrive che vuol essere di ritorno in Castiglia nel mese di aprile; e alla metà appunto di quel mese fa la sua entrata trionfale in Barcellona.
Il venerdì, 16 novembre, trova una croce bella e preparata in un’isola del mare di Nostra Signora.
Il venerdì, 30 novembre, comandò di rizzare una grandissima Croce a Porto Santo.
Il venerdì, 4 gennaio, al levar del sole, parte per la Spagna.
Il venerdì, medesimo giorno, dopo il mezzodì, la Provvidenza riconduce dinanzi a lui il capitano disertore Martin Alonzo Pinzon.
Il venerdì, 25 gennaio, il mare gli dà viveri freschi.
Il venerdì, 15 febbraio, sfuggito alla più terribile tempesta, vede le Azzorre.
Il venerdì, 22 febbraio, ricupera il suo equipaggio rapito dai Portoghesi.
Il venerdì, 8 marzo, rientra a Palos in trionfo.
Allora solamente Colombo notò la strana coincidenza del giorno del suo ritorno con quello della sua partenza, e delle principali circostanze del suo viaggio.
Noi citiamo le date: ciascuno ne tragga quella conclusione che vuole. Rimarrà però sempre il fatto, che, durante questo viaggio i più grandi avvenimenti accaddero in venerdì.
Se si aggiunge alla singolarità di tale coincidenza quella della sorte, che fa venire, le tre volte su quattro, nella mano dell’ammiraglio il segno della Croce, e lo elegge così a dirittura per adempiere tre volte direttamente i voti di tutti; dopo aver detto con Washington Irving: «Ci ebbe alcunchè di strano in questa perseveranza del caso nel scegliere sempre lui,» si converrà che questo assiduo caso, che si presta così cortesemente alle invenzioni, ai sentimenti ed ai voti di Colombo, merito da parte sua qualche riconoscenza; e da parte nostra deve ottenere qualche considerazione.
Quando il messaggero della Croce, confessando la inefficacia del compasso e dell’astrolabio per la sua scoperta, dichiarava che, «il nostro Redentore» gli aveva appianata la strada, egli attestava una verità molto più manifesta oggi che allora.
Primieramente questo viaggio tentato contra le preoccupazioni del volgare e le nozioni della scienza, per una via audace, a traverso un mare grandemente paventato, rimane, anzitutto, un modello di navigazione. Senza saperlo, Colombo indicava alle seguenti generazioni l’itinerario più sicuro e più comodo, Secondo Humboldt, esso è tuttavia quello che seguono oggidì tutte le navi a vela, che vanno alla volta delle Antille. Alcuni marinai hanno consigliato di non volgere tanto al sud per cercare i venti alisei, di tagliare il tropico a venti gradi all’ovest dal punto in cui lo tagliano ordinariamente i capitani di nave: questo nuovo sistema permette di abbreviare di un ventesimo la strada da Cadice a Cumana, ma offre altresì «il pericolo di lottare più lungamente contro i venti variabili che soffiano ora dal sud, ed ora dal sud-ovest.» L’antico sistema, l’itinerario di Colombo, compensa la lunghezza della strada col vantaggio di trovare più presto i venti regolari e di goderne, per una più gran parte del tragitto.
ll ritorno di Colombo in Europa è forse più sorprendente ancora della precisione del suo primo viaggio.
L’ammiraglio non seguì la via già corsa. Egli aveva una caravella guasta e logora che faceva acqua da due parti: elesse per ispirazione la strada più sicura, quella che gli faceva evitare le intemperie, le nebbie così comuni fra le Azzorre e il banco di Terra Nuova, e doveva sottrarlo alle tempeste frequenti nelle vicinanze delle Bermude: scelse senza grande studio la strada in cui soffiano i venti regolari. Colombo patì tempi spaventevoli; ma queste grandi conturbazioni dell’atmosfera erano affatto eccezionali: montava la più adatta fra le sue caravelle, quella che aveva ponte. Un caso officioso lo stornò da pericoli, di cui non poteva aver cognizione; e il rigore delle tempeste non valse che a far vie meglio conoscere la cortesia del caso che lo proteggeva. Perocchè, con una nave picciola e rovinata com’era la Nina, nessuno potrebbe spiegare il come abbia potuto scamparla. Gli abitanti di Santa Maria alle Azzorre, quelli di Cascaes e di Lisbona erano a ragione stupefatti come tal caravella avesse sostenuto la violenza di simili bufere.
Tali furono, dice Washington Irving, i pericoli e gli ostacoli da cui venne accompagnato nel suo ritorno in Europa. Se gliene fosse sopraggiunta la decima parte nell’andata, i suoi compagni, spaventati e faziosi, sarebbonsi sollevati contro l’impresa, ed egli non avrebbe mai scoperto il Nuovo Mondo.»
Ma questo caso previdente e attento, con cui egli aveva da fare, ebbe la cortesia nel suo primo viaggio, d’impedire che gli ostacoli fossero insuperabili, e seppe sempre opporre alle più terribili difficoltà coincidenze propizie. Quando si pensa al carattere de’ compagni dell’ammiraglio, a quegli ufficiali insolenti, non ostante la scoperta, ed al proprio equipaggio che lo abbandona dopo aver lasciato che si arenasse la sua nave, si giudica di quello che sarebbe avvenuto, se la furia del mar tenebroso avesse aggiunto i suoi pericoli agli spaventi dell’imaginazione.
Per buona ventura il caso officioso, che precedeva i passi di Colombo, vegliava sopra di lui, e lo avvertiva con una costante sollecitudine.
Questo caso che gli dà vento o le onde quando ne ha bisogno, che sopisce tutti gli sdegni e lo rende obbedito ne’ momenti più paurosi, questo caso per cui, senza alcun manifesto indizio, egli predice il momento della scoperta, questo caso che in ottobre gli fa fissare il suo ritorno pel mese di aprile, questo caso che lo protegge contro l’invidia, l’odio e il furore dei flutti, che rende vane le insidie del Portogallo e gli prepara un trionfo alla Corte medesima del suo nemico, questo caso tanto intelligente e tanto forte da assumere tutte le apparenze della Provvidenza, questo caso, qualunque sia il suo nome, pare a noi un prodigio tanto miracoloso, quanto il più luminoso miracolo.
Sin dal primo istante, Roma apprezzo degnamente ciò che offeriva di mirabile nella sua rettitudine il sistema cosmografico di Colombo: essa riconobbe per istinto il carattere soprannaturale della sua missione.
Questa glorificazione di Colombo era implicitamente una manifestazione sorprendente dell’infallibilità della Chiesa.
Noi vogliamo richiamare qui l’attenzione de’ nostri lettori sopra un fatto che, per la prima volta, si troverà finalmente esposto nella sua realtà, ed a cui gli storici di Colombo non hanno mai posto mente: un fatto non meno strano che ignorato, non meno ignorato che autentico, non menol autentico che edificante, e non meno edificante che dimostrativo dell’autorità veramente soprannaturale accordata da Gesù Cristo alla sua Chiesa.
§ V.
Il 25 precedente luglio, mentre in mezzo ai terrori di Palos, Cristoforo Colombo si apparecchiava a valicar l’Atlantico, il suo illustre compatriotta, papa Innocenzo VIII, visitato dalla morte, andava a render conto a Dio del modo con cui aveva governata la sua Chiesa.
Egli ebbe a successore Alessandro VI, uno sicuramente dei Papi meno degni che mentovi la storia, ma di cui, bisogna dirlo, la calunnia e lo spirito di parte hanno violentemente esagerato i torti, sopra tutto confondendo la vita privata dell’antico soldato colla esistenza regolare che menò dopo assunto al Papato. Tuttavia, qual esso era, colle sue doti e co’ suoi difetti, allora comuni alla maggior parte de’ gran signori di quell’età, in ciò che operò qual erede del primato di Pietro, non commise errore, e nessuno de’ suoi atti è difettivo. Come notò già De Maistre, il suo Bollario è irriprovevole.
Secondo il consiglio di Cristoforo Colombo, i Re cattolici avevano supplicato il Sommo Pontefice di decretare in favor loro con una Bolla la donazione delle terre che avevano scoperte all’Occidente, e quelle che speravano ancora di scoprire.
Quai che potessero essere le disposizioni personali di Alessandro VI verso la Corte di Spagna, la dimanda non poteva concedersi immediatamente: sendo affare che richiedeva la maggior prudenza. Già il Portogallo aveva ottenuto un privilegio per le sue scoperte all’Oriente. Bisognava evitare che un favere simile conceduto alla Spagna non suscitasse conflitti sotto i regni attuali o ne’ secoli seguenti; e che l’opera dell’apostolato non destasse rivalità sanguinose fra due nazioni cristiane. Era d’uopo assegnare un limite fra le due corone cattoliche.
Qui nasceva la difficoltà.
Dove finiva l’Oriente? dove cominciava l’Occidente sullo spazio illimitato dei mari? Tal era il problema da sciogliere.
Non era mai stata sottomessa al Papato più spinosa difficoltà geografica e politica. Secondo le tradizioni di prudenza della Santa Sede, e il temporeggiare ordinario della Cancelleria romana, si sarebbe dovuto primieramente sottoporre una tale quistione a commissioni di cosmografi in Portogallo, in Castiglia e in Italia, affine di deliberare sulle loro relazioni, e fermare una opinion sicura. Così facendo, la decisione era menata in lungo per anni.
Ma evidentemente, nel far la loro dimanda, i due Monarchi aveano unita la copia delle annotazioni che Colombo aveva scritto nella sua cella della Rabida. E tale era l’interesse che ispirava a Roma questa impresa cristiana, tal era la fiducia della Santa Sede nella santità dello scopo e nella purezza de’ sentimenti di Cristoforo Colombo, che, senza esitazione nè ritardo, come improvvisamente illuminato sull’opera e sull’uomo della scoperta, il Papato accettava, proclamandola, la verità del suo sistema cosmografico; riconosceva esplicitamente la forma sferoide della terra, la sua rotazione sopra il suo asse, avente per estremità i due poli, e conservava tutte le affermative scientifiche di Colombo. Nello stato contraddittorio della cosmografia, questa affermazione era di un sorprendente ardimento.
Alessandro VI non tratta punto come un negoziato diplomatico il privilegio che stava per concedere. Egli non obbedisce ad alcuna propensione personale, non è un atto di condiscendenza di papa spagnuolo verso i Monarchi spagnuoli. Qui non v’è più nè Spagnuolo, nè sovrano; il Pontefice procede unicamente qual Capo della Chiesa, coll’assistenza dei venerabili Cardinali presenti a Roma: perocchè non si tratta di un interesse internazionale, di un affare da regolare per la Castiglia, ma degli interessi vitali del Cattolicismo, della conquista delle anime, dell’estensione della scienza, e del regno di Gesù Cristo.
Siccome la dimanda della Castiglia era giusta, così il Sommo Pontefice, col consenso del Sacro Collegio che lo attorniava, concede il privilegio con Bolla del 3 maggio 1494.
Posto il principio, si trattava di regolarne l’applicazione, di fissare limiti alle spedizioni de’ Castigliani, di dividere fra essi ed i Portoghesi le parti sconosciute del globo, alle quali queste due nazioni erano per arrecare il Vangelo e la civiltà.
Qui appare manifestamente la partecipazione della Chiesa alla scoperta, e son chiariti gli effetti della benedizione intima di papa Innocenzo VIII sull’impresa del suo compatriota. Quale ch’esso e, il suo successore accetta, come uno degli obblighi pontificii il patronato del Papato nella scoperta del Nuovo Mondo: ha fede in Colombo; gli dà piena credenza in cose inudite; lo dispensa da ogni prova; giustifica i suoi calcoli inverificabili: il Sommo Pontefice si fida unicamente in Colombo, e si obbliga secondo Colombo nella colossale divisione del mondo inesplorato fra le due corone di Spagna e di Portogallo. Tutto ciò che il Messaggero della salute ha proposto viene conceduto siccome cosa indicata dalla Provvidenza. Il Capo della Chiesa accetta le gigantesche proporzioni dell’operazione geometrica presentatagli da Colombo. La Santa Sede piglia sotto la sua malleveria l’esattezza di quella misura dello sconosciuto e dell’incommensurabile. Per assegnare ai Portoghesi ed agli Spagnuoli il limite indicante a ciascuno i propri diritti, il Sommo Pontefice, con audacia sovrumana, tira sulla carta ancora informe del globo una linea che, partendo dal polo boreale, passando ad una media di cento leghe all’ovest delle Azzorre e delle isole del Capo Verde, continua attraverso l’Oceano australe sino al polo antartico; descrivendo così tutta la lunghezza della terra, oh maraviglia! senza incontrare nell’immensità. di tale tragitto, il menomo luogo abitabile che potesse servir di appiglio a controversia.
La miracolosa precisione di questa linea aveva, in oltre, per effetto di assicurare alla Spagna, in ricompensa del suo zelo, il possedimento esclusivo del Nuovo Continente nella sua interezza. Alcuni Protestanti hanno notato che la Santa Sede, con questo scomparto, si esponeva a porre le due nazioni rivali, in presenza sul medesimo punto, poichè la linea-passava per parallele e longitudini che nessuna nave aveva solcate; e che era presumibile che in un così vasto prolungamento la linea taglierebbe qualche gran terra: sì, ma questa linea è passata miracolosamente nella sola latitudine in cui non si trovava alcuna terra: questo è il prodigio! notatelo bene:
Lo scomparto pontificio parte dal polo artico, giunge senza declinare, alla media di cento leghe, tirata fra l’arcipelago del Capo Verde e il gruppo delle Azzorre, valica il tropico, taglia l’equatore, si avvicina al Capo San Rocco, solca le profondità dell’Atlantico, si approssima all’isola Clerck, passa fra la terra di Sandwich e il gruppo delle isole Powel, penetra finalmente nel circolo antartico, per andarsi a perdere fra’ ghiacci eterni del polo.
Si pigli la carta moderna più perfezionata, si tiri la media di cento leghe fra le Azzorre e il Capo Verde, segnisi la linea misteriosa solennemente tracciata per mezzo gli spazi sconosciuti dal Sommo Pontefice, e rimarremo stupiti in vedere, che questa linea percorre tutta l’estensione del nostro pianeta, sino al polo antartico, senza scontrare una terra.
Si facciano poscia le prove di tirare una linea simile in tutt’altro punto diverso di quello che indicò la Santa Sede, e si cadrà necessariamente su qualche isola o qualche parte del continente. La linea tirata dalla Santa Sede con questa precisione prodigiosa ha qualche cosa d’augusto che fa chinare di rispetto la scienza e l’imaginazione.
Se l’illuminazione del genio di Colombo, e cotesto sguardo di portata profetica, gettato sulla faccia del globo, con tale rettitudine, ci confondono, non ci conquide manco di ammirazione la fiducia assoluta che gli dimostra il Papato. Bisogna inchinarsi davanti a questo ardimento eccezionale che fa autenticare come cose già verificate, le intuizioni del genio.
Roma comprendeva Colombo.
Ora il comprendere è pareggiare. Tutte le simpatie del Santo Padre e del Sacro Collegio erano per Colombo.
No, non pote mai essere sottoposto al Sommo Pontefice affar più grave, più dilicato, e che bisognasse di maggior lentezza a venir giudicato; e nondimeno, come nota giudiziosamente Humboldt, «non fuvvi mai negoziato colla Corte di Roma, che fosse stato terminato con più grande rapidità.» Ciò che lo sorprende, sono le due bolle «letteralmente le stesse nella prima metà» emesse «nell’intervallo di ventiquattr’ore.»
La sua sorpresa mostra come l’illustre Protestante è straniero al carattere di Colombo. Questa distinzione delle due Bolle, quando una sola sarebbe bastata, è per lo appunto ciò che prova l’alta stima del Papato pel Rivelatore del globo, e di quale importanza giudicava l’opera sua. Nella prima Bolla, quella del 3 maggio, che è detta Bolla di concessione, la Santa Sede concede alla Spagna le terre scoperte coi medesimi privilegi e diritti che i Papi hanno conceduto nel 1438 e 1439 ai re di Portogallo. Questa è la donazione fatta alla Spagna sulla dimanda de’ suoi Sovrani. Ma la dimane, 4 maggio, procedendo alla separazione di queste due eredità, per segno di onore, affine di solennizzar meglio questa operazione unica, senza precedenti, senza analogia, il Sommo Pontefice consacra con una Bolla particolare i confini da lui fissati secondo la sua intera fiducia in Colombo: circostanza caratteristica del pensiero che fece separare in due Bolle questa donazione; il Papa parlando di Colombo nella Bolla di concessione, del 3 maggio, si era limitato a chiamarlo suo caro figlio, senza qualificarlo più esplicitamente: ma la dimane, nella sua Bolla di scomparto, come se avesse sentito il dovere di dare una testimonianza solenne di stima a questo Messaggero della Buona Novella, il Capo della Chiesa caratterizza officialmente l’Eroe che ha ingrandito il Mondo: non si limita a chiamarlo suo diletto figlio; Dilectum filium; lo riconosce pienamente degno di questa missione; virum utique dignum; certifica ch’è commendevolissimo per diverse ragioni; et plurimum commendandum; e dichiara ch’era predestinato a sì grand’opera: ac tanto negotio aptum.
Questa Bolla di scomparto porta evidentemente il carattere di una benedizione, e di una ricompensa divina.
Non è più qui lo stile della cancelleria romana. ll Santo Padre parla in persona propria. Dopo aver dichiarato che riconosce i due Sovrani quali Re veramente cattolici; che gli ha sempre come tali conosciuti, e che la loro pietà è nota a tutta la cristianità; dopo mentovata la loro costanza, i loro travagli, le spese, i pericoli, le fatiche, i loro conquisti di Granata, la cacciata de’ Maomettani; il Sommo Pontefice ricorda ch’essi hanno aggiunto a questi titoli di gloria l’intenzione di diffondere la fede in una terra-ferma ed, isole sconosciute, e di farvi adorare il Redentore. Il Capo della Chiesa dichiara che raccomanda a Dio questo santo e lodevole disegno: annunzia ai re che Dio darà buon fine ai loro sforzi, e afferma che decreta questo dono di privilegio esclusivo, non per le istanze dirette dei Re o d’altre persone da parte loro, ma che fa ciò spontaneamente, di sua propria e pura liberalità, operando scientemente, con certezza, e nella pienezza della sua autorità apostolica.
Tuttavia questa liberalità del Vicario di Gesù Cristo è, come la maggior parte delle ricompense divine, sottoposta ad una condizione: il Sommo Pontefice comanda ai due Monarchi, in virtù della santa obbedienza, di mandare uomini probi, e tementi Dio, istruiti, sperimentati ed abili a chiamare alla fede cattolica ed ai buoni costumi gli abitanti delle scoperte contrade.
In tutto l’insieme di questa Bolla spira una grandezza, una maestà imponente: è come un presentimento delle. grandezze future, una visione dell’accrescimento e della superiorità della Spagna in tutto il mondo cristiano.
Terminando, il Vicario di Gesù Cristo, dopo confermati solennemente i doni e privilegi che ha dichiarato di fare il suo pieno grado, di suo proprio motoe per effetto della liberalità apostolica, ricorda ai due Monarchi che la sorgente d’ogni potestà, d’ogni impero e d’ogni bene procede da Dio solo; e annunzia loro, che se, confidando in Lui ei proseguiranno l’adempimento del loro disegno nella maniera indicata, Dio .dirigerà le loro azioni, e in breve le loro fatiche e i loro sforzi avranno il successo più desiderabile per la felicita e la gloria di tutta la Cristianità.
§ VI.
Mentre da lungi, in tutti gli Stati Cristiani, il nome di Colombo suscitava l’ammirazione e la lode, la sua persona riceveva in Ispagna omaggi e onori fuor dell’usato. In ogni ora del giorno avea libero accesso ai Sovrani. La regina Isabella non si stancava d’interrogarlo e di udirlo. Essa gli creò le armi gentilizie permettendogli aggiungere al suo stemma le armi reali di Castiglia e di Leone.
ll favore che godeva era tale, che spesso si vedeva il re passeggiare a cavallo, avendo alla sua destra il principe ereditario, ed alla sinistra l’ammiraglio dell’Oceano, onore di cui non si era mai dato esempio. In quel momento Ferdinando traeva vanità da Colombo, diventato oggetto dell’ammirazione entusiasta del popolo, e dell’invidia de’ grandi.
Dopo i Monarchi, il primo Spagnuolo che rendette grandi onori a Cristoforo Colombo fu un principe della Chiesa, il gran cardinale di Spagna, Mendozza.
Ad onorar Colombo, diede un sontuoso banchetto, gli assegnò il posto d’onore, lo fe’ servire sotto d’un baldacchino come un sovrano a piatti coperti, e secondo l’etichetta reale facendo saggiare dinanzi a lui ogni vivanda che gli veniva presentata, e trattandolo in ogni cosa secondo il suo titolo di vice-re. Questo banchetto aprì la serie delle feste e degl’inviti che fecergli i più gran personaggi di Spagna, e diventò la regola dell’etichetta, che quindi innanzi fu osservata con lui.
A questo solenne banchetto piacque riferir l’aneddoto dell’uovo; racconto miserabile, a cui, nondimeno, la memoria di Colombo andò forse debitrice della sua maggior popolarità in Europa.
Fu detto, che, avendogli uno de’ convitati dimandato se credeva che nessuno, tranne lui, avrebbe potuto scoprire le Indie, l’ammiraglio, in risposta, si fe’ recare un uovo, e propose all’interrogatore di farlo stare in piedi sulla tavola. Uno dopo l’altro gl’invitati tentarono la cosa inutilmente: allora Colombo prese l’uovo, e schiacciandone alquanto uno de’ capi lo fe’ stare in piedi. Tal è in sostanza il fatto raccontato. Washington Irving non ha temuto spacciarlo per vero: per sopravanzarlo, Lamartine dice che tal celia avvenne alla mensa stessa del re Ferdinando.
Noi non getterem tempo a dimostrare l’assurdità di siffatta baia; essa non prova, o non ispiega nulla: nè se ne potrebbe indurre alcuna conseguenza: non è una risposta e neppure un’allusione; e non figura in sostanza, che uno sciocco inganno e una facezia plebea.
L’ammiraglio non dimostra la causa della sua scoperta rompendo un uovo per l’un de’ capi, quando lealmente si trattava di farlo stare in piedi per l’equilibrio.
Le circostanze di tempo e di luogo smentiscono del paro questo inetto racconto. Chi avrebbe osato, sia alla mensa de’ Sovrani, sia a quella del gran cardinale di Spagna, di fare una interpellazione cosi insolente e ridicola al Vice-re delle lndie? chi sarebbesi arrischiato di proporre un quesito così poco rispettoso e cortese? E come mai l’ammiraglio avrebbe dimentica l’etichetta al punto di dar ordini nel palagio de’ suoi ospiti, e chiedere che gli fosse recato un uovo?
Nessuno degli storici spagnoli ha narrato simil cosa. ll solo che la riferisce è il milanese Gerolamo Benzoni, che l’avrà tratta certamente da antiche memorie. Sicuramente l’aneddoto dell’uovo è di origine italiana; noi lo riconosciamo, e abbiamo altresì ragione di pensare, che nella sua infanzia Colombo l’aveva udito anch’esso raccontar da sua madre. Con qualche verosimiglianza lo si attribuisce al celebre architetto Brunellesco, per la cui opera Santa Maria del Fiore elevò la sua cupola sotto il limpido cielo di Firenze: qui il fatto non pare impossibile, per inetto che esso sia: può essere avvenuto alla mensa di una qualche osteria popolana, non altrove; prima di noi, Voltaire diceva che questo racconto dell’uovo er’attribuito a Brunellesco; e noi siamo intorno a ciò interamente del suo parere.
Per la dignità della storia, preghiamo i nostri lettori a non ripetere più tal miserabile aneddoto, a non imputare al Rivelatore del globo sì gretta facezia: crederla sarebbe disconoscere il suo genio, la sua dignità e la gloria ond’era allora circondato.
Una soddisfazione superiore a tutti gli onori già ricevuti venne a ricolmare di un’intima felicità il Vice-re delle Indie: ebbe la gioia di sapere che il suo rispettabil genitore, conservando la pienezza delle sue facoltà intellettuali, godeva del suo trionfo, come in passato il patriarca Giacobbe della elevazione di Giuseppe. Anch’egli era allora il primo accanto al re. Appena giunto, Colombo aveva mandato a suo padre un uomo fidato a portargli segni della sua pia affezione, ed a chiedergli licenza di chiamare a se il suo giovane fratello Giacomo operaio, a Genova. ll vecchio consentì a rompere quest’ultimo legame di famiglia, ed a rimaner solo, senza figli. Noi abbiamo la prova che più di un anno dopo il secondo viaggio del Vice-re delle Indie, il vegliardo dimorava ancora nel quartiere dell’Arco, da lui eletto lorchè si parti da Savona.
Giacomo Colombo, ultimo figlio di Domenico Colombo e di Susanna Fontanarossa, aveva, a motivo della sua debole infanzia, cominciato assai tardi il suo mestiere in casa di Lucchino Cadamartori, mastro scardassiere a Savona, il 10 settembre 1484, avendo allora sedici anni compiuti. Secondo il contratto, egli si obbligava a lavorare ventidue mesi consecutivi, promettendo di non fuggire e di non commettere alcuna specie di furto. Dal canto suo Lucchino Cadamartori l’avrebbe mantenuto, albergato, e non rimandato prima che spirasse il termine convenuto; finito il qual tempo, gli doveva dare un abito di fustagno, un paio di scarpe, un paio di pantaloni di panno, e restituirgli le sue camicie colle altre vesti di tela e di lana, che teneva qual guarentigia della sua buona condotta.
Nel tempo di cui si parla, Giacomo Colombo, di ventisei anni, lavorava quale operaio scardassiere a Genova. Ricevendo la lettera di suo fratello, abbandonò senza orgoglio il suo mestiere, per trovarsi, in capo ad alcune settimane, aiutante di campo dell’ammiraglio dell’Oceano, indi temporaneamente amministratore e governator generale. Con questa facilità, o piuttosto con queste grazie che la Provvidenza spandeva sulla posterità del vecchio scardassiere, abbandonando la sua bottega per mescolarsi alle grandezze della Spagna, il modesto Giacomo Colombo, da quel punto chiamato don Diego, non parve menomamente fuor di posto: fu messo di subito in evidenza allato al Vice-re delle Indie, come lo prova una circostanza storica.
I sette lndiani condotti da Colombo a Barcellona avevano imparato da lui i principii del Cristianesimo. Egli aveva ispirata loro la fede. Da sè medesimi chiesero di essere ammessi al battesimo, giudicati, com’erano, capaci di riceverlo. Una gran pompa solennizzò queste primizie religiose delle Indie. Il Re, l’infante don Giovanni, iprimi personaggi della Corte furono i padrini dei catecumeni; e don Diego Colombo si trovò uno de’ sette padrini. Egli ebbe, dopo il re e l’infante, uno de’cinque primi posti della Corte in questa cerimonia. Quanto a Cristoforo Colombo, essendo come il padre di tutti gli Indiani, non fu padrino di alcun di loro; perocchè nella Chiesa Cattolica il padre non può servire di padrino al proprio figlio. ll favore conceduto a don Diego Colombo, in occasione di questo battesimo, mostra qual sovrana influenza esercitava allora l’ammiraglio sulla Corte e sull’opinion pubblica.
- Testi in cui è citato Pomponio Leto
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