Emma Walder/Parte terza/I

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Parte terza Parte terza - II
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I.

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Egli voleva spezzarsi il capo contro i muri. Emma, la sua Emma, aveva potuto abbandonarlo così! Lavorava nella Metempsicosi!... Una ciarlataneria qualunque. Era possibile che la sua bambina si fosse rigettata in quella miseria?... Ma perchè?... Cosa le avevano fatto?

Nessuno rispondeva.

Il solo che avrebbe potuto dare qualche schiarimento, rimaneva indifferente come se la cosa non l’avesse toccato. Ebbe anzi la cattiva idea di ripetere una vecchia sciocchezza sulla nostalgia del fango.

— Fango, sarai tu! — gli gridò Leopoldo fremente.

— Signor Leopoldo! Badi come parla!

Le donne strillarono.

Marco Fabbi intervenne.

— Via, Leopoldo, non è il caso di scaldarsi tanto per una stupida frase... E lei, caro Brussieri, un po’ di calma, un po’ più di rispetto.

Leopoldo si allontanò e per quella sera la cosa finì lì. Ma egli covava un segreto rancore contro quel ragazzaccio, che gli aveva ubbriacata la figliuola, e nel quale sentiva un nemico.

In paese dilagava il pettegolezzo.

Il nome di Emma era sulla bocca di tutti. Chi l’accusava e chi la difendeva. Secondo alcuni era una vittima, secondo altri una sudiciona.

La malignità scendeva agli estremi. Prendeva [p. 268 modifica] piede la versione che, innamorata del Brussieri, fosse scappata per tirarselo dietro.

— Conto sbagliato! — esclamavano le persone pratiche — Quello vuole le duecentomila lire dell’Annetta.

— Ma no; niente! Emma amava Celanzi e non Brussieri.

— Non amava nessuno: voleva fare la bella vita.

Marco Babbi sentì un giovanotto dire queste precise parole:

— Volevano farla sposare al ganzo della signora Cleofe, ma lui disse che preferiva una palla di piombo nel petto.

La sera stessa recandosi dal cognato pensò d’interrogarlo. Prima però volle vedere Celanzi e sentire se le aveva detto veramente quelle parole. Il giovine non aveva detto nulla; tuttavia quella interrogazione lo turbò, poichè si rammentava di avere, scritto a Cleofe che preferiva morire. Con chi aveva parlato Cleofe? Come si era diffuso il pettegolezzo? Non osava chiedere spiegazioni a Fabbi; rimaneva pensoso, impacciato, bevendo fino alla nausea la feccia del suo calice.

Le investigazioni di Marco Babbi non ebbero miglior riuscita presso il Mandelli, che lo ascoltò in silenzio, accigliato.

Egli disse soltanto:

— Celanzi doveva sposare Emma, e io credevo [p. 269 modifica] che si amassero. Invece Emma non volle, e andò via, forse temendo che io la forzassi.

— Sei sicuro che sia andata via per questo? — domandò Marco insistendo.

— Non so. Non trovo altro. Forse dubitava di non essere amata, come del resto mi ha detto. Forse...

Troncò la frase.

— Pensi tu che amasse un altro?

— Non saprei chi! — esclamò Leopoldo turbato.

Nella saletta giuocavano come il solito. Le due vecchie si bisticciavano quasi per ogni carta. Vi era anche il dottore che metteva un po’ d’allegria, raccontando delle barzellette, lanciando qualche frizzo leggermente salace ai due fidanzati. Cleofe sorrideva di tratto in tratto contenta che egli fosse là.

Le due vecchie, gli occhi fissi sulle carte, chiedevano ripetutamente di Celanzi.

— Deve stare in casa — rispondeva tranquillo il dottore. — Ha una minaccia di polmonite. Lo tengo in osservazione.

— To’! Ho visto sua madre stamani alla messa, non sapeva nulla!

— Sicuro. Mi crede tanto stupido da dire queste cose alle mamme?

E volgendosi a Leopoldo che era comparso sull’uscio, soggiunse:

— Non suoni, neppure questa sera? Si giuoca meglio quando tu ci rallegri colla tua musica. [p. 270 modifica]

— Non ne ho voglia... — mormorò l’«organista» — Vi ho annoiati abbastanza.

E si allontanò, evidentemente per non essere interrogato e sottrarsi all’attenzione del medico che gli teneva gli occhi addosso.

Nessuno fiatò. Sentivano tutti che non era una cosa da nulla, e che il dottore annetteva una grande importanza a quell’improvviso abbandono della musica da parte di un artista così appassionato.

— Dacchè Emma è scomparsa, egli non ha più toccato il piano, nè l’organo — disse Marco, accostandosi al tavolino e parlando sottovoce.

Le vecchie finsero di non avere inteso, ma si guardarono malignamente.

Cleofe impallidì.

— Sarà perchè non ha nessuno che gli volti le carte — osservò Brussieri ridendo da stupido.

Annetta lo urtò nel gomito, avendo sorpreso un gesto indignato di Marco.

Terminata l’ultima partita, essendo già le undici, le vecchie se ne andarono e Fabbi offrì di accompagnarle. Anche Brussieri credette opportuno di andarsene.

Il dottore passò nel salotto dove Leopoldo leggeva; e Marco Fabbi ricomparve dopo alcuni istanti. Cleofe e sua figlia si ritirarono nelle loro camere.

La conversazione fra i tre uomini si aggirò da principio sopra argomenti generali: i malati, la vendemmia, il nuovo Ministero... [p. 271 modifica]

Leopoldo non pronunciava che monosillabi, distraendosi affatto appena i suoi compagni si infervoravano in una discussione.

— Che notizie di Emma? — domandò il dottore mutando tattica.

Leopoldo trasalì.

— Ha scritto che sta bene. Lavora.

— Con chi è?

— Non lo dice. Suppongo con quelli della giostra a vapore. Anzi sto facendo ricerche per sapere dove sono.

— Lei, non lo scrive?

— No. La lettera viene da Trieste e mi dice di scriverle a Trieste, avvertendomi però che lei non è in quella città. Non vuole dirmi dov’è; ha paura che vada a prenderla.

— Ma perchè è scappata?

— Chi lo sa? Lo dicevo poco fa a Marco. Non ne so nulla. La mia testa si perde. Mi par d’impazzire.

Tacque per un momento; poi riprese, rivolgendosi a Marco, con altro accento:

— Tu ne sai qualche cosa, tu! Parla!...

— Io non so niente. Ma ne dicono tante; ne dicono di tutti i colori.

Leopoldo voleva saper tutto, perchè davanti a lui la gente non parlava.

Allora Marco si lasciò sfuggire che la moglie del portiere della Pretura, aveva detto a lui stesso: «Bisognerebbe interrogare il signor Brussieri.» [p. 272 modifica]

Già da qualche giorno questa insinuazione pressurava il buon Marco, e non poteva tenersi di comunicarla.

Il dottore lo guardò di traverso.

Mandelli scattò.

— Brussieri, hai detto?... Paolo Brussieri?...

— Ma... Non allarmarti così! Sarà certo una tavola. Pare che Emma sia andata qualche volta a trovarlo, probabilmente per incarico di Annetta. Le pettegole vi hanno arguito che fosse innamorata, e che lui... Ma non può essere!...

Leopoldo tremava come un paralitico.

— Non sarà vero, ti dico — ripetè Marco spaventato.

Il Mandelli non gli dava retta. Stralunava gli occhi, si batteva la fronte.

— Taci! — esclamò con veemenza. — Taci! È la verità: la sento qui.

Il dottore sentenziò:

— Questo non significa nulla. Bisogna avere delle prove; almeno dei dati.

Leopoldo ribattè che aveva appunto molti dati.

E vedendo che i due rimanevano stupiti, torse increduli, si mise a raccontare confusamente tutto ciò che gli veniva alla memoria: di quella sera in cui Paolo assaliva la fanciulla sulle scale; poi del giorno che lo aveva incontrato sulla soglia, mentre Emma era sola in casa, e Annetta a Milano con [p. 273 modifica] la madre; finalmente egli ripetè tutti i particolari della disperazione di Emma, il giorno in cui l’aveva incontrata per la campagna, risoluta a cercare la morte! Non erano dati importanti questi? Non erano prove?

— Pur troppo — concludeva — non vi è più dubbio. E dire che non mi passò neppure per la mente il nome di Paolo, nè quel giorno, nè i giorni successivi! Ho pensato a Celanzi: mi pareva naturale. Ma avrei pensato a chiunque piuttosto che al cancelliere. Mai, mai! Non potevo credere che Emma perdesse il giudizio per quella testa da parrucchiere. Una ragazza così seria, così intelligente!... Eppure, è chiaro. La sua fuga, la sua ostinazione a nascondersi; le visite di cui parla la moglie del portiere; tutto coincide. Ah! noi non conosciamo mai le donne! Non sappiamo mai bene ciò che le commuove, ciò che le seduce. Non teniamo conto delle misteriose correnti delle loro simpatie, e siamo sempre stupefatti quando una donna buona e intelligente si perde per un imbecille o per un malvagio.

— Accade lo stesso nel caso nostro — osservò il dottore con un sorriso. — Le donne non intendono mai perchè noi preferiamo una di loro, e generalmente dicono che siamo pazzi o gonzi.

Leopoldo non ascoltava. Il suo stato morale non gli consentiva di fermarsi a discutere su una questione di ordine generale; l’idea fissa lo riafferrava [p. 274 modifica] subito: Emma, vittima di quel farabutto! E Annetta doveva sposare quel farabutto? Orribile! Orribile!

— Che cosa fareste voi ne’ miei panni? — domandò bruscamente al dottore.

— Io?... Lascierei andare. Oramai è troppo tardi per intervenire.

— Tanto più che ci si può sempre ingannare — insinuò Marco Fabbi che sentiva il rimorso di aver parlato.

Ma il dubbio irritava di più Leopoldo. Non soffriva contraddizioni.

— In questi ultimi tempi — disse — sentivo qualche cosa di avverso, di tenebroso, che separava l’anima mia da quella di Emma, una volta così limpida per me, così trasparente: era questo amore indegno.

I due amici fecero di tutto per calmarlo, per fargli comprendere che non doveva compromettere l’avvenire di Annetta, che ormai era troppo tardi.

Poco a poco, egli sembrò tranquillarsi. Promise di agire con precauzione. Il dottore avrebbe interrogata la Teresa, la moglie del portiere; e Marco Fabbi andrebbe in Questura per avere notizie di quel Von Roth, presso al quale Emma doveva essersi rifugiata.

Così si lasciarono.

In quei giorni le signore Mandelli erano occupatissime e la casa un po’ in disordine per il gran daffare. I tappezzieri lavoravano nelle stanze destinate agli sposi. [p. 275 modifica]

Per il corredo di Annetta, le cose più importanti erano ordinate a Milano, dove le due signore si recavano con frequenza; ma la prima sarta e le cucitrici del paese non erano dimenticate; senza contare le ricamatrici, le trinaie e le calzettaie, tra le quali una vecchietta che faceva delle calze fini come quelle a telaio, ma tanto più durature, in cotone e in seta nera. Tutte le stanze della casa erano ingombre di giornali di mode, di modelli, di biancheria nuova, provata o da provare, di pezze di stoffa, tagli d’abiti, guernizioni ed altri simili oggetti. Le cucitrici andavano e venivano per provare, accomodare, mostrare alla signorina l’effetto di una guernizione, e fare tutti i cambiamenti che ella immaginava, secondo quello che vedeva a Milano o leggeva nei giornali di mode.

Tutto il paese parlava di questo corredo. Alcuni modelli fatti venire da Parigi facevano disperare le lavoratrici, perchè le signore Mandelli trovavano immancabilmente che la copia non somigliava all’originale. La povera operaia aveva fatto del suo meglio, prendendo le misure precise, col centimetro, ma nell’esecuzione qualche mezzo [p. 276 modifica] centimetro era sparito o cresciuto, da una parte o dall’altra; e quand’anche l’esattezza si salvava, dov’era mai andata la grazia, la freschezza e quel non so che, quel benedetto «non so che» per cui le eleganti si disperano?

La promessa sposa pestava i piedini come una monella.

— Bisognava ordinare tutto a Parigi, bisognava, ecco! Neppure le sarte milanesi arrivano a quella finezza, a quella impronta di eleganza suprema. Per risparmiare alcune miserabili diecine di lire, avere la roba fatta male da queste insopportabili guastamestieri del borgo! Maledetta pidocchieria!

Cleofe cercava di calmarla. La differenza della spesa era poca cosa, in ogni modo ci avrebbe pensato lei; ma da una parte le cose spedite non vanno sempre così bene e bisogna tenerle; dall’altra — e questa era la parte più importante — non si poteva a meno di far guadagnare qualche cosa a quelle del paese. Che cosa avrebbero detto altrimenti tutte quelle povere donne... con quelle lingue d’inferno? Ci voleva un poco di politica.

— O mamma, che ridicolaggini vai dicendo! C’importa assai a noi di queste sciocchezze. Gli è che il babbo ha voluto così; e adesso, pare, comanda lui.

Era questa la più feroce puntura con cui la ingrata figliuola potesse tormentare la madre.

«Adesso comanda lui» voleva dire: «Lo so, ti [p. 277 modifica] sei lasciata cogliere e hai dovuto implorare il suo perdono. Ora devi obbedire, ed io con te, ciò che mi pesa di molto.»

Cleofe inghiottiva, fingendo di non comprendere.

Per fortuna sua, ella si distraeva in quei preparativi; tanto più che doveva pensare anche per sè.

L’abito di «cerimonia» come diceva il figurino, era uno splendore: tutto in velluto eliotropio con un ricamo alto mezzo metro sul davanti della gonna; piccolo mantello di broccato con filetti d’oro intorno ai rilievi e frangia di martora; cappottina assortita — un gioiello!

Tutti i giorni la posta, o il corriere, un giovanotto del paese, portavano una fila di pacchi, di scatole, di cestelli. Parte regali, parte commissioni.

Una zia di Cleofe, abitante a Como, vecchia signora elegantissima, mandò una scrivania in palissandro con tutto il necessario per decorarla. Papeterie in cuoio di Russia con placche d’argento e iniziali scolpite; un calamaio graziosissimo, vari portapenne diversamente ornati, un nettapenne di velluto in forma di conchiglia; un buvard con un bellissimo ricamo fatto dalla zia, e un tagliacarte in forma di pugnale arabo — un vero pugnale dalla lama acuta e tagliente, dall’impugnatura tempestata di pietre.

La sposina ne fu incantata. Un pugnaletto arabo ridotto a uso di tagliacarte le pareva una stupenda invenzione, molto chic veramente. E lei che non [p. 278 modifica]leggeva mai, meditava sul serio le pose eleganti di una sposina, che sta sfogliando un romanzo francese, giocherellando con un pugnaletto arabo.

Paolo Brussieri si sentiva a sua volta dolcemente accarezzato da queste raffinatezze, e, memore degli stenti in mezzo ai quali era venuto su, tra il padre sordido e la madre accanita al guadagno, quel lusso e quell’abbondanza gli mettevano addosso un fremite di piacere e di orgoglio. Pensava al tempo in cui i vecchi avrebbero finalmente fatto posto a chi tocca, e un bel gruzzolo di denaro sarebbe entrato in casa anche da parte sua. Allora, addio Pretura! Aveva una bella nausea di carta bollata! Voleva fare il signore anche lui: godersi il papato. Intanto però, con la dote della moglie, le rendite della suocera, la paga di cancelliere e le cinque lire il giorno che sua madre gli aveva promesse sui guadagni di bottega, «di nascosto al papà,» si poteva passarsela discretamente. Del resto, se otteneva presto un trasferimento a Pavia, come sperava, avrebbe frequentato l’Università e presola laurea di avvocato.

Questo per la gloria.

Con l’animo così ben disposto, egli era sempre gaio e sorridente, tanto più che la scomparsa di Emma l’aveva liberato di ogni più piccola preoccupazione.

Spesso i Mandelli lo invitavano a pranzo, ciò che non era un piacere per lui. La presenza di Leopoldo, [p. 279 modifica]che sempre lo aveva intimidito, ora lo agghiacciava. E come tutti gli orgogliosi, soffrendo di trovarsi in soggezione, egli faceva qualche volta lo spavaldo e vuotava qualche bicchiere di più per tener testa al nemico.

Per la signora Cleofe il momento di mettersi a tavola era un vero supplizio. Dopo il perdono, o meglio dopo la tregua ottenuta, la presenza del suo magnanimo giudice l’umiliava profondamente; la sua gratitudine diveniva di giorno in giorno più amara. Faceva inutili sforzi per mostrarsi serena e gaia come nel passato. Provava un vero sollievo quando, oltre al Brussieri, riesciva a trattenere Marco Fabbi o qualche altro parente; o quando Leopoldo era fuori.

Quel giorno erano loro quattro solamente. Leopoldo più tetro del consueto, dopo i discorsi della sera innanzi, pensava al modo di procurarsi una prova della infamia di Brussieri, per mandare all’aria quel matrimonio, che ora gli appariva impossibile, mostruoso.

Severo, accigliato, guardava il posto vuoto di Emma, e non mangiava, non parlava con nessuno.

Al solito di tutti i giorni, arrivava un commesso di negozio, la piccina di una stiratrice e di una trinaia, un facchino della stazione: e tutti portavano roba, o venivano a prendere degli ordini.

Erano benefiche interruzioni in quella domestica musoneria, che neppure Annetta osava sfatare. [p. 280 modifica]

Verso la fine del pranzo arrivò inaspettata la prima giovine di una tra le più rinomate fascettaie milanesi. La cameriera venne a dire che la giovine aspettava e aveva fretta. Era stata a casa Trombini dove l’avevano trattenuta un certo tempo, e ora aveva paura di perdere la corsa.

Portava tre fascette in prova.

Annetta, contenta di muoversi, disse subito alla madre:

— Andiamo. Tanto, il pranzo è finito. Faremo presto e saremo qui per il caffè. Dov’è la bustaia, Elisa?

— In camera sua, signorina.

— Andiamo, mamma.

La signora Cleofe si alzò da tavola con una certa titubanza. Senza ben sapere il perchè, quei due uomini soli, uno di fronte all’altro, la mettevano in apprensione.

Uscì lentamente, rivolgendo un’occhiata di raccomandazione a Brussieri. Che avesse pazienza!

Egli la rassicurò con un impercettibile sorriso.

Annottava. Il servo aveva chiuse le imposte e accese le lampade fin dal principio del pranzo, per evitare la noia di una scialba luce crepuscolare. Nel caminetto ardeva la buona legna secca e la fiamma si alzava crepitando.

L’ambiente era tepido, piacevole, gaio.

I due uomini tacevano. [p. 281 modifica]

Paolo pensava alla gioia di possedere un nido simile, lontano dal suo futuro suocero, e rallegrato da lieti propositi, da argentine risate.

Intanto finiva di mangiare una pera squisita e un pezzetto di cacio.

Leopoldo che non aveva inghiottito quasi niente, prese un grappolo d’uva bionda, magnifica, e si mise a mangiarla, sopra pensiero.

Sedevano uno di fronte all’altro e non si guardavano. I loro sguardi si volgevano ogni tanto, macchinalmente, verso la fiamma allegra del caminetto.

Finita l’uva, il padrone di casa si mescè due dita di un bel vino rosso, accostò il bicchiere alle labbra e bevve alcuni sorsi. Il suo braccio era agitato da un leggiero tremito.

Brussieri vuotò il bicchiere che gli aveva empito poco prima la signora Cleofe.

Dopo bevuto si guardarono, e Leopoldo domandò freddamente:

— Sapete la ciarla che corre?

— Hum! Ne corron tante! Non è mia abitudine di badarvi.

— Va bene. Ma questa volta è diverso. La ciarla o meglio la notizia a cui alludo parte da fonte sicura. Ed è in generale accettata. Si dice che voi siate la causa della disperazione e della partenza di Emma.

— Io?... Che storie! [p. 282 modifica]

— Si assicura che voi l’avete sedotta.

— Sedotta?... Ah! Ah! Ah! Hanno buon tempo!

— Emma fu vista entrare un giorno in Pretura, «mentre non c’era che il cancelliere» dicono i narratori, e poi uscire, da lì a qualche ora, pallida, disfatta.

— Pettegolezzi. Io non rammento questi particolari.

— Ti rammenterai però — asserì bruscamente il Mandelli con sorda collera — ti rammenterai di quel giorno in cui i tuoi parenti sono venuti qui da Milano, la scorsa primavera, per combinare il tuo matrimonio con mia figlia?... Quello stesso giorno tu hai assalito l’Emma, avendola incontrata sulle scale, in questa casa, a pochi passi dalla tua fidanzata.

Brussieri arrossì; tuttavia ribattè:

— Una menzogna. Chi l’ha inventata?

—Taci! Ti ho visto io. Del resto Emma ha scritto...

— Che cosa?

— Tutto! Tu l’hai disonorata.

— Disonorata? Che frasario! Non ha ancora capito che sorta di ragazza era? Ammesso pure che in un momento d’ozio... Siamo uomini, eh?... mi fossi lasciato sedurre... la sua fuga dimostra chiaramente che non val la spesa di occuparsene. Qualunque giudice si pronuncerebbe in mio favore.

— Tu credi?... In ogni modo tu ammetti di esserti... «lasciato sedurre?...» [p. 283 modifica]

— Io non ammetto nulla, signore. Ma quand’anche?... Non sono mica un santo. Nessuno vorrà pretendere che fossi fedele a... mia moglie, sei mesi prima del matrimonio!... Son vecchiate, perdio!...

Egli parlava con una certa esaltazione, forse cagionata da qualche bicchiere troppo colmo di vino generoso; ma nel medesimo tempo con sicurezza: da uomo che si crede in realtà dalla parte del diritto.

Mandelli fremeva. I suoi nervi scattarono.

— Per qual ragione — gridò — hai voluto sposare Annetta, se Emma ti piaceva di più?... È la dote che ti ha tentato. Sei, in verità, molto debole per tutte le seduzioni!

Vi era tale disprezzo nell’accento di queste ultime parole, e quel tu a cui egli era passato improvvisamente suonava talmente beffardo e insultante, che Brussieri si sentì come schiaffeggiato.

La sua iattanza divenne collera: il suo sarcasmo, vera insolenza.

— Ella sbaglia! — gridò di rimando balzando in piedi. — Dimentica che io non volevo più saperne della sua figliuola, quantunque l’amassi, perchè avevo capito l’andazzo della famiglia. Sono stati loro a pregarmi, e la stessa Emma che mi si è quasi offerta, già che vuol saperlo.

— Taci, vigliacco! E vattene e non rimetter piede in questa casa o ti scanno! Mia figlia non la sposi [p. 284 modifica] più. Son le duecentomila lire che ti fanno gola. Ebbene, non le avrai!... Va!

— Basta perdio! Avrebbe voluto che sposassi la sua bastarda, per questo m’insulta...

Pallido, gli occhi iniettati di sangue, le labbra tremanti, convulso, il Mandelli balzò in piedi a sua volta, e con un potente manrovescio segnò la faccia liscia del bellimbusto.

— Carogna! Infame! — gridava con la voce strozzata.

Brussieri rispose al ceffone con un pugno in mezzo al petto.

Tutti e due perdevano il lume degli occhi.

Allora la mano brancicante del Mandelli, che istintivamente cercava un’arma, afferrò un grosso coltello a punta dimenticato sulla tovaglia, e con la rapidità del fulmine si buttò su Brussieri.

— To’, animale! To’ questo!

Due volte il coltello affilato entrò nella gola, che la camicia scollata, a largo colletto arrovesciato, lasciava scoperta.

Un urlo rauco, strozzato, uscì insieme al sangue dalla gola squarciata. Pure, essendo forte e svelto, il giovane cercò di sciogliersi dalla stretta mortale e di atterrare il suo assalitore.

In quel momento la cameriera accorsa alle grida, apparve sulla soglia, e scappò inorridita.

Leopoldo, esasperato dagli sforzi disperati che il [p. 285 modifica] [p. 287 modifica]suo avversario faceva per atterrarlo, continuava a menar colpi alla cieca.

A un tratto egli si sentì travolto sul pavimento da un peso inerte che piombava sopra di lui.

Credendola un’astuzia, vibrò un altro colpo e con uno sforzo supremo riesci a liberarsi.

Il cadavere, violentemente urtato, girò su se stesso e rimase immobile in un lago di sangue.

Allora il Mandelli indietreggiò esterefatto. Una improvvisa lucidezza di mente lo agghiacciò.

Aveva ucciso un uomo!

Restò come fulminato.

Ma poco dopo, un pensiero cinico lo fece ridere di un riso ebete.

Ora non la sposava più la sua Annetta, quell’animale!

L’immagine di sua figlia, così evocata, gli rammentò che ella stava per discendere... che avrebbe visto!

Ebbe paura. Gettò il coltello.

Andò verso il salotto per uscire dalla veranda, ma, vedendo la cameriera arrivare di corsa seguita dal domestico, sbattacchiò l’uscio chiudendolo per di dentro; poi uscì in anticamera, chiuse a chiave la sala da pranzo, e si ficcò la chiave in tasca. Allora, infilato a precipizio il paletò, lo abbottonò fino al collo e si calcò in testa il cappello con un gesto automatico.

Sul pianerottolo sentì la voce di sua moglie e di sua figlia che scendevano con la fascettaia. Si mise [p. 288 modifica]a correre preso da un’ansia terribile, la testa in fiamme, sudando a grosse gocce.

In istrada rifiatò. Camminava barcollando, agitato da un tremito di febbre.

Suonava l’Avemaria alla chiesetta dei Servi, ed egli si trovava appunto nella vicina via S. Martino presso a un ampio portone a tettoia che mette nel cortile dove sporge l’abside della chiesa.

Si sentì gelare.

Affrettò il passo nella via mal rischiarata.

Inciampò e quasi cadde.

Gli pareva che i radi passanti guardassero tutti lui, bisbigliando:

— Ha ucciso suo genero.

— È un assassino.

Andò diritto alla casa di Marco Fabbi, senza pensare, per il bisogno di vedere un amico.

Picchiò.

Marco apparve al balcone.

— Che cosa vuoi? Vieni su.

— No. Scendi un momento.

Erano le prime parole che diceva.

Marco si rimescolò tutto a sentir quella voce.

— Cosa c’è?... Cos’hai fatto?...

— L’ho ucciso.

— Chi hai ucciso?... Di’!...

— Chi?... Paolo Brussieri.

— Vaneggi: non è possibile! [p. 289 modifica]

Diceva così perchè voleva illudersi che non fosse vero; ma, sicuro della verità, tremava raccapricciando.

— Non vaneggio, no; non sono pazzo ancora. L’ho ammazzato.

— Ma come? Perchè?...

— Mi ha insultato: ho perso la testa. Prendi. Questa è la chiave della sala da pranzo dove l’ho chiuso perchè le donne non si spaventassero. Va, ti prego, conducile via subito; conducile a Milano. La mia povera Annetta sarà disperata.

S’inteneriva al pensiero della figlia sua. Le lagrime gli facevano nodo alla gola.

— Vado in questura a consegnarmi — disse, dominandosi. — Prendi il mio portafogli, questa è la chiave della mia scrivania. Prendi il denaro necessario. Addio!

Fece alcuni passi; poi si voltò, vide il povero Fabbi come impietrito sull’uscio di casa, gli occhi fissi su lui. Tornò indietro, profondamente commosso e gli buttò le braccia al collo singhiozzando.

Fabbi piangeva in silenzio.

Passò una donna con un bimbo per mano, e si fermò a guardarli nella penombra.

— Va, Marco, addio! Fatti coraggio. Ti raccomando la mia povera Annetta!

— Addio! Oh! se avessi immaginato una catastrofe simile, non t’avrei lasciato solo neppure un minuto. Avrei dovuto pensarci. [p. 290 modifica]

— Non disperarti inutilmente. Il destino si è compiuto.

Si strinsero ancora una volta le mani con un fremito in tutte le membra.

Finalmente si separarono, camminando in direzione opposta, senza più voltarsi.

Marco andava innanzi a sbalzi, di un passo incerto, come un ubbriaco.

Leopoldo aveva ritrovata la sua andatura calma, misurata; aveva la fronte eretta, lo sguardo assorto come in una misteriosa visione.

Ma appena giunto in Questura si abbandonò, sfinito, su di una panca.

Lo videro e lo interrogarono.

— Vengo a consegnarmi — rispose con voce ferma. — ho ucciso un uomo. Vadano a constatare il fatto a casa mia.

E s’arrovesciò sulla panca, oppresso da una invincibile prostrazione.