Il comento sopra la Commedia di Dante Alighieri di Giovanni Boccaccio. Tomo III/Capitolo quattordicesimo

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Capitolo quattordicesimo

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CAPITOLO QUATTORDICESIMO


Poichè la carità del natio loco ec.

Assai è manifesta la continuazione di questo canto col precedente; in quanto nella fine del superiore scrive, come pregato fosse da quello spirito, che dicea aver fatto giubbetto a sè delle sue case, che esso raccogliesse i rami e le frondi sparte dall’impeto delle cagne, le quali avevano lacerato Giacomo da santo Andrea; e nel principio di questo mostra come le raccogliesse: e poi seguendo dimostra in questo settimo cerchio punirsi quella spezie de’ violenti, i quali contro a Dio, e contro alle sue cose violenza fecero: e dividesi il presente canto in otto parti, nella prima descrive la qualità del luogo, nel quale dice sè esser venuto: nella seconda dice sè avere veduti greggi d’anime dannate, e dimostra la pena [p. 159 modifica]loro: nella terza domanda d’alcun di quei dannati, e il dannato medesimo gli risponde in parte: nella quarta Virgilio più pienamente gli dichiara chi è colui, e di cui domandato avea: nella quinta l’autore dice, dove ammonito da Virgilio divenisse: nella sesta Virgilio gli descrive l’origine de’ fiumi infernali: nella settima l’autore fa una quistione a Virgilio, e Virgilio gliele solve: nella ottava e ultima l’ammonisce Virgilio, come di dietro a lui vada: la seconda comincia quivi: O vendetta di Dio: la terza quivi: Io cominciai: maestro: la quarta quivi: Poi si rivolse a me: la quinta quivi: Or mi vien dietro: la sesta quivi: Tra tutto l’altro: la settima quivi: Ed io ancor, maestro: la ottava quivi: Poi disse omai. Dice adunque primieramente così, Poichè la carità, cioè l’amore, del natio loco, cioè della patria, perciocchè egualmente eravamo amenduni Fiorentini, Mi strinse, che altra cagione non v’era, ragunai le frondi sparte, per l’impeto delle cagne, le quali aveano lacerato Giacomo da santo Andrea, come di sopra è detto nella fine del precedente canto, E rende’le, secondochè pregato avea, a colui, cioè a quello spirito rilegato in quel bronco, ch’era già fioco, per lo gridare e trarre guai: Indi, fatto questo, venimmo al fine onde si parte Lo secondo giron dal terzo, che è all’uscire di questo bosco: ed è questo secondo girone la seconda parte del settimo cerchio dell’inferno, e dove

Si vede di giustizia orribil’arte,

cioè crudele e rigida.

A ben manifestar le cose nuove,

[p. 160 modifica]sè medesimo più distintamente parlando dichiara e dice,

Dico che arrivammo ad una landa,

cioè in una parte di quella regione dove erano, Che dal suo letto, cioè dal suo suolo, ogni pianta rimuove: e in questo dimostra sè essere uscito del bosco, e pervenuto nel terzo girone, cioè nella terza parte del settimo cerchio. La dolorosa selva, della quale di sopra è detto, l’è ghirlanda, cioè circunda quella parte nella quale pervenimmo,

Intorno, come il fosso tristo ad essa,

cioè come la selva è circundata, secondo la dimostrazion fatta di sopra, dal fosso nel quale la prima spezie de’ violenti bollono nel sangue, cosí essa selva circunda il luogo nel qual dice pervennero,

Quivi formammo i passi a randa a randa,

cioè in su l’estrema parte della selva, e in su il principio della rena. Lo spazzo, cioè il suolo di quel luogo nel quale pervennero, era una rena: è la rena terra tanto lavata dall’acqua, che ogni altra sustanza o grassezza della terra n’è tratta, e perciò è infruttifera e sterile e rara; e secondo alcuni è detta arena da areo ares, che sta per esser secco e asciutto; e da questo verbo mostra qui l’autor volere, che venga quella rena della quale fa menzione qui, perciocchè le pone per adiettivo arida: altri dicono che ella viene da haereo haeres, il quale sta per accostarsi; e come i superiori, così costoro ancora dicon bene: ma i superiori dicono della rena secca, e costoro intendono della rena bagnata, la quale memtre è molle, s’accosta e appicca, ma come detto è, [p. 161 modifica]quella della quale l’autore intende qui è della spezie prima, arida e spessa, arida è l’uno degli aggettivi1 della rena come dicemmo, ma aggiugne spessa a dimostrare, che in tutto il suolo di quel luogo non era alcuna interposizione d’alcun’altra spezie di terreno, e perciò ella era spessa, cioè continua: e oltre a ciò dice che era,

Non d’altra foggia fatta, che colei,

cioè che quella rena,

Che fu da piè di Caton già soppressa.

Questo Catone, del quale l’autore fa qui menzione, fu quello il quale dopo la sua morte fu cognominato Uticense, da una città di Barberia chiamata Utica, nella quale esso sè medesimo uccise. Fu adunque costui romano uomo, d’alta e singular virtù, ed ebbe maravigliosamente in odio le maggioranze de’ cittadini: ed essendo già nate tra Cesare e Pompeo le discordie cittadine, seguì in quelle le parti di Pompeo, non perchè lui amasse, ma perciocchè ’l vide seguire al senato: ed essendo per avventura in Affrica in un paese chiamato Cirene, il quale è confine con Egitto, e quivi con lui insieme Gneo Pompeo figliuolo di Pompeo Magno, i quali in quelle contrade ragunavano quegli i quali potevano, per restaurare le forze di Pompeo, stato già vinto in Tessaglia; arrivaron quivi quegli navilii sopra i quali Pompeo era andato in Egitto, e avendo veduto uccidere Pompeo, Cornelia sua moglie, e Sesto Pompeo suo figliuolo, verso quella parte s’erano rifuggiti, da’quali [p. 162 modifica]Catone e Gneo sentirono quello che a Pompeo era intervenuto; e perciò ancorachè il tempo fosse malvagio, Gneo si mise con parte della gente la quale avevano in mare: e Catone considerata la qualità del tempo, che sopravveniva il verno, e ancora il mare che era da navicare, che non era altro che secche, siccome ancora è la costiera di Barberia, volendo pervenire in Numidia, dove sapea essere il re Giuba, il quale era Pompeano, con tutti quegli delle parti pompeane che con lui quivi rimasi erano; non essendo loro sicuro l’andar troppo vicini alle marine, si mise a venirne verso Numidia per le arene di Libia, le quali non solamente sono sterili e solitarie, e piene dì serpenti, e senza acque o fiumi, se non molto radi, ma elle sono per lo calore del sole soprastante a quelle contrade cocentissime, e molto malagevoli a dover camminare, perciocchè non senza gran fatica vi si posson su fermare i piedi di chi va: or nondimeno la virtù di Catone fu tanta, che quantunque le rene fossero molto cocenti, e piene d’ogni disagio e di molti pericoli, esso condusse il suo esercito dopo il secondo mese nella città di Letti in Barberia, e quivi vernò con essi. Potrebbonsi in laude di questo Catone dir molte cose sante, e buone e vere, ma perciocchè di lui pienamente si scriverà nel primo canto del Purgatorio, qui a più dirne non mi distendo. Fu adunque ferventissima, come detto è, la rena la quale esso in Libia scalpitò, alla quale l’autore assomiglia quella che in questo giron trovò. Potrebbesi qui per alcuno muovere un dubbio cotale: e’ pare che per tutti si tenga, ogni cosa la quale è infra ’l cielo [p. 163 modifica]della luna essere stata dalla natura prodotta, essere stata prodotta ad uso e utilità dell’umana generazione; la qual proposizione non pare si possa verificare, considerata la qualità del paese arenoso poco avanti descritto; perciocchè quello ad alcuno uso non è abile nè utile, quanto è agli uomini; perocchè egli è sterile, nè pianta nè creatura vi vive, se già serpenti non fossero, i quali sono nemici degli uomini: a questa opposizione, comechè alla nostra materia non paia che appartenga, si potrebbe per avventura così rispondere: esser vero nulla cosa essere stata dalla natura prodotta, se non ad utile uso dell’umana generazione; ma di queste alcune per varii accidenti esserne divenute disutili, poichè prodotte furono, siccome è la predetta regione arenosa, e alcune altre in Asia simiglianti a quella; e però quello che per accidente avviene, non è difetto della natura, siccome ne’ nostri medesimi corpi noi possiam vedere, i quali il più la natura produce sani e in buona abitudine, e noi poi col disordinatamente vivere, corrompiamo e facciamo infermi. E che non opera della natura, ma d’accidente fosse ogni cosa, cioè l’essere Libia arenosa e sterile, si può da questa istoria comprendere: come altra volta è stato detto, estimano certi molto antichi, che già fosse tempo che il mare, il quale noi chiamiamo Mediterraneo2 non fosse; ma che per opera d’Ercole fosse in ponente un monte, il quale era continuo insieme da un promontorio, il quale gli antichi chiamavano Calpe in Ispagna, e oggi è chiamato monte [p. 164 modifica]Gibeltaro (ed è un promontorio, il quale è dalla parte opposita chiamato Abila nel Morrocco, vicino ad una città chiamata Setta), si rompesse, e per quella rottura si desse la via al mare Oceano ad entrare infra la terra, come entrato il veggiamo, e avere occupato grandissima quantità del mondo occidentale: alla qual cosa fare non è da credere che acqua si creasse di nuovo, ma essere convenuto, che di quella del mare Oceano questo mare Mediterraneo si sia riempiuto: convenne adunque che da alcuna altra parte del mondo più rilevata l’acque si partissero, e venissero in questo mare; e partendosi lasciassero alcuna parte della terra la quale coprivano scoperta, e alcuna parte del mare la quale era molto profonda meno profonda; e di quelle parti della terra che scoperte rimasero, si può credere essere state le contrade di Libia, d’Etiopia e di Numidia, le quali arenose si trovano; e così ancora dì quelle d’Asia: e che ciò possa essere stato vero, si puote ancora comprendere per quello che Pomponio Mela scrive nella sua Cosmografia, nella quale parlando della provincia, o del regno di Numidia, scrive in alcuna parte di quello trovarsi molte conche marine, ed essersi già trovate áncore e altri strumenti nautici, siccome talvolta da’ navicanti gittati nel mare si lasciano per tempesta o per altri casi: le quali cose assai ben paiono testimoniare quivi altra volta essere stato mare; e perciò venendo ad alcuna conclusione, si può dire non essere stata quella contrada prodotta dalla natura fuori dell’uso dell’umana generazione, ma essere, per lo avere il mare, che quivi era e navicavasi, per [p. 165 modifica]accidente fatto trascorrere altrove, e quella essere rimasa disutile e non atta all’uso umano. O vendetta di Dio. Qui comincia la seconda parte del presente canto, nella quale poichè l’autore ha descritta la qualità del luogo nel quale pervenne, dimostra sè aver vedute greggi d’anime dannate, e dimostra similmente la pena loro: dice adunque, O vendetta di Dio. Questo vocabolo vendetta usa impropriamente l’autore, siccome molti altri fanno, perciocchè vendetta propriamente è quella che gli uomini desiderano d’alcuna ingiuria, la quale hanno o par loro avere da alcun ricevuta; il quale desiderio non può cadere in Dio; perciocchè Iddio, come altra volta è stato detto, è una essenza perfettissima, stabile ed eterna, e perciò in essa non può alcuna passione aver luogo: ma noi ragioniam di lui come noi facciamo di noi medesimi: e assai son di quegli, che scioccamente quello stiman di lui, che di sè medesimi fanno cioè, che egli s’adiri, che egli s’accenda in furore, che egli si vendichi, ed egli non è così: è il vero che le nostre non buone operazioni meritano d’esser punite, alla punizion delle quali insurge la sua giustizia; e questa di sua natura, non come commossa da alcuna passione, secondo i meriti retribuisce a ciascuno; e perciò se per le sue malvage opere ad alcuno avvien men che bene, noi diciamo ciò essere la vendetta di Dio, la quale propriamente parlando è l’operazione della divina giustizia: vuolsi adunque questo vocabolo vendetta intendere in questo luogo giustizia di Dio, quanto tu dei

Esser temuta da ciascun che legge,

[p. 166 modifica]nel presente libro,

Ciò che fa manifesto agli occhi miei!

de’ tuoi effetti.

D’anime nude vidi molte gregge,

cioè molte brigate, molte schiere,

Che piangien tutte assai miseramente;

qui posta la general pena di tutte, discende alle particularità dicendo, E parea posta lor, dalla giustizia, diversa legge. E venendo a dir quale, seguita,

Supin giaceva in terra alcuna gente:

cioè parte di queste molte; e dice giacevan supine, cioè col viso volto in su, Alcuna, parte di questa molta gente, si sedea tutta raccolta, con le gambe raccolte sotto l’anche, E altra, parte di questa gente, andava continuamente.

Quella che giva intorno era più molta,

che alcuna dell’altre due le quali ha descritte, E quella men, che giaceva, supina, al tormento, il quale appresso descriverà,

Ma più al duolo avea la lingua sciolta,

cioè espedita. Sovra tutto ’l sabbion, cioè rena, d’un cader lento

Piovean di fuoco dilatate falde,
Come di neve in Alpe senza vento.

Appresso per una comparazione, o vogliam dire esemplo, dimostra quello che queste falde di fuoco adoperassero in tormento de’ dannati in quel luogo, e dice, Quali Alessandro, re di Macedonia, del quale di sopra dicemmo più distesamente, in quelle parti calde [p. 167 modifica]

D’India vide sovra lo suo stuolo,
Fiamme cadere infino a terra salde:

due Provincie sono in Asia chiamate ciascuna India; è il vero che l’una è delta India superiore, e l’altra India inferiore; e voglion questi che il mondo descrivono, che i confini della superiore sieno col mare Oceano orientale, e sia caldissima provincia, e dinominata da un fiume chiamato Indo, il quale dopo lungo corso mette nel mar di Persia; e l’altra India essere contermine a questa superiore, ma più occidentale, e non tanto fervente quanto la superiore: e Alessandro Macedonico fu in ciascheduna di queste. Ora per cosa la quale io abbia letta o udita, non m’è assai certo dove quello che l’autor descrive qui gli avvenisse, nè se ciò gli avvenne per la natura del luogo ardentissima, la quale accendesse i vapori tirati su in alto da’ raggi solari, e quegli accesi poi ricadessero sopra lo stuolo d’Alessandro, o se per alcuna arte de’ nemici queste fiamme fossero saettate sopra l’esercito d’Alessandro; e però lasciando stare la istoria, la quale io non so, come io abbia non una volta ma più veduto Quinto Curzio, che di lui assai pienamente scrive, e Guglielmo d’Inghilterra e altri, e riguardando all’effetto, possiam comprendere, l’autor per questo ingegnarsi di dimostrarci quello che in quella parte dell’inferno avvenia sopra la rena, e sopra i miseri peccatori che in quel luogo dannati sono: poi segue parole espettanti più alla provvedenza d’Alessandro che alla presente materia, se non in quanto dice, che la rena s’accendeva [p. 168 modifica]come esca da quelle fiamme che su vi cadeano: Per ch’e’ provvide, Alessandro, a scalpitar lo suolo Con le sue schiere, e questo fece, acciocchè ’l vapore, acceso che cadeva sopra la rena, Me’ si stingueva, cioè spegneva, mentre ch’era solo, cioè prima che con l’altre parti accese si congiugnesse:

Tale scendeva l’eternale ardore,

quale mostrato è nell’esemplo di sopra detto;

Onde la rena s’accendea com’ esca

Sotto fucile, d’assai cose e diversamente si compone quella materia la quale noi chiamiamo esca, atta ad accendersi da qualunque piccola favilla di fuoco: e il fucile è uno strumento d’acciaio a dovere delle pietre, le quali noi chiamiamo focaie, fare percotendole uscir faville di fuoco; e l’accender di questa rena avveniva, a doppiar lo dolore, de’ miseri peccatori che su vi stavano.

Senza riposo mai era la tresca,

è la tresca una maniera di ballare, la quale si fa di mani e di piedi, a similitudine della quale, vuol qui l’autore che noi intendiamo i peccatori quivi le mani menare, e però dice, Delle misere mani, e poi dimostra in che dicendo, or quindi, or quinci, cioè ora da questa parte del corpo, ora da quella,

Iscotendo da sè l’arsura fresca,

cioè il fuoco che continuamente di nuovo piovea. Io cominciai: maestro. Qui comincia la terza parte del presente canto, nella quale poichè l’autore ha descritta la pena de’ peccatori che quivi son [p. 169 modifica]dannati, ed esso domanda ad alcun di quegli dannati chi el sia, e il dannato medesimo gli risponde in parte: dice adunque,

Io cominciai: maestro, tu che vinci
Tutte le cose, fuor che i dimon duri,

Ch’all’entrar della porta, di Dite, incontro uscinci; dice questo l’autore, perciocchè infino a quel luogo Virgilio avea con le sue parole vinto ogni dimonio che incontro gli s’era fatto, se non quegli che in su la porta di Dite sentirono: dove allegoricamente si dee intendere, la ragione ogni cosa vincere, se non l’ostinazione, la quale sola la divina potenza vince e matura, come di sopra è stato mostrato,

Chi è quel grande, che non par che curi

Lo ’ncendio, di queste fiamme negli atti suoi, e giace dispettoso e torto, quasi non doglia senta del tormento, ma dispetto dell’esser tormentato, Sì che la pioggia, delle fiamme, che continuamente caggiono, non par che ’l maturi? cioè l’aumilii.

E quel medesmo che si fu accorto,
Ch’io domandava il mio duca di lui,
Gridò: qual’ io fu’ vivo, tal son morto,

Possonsi per le predette parole, e ancora per le seguenti, comprendere quali sieno i costumi e l’animo dell’arrogante; e primieramente in quanto dice, che giace dispettoso e torto, segno di stizzoso e d’orgoglioso animo: e poi in ciò, che egli non domandato rispose gridando, perciocchè sempre i presuntuosi prevengon colle risposte, senza esser chiamati; [p. 170 modifica]e volendo mostrare sè non aver paura d’alcuno, per essere uditi parlan gridando; e oltre a ciò confessando le lor medesime colpe, estimano di commendarsi maravigliosamente; e perciò dice, che egli è tal morto quale egli fu vivo, cioè che come vivendo fu dispettatore e bestemmiatore della divina potenza, senza curarla, così dice, che ancorachè dannato sia, e provi quanto sia grave il giudicìo di Dio, sè similmente orgoglioso, superbo e bestiale: e per mostrare più pienamente che così sia, segue, se Giove, cioè Iddio secondo l’opinione erronea de’ gentili, stanchi, cioè infino all’ultimo della lor forza fatichi, i suoi fabbri, da cui, cioè dai quali,

Crucciato prese la folgore acuta,

Onde l’ultimo dì, della mia vita, percosso fui; perciocchè come appresso si dirà, fu fulminato; O s’egli stanchi gli altri, fabbri, a muta, a muta, cioè facendogli, poichè alcuni stanchi ne fieno, fabbricar gli altri; e così que’ medesimi, poichè riposati fieno, nò altro faccian che folgori per ferirmi,

In Mongibello alla fucina negra,

là dove i fabbri di Giove fabbricano le folgori, le quali Giove fulmina; e oltre a quegli,

Chiamando: o buon Vulcano, aiuta aiuta,

a’ fabbri miei a far delle folgori;

Siccom’el fece alla pugna di Flegra,

nella quale esso fulminò i giganti;

E me saetti di tutta sua forza,

con tutte queste folgori le quali avrà fatte fabbricare, [p. 171 modifica]

Non ne potrebbe aver vendetta allegra,

del dispettarlo che io feci essendo io vivo. Ora a più piena dichiarazion dare delle cose predette è da sapere che, secondo le fizioni poetiche, come altra volta è stato detto, Giove fu re del cielo, e dicono che in luogo di real verga, egli portava nella destra mano una folgore, la quale aveva tre punte, e con questa dicono che esso fulminava chiunque l’offendeva: e oltre a ciò, perchè egli molte folgori gittava, perciocchè assai erano i nocenti, gli attribuiscono più fabbri e in diversi luoghi, e il primo di tutti dicono esser Vulcano Iddio del fuoco; e sotto lui i Ciclopi, uomini di grande statura, e robustissimi e forti, de’ quali Virgilio nell’ottavo dell’Eneida nomina tre, cioè Brontes, e Steropes, e Piragmon, i quali tutti fabbricano folgori: e come detto è, in diversi luoghi, siccome in Lipari, e nell’isola di Vulcano, e in Etna, il quale volgarmente è chiamato Mongibello, e in altre parti. Oltre alle predette cose scrivono i poeti, che una spezie d’uomini chiamati giganti, di maravigliosa grandezza e statura di corpo, e di forza maggiore assai che umana, nati del sangue de’ Titani, i quali Giove aveva uccisi quando liberò Saturno suo padre, e la madre della prigione di Titano, si levarono incontro al detto Giove; e per volergli torre il cielo, posero più monti l’uno sopra l’altro, e intorno a ciò grandissime forze adoperarono: contro a’ quali Giove combattendo in una parte di Tessaglia chiamata Flegra, tutti gli fulminò e vinse; e in quella battaglia gittò molte folgori, per la qual [p. 172 modifica]cosa furono fieramente faticati i fabbri suoi; e questo è quel che vuol dire,

O s’egli stanchi gli altri a muta a muta ec.

Ma in quanto dice questo superbo spirito, che Iddio non potrebbe di lui aver vendetta allegra, si dee intendere secondo l’opinione di colui che dice, perciocchè la bestialità de’ blasfemi è tanta, che essi estimano troppo bene fieramente offendere Iddio quando il bestemmiano o negano, non avveggendosi che In Dio non può cadere offensione alcuna, e che quella offensione, la quale essi credono fare a Dio, essi fanno a sè medesimi; e tanto maggiore, quanto la forza della divina giustizia è maggiore in punirli, che le loro non sono in bestemmiarlo. È il vero, che guardando alle cose temporali, che considerata la eccellenza d’uno imperadore, e la bassezza d’un povero uomo, non pare l’imperadore dover potere allegra vendetta prendere, se da quel cotale povero e di basso stato offeso fosse: e secondo questo intendimento si deono prendere le parole bestiali di questo spirito dannato; del quale è da vedere quello che contro a Dio commettesse. Intorno a ciò è da sapere, secondochè Stazio scrive nel suo Tebaidos, che poichè Edippo re di Tebe s’ebbe cavati gli occhi, e rifiutato il reggimento, Eteocle e Polinice suoi figliuoli vennero del reame in questa concordia, che ciascun regnasse il suo anno, e mentre l’uno regnasse, l’altro andasse a star fuor del regno dove più gli piacesse; per la qual cosa toccò il primo anno a regnare ad Eteocle, il quale era di più dì, e Polinice [p. 173 modifica]se n’andò in esilio ad Argo; dove ricevuto dal re Adrasto, e presa una sua figliuola per moglie, raddomandando al fratello il regno, secondo le convenzioni, e non vogliendogli essere renduto; il re Adrasto, per racquistare il reame al genero, andò insieme con sei altri re sopra i Tebani; e quivi più battaglie si fecero: ed essendovi già stati morti quattro re di quegli che con Adrasto andati v’erano, avvenne un dì, che appressatisi alla città quegli che con Adrasto eran rimasi, de’ quali era l’uno Capaneo, uomo di statura di corpo grande e di maravigliosa forza, bestiale e arrogante, appoggiata una scala alle mura di Tebe, quantunque d’in su le mura piovessero sopra lui infinite e grandissime pietre, e travi e altre cose per vietargli il potere sopra le mura salire, nondimeno sempre bestemmiando Iddio e dispettandolo, tanta fu la forza sua, che egli pur vi salì: e occupata una parte del muro, con l’ombra sola della grandezza del suo corpo, veduta nella città, spaventò i Tebani: e quivi non bastandogli il dlspettar gli uomini, e continuamente gittando di sopra al muro pietre a’ cittadini, levato il viso verso il cielo, cominciò a chiamare gl’iddii, che venissero a combatter con lui dicendo: o iddii, non è alcuna delle vostre deità, la quale ora adoperi per li paurosi Tebani: o Bacco, o Ercole, cittadini di questa terra, ove siete voi? Ma egli m’è noioso chiamare alle mie battaglie i minori iddii, vien tu o Giove, piuttosto che alcuno altro: chi è più degno di te d’occorrere alle mie forze? Vieni e occorri con tutte le forze tue: [p. 174 modifica]sforzati con tutte le tue folgori contra di me: tu se’ pur forte a spaventare le paurose fanciulle co’ tuoni. Le quali parole, e forse molle altre, mossero gli iddii a dolersi; ma Giove ridendosene, cominciato il cielo a turbare e a tonare, piovendo di forza, e continuamente cadendo folgori, una ne cadde sopra Capaneo, della quale essendo il corpo suo tutto acceso, stette in piede, e conoscendo sè morire, guardava in qual parte si dovesse lasciar cadere che più offendesse cadendo i nemici: e in questa guisa cessò ad un’ora la vita e la superbia sua. Premesse adunque le predette cose, soggiugne l’autore quello che da Virgilio detto gli fosse dicendo,

Allor lo duca mio parlò di forza
Tanto, ch’io non l’avea sì forte udito:

parlare infino a questo punto:

O Capaneo, in ciò, che non s’ammorza,

cioè s’attuta per martirio che tu abbi,

La tua superbia, se’ tu pù punito:

e soggiugne la cagione perciocchè, Nullo martiro quantunque grande, fuor che la tua rabbia, con la quale oltre al fuoco che t’affligge tu ti rodi te medesimo,

Sarebbe al tuo furor dolor compito.

Poi si rivolse. Qui comincia la quarta parte del presente canto, nella quale poichè ha dimostrato chi fosse questo grande del quale di sapere desiderava, per certe circunlocuzioni Virgilio più pienamente gliele dichiara: dice adunque, Poi, che così di forza ebbe parlato a quello arrogante spirito, si rivolse [p. 175 modifica]a me con miglior labbia, cioè aspetto; erasi per avventura commosso, udendo Capaneo così superbamente parlare, e perciò cambiato nel viso,

Dicendo quel fu l’un de’ sette regi
Ch’assiser Tebe, ed ebbe, e par ch’egli abbia
Dio in dispregio, e poco par che ’l pregi:
Ma, com’io dissi lui, li suoi dispetti
Sono al suo petto assai debiti fregi.

Impropriamente parla qui l’autore, trasportando autoritade poetica, in dimostrazione d’ornamenti, quello che vuol elle s’intenda per accrescimento di tormenti: dice adunque che come i fregi sono ornamento al petto, cioè a quella parte del vestimento che cuopre il petto, così i dispetti di costui sono debito tormento all’anima sua. Or mi vien dietro. Qui comincia la quinta parte del presente canto, nella quale l’autore descrive, dove ammonito da Virgilio divenisse, e dice, Or mi vien dietro, senza più ragionare di Capaneo, e guarda che non metti

Ancor li piedi nella rena arsiccia,

cioè inarsicciata per la continua piova delle fiamme, che veniva di sopra; Ma sempre al bosco, del quale è detto di sopra, e lungo il quale andavano, fa’ li tenghi stretti, cioè accostati.

Tacendo divenimmo là ove spiccia,

Fuor della selva, cioè del bosco predetto, un picciol fiumicello,

Lo cui rossore ancor mi raccapriccia,

cioè mi commuove, come si commuovono gli uomini, quando veggono alcuna orribil cosa: e questo fiumicello era orribile per la sua rossezza, in quanto [p. 176 modifica]pareva sangue, e però il dice essere rosso, perchè «comprenda quello dirivarsi da quel fosso di sangue, nel quale di sopra ha mostrato essere puniti i tiranni e gli altri violenti nel prossimo: e appresso questo, per una comparazione descrive la grandezza e ’l corso di quello dicendo. Quale del bollicame, cioè di quello lago bogliente, il quale è vicino di Viterbo, così chiamato, esce il ruscello, cioè un piccol rivo,

Che parton poi tra lor le peccatrici:

dicono alcuni, appresso a questo bullicame essere stanze, nelle quali dimorano le femmine pubbliche, e queste per lavare lor vestimenti, come questo ruscello viene discendendo, così alcuna particella dì quello volgono verso la loro stanza,

Tal per la rena giù sen giva,

quello, che usciva fuori della selva,

Lo fondo suo e ambo le pendici,

cioè le ripe, le quali perciò chiama pendici perchè pendono verso l’acqua,

Fatte eran pietra, e i margini d’allato,

come nel presente mondo fanno alcuni fiumi, siccome qui fra noi l’Elsa, e presso di Napoli Sarno;

Perch’io m’accorsi che ’l passo era lici,

dove le pendici erano così divenute di pietra. Tra tutto l’altro. Qui comincia la sesta parte del presente canto, nella quale Virgilio gli descrive l’origine de’ fiumi infernali dicendo,

Tra tutto l’altro ch’io t’ho dimostrato,
Posciachè noi entrammo per la porta,
Il cui sogliare a nessuno è negato,

[p. 177 modifica]di poterlo, entrando dentro trapassare: e questo sogliare è quello della prima parte dell’inferno, sopra la quale è scritto Per me si va ec.

Cosa non fu dalli tuoi occhi scorta,

cioè veduta,

Notabil come lo presente rio,

che uscendo della selva qui corre, e Che sopra sè tutte fiammelle, di quelle che quivi continuamente piovono, ammorta, cioè spegne.

Queste parole fur del duca mio:

cioè quelle che dette sono, Cosa non fu ec. Perch’io ’l pregai che mi largisse, cioè donasse, il pasto, cioè che egli mi facesse chiaro, perchè questo ruscello fosse la più notabil cosa che io veduta avesse per infìno a qui in inferno,

Di cui largito m’aveva ’l disio,

cioè fatto nascer desiderio di sapere. Per lo qual prego dell’autore, Virgilio incomincia a descrivergli l’origine de’ detti fiumi così.

In mezzo ’l mar siede un paese guasto,
Diss’egli allora, che s’appella Creta,

Creti è una isola dell’Arcipelago, ed è una delle Cicladi, e perciò dice che ella siede in mezzo mare, perche ella è, siccome ogni altra isola, intorniata dall’acque del mare: e chiamala paese guasto, e così è, per rispetto a quello che anticamente esser solea, perciocchè d’essa scrivono gli antichi, che ella fu nobilissima isola, di molti e nobili abitanti, di molte città, e fruttuosissima molto; e fu dinominata Creti da un re il quale ella ebbe che si chiamò Cres. Oggi la tengono i Veneziani tirannescamente, e [p. 178 modifica]hanno di quella cacciati molti antichi paesani, e gran parte d’essa, il cui terreno è ottimo e fruttifero, fanno star sodo e per pasture, per tener magri quegli della contrada: e seguita,

Sotto ’l cui rege fu già il mondo casto.

Seguita in questa parte l’autore l’opinion volgare delle genti, la qual tiene, che Saturno fosse re di Creti, la qual cosa Evemero nella istoria sacra mostra non esser così, anzi dice che egli fu re d’Olimpo, il quale è un monte altissimo in Macedonia: è ben vero, che ella era sotto la sua signoria, e perciò dice, che sotto il re di questa isola fu il mondo casto; perciocchè come altra volta è stato detto, regnante Saturno, fu il mondo o non corrotto, o men corrotto alle lascivie che poi stato non è; e però dice Giovenale,

Credo Pudicitiam, Saturno rege, moratam
In terris etc.

Una montagna v’è, in questo paese guasto, che già fu lieta, D’acqua e di frondi, siccome quella nella quale erano molte e belle fontane, e dilettevoli boschi, che si chiamò Ida; e così dallo effetto ebbe il nome, perciocchè Ida vuol tanto dire, quanto cosa formosa e bella: e qui è da guardare, questa Ida non esser quella nella quale si legge, che Paris diè la sentenza tra le tre dee, perocchè quella è una selva vicina ad Ilione, Ora è diserta, cioè abbandonata, come cosa vieta, cioè vecchia e guasta. Rea la scelse già per cuna, cioè per culla, volendo per questo nome intendere, il luogo atto a dovervi poter nudrire e allevare il figliuolo, siccome le nutrici gli allievano nelle culle, fida, cioè sicura, Del [p. 179 modifica]suo figliuolo, cioè di Giove, il quale quivi allevar fece nascosamente; e per celarlo meglio, Quando piangea, questo fanciullo, il quale occultamente faceva in questa montagna allevare, vi facea far le grida, cioè avea ordinato, che piangendo il fanciullo, vi si facesse romore da coloro alli quali raccomandato l’avea, acciocchè il pianto del fanciullo da alcuno circustante non fosse udito nè conosciuto. E a più dichiarazion di questo è da sapere, che come altra volta di sopra è detto, secondochè si legge nella sacra istoria, che avendo Uranio due figliuoli, Titano e Saturno, ed essendo Titano in altre contrade, morendo Uranio, Saturno prese il regno del padre, il quale apparteneva a Titano, siccome a colui che di più tempo era; il quale poi tornando, e volendo il regno, Saturno non gliele volle dare, sconfortatone dalla madre e dalle sorelle; perchè con Titano venne a questa composizione, che tutti i figliuoli maschi ch’egli avesse, ovvero che gli nascessero, esso dovesse uccidere, e in questa guisa Titano, senza altra quistione gli lasciò possedere il regno. Avvenne che la moglie di Saturno, la quale era gravida, e il cui nome fu Opis e Rea, e ancora ebbe alcuno altro nome, partorì e fece due figliuoli, un maschio e una femmina, e presentò la femmina a Saturno, senza fargli sentire alcuna cosa del maschio, il quale essa chiamò Giove, e occultamente nel mandò in Creti; e quivi fattolo raccomandare ad un popolo il quale si chiamava i Cureti, il fece occultamente allevare: e questi Cureti avendo solenne guardia del fanciullo, acciocchè alcuno non ne potesse avere alcun sentore, avean fra sè preso [p. 180 modifica]questo ordine tra gli altri, che quando il fanciullo piagneva, essi co’ bastoni battevano o gli scudi loro, o bacini o altra cosa che facesse romore, acciocchè il pianto non fosse sentito. E poi segue l’autore, Dentro dal monte, Ida, sta dritto un gran veglio, cioè la statua d’un gran veglio, cioè vecchio,

Che tien volte le spalle in ver Damiata,

Damiata è una buona e grande città d’Egitto posta sopra il fiume del Nilo,

E Roma guarda siccome suo speglio,

cioè suo specchio; e così tien le spalle verso levante, e il viso verso ponente.

La testa sua, di questa statua, è di fin or formata,
E puro argento son le braccia e ’l petto,

di questa statua;

Poi è di rame fino alla forcata:

Da indi in giù, cioè dalla inforcatura insino a’ piedi, è tutto ferro eletto, cioè senza alcuna mistura d’altro metallo, Salvo che ’l destro piede, di questa statua, è terra cotta, come sono i mattoni; E sta su quel più che ’n su l’altro, cioè in sul sinistro, eretto, e così mostra si fermi più in sul destro che in sul sinistro, come generalmente tutti facciamo; perciocchè i membri del corpo nostro, i quali sono dalla parte destra, hanno più di vigore e di forza che i sinistri: e ciò si crede che avvenga, perciocchè la bocca del cuore è volta verso il destro lato del corpo, e verso quello versa il sangue, il quale poi per tutte le vene del corpo si spande, il calore del quale si crede essere cagion di più forza a’ [p. 181 modifica]membri destri. Poi seguita, Ciascuna parte, delle predette del corpo di questa statua, cioè quella ch’è d’ariento, e quella di rame, e quella di ferro, e quella che è di terra cotta, fuor che l’oro, cioè eccettuata quella che è d’oro, è rotta

D’una fessura che lagrime goccia,

cioè gocciola, Le quali, lagrime gemute da queste parti del corpo di questa statua, accolte insieme, foran questa grotta, cioè quella terra, la quale è interposta tra questa statua e ’l primo cerchio dell’inferno. Lor corso, di queste lagrime accolte, in questa valle, nella quale noi siamo al presente, o in questa valle, cioè in inferno, si diroccia, cioè va cadendo di roccia in roccia, cioè di balzo in balzo, per i quali di cerchio in cerchio, come veder s’è potuto infino a qui, si discende al profondo dell’inferno: Fanno, queste lagrime di sè così discendendo, Acheronte, il primo fiume dell’inferno, del quale è detto di sopra nel primo canto, e fanno, Stige, cioè quella palude della quale è mostrato di sopra nel settimo e nell’ottavo canto, la quale si diriva dal superchio che esce del fiume d’Acheronte, e Flegetonta, ancora fanno, il quale è il terzo fiume dell’inferno. e dirivasi dall’acqua la qual’esce di Stige; e trovossi questo fiume all’entrata di questo settimo cerchio, il quale l’autor discrive esser vermiglio, e bollire in esso la prima spezie de’ violenti.

Poi sen va giù per questa stretta doccia,

cioè per questo stretto ruscello il qual tu vedi, il quale per la sua strettezza assomiglia ad una doccia, [p. 182 modifica]per le quali, come assai è manifesto, qui si menano l’acque prestamente d’una parte ad un’altra, e però è detta doccia da questo verbo duco ducis, il quale sta per menare: poi mostra questo rivo andarne giù,

Insin là ove più non si dismonta,

cioè infino al centro della terra. E quivi, Fanno, queste lagrime, Cocito, un fiume cosí chiamato, ed è il quarto fiume dell’inferno: e qual sia quello stagno, di Cocito, il quale egli meritamente chiama stagno, perciocchè più avanti non si muove, e gli stagni sono acque le quali non hanno alcun movimento, e perciò son chiamate stagno da sto stas, il qual viene a dire stare, Tu il vederai, questo stagno, discendendo noi giuso, però qui non si conta, come fatto sia, quasi come se gli altri tre avesse descritti, il che egli non ha fatto; ma intende in luogo della descrizione l’avergli l’autor veduti dove Cocito ancora veduto non ha.

Ed io a lui: se ’l presente rigagno,

cioè ruscello, il quale chiama rigagno da rigo rigas che sta per rigare, e questo rio rigava la rena sopra la qual correva,

Si deriva così dal nostro mondo,

come tu mi dimostri,

Perchè ci appar pure a questo vivagno?

cioè in questa parte sola e non altrove? Della qual domanda dell’autore io mi maraviglio, conciosiacosachè egli l’abbia in più parti veduto di sopra, siccome manifestamente appare nella lettera, e ancor nella dimostrazion di Virgilio: e se alcun volesse [p. 183 modifica]forse dire, egli sono appariti i fiumi nati da questo rìgagno, ma non il suo declinare; e questo ancora gli è apparito di sopra, dove nel canto settimo scrive, che pervennero sopra una fonte, donde usciva acqua, la quale correva per un fossato, e faceva poi la palude di Stige: e di questo io non so veder la cagione, conciosiacosachè egli ancora il raffermi nella risposta la qual Virgilio gli fa dicendo,

Ed egli a me: tu sai che ’l luogo è tondo,

cioè il luogo dell’inferno, come più volte di sopra è dimostrato;

E tutto che tu sia venuto molto (scendendo)
Pure a sinistra giù calando al fondo,
Non se’ ancor per tutto ’l cerchio volto,

di questa ritondità dell’inferno:

Perchè se cosa n’apparisse nuova,

nel rimanente del cerchio, il quale tu hai ancora a volgere discendendo,

Non dee addur maraviglia al tuo volto,

comechè per avventura potrebbe addurre, se tu fossi per tutto il cerchio: quasi voglia dire, e però non ti maravigliare, se ancora veduto non hai lo scender di quest’acqua, perciocchè tu non eri ancora pervenuto a quella parte del cerchio della quale ella scende. Ed io ancor: maestro. Qui comincia la settima parte di questo canto, nella quale poichè Virgilio gli ha dimostrata l’origine de’ quattro fiumi infernali, fa l’autore una quistione a Virgilio, e Virgilio gliele solve: dice adunque,

Ed io ancor: maestro, ove si truova

Flegetonte, e Leteo? i quali, secondo Virgilio e gli [p. 184 modifica]altri poeti, sono similmente fiumi infernali, che dell’un taci, cioè di Lete, senza dirne alcuna cosa, E l’altro, cioè Flegetonte, di’ che si fa d’esta piova, cioè delle lagrime, le quali escono delle fessure le quali sono nella statua predetta.

In tutte tue quistion certo mi piaci,
Rispose: ma ’l bollor dell’acqua rossa,

il qual vedesti all’entrar di questo cerchio settimo,

Dovea ben solver l’una che tu faci,

cioè dove sia Flegetonte; conciosiacosachè Flegetonte sia interpetrato ardente, aver veduta quell’acqua rossa bollire come vedesti, e similmente esser rossa, ti dovea assai manifestare quello esser Flegetonte. Lete, l’altro fiume del qual tu domandi, vedrai, ma fuor di questa fossa, dell’inferno, perciocchè in questo si scosta l’autore dall’opinione degli altri poeti, i quali tutti scrivono Lete essere in inferno, dove l’autore il pone essere nella sommità del monte di purgatorio, ben però con quella medesima intenzione che i poeti il pongono in inferno; perciocchè essi il pongono l’ultimo fiume dell’inferno, e dicono, che quando l’anime hanno lungamente sofferte pene, e son divenute tali, che secondo la giustizia più non ne deono sofferire, esse vanno a questo fiume di Lete, e beuta dell’acqua di quello, dimenticano tutte le fatiche e noie passate; e quindi passano ne’ campi elisii, i quali dicevano essere luoghi dilettevoli, e in quegli abitare l’anime de’ beati: e così l’autore il pone nella sommità del purgatorio, acciocchè l’anime purgate e degne di salire a Dio prima beano di quell’acqua, acciocchè ogni peccato [p. 185 modifica]commesso, ogni noia e ogni fatica dimentichino; acciocchè essendo poi nella gloria di Dio, il rammemorarsi di quelle cose, non desse cagione di diminuzione alla loro beatitudine; e perciò seguita Virgilio, e dice tu il vedrai, Là dove vanno l’anime, dei purgati, a lavarsi,

Quando la colpa è ben tutta rimossa,

per la penitenza. Poi disse. Qui comincia la ottava e ultima parte del presente canto, nella quale poichè alle sue quistioni è stato satisfatto, ne mostra l’autore come Virgilio l’ammonisce che dietro a lui vada: dice adunque,

Poi disse: omai è tempo da scostarsi,

scendendo o procedendo, Dal bosco, del quale di sopra è stato detto: fa’, che dirietro a me vegne. Li margini, del ruscello, fan via, che non son arsi, cioè scaldati dall’arsura la qual quivi piovea,

E sopra loro ogni vapor si spegne,

di questi che piovono, e perciò vi si puote senza cuocere andare.

  1. Degli aggetti, ha il MS.
  2. Mediterano.