Il flauto nel bosco/Poveri
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Poveri.
Vivevano in una grotta, come la Sacra Famiglia, padre madre bambino.
Solo che il padre era così infermo da non potersi muovere e il bambino idiota camminava carponi, brucava l’erba, mangiava la terra; e la madre provvedeva ai bisogni di tutti cogliendo erbe che parte servivano per cibo, parte per impiastri o beveraggi al marito.
Tutto questo avveniva nell’anno che corre, sull’orlo dello strascico verde di Roma ricamato dalle greche di granito dei marciapiedi che disegnano le nuove grandi strade cittadine.
*
Quando il padre stava un po’ meglio e poteva badare al bambino, la donna veniva in città a vendere l’erba: e pareva venisse dalle praterie selvagge di un mondo ancora disabitato, talmente era timida, scarmigliata, coperta di stracci forse raccattati nei mucchi di immondezze che decorano gli angoli dei quartieri in costruzione.
Non conosceva i denari, e per dare il resto porgeva nel cavo della mano le monete spicciole che possedeva, affidandosi all’onestà di chi comprava. Fiducia spesso tradita, sia pure per un vile soldo.
Tutti del resto le volevano momentaneamente bene, per il suo viso fine di martire senza età, per la pacatezza con cui parlava della sua sorte accettandola come le erbe massacrate e vendute da lei accettavano la loro.
E tornava alla sua tana col cestino pieno di vestiti vecchi, di pezzi di pane duro, di scarpe logore: un giorno tornò con in testa un grande cappello piumato e il marito rise, con la sua bocca di cane malato; riso non di beffe ma di compiacenza, e anche il bambino rise tendendo le manine verso quel meraviglioso uccello ch’era divenuta la testa della madre.
Perchè sul cumulo di miseria che seppelliva la loro umanità il fiore del bene che si volevano tremolava come sui concimai lo stelo del palaino odoroso.
*
La notte della Befana la vecchia strega dopo il suo volo su Roma si scosse le vesti nel vento che imperversava potente e lasciò cadere sulla grotta la polvere della pestilenza che infieriva nella città.
L’uomo morì la sera dopo, sbadigliando per il gran sonno che finalmente placava il dolore delle sue ossa: e il bambino gli montò sopra, a cavallo, ridendo.
La madre non aveva neppur la forza di far cessare il triste gioco: accucciata presso le due creature parlava a entrambe sullo stesso tono, finchè il bambino non le rotolò in grembo piangendo.
Lei non piangeva: pensava che si doveva seppellire il morto e non sapeva come fare, e quella preoccupazione superava ogni altra. Finchè la sollevò l’idea di seppellirlo lei.
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Due giorni e due notti rimase così a meditare. Il terzo si decise, poichè il cadavere cominciava già a decomporsi. Uscì e raccolse le erbe, seguita dal bambino che pareva un cagnolino terroso.
No, non le era possibile scavare la sepoltura: le mancavano gli strumenti e la forza: eppoi c’era pericolo di una contravvenzione.
Col davanti della sottana gonfio d’erba, prese il bambino in braccio e s’avviò alla città.
Incontrò un carrettiere e gli annunciò la morte del marito, forse con l’istintiva speranza che l’uomo potesse caricare sul suo carretto il cadavere e portarlo al cimitero: ma l’uomo la scansò con la frusta come una mosca e le disse di andare in questura.
La sola parola questura le diede un senso di mistero e di terrore più che la morte.
*
Allora battè alla prima porta che le capitò e che d’altronde conosceva bene. Era la porta di un piccolo villino dove abitava un filosofo vegetariano con la moglie laboriosa. Fu questa ad aprire, con la scopa in mano. La donna le lasciò cadere ai piedi sulla soglia il mucchio d’erbe arricciate ancora fredde di brina.
— Che modo è questo? — gridò la signora; ma i suoi occhi pietosi avevano già veduto l’aspetto stravolto della donna e la testa penzoloni del bambino. — Perchè te lo porti appresso?
— Lui è morto da tre giorni. Non potevo lasciarlo con lui.
Quando la signora seppe tutto diede un grido e anche la scopa parve cadere svenuta.
Al grido venne il marito in pantofole e avvolto in una coperta fiorata come un mago d’oriente: ascoltò tranquillo la storia, poi disse alla moglie, che voleva mandarlo in giro per sistemare la faccenda:
— Fa una cosa; ci vai tu; io resto a casa e trattengo la donna.
E quando la moglie fu andata sollevò e mise a posto la scopa poi disse alla donna:
— Giacchè siete qui pulite l’erba e mettetela a cuocere.
E lui se ne tornò a studiare.
*
La moglie sistemò il morto e i vivi: il bambino fu raccolto in un istituto per deficienti, la madre in un palazzo che ella non sapeva rassomigliare a quello delle fate perchè nel crepuscolo della sua infanzia solo le caverne e i sotterranei misteriosi e il gatto mammone avevano riempito il labirinto della sua fantasia.
Questo palazzo dove si svegliò dopo lunghi viaggi confusi in tram e attraverso folle che parevano di maschere, era in realtà più bello di quello delle fate, con due ali di palme che s’aprivano sul cielo azzurro e una coda di viale dorato guizzante in un giardino fiorito: l’odore degli allori ricordava però il cimitero.
Alla donna fu assegnata una camera al secondo piano: al terzo stavano i signori, al primo ella non seppe mai cosa accadesse; e neppure del terzo sapeva niente sebbene tutte le mattine vi lucidasse i pavimenti.
Ella ci si moveva carponi come il suo bambino nel prato; e pensava sempre a lui col desiderio di riaverlo, di baciarlo sulla bocca e su tutto il piccolo corpo grassotto e tiepido.
Così, separata da lui, si sentiva sperduta nel nulla, naufraga nel luccicore di quei pavimenti gelati: non pensava che glielo avrebbero raddrizzato: l’avvenire non esisteva per lei se non fino alla domenica seguente quando l’avrebbe visitato nell’Istituto.
Vederlo! Vederlo almeno. Questo desiderio e questa certezza le davano una forza ebbra: allora lucidava e lucidava i pavimenti fino a vederci il suo viso; e nel suo viso rivedeva ancora la sua creatura e si chinava a baciarla.
*
La domenica però non le permisero di vederlo: aveva preso una malattia infettiva che già da tempo decimava i bambini dell’Istituto e lei dovette tornarsene a casa. Non parlò più, non mangiò più. Nel pomeriggio i servi andarono fuori. Solo il gran servo, il capo dei servi, vestito come un corvo e che del corvo aveva la faccia, passò nella solitudine del secondo piano ispezionando le vaste e grigie stanze dove di solito lavoravano gli operai che erano i visceri del palazzo e lo tenevano sano e sempre nuovo, e le cucine, i bagni, i corridoi, le sale misteriose chiuse come quella cento e una della casa dell’orco che chi l’apre ne vede il mistero e muore.
Vide da un uscio spalancato la donna seduta sul suo lettuccio, piegata su uno straccio che teneva in grembo, e le domandò se stava male.
— Voglio andar via — ella disse cercando di nascondere lo straccio che pareva una pelle di lepre.
Egli le si avvicinò allarmato.
— Perchè? Che ti hanno fatto?
— Nulla. Voglio andar via.
A tutte le domande rispondeva così. All’uomo non garbava ch’ella se ne andasse: era lì per un tenue compenso e neppure un’intera agenzia per lucidare pavimenti poteva rendere come rendeva lei.
Tentò di pigliarla con le buone; le cinse le spalle, le carezzò i capelli.
— Buona, su! Se ti fanno dei torti devi dirlo a me e vedrai che tutto andrà bene. Vuoi dirmelo? — le mormorò sul viso freddo. — Vuoi darmi un bacio?
Il suo alito era caldo, la sua bocca odorava di tabacco e di carne viva: una sensualità animale sollevò le viscere della donna chiuse dalla lunga astinenza, eppure ella respinse l’uomo con tutte le sue forze servendosi dello straccio per scudo.
— Vattene via, animale, e vattene.
Allora egli tentò un altro verso.
— Forse perchè il tuo bambino è malato? Guarirà. La signora andrà a vederlo, e tutto l’Istituto non avrà cura che di lui. La signora s’interessa molto al tuo bambino, e lei non ne ha. Chi sa che non lo prenda qui in casa, un giorno.
Allora la donna si drizzò sulla schiena, con gli occhi feroci.
— E non me lo ha preso già, vada a morire ammazzata lei e tutti i mortacci suoi?
E aspettò ch’egli la cacciasse via subito: egli invece se ne andò senza replicare; e lei tornò a piegarsi col viso sullo straccio ch’era un vestito del suo bambino.
*
Poi tentò di evadere.
Da una stanza all’altra, cautamente, lungo i corridoi grigi, per le scalette di servizio, cercò una via d’uscita. Nulla, tutto era chiuso a chiave, silenzioso, misterioso più che i sotterranei delle favole; ed ella si sbatteva contro le vetrate come la mosca prigioniera.
Forse avrebbe potuto, più tardi al ritorno dei servi; ma più tardi si accorse di essere sorvegliata e non si mosse più.
La notte fu sinistra: ella non dormiva e l’anima le rotolava dentro, su e giù, dalla testa alle ginocchia, dalle ginocchia alle viscere, al cuore, alla nuca, tentando anch’essa una via d’uscita che non trovava.
E lei sapeva il perchè di tanta angoscia: il bambino moriva. Neppure il bianco sorriso dell’alba rischiarò di speranza la sua pena; neppure i rintocchi delle campane che recingevano di collane d’argento il giorno nascente. Ella non sapeva pregare e anche Dio era morto per lei.
*
Il gran servo non le disse che il bambino era morto, per lasciarle prima lucidare i pavimenti; poi la introdusse dalla grande padrona.
Era a letto, la grande padrona, dolce e bianca come un agnello fra l’erba e le margherite. E i profumi dei prati a primavera erano in quella camera con gli orizzonti chiari; e tutto era lucente e morbido; eppure la donna si avanzò come inciampando sui sassi, paurosa anche dei gattini di porcellana bianca, fatti di luce, che posavano maliziosi sugli spigoli del caminetto e le parevano fantasmi di gattini.
La grande padrona aveva però anche lei un aspetto strano, e stava sui guanciali di neve come fosse caduta e non potesse più sollevarsi.
— Siedi — disse alla donna che obbedì sbalordita e con l’impressione di quando si sogna ma si sa di sognare e la bellezza del sogno vela ancor più di tenebre l’angoscia della realtà.
Così la voce dolce e turbata della signora che le annunziava la morte del bambino oscurò ancora di più la sua disperazione: e i suoi occhi lo esprimevano tanto che la grande padrona si spaventò e pensò che cosa poteva offrirle.
— Senti, — le disse piano, in segreto, come ad una sua pari, — non sei tu sola a soffrire, nel mondo. Anch’io questa notte ho così sofferto per un mio dolore che mi sono dimagrita e i miei capelli sono imbiancati. Vedi, guarda, — disse piegando la testa e aprendo una via fra i capelli, — e dammi quella coppa lì, quella con gli anelli. Guarda.
Se li mise, poi scosse la mano; e infatti gli anelli con le pietre di susina, di ciliegia, di uva, cadevano dalle sue dita come frutti dal ramo.
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Ma la donna non si placò.
Che le importava di tutto questo? Il suo dolore la cingeva di una corteccia così dura che neppure la gioia per il dolore altrui poteva scalfirla. Profittò piuttosto della debolezza della grande padrona per chiederle di farla uscire. E uscì facendo in modo di non essere veduta dal maledetto corvo.
*
Libera! Libera, con la sua infinita miseria che la trasportava quasi con un vento di gioia.
Andò subito a sbattere contro l’istituto, vi si aggirò attorno strofinandosi ai muri, respirando l’alito che usciva da ogni fessura: quando riuscì ad entrare le dissero che il bambino era già stato portato via.
Dove cercarlo? Per un momento stette smarrita entro di sè, poi s’avviò. Sapeva bene dove cercarlo.
E si ritrovò nei prati, verso la caverna, col terrore che qualcuno all’infuori di loro l’avesse occupata.
La trovò intatta, ancora coi loro stracci, col giaciglio purificato dal gelo di quei giorni; ancora l’uccello grottesco del cappello di piume stava appollaiato su un buco del tufo.
Ella toccava ogni cosa: quando toccò una scarpetta scartocciata e terrea finalmente pianse; un pianto dapprima secco, con ululi sempre più forti che si sbattevano contro le pietre come il vento nelle notti d’inverno, poi di lagrime abbondanti sempre più silenziose che le scaldavano il viso e le si riversavano in bocca destandole un senso di voluttà. Poi uscì e cercò le erbe per andare a venderle.
Arcipelaghi di neve scintillavano e si scioglievano lentamente sui prati verdicci e il cielo li rifletteva con le sue nuvole già primaverili.
Ella uccideva le erbe col suo coltellino e di tanto in tanto per levarsi un po’ d’arsura e di fame mangiava la neve che aveva il sapore e l’odore delle viole.