La Fattura

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Renato Serra

Giuseppe De Robertis/Alfredo Grilli Indice:Serra - Scritti, Le Monnier, 1938, I.djvu Critica letteraria Letteratura La Fattura Intestazione 7 gennaio 2024 100% Da definire

Episodio di uno studio intorno a Gabriele D'Annunzio
Questo testo fa parte della raccolta Scritti (Serra)


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«LA FATTURA»

episodio di uno studio intorno a gabriele d’annunzio.


Voi sapete che la Fattura non è altro che la novella di Bruno e Buffalmacco imbolano un porco a Calandrino, e via via, come segue nella giornata VIII, n. VI del Decameron. Soltanto è da aggiungere che la cosa è trasportata in Abruzzo, e mutano secondo il paese, anche i nomi e i visi e le favelle.

Accade dunque che la prima impressione della lettura sia un poco turbata. Non dirò che dia noia l’incontro del porco e delle galle molto ben note: ma insomma vien meno il diletto e l’interesse proprio della novella, del fatto o degli uomini nuovi. Resta un senso leggero di delusione.

Il quale riesce tanto più fastidioso quanto meno sembra ragionevole; poichè c’è sempre nel dire di D’Annunzio un non so che magico, che incanta gli orecchi e suscita insieme con la noia l’ammirazione più rispettosa. Quindi, tra l’una e l’altra, dissidio. Io l’ho sentito più d’una volta.

Son passati parecchi anni da quando il volume della Pescara mi capitò nuovo nuovo alle mani, ancora odorante di stamperia, nello scaffale basso della biblioteca circolante, dove era il posto delle «novità»; e io lo tirai fuori quasi ingenuamente allettato da quella freschezza di titolo paesano e campestre, che si accordava a un ricordo dei boz[p. 180 modifica]zetti trovati già nel vecchio Fanfulla, molto meglio che non alla immagine di tutte le tragedie e ditirambi degli ultimi tempi. Io li frequentavo poco allora, e li amavo anche meno.

Speravo qualche ora di lettura piacevole. Naturalmente restai ingannato.

Lasciamo stare oggi di questo effetto le ragioni. Ma che le scritture del D’Annunzio tutte, e massime in prosa, sogliano destare molta più ammirazione che piacere, ognuno può avere imparato dall’esperienza.

Aggiungete la famigliarità che uno possa avere col Maupassant e col Flaubert e col Verga, e in genere coi modelli della Pescara; aggiungete anche alla lettura il caldo di una estate bolognese.

Esso era vasto intorno, e pieno di lassitudine nella cameretta delle pareti bianche di calce, su cui le persiane socchiuse diffondevano l’ombra; un lieve senso di sudore o forse di frescura ammolliva le membra e lo spirito era vago.

Pochi libri possono reggere a questa prova dell’estate e dei lunghi silenzi, quando il letto rifatto e riposato pare che inviti e gli occhi si perdono dietro gli anelli tremuli del sole che danza sul pavimento; ma lo scalpicciare feltrato della padrona di casa per il corridoio fa pensare a fanciulle che vadano scalze sul sentiero e a lunghe sieste in campagna.

Così D’Annunzio mi cadeva giù dalla mente. Sopra un confuso flutto di parole senza significato sorgevano vivi Turlendana e Gialluca: il resto si perdeva nella sonnolenza meridiana.

E il dispetto della mia anima aggravava la stanchezza degli occhi. Poichè un uomo non può per la prima volta nella sua vita passare le lunghe e chiare mattine di maggio e le ardenti ore [p. 181 modifica]di giugno a prendere quello che egli come scolare chiama «il suo bagno freddo di classicismo», seduto in maniche di camicia a un tavolino di legno grezzo, leggendo pagina per pagina il Boccaccio e Cicerone e Sofocle, confrontando le parole col dizionario e trascrivendole nei suoi quaderni di «spogli filologici», senza cavare da tutta questa manovra un qualche orgoglio.

A ogni parola copiata egli sente cantare nel cuore tutte le canzoni del nuovo universo di cui ha rifatto dopo secoli e secoli la scoperta, per proprio uso e consumo; allora è naturale che codesto D’Annunzio, che non ha nemmeno cent’anni, sembri ridicolmente moderno e petulante nella sua presunzione. Costui non è assolutamente nuovo e diverso come un Kipling o un Tolstoi; ma si permette di assomigliare ai classici, come un selvaggio simulando le fogge degli uomini civili.

Ciò non ha molto a che fare con la Fattura. Essa mi fece trasalire di meraviglia stizzosa. O quello là dunque si crede che noi non abbiamo mai letto il Boccaccio?

Qui è inutile descrivere come il Boccaccio io lo leggessi allora per mio conto, dopo averlo sentito leggere al Carducci e a Severino.

Dirò seguitando che la mia ingenuità non riusciva a formulare la risposta netta: Costui sa bene quello che noi abbiamo letto. Ma se ne infischia.

Tuttavia ne avevo qualche presentimento. Capivo che aver nominato il Boccaccio non bastava a escludere D’Annunzio: restava, anche dopo la imitazione, un problema d’ingegno e di bravura e di fatica nuova da intendere.

Ma mi fidavo a certe argomentazioni grandi e vaghe. Imitazione, coloritura di disegni altrui; uso artificioso del dialetto; minuzie realistiche [p. 182 modifica]dei moderni, che non sanno uguagliare la piena evidenza a primo tratto degli antichi, ecc. ecc.

Mi suonavano all’orecchio le parole e i sospiri del mio buon maestro quando leggeva di Calandrino appunto giù per lo Mugnone o di Ser Cepperello o di Chichibio, e si fermava in tronco mormorando: «Come è fatto! Vedete un po’ che disegno! e che precisione psicologica! come è vero!».... e poi crollava la testa, «Parlano di realismo oggi.... calcano il segno, aggravano il colore.... stemperano un tratto in cento ritocchi.... ah pover’uomo!» e sospirava ancora e con la mano si rialzava di su la fronte le ciocche scompigliate grigie, passeggiando e tentennando fra i banchi.

Più tardi poi ho inteso che quelle parole buone dovevano essere ricevute più discretamente, come espressione del sentire e della forma umana di un lettore; non come risultato della sua riflessione.

A voler chiarire i nostri dubbi non bisogna sospirare soltanto, ma pensarci su. Qual’è dunque, e come si può definire il valore letterario della Fattura, in confronto col suo modello?

Alcuni elementi di giudizio si offrono subito in grosso. Il D’Annunzio differisce dal Boccaccio profondamente in tutte le ragioni del suo scrivere; egli dipinge quelle, che paiono pure le stesse figure, con colori nuovi, e a ogni pennellata con un sentimento nuovo, più ricco.

Il Boccaccio racconta una beffa, e si gode della trovata ingegnosa e dei motti arguti; ma la sua cura non va molto più oltre. Il discorso è festevole e piacente e anche vivo, di sorrisi e di riflessioni morali assai sottili. Ma quelle persone di Calandrino e degli amici suoi come sono vacue e leggiere! «Chi Calandrino e Bruno e Buffalmacco [p. 183 modifica]fossero, non bisogna che io vi mostri, che assai l’avete di sopra udito»; egli dice: e tira via.

Non parliamo del prete, dei contadini, dei quali non si sente neppure il nome. Tutto l’interesse è nel racconto; gli attori della favola son poco più che caratteri morali, nomi premessi a distinguer la battuta del dialogo.

Dopo di che è inutile ricordare Peppe La Bravetta, Lepruccio, Ciàvola e il Ristabilito e Don Bergamino e Assaù e il capraio e tutte quelle altre figure abruzzesi che spiccano attraverso il parlare del D’Annunzio pronte e salde come le creature conservate nell’ambra delle lontanissime età. Foglie e insetti e ruschi traspariscono perfettamente nel liquido vetro.

Nel racconto del D’Annunzio ogni cosa è viva e piena e rende tutte le illusioni e i sapori della realtà.

Le stelle e i lumi scintillano sull’acqua nella notte gelata; i pioppi sono visibili come il riflesso della fiammata sulla pelle rosea del porco abbrustolato e come la paglia sull’aia indorata dal sole d’inverno; le voci si sentono ognuna con la sua inflessione, e i visi guardano e ammiccano, le gole deglutiscono, mentre l’eco degli sternuti fragorosi e delle ingiurie e il rovinio dei cocci si disperdono nell’aria cheta.

In poche parole, la differenza è grande: essa consiste nella intensità della rappresentazione.

Qui entra in campo un elemento nuovo: poichè si vede bene che a raggiungere questo effetto il D’Annunzio è stato aiutato da un procedimento tecnico alieno: che è quello del Flaubert e specialmente del Maupassant.

Ognuno ne conosce la formula. Si tratta sopratutto di adoperare il dialetto, normanno o [p. 184 modifica]abruzzese, nelle battute del dialogo rusticano, che per contrasto col discorso precedente suonerà franco e schiettissimo: poi sopravviene il modo di descrivere con tocchi brevi, quasi impersonali e di scorcio, abbandonati senza enfasi in mezzo alla narrazione tranquilla, che si illumina tutta.

(«Stettero quindi in ascolto. Un gallo d’improvviso cantò e altri galli risposero dalle aie, consecutivamente. Allora i due....». «Nella serenità il miagolìo dei gatti presi d’amore saliva ad intervalli. E il Ristabilito fece....»; sapete che così fanno quei maestri: il lettore s’incanta dietro quel canto o quel miagolio che pare tanto inutile quanto naturale. E l’illusione poi seguita. Oppure i particolari della visione si trasportano insensibilmente quasi negli occhi del personaggio, e ci pare di essere nei suoi panni: «uscì sul pianerottolo, stropicciandosi gli occhi per meglio guardare. Sulla tavola non rimaneva se non qualche macchia sanguigna, e sopra vi rideva il sole». Così nasce l’impressione del vuoto, del porco scomparso).

Ma senza andar dietro all’analisi astratta si possono mostrare le figure che il D’Annunzio ha cavato sane sane dalla stampa francese. Ciàvola e il Ristabilito, che tengon nell’azione le veci dei compagnoni del Boccaccio, rappresentano poi la immagine esatta di Maillochon e Labouise, da L’âne: il concilio dei rustici è cavato dalla Ficelle e dal Baptême, insieme con altri particolari minori, che potranno esser numerati più curiosamente da chi si pigli diletto di tali cose.

Ciò a noi ora importa meno. Poichè sentiamo anche che il realismo non è nel D’Annunzio cosa essenziale. Egli ha adoperato la formula del Maupassant, così come la invenzione del Boccac[p. 185 modifica]cio, molto scopertamente: la materia sembrava cavata dagli altri, ma era trattata secondo un fine nuovo.

Dietro a quelli Mida viene:
ciò che tocca oro doventa.

Questi versi finiscono per applicarsi anche al D’Annunzio, come già al Poliziano. Le parole degli altri sulla bocca di lui si trasfigurano. Tutto il suo dire ha una melodia beata, che non nasce da nessuna imitazione, ma solo è di lui.

Basta stare un poco a sentire. È detto, per esempio, di Peppe La Bravetta:

«Anche di quelle foche egli aveva la pigrizia, la lentezza dei movimenti, la ridicolezza delle attitudini, l’amore del sonno. Non poteva passare dall’ombra al sole o dal sole all’ombra, senza che un irresistibile impeto d’aria gli rompesse per la bocca e per le narici».

Nessuno ha mai sentito nè Maupassant nè altri parlare con tale una bocca rotonda. Tutte le altre facoltà dell’artista, per quanto bellissime, cedono finalmente il luogo; e, come minori, sopra la bocca dolcissima, bocca veramente d’oro, pigliano qualità meravigliosa.

Così si disegna un primo abbozzo di analisi. Ma tutte le sue parti sono sommarie e generali. Esse possono soddisfare, più o meno precisamente, l’esigenza logica; ma se veniamo al paragone della lettura, l’animo non pare soddisfatto. C’è ancora nella nostra impressione un fastidio oscuro. [p. 186 modifica]

Discorrendo abbiamo trovata tanta differenza e anche maggioranza del D’A. sopra il Boccaccio e sopra il Maupassant. Leggendo ci accorgiamo che egli piace molto meno di loro.

Fermiamoci al Boccaccio. Egli raccontava una novella.

Il suo ideale artistico in principio era molto semplice: contentare una brigata di onesta gente che stesse a sentire, per passar tempo.

Il Boccaccio scrive quasi al modo che avrebbe parlato; intendendo a guadagnarsi la grazia degli uditori con una bella trovata e raccontata bene, con educazione e con garbo e in bell’ordine.

L’aria piacevole della conversazione non nasce solo da certe formule, che potrebbero essere estrinseche, come il preambolo del narratore, e i commenti e il molto riso delle donne alla fine, e i richiami «assai l’avete di sopra udito», e via via.

Il fatto non vuol essere già, come direbbe un moderno, rappresentato; ma è raccontato da lui con una cura speciale di abbreviare i particolari inutili, e di rilevare i punti essenziali, di sottolineare le arguzie e di spiegare e chiosare onestamente tutto ciò che meglio si presti alla intelligenza e al divertimento di chi ascolta.

Non c’è indugio di descrizioni. Quando è stato chiarito come si ordisca l’ultima trama, all’effetto basta un cenno riassuntivo, «Calandrino così fece».

E poi tutte le altre circostanze accessorie, pur necessarie al successo, si trovano raggruppate in una rapida esposizione che mette capo al punto essenziale della beffa:

«Ragunata adunque una buona brigata tra di giovani Fiorentini, che per la villa erano, e di lavoratori, la mattina vegnente dinanzi alla Chie[p. 187 modifica]sa intorno all’olmo, Bruno e Buffalmacco vennono con una scatola di galle e col fiasco del vino....».

Come tutto corre via lesto! Un grammatico nota che non c’è neanche un periodo che si mostri consacrato a descrivere un oggetto o un momento. Ogni cosa è in azione, e il soggetto del periodo è anche il soggetto dell’azione; o è Calandrino, in genere, o sono i compagnoni.

Si sente l’uomo che raccontando si piglia cura della nostra attenzione, persino nelle inflessioni della voce, come nelle ultime parole, che dapprima nota brevi alcuni punti, per chiarimento dell’esito; ma a questo affrettandosi, li trattiene, quasi sospesi con la voce abbassata di un tono, in una serie di parentesi.

«Calandrino – vedendo, che creduto non gli era, — parendogli avere assai dolore, — non volendo anche il riscaldamento della moglie — diede a costoro due paia di capponi».

E poi soggiunge, a piena soddisfazione del suo uditorio, che non restasse con la curiosità di sapere che ne fu o del porco o dei compagni.

«I quali, avendo essi salato il porco, portatisene a Firenze, lasciaron Calandrino col danno, e con le beffe».

Si sente nella frase la espansione tranquilla del narratore, che ha finito ed è contento. Ma da per tutto è così.

Si muove dunque da questa leggerezza di un racconto fatto per il nostro piacere. Dove se della intenzione dobbiamo esser grati all’amabile uomo, nell’effetto poi ci troviamo ad ammirare l’artista.

Ma tutte le qualità di lui si spiegano nel discorso quasi gratuitamente, per una nativa e non cercata felicità. [p. 188 modifica]

Intento alla cosa che aveva da dire, il Boccaccio la diceva, secondo la facoltà sua, chiara e netta e viva quanto poteva più.

Così nascevano quei «fiori» del suo parlare, cari ai nostri vecchi; così anche le battute del dialogo, riportate per chiarezza in forma diretta, con tanto scrupolo da inframmettere a ognuna il «disse Calandrino, disse allora Bruno», e simili, riuscivano poi, nella loro schiettezza, quasi formate ed espresse al vivo sulla bocca di ciascuno interlocutore; e ogni persona ne prendeva consistenza drammatica.

Aggiungiamo che se in principio il Boccaccio fa un racconto, questo poi in realtà è scritto da lui. La disposizione festevole e un po’ superficiale dell’uditorio si realizza nell’interesse preciso e squisito dello scrittore, signore dell’arte sua e di tutte le piacevolezze come delle musiche e della potenza della parola.

Il caso di Calandrino non è più soltanto lo specchio di una brigata che di nuovi uomini e cari motti piglia diletto, ma riesce anche la espressione di uno dei più felici e snelli e armoniosi ingegni che mai sieno nati.

I suoi fini possono essere, a giudizio del volgo, assai facili; per esempio, di discorrer bene. Ma egli li aggiunge con una perfezione che vale qualunque bellezza.

Prendete qual pezzo vogliate.

«Chi Calandrino, Bruno e Buffalmacco fossero, non bisogna che io vi dimostri, che assai l’avete di sopra udito; e perciò più avanti facendomi, dico, che Calandrino aveva un suo poderetto non guari lontan da Firenze, che in dote aveva avuto dalla moglie, del quale tra l’altre cose che su vi ricoglieva, n’aveva ogni anno un porco, et era sua [p. 189 modifica]usanza sempre colà di Dicembre d’andarsene la moglie, et egli in villa, et ucciderlo, e quivi farlo salare. Ora avvenne una volta tra l’altre....».

Qui è inutile chiosare. Avete voglia a parlare di chiarezza e di economia e armonia e agevolezza.... Non c’è da far altro, credo, che di rileggere, e considerare sillaba per sillaba quello che egli voleva dire e quello che ha detto. Viene in mente Montaigne quando parlava di certi pezzi classici trasportati dentro scritture moderne, che sorgono all’improvviso come un monte in mezzo al basso parlar paludoso. Ora se uno, dopo salito il monte, non s’accorge di essere in alto e di respirar meglio, peggio per lui; il medico non ci ha più che fare.

Oppure veniamo al momento più rilevante della novella, quando Calandrino subisce l’inganno delle galle medicate.

Il Boccaccio pare che racconti sorridendo; poichè il fatto è semplice; al buon uomo la seconda galla pareva più amara che mai, e tuttavia la doveva sostenere in bocca con ogni sforzo; finchè non potè più e la sputò fuori. Così era compiuta la beffa. Ma è lui che racconta.

Comincia adagio, con una voce grave, piena di aspettazione; l’amarezza è spiegata e moltiplicata dalla simmetria dell’antitesi, con un suono che sale a grado a grado e poi risiede solenne nel superlativo. «Calandrino, se la prima gli era paruta amara, questa gli parve amarissima». Riprende con uno scoppio di voce, che poi resta quasi sospesa un poco e si ferma seriamente: «ma pur vergognandosi di sputarla, alquanto masticandola, la tenne in bocca»; il buon dicitore ha trovato, insieme con la cosa, la parola essenziale; e quasi fiso in questo natural centro dell’azione, [p. 190 modifica]che è la bocca dell’uomo, ne svilupperà molto naturalmente ogni effetto — «la tenne in bocca e tenendola» (egli insiste riprendendo e voltolando le sue parole come le pallottole con la lingua) «cominciò a gittar le lagrime, che parevan nocciuole, si eran grosse»: il lettore si ferma a pensare se il Boccaccio abbia inteso più a quel senso delle lagrime, così riccamente sgorganti dalla stessa successione delle posizioni, che una incalza l’altra; o più forse al sorriso, onde invita gli uditori a guardare come eran grosse e ridevoli; ma niuno ha tempo di rispondere, che già egli è trascorso, «et ultimamente, non potendo più» (sentite le pause, di momento in momento, del dicitore che è sicuro del suo successo?) «la gittò fuori, come la prima aveva fatto».

Pare che la penna abbia dato l’ultimo tocco volubile, per sua grazia, prima di staccarsi. Anche la penna malvagia del glossatore si vergogna di continuare.

È tempo di tornare al D’Annunzio.

«Il pover’uomo la prese; e, sentendo sopra di sè fissi gli occhi maligni e acuti del capraro, fece un supremo sforzo per sostener l’amarezza; non masticò, non inghiotti; stette con la lingua immobile contro i denti. Ma, come al calore dell’alito e all’umidore della saliva, l’aloe si discioglieva, egli non poteva più reggere; le labbra gli si torsero come dianzi; il naso gli si empì di lacrime; e certe gocciole grosse gli cominciarono a sgorgare dal cavo degli occhi e a rimbalzar, come perle scaramazze, giù per le gote. Alfine, sputò».

Il pezzo è superbo. E se lo consideri parte a parte tu trovi una precisione di senso fisico, realizzato ed espresso in ogni sillaba del linguaggio [p. 191 modifica]magnifico, con una virtù di cui è difficile ricordare l’eguale.

Eppure del tutto insieme l’impressione è fredda. A cercar bene si trova qualche punto in cui il vago fastidio prende corpo. Ci sono dei particolari, che si vorrebbero dir belli ognuno per sè, ma nell’effetto riescono oziosi.

Quei due aggettivi che consolano gli occhi del capraro, non sono già oziosi; ma somigliano un poco all’erre del sostantivo: si sente che basterebbe anche un semplice capraio. Ed è pur giusto che lo sforzo sia supremo, ed è pur proprio l’uso del sostenere, ripreso dalla lingua antica. La ragione approva, ma l’orecchio si offende un poco. Poi un raggio di luce pare che venga da quella citazione così fredda, come dianzi; essa rivela quasi un lavoro ozioso di compositore, che alcuna volta si stanca. Allora si capisce che tutto il pezzo non è nato da un bel movimento solo, come corrente che nel fluire s’accresce. Ma tutte le parti qui sono staccate, lavorate a freddo, con artificio che sarebbe bellissimo se non fosse così monotono.

Lo stile, anche a guardare retoricamente, è povero di figure: le proposizioni hanno quasi uno schema identico, e si seguono in fila come cose rigide. Considerate i verbi: prese..., fece, masticò, inghiottì, stette, ritorsero, riempì, cominciarono, sputò....

Il gesto, se così posso dire, dell’azione, è fermato in un tipo immutabile.

Diremo che questa immutabilità sia naturale aspetto delle immagini, che si accampano tutte su un piano e quasi in un atto solo?

Ma se leggete bene, anche le cadenze hanno la stessa monotonia: calore dell’alito, umidore della [p. 192 modifica]saliva; àloe, si discio|glièva....; provate a scandire, battendo gli accenti fino alla fine. Tutto si svolge con un ritmo sonoro, ampio e schietto; ma la sua forma senza mutamento è più un’abitudine dell’eloquio, che un’espressione dell’animo.

Ciò suona un po’ falso. Perfino quell’ultima battuta, così bene distinta e suggellata, ha un suono troppo perfetto, troppo metallico; perfino la caduta delle perle, così rotonda e abbondevole, è fatta vana; nell’onda dei suoni le gocciole che bagnavano la faccia del rustico non serbano altro valore che di un bel dattilo, e restano sole e disciolte da ogni cosa umana quelle perle scaramazze, con un suono di vetro.

In questa dispersione di ogni nostro interesse, che non sia di suoni e di ozio, sola una cosa trionfa; la felicità del dicitore. Si sente che in essa è il principio e la fine e tutto.

D’Annunzio ha trascritto il Boccaccio molto freddamente, per esercizio di bravura. Egli sapeva di poter far meglio: e migliorando punto per punto il suo modello, e correggendo, e colorando, e insistendo senza pietà, tutto il travaglio suo alla fine è tornato quasi in niente. Poichè egli non si è curato mai di uscire da quella disposizione di consapevolezza vanitosa: se n’è goduto e l’ha ripetuta senza mutare, cullato e beato dalla musica vana.

Chi ha osato nominare il Maupassant e quel suo santo amore delle cose vive?

D’Annunzio potrà avere anche tutti i doni di lui. Ma nessuno può tollerare la vanità di costui quando se ne abbella, non già alle cose intendendo e al loro sapore sacro, ma a sè solo e all’onore che di sè sta per rendere all’universo. [p. 193 modifica]Egli si ferma, prima di parlare, con una gravità di sacerdote che inizia il rito.

O Derbe, la potenza che desidero
è nei metalli che il gran fuoco ha vinto.

Ma tutto questo non sarebbe spaventevole in lui, se non fosse anche ingenuo. Egli si dimostra convinto di compiere, con una descrizione, un gesto essenziale nella vita dell’universo. «Finsi in me stesso l’impossibile brivido». Questo cominciamento è preso sul serio; ed egli poi seguita a dispensare il suo tesoro con serietà inesorabile.

Tutti i luoghi comuni, tutti i pregiudizi e le vanità e le miserie insieme degli uomini e dei letterati, sono la proprietà naturale e gelosa di lui: la sua anima non è diversa da quella di uno scolaro, molto bravo, molto ambizioso e infinitamente vano.

Che cos’è questa Fattura, per esempio, se non la esercitazione di uno scolaro prodigioso?

Uomini discreti vi possono ammirare delizie e doni rari della natura; ma il loro uso è meccanico, rivolto allo sfoggio e alla lode. L’ammirazione dei particolari resta staccata e dispersa; e alla fine si risolve quasi in fastidio.

Egli siedeva al suo tavolino stillando superbamente le superbe parole. Nè meno un dubbio o un sospetto gli attraversava la via della perfezione. La sua anima e la sua prosa preziosa non conoscono il travaglio che è il principio primo della vita.

Così egli rifaceva il Boccaccio e il Maupassant, solennemente.

Noi lo sentiamo cominciare, indugiando con amore intorno alla figura del nuovo Calandrino e ai suoi sette starnuti. [p. 194 modifica]

«Una ilarità unanime propagavasi nelle cose. Per molti anni La Bravetta diede al popolo pescarese questo giocondo segnale cotidiano; e la fama delle sue meravigliose starnutazioni si sparse per il contado intorno e per le terre finitime. Ancora tra il buon volgo la memoria ne è viva e, fermata in un proverbio, durerà lungamente nei tempi a venire».

Questi periodetti staccati dal loro luogo prendono improvvisa luce. Essi sono deliziosi e inutili: composti senza nessuna fatica, per un naturale abito di dir bene, non hanno poi nessun valore che duri.

Ed è perfettamente inutile domandare se quell’accento magnifico prestato a cose umili, abbia un senso urbanamente comico, o se sia invece un tradimento retorico. Ogni sospetto è fuor di luogo in questo terreno perfettamente levigato e scoperto. Tutte le formule grandi, l’ilarità unanime, il giocondo segnale, le terre finitime e i tempi a venire, in cui pare che la vanità dell’abitudine e dell’esercitazione scolastica si riveli più fredda, non dànno già noia, se si seconda un poco il ritmo spazioso che le ha menate.

Bisogna leggere così, senza amore e senza odio, apprezzando la perfetta bontà della materia, quasi senza badare alla forma.

Quando si incontrano delizie ce le godremo. E degli strascichi e delle fiacchezze non faremo nessun rumore. Il buono è naturale come il cattivo: e dell’uno e dell’altro lo scrittore è quasi innocente.

Tutto il ritratto di Peppe, che segue, è una meraviglia di pittura pacifica. E un pezzo riuscito bene. Ma non ha relazione con il discorso successivo altro che estrinseca. Scrivendo così, o [p. 195 modifica]trascrivendo pezzo per pezzo senza passione, accade che ogni parte e quasi ogni parola si giaccia contenta di sè.

Noi ce ne accorgiamo alla ripresa.

«Ora, possedeva egli su la destra riva del fiume, un podere con una casa rurale....». Chè qui tutto è vano, l’inversione e l’enfasi e le pause e le cadenze, le quali si ripetono come al voltare di un organetto, per molto spazio di noia. Ed ecco una reminiscenza boccaccesca si sviluppa tronfia, attraverso le ghirlande dattiliche.

«In ogni gennaio La Bravetta andava insieme con la moglie al podere, trattenendovisi col favore di Sant’Antonio, per assistere all’occisione e alla sala|tura del | porco.

«Avvenne una volta che, essendo la moglie alquanto inferma, La Bravetta andò solo ad invigi|lare il su|pplicio.

«Sopra una | tàvola | ampia....».

Ah schiavitù delle forme solenni e dei nobili ritmi, quanto è misero il tuo trionfo!

Adesso intendo la ragione per cui l’eccellente scolaro potrà moltiplicare a sua posta le occisioni, e gli alquanto, e i supplici, ma non riuscirà mai a illudermi. Egli non fa altro che un componimento; tutte le sue virtù alla fine si riducono a uso di parole. La vivacità del Boccaccio che egli si credeva di precisare e arricchire resta mortificata in questi stampi oziosi.

«Erano costoro gente di gaia vita, ricchi di consiglio, dediti alla crapula, vaghi di ogni sollazzo; e poichè avean saputo l’uccisione del porco e l’assenza di Donna Pelagia, sperando in una qualche bella avventura venivano a tentar La Bravetta».

Ognuno avverte il punto in cui il trascrittore [p. 196 modifica]si è scoperto nella sua fiacchezza; dopo tanta abbondanza di belle frasi fatte intorno a quei poveri fantocci, il momento che drammaticamente importava è caduto dalla mente come una vescica sgonfiata.

E che poi siano fantocci è troppo certo. Non badiamo all’effetto per cui il lettore che si ricorda di Bruno e Buffalmacco come di persone vive di questo mondo, non riesce a conservare di Puriello e di Quaglia altra impressione che di una bella pagina scritta. Ma guardiamo la pagina.

Troveremo che il D’Annunzio, trascorrendo volubilmente, ha ripreso la materia del realista francese, informandola del suo costume; cioè riducendo la ricerca del vero a musica sonora e monotona di frasi. Anche traducendo a lettera, non si può dire che egli copii: i tocchi del Maupassant diventano puro principio verbale, che si sviluppa secondo le abitudini dell’eloquio dannunziano.

«Chicot, au contraire, rouge et bourgeonneux, gros court et poilu avait l’air....»; e più oltre [Maillochon] «la peau de sa tête semblait couverte d’un duvet vaporeux, d’une ombre de cheveux, comme le corps d’un poulet plumé qu’on va flamber».

«Biagio Quaglia, detto il Ristabilito, era invece di statura mediocre, d’alcuni anni più giovane, rubicondo nella faccia e tutto gemmante come un mandorlo a primavera».

Ora ognuno si accorge che il D’Annunzio voltando indifferentemente, non ha badato tanto alla realtà del rosso e dei foruncoli e bottoni per la faccia, ma al suono che quelle cose prendevano come parole sulla sua bocca: rubicondo, gemmante.... C’era nei vocaboli una virtù che si è dilatata in amplificazioni sonore, seguitando la cadenza [p. 197 modifica]immutabile; tanto che è difficile discernere se quel «màndorlo | à prima|vera» sia più una consuetudine di metafore, o di numeri dattilici. Ma sempre è cosa vana, non meno che la figura solenne di prima: «era invece di statura mediocre....».

Bisogna avere insistito su questo punto per apprezzare convenientemente il resto della pagina, in cui quella che pare descrizione precisa e pittoresca dell’uomo riesce infine processione di grandi frasi astratte:

«Egli aveva una singolar virtù scimiatica.... e aveva una tale versatilità di aspetti e una tal felice potenza vocale di contraffazioni.... sapeva cogliere il lato ridevole degli uomini e delle cose....».

Tutta questa abbondanza è vacua e sommaria. Così di parola in parola si arriva alla fine, e si conosce che cosa possa valere:

«Il suo cranio era coperto d’una sorta di lanugine simile a quella del corpo spiumato di un’oca grassa che ancora sia da abbrustolire».

Questo Maupassant diffuso e nuotante per il fiume dannunziano non ci fa più meraviglia; e molto naturalmente accettiamo la continuazione retorica. «Or dunque La Bravetta, come vide i suoi amici, li accolse con cera festevole....».

Anche il cosidetto realismo ha finito di occuparci come un problema. Esso non esiste in D’Annunzio se non come qualità secondaria di una parola che per sè è trattata con altro animo; come quando riprende, pur dal Maupassant, le battute indimenticabili:

«Ces mâles allaient, à pas tranquilles tout le corps en avant à chaque mouvement de leur longues jambes torses, déformées par les rudes travaux»; le facce «fanées ainsi que de vieilles [p. 198 modifica]pommes»; ma tutto ciò si diffonde e si disperde nella sonorità del periodo.

«E tutti quelli uomini rusticani, aspettando di bere, motteggiavano, tranquilli, sulle loro gambe in arco difformate dalle rudi fatiche: alcuni con volti rugosi e rossastri come vecchi pomi; con occhi resi miti dalla lunga pazienza o resi miti dalla lunga malizia; altri con barbe nascenti, con attitudini di gioventù, con nelle vesti rinnovate una manifesta cura d’amore».

Certo chi voglia paragonare il valore che gli stessi tratti hanno qui con quel che avevano nella Ficelle prova nella mente un abbattimento doloroso: così dopo avere fissato il viso a lungo nel reticolato fitto della griglia, se tu lo vuoi staccare d’un colpo e intendere attraverso quella agli oggetti lontani, ti senti dolere le pupille e i nervi degli occhi vibrare come corde pizzicate in falso. Ma la colpa allora è nostra.

Del D’Annunzio non si può imputare a colpa neanche il gesto che egli ripete troppo spesso per uso, di dare quasi alle sue descrizioni il valore di una scoperta solenne. Anche quello appartiene più alla parola che all’animo, e ne nascono talora effetti belli.

«In lontananza le barche di Barletta cariche di sale scintillavano come edifizi di preziosi cristalli; e da Montecorno un serenissimo albore stendevasi nella rapidità delle aure, ripercotevasi dalla limpidità delle acque».

Non importa dire che questa simmetria è retorica e che le sue figure sono generiche: le linee ognuna per sè artificiosa compongono un disegno puro, che il nostro animo comprende con una dilettazione molto lieve. [p. 199 modifica]

Credo che questa sia la disposizione più sana per legger la Fattura, e in genere ogni cosa del D’Annunzio.

Davanti al quale tutti i movimenti umani debbono essere spenti. Dove è ora la prima lettura, piena di inquietudini e di dissidio?

L’ammirazione e la gioia di tante immagini e musiche vaghe combatteva con un invincibile tedio. Non sapevamo darci pace che uno scrittore così felice dovesse essere insieme pieno di tante miserie. Ora tutto questo è lontano da noi.

Non staremo più a tormentarci se quelle frasi brevi e perfette nascano dalla serenità o piuttosto dalla vanità dell’animo: e neanche correremo con gioia stizzosa a sottolineare tutte le superfluità ornamentali e la miseria l’enfasi di certi punti, ai quali pareva affidato il segreto della nostra noia; che subito dopo poi stupiva e si cambiava in godimento non meno singolare.

Ripenso a tante parti che non hanno trovato posto in questa ricapitolazione del mio interno dibattere. Trovo solennità straordinarie («Mai, negli altri anni più meravigliosa mole di carni egli aveva veduto; e si rammaricava in cuor suo che la moglie non ivi fosse...»), di atteggiamento oratorio, e non mi passa neanche pel capo di chieder loro un significato qualunque; trovo dei fioretti di lingua, ingenui come la prima citazione di uno scolaro («Assaù.... recava le caraffe arrubinate»), e quasi mi fanno piacere. Trovo una serie presso che infinita di frasi esornative e di aggettivi non meno pittoreschi che infingardi, senza sentire nes[p. 200 modifica]sun desiderio di distruzione: e tutti i particolari delle enumerazioni descrittive, rigide e inevitabili come le ore delle notti senza sonno (ricordate la deglutizione: «i pomelli delle gote gli salirono..., gli angoli della bocca e le tempie gli si empirono, la pelle.... gli si arricciò, il mento gli si torse, i lineamenti della faccia ebbero una.... comune mimica....» e una specie di brivido visibile gli corse....) mi lasciano oramai quieto e senza timore.

Una curiosità molto benevola mi muove a considerare qualche periodetto, che intorno all’origine di certe strofe e pagine e gloriosi lirismi del vate futuro dice più che un lungo discorso. (Per esempio, «Il beffato.... agitava le braccia». Questo punto in una stampa intelligente dovrebbe esser grosso come una avellana. «Al frastuono i vetri della finestra tremavano». Idem. «I fuochi dell’occaso percotevano i tre diversi volti umani». E qui bisogna triplicare il punto e andare a capo).

La stessa curiosità m’invita a trascrivere l’ultimo pezzo, senza nessuna pretesa di rivelazione: «I due avanzarono in silenzio, tendendo l’orecchio, soffermandosi ad ora ad ora; e tutte le virtù venatorie e le agilità di Matteo Puriello in quell’occorrenza si esercitavano».

Ho voluto prendere il luogo in cui forse la retorica forse è più badiale, per esser certo della serenità del mio cuore.

Essa è indifferente e quasi benigna.

Quando D’Annunzio ha cessato d’irritarci come un mistero non c’è nessuna ragione più per volergli male di ansie e di inquietudini che nascevano solo dalla nostra intelligenza scarsa.

Egli non ne aveva colpa se noi prendevamo per un dio impassibile quello che era piuttosto uno scolaro pieno di bravura, e se poi ci guastavamo il [p. 201 modifica]sangue a metter d’accordo l’onnipotenza divina con gli accidenti scolastici.

La sua parola purgata da tutte quelle illusioni e ambizioni che non devono dar più fastidio che la cravatta e le chiome dell’adolescente, ritrova un valore sincero.

In essa non ha luogo nè realismo nè commozione nè afflato panico nè natura nè senso; se non come ornamento puerile. Il quale quando sia rimosso, l’animo resta libero nelle sue ore di ozio di gustare i doni puri.

Perchè la voce e l’accento di Gabriele D’Annunzio, anche quando pare che ripeta le parole degli altri, anche quando compone questa Fattura vana e fredda come una musica di pianoforte meccanico, è una delle cose più belle che l’uomo possa udire nell’universo pieno di rumore.

Noi l’amiamo come un miele diffuso, come un oro liquido e senza forma. E conosciamo anche luoghi dove la sua melodia è più cara.